martedì 31 marzo 2020

Non ho febbre e ho dato solo due colpi di tosse, tutto normale




Il disegno di Milo Manara in omaggio ai medici che combattono il ...
Milo Manara 


Finalmente, a causa del coronavirus non si può più aspettare la morte come dei consumatori miserabili, arricchendo ogni giorno l’infima minoranza sempre più ricca e spogliando ogni minuto i poveri sempre più poveri. O meglio, non si potrà più come prima, perché l’esercito di servitori volontari che lavorano per mantenere sedati gli schiavi moderni, sempre più umiliati e malati, si sforzerà di inventarne delle belle pur di continuare a tener prigionieri gli animali domestici sopravvissuti nel circo della società dello spettacolo. Non sarà così facile, ma ci proveranno e ci stanno già provando, per esempio facendo applaudire per il loro spirito di sacrificio le prime vittime del virus – il personale medico – dalle seconde vittime, le più numerose, chiuse in casa, impotenti, sotto la spada di Damocle di un’angosciante roulette russa.
Tutto ciò è gentilmente lugubre e i primi a viverlo male sono molti dottori, dottoresse e personale curante che si dedica con passione umanitaria, rischio della vita e amore all’aiuto reciproco e alla solidarietà, valori che il produttivismo sfrutta e deride sistematicamente.
“Dobbiamo sostenere la crescita economica, arricchirci, essere dei vincenti”, ci hanno ripetuto come un mantra i domestici politici e mediatici dello spettacolo. Idioti! Per avere qualche vincente ci vogliono molti perdenti, per qualche furbo opportunista, molti coglioni sfruttati e sottomessi. È questo che volevate e lo abbiamo. Perché questo è il produttivismo: un’ideologia economico politica plurimillenaria che ha progressivamente trasformato (eccolo, per l’essenziale, il vostro progresso tanto sacralizzato) la capacità umana di produrre ciò che è utile e necessario per rendere possibile la felicità di vivere, in una macchina di guerra che permette di dominare, di violentare, di avere sempre di più spogliando gli altri.
L’essere al mondo e goderne al meglio possibile si è ridotto a un avere che si accumula, inquinando tutto e tutti, persino loro, i dominanti pur vergognosamente privilegiati. Non è, però, bastato, e con il materializzarsi del potere capitalista, l’avere si è ridotto ancora di più diventando apparire (nella passione amorosa, nel mangiare, nella comunicazione, nel lavorare, nelle cure di salute, nel tempo libero, nei viaggi, nella cultura, nella vita insomma) tramite un movimento convulso e monomaniaco che ha ridotto tutto alla redditività, rendendo artificiale ogni gesto, ogni emozione. Questo è stato lo sviluppo progressivo, da millenni, del Leviatano produttivista con la sua schiavitù strutturale, il suo patriarcato, le sue stragi di Stato e di mercato, il suo moderno modo di produzione capitalista ormai in fase terminale, nichilista come ogni patologia cancerogena.
Siamo, infatti, alla fine di una civiltà, anzi di tutta la civiltà preistorica che pone l’umanità sopravvissuta alla porta della storia. Una storia non ancora mai realizzata ma sempre sognata da molti di noi, gli umani decisi a restare esseri. Per questa specie nella specie e per la sua coscienza, è un’occasione unica di passare questa porta che abbiamo più volte intravvisto ma che non abbiamo mai ancora attraversato. E sottolineo unica perché se non la sapremo cogliere, le condizioni di sopravvivenza sul pianeta sono destinate a degradarsi con la stessa rapidità improvvisa che ha imposto a molti miliardi di umani la dittatura del coronavirus.
Da un lato, ormai da anni, le catastrofi annunciate con sempre maggiore enfasi per meglio continuare a non fare nulla che alteri il meccanismo letale del produttivismo capitalista, se non delle messe di regime officiate dal clero sociologico e mediatico; dall'altro la voglia di vivere che urge ma non trova abbastanza spesso forme politiche che sfuggano alle via crucis ripetitive in cui dei burocrati sindacali e dei politicanti di destra o sinistra si mescolano alla rabbia autentica di una popolazione ridotta ai margini della sopravvivenza, ma in cerca di vita. Accerchiata da troppi parassiti, la rabbia del popolo si manifesta lucidamente ma difficilmente, orfana di una coscienza di classe non ancora completamente rivitalizzata in coscienza di specie. Essa dimostra tuttavia una resistenza gagliarda, mentre i più sottomessi non hanno nemmeno bisogno del virus per chiudersi in casa per paura dei rivoltosi senza rivoluzione che scendono in strada per distruggere un po’ di più quel che è già in demolizione, imbambolati da un militarismo becero e accecati da una rabbia impotente.
La vita pulsa ma non si sa più dove metterla. Già prima del virus, gli individui erano ridotti, nella loro vita quotidiana, al godimento di plastica del consumismo e accumulavano nei corpi, negli oceani e sulle vette del mondo la spazzatura che resta a imperituro simbolo della nostra unica miserabile ricchezza: ricchezza di cose che circolano impazzite in un feticismo patologico che fa da specchio alla povertà dell’essere ridotto a merce in individui la cui sola COSA che conta è la forza lavoro. Lavoro di produzione di cose e lavoro di consumo di cose entrambi eseguiti da soggetti ridotti a cose: il famoso capitale umano così brillantemente e cinicamente definito, ai suoi tempi, da Stalin e praticato industrialmente da sempre dalla società liberale e dalla sua sempre più grottesca e invasiva pubblicità della merce.
Provate a guardare oggi uno degli spot che continuano a imperversare tra un proclama tragico e l’altro dei domestici dei mass media sul coronavirus. Emerge prepotente un effetto psichedelico di fronte all’artificialità della seduzione mercantile che vuol vendere un’assicurazione sulla vita o una crema da barba a chi l’ascolta a metà, chiedendosi se non ha i primi sintomi di un’insufficienza respiratoria. Il giocattolo, già malridotto s’è rotto. La normalità che è sempre servita da alibi all’insopportabilità, mostra la sua anormalità strutturale e intollerabile perché la morte che rode rende immediatamente ridicola e macabra la minima idiozia ottimista del linguaggio pubblicitario.
Il virus ha un effetto di lente d’ingrandimento di quello che è sempre stato vero: la pubblicità della merce è il Frankenstein visibile della felicità che ti vende delle cose per farti dimenticare che hai venduto il tuo essere sul mercato del lavoro salariato, forma moderna dell’intramontabile schiavitù su cui si fonda il produttivismo. In ritardo, come sempre, qualche esperto finirà forse per far confinare anche gli spot perché annunciano ormai soltanto che questo mondo è finito per sempre.
Ma a noi non basterà, non può più bastare. A quanti sopravvivranno, non resta ormai che prendere in mano le proprie vite per restituirle alla loro autenticità. Un rapido sguardo indietro ci farà fare un balzo in avanti. Troveremo mescolati gli Spartaco dell’antichità, i Fratelli e le sorelle del libero spirito, i falansteriani di Fourier, i comunardi, i marinai di Cronstadt, i libertari spagnoli e tutti quelli che avevano già fatto, in tempi impossibili, l’eterna scelta della libertà.
Di fronte a noi nel fracasso del crollo di tutte le istituzioni, di tutti i valori della società produttivista, il progetto antico e eminentemente moderno di una comunità planetaria di infinitamente diversi resi uguali dall'’aiuto reciproco, dalla solidarietà e dall'’amore sensuale e amichevole che la scimmia cosiddetta sapiens ha condiviso da sempre contro l’istinto predatore che tetanizza la sua potenziale umanità inquinandola di peste emozionale.
Non si tratterà di una nuova morale, ma di un’etica del godimento reciproco, di una socialità orgastica dove donne e uomini potranno coltivare le loro differenze meravigliose eliminando le conflittualità derisorie che il produttivismo ha moltiplicato all’infinito e messo al centro della socialità. Si tratterà di azzerare tutte le istituzioni passate per quanto necessario e dare tutto il potere all’autogestione generalizzata della vita quotidiana, solidali nella diversità e nell’autonomia, con il Chiapas, con il Rojava, con il Cile, con i gilets jaunes francesi, con tutti quelli che hanno capito e deciso che basta così. Ya basta!
Una sola idea da sviluppare insieme per cominciare: unire i gruppi di affinità locali (i più piccoli sono i confinati in una stessa casa) federandoli attraverso il dialogo e le assemblee nei quartieri, nei villaggi, nelle città, nelle regioni, nelle nazioni finalmente liberate della peste statale e mercantile, per dare vita, tutti insieme e tutti diversi, a quella Comune d’Europa che sarà il superamento radicale dell’europeismo mondialista e dell’antieuropeismo di stampo fascista. Poiché la nostra sola patria è il mondo intero, quel mondo di cui il virus ci ha improvvisamente privati.
Non sta a me, piccolo uomo sopravvissuto al ventesimo secolo, descrivere come si farà. Sarà la scommessa di tutti o di nessuno, l’opposto del confinamento, senza lo Stato che ci spia. Mi limito a dire che si può e si deve fare per non morire, certo, ma soprattutto per vivere. Perché la vita è bella, ma non dura molto, solo qualche momento, tra un bacio sensuale, un abbraccio affettuoso, un sorriso, un po’ di musica e una buona cena con chi si ama.
Sergio Ghirardi 30 marzo 2020


Fanciulle greche raccolgono ciottoli sulla riva del mare | Il ...


Je n’ai pas de fièvre et je n’ai toussé que deux fois, tout est normal

Finalement, à cause du coronavirus, on ne peut plus attendre la mort en consommateurs misérables, en enrichissant chaque jour l’infime minorité toujours plus riche et dépouillant à chaque minute les pauvres toujours plus pauvres. Ou plutôt, on ne pourra plus comme avant, car l’armée de serviteurs volontaires qui travaillent pour tenir sous sédation les esclaves modernes, toujours plus humiliés et malades, s’efforcera d’inventer des nouvelles sornettes pour continuer la captivité des animaux domestiques de la société du spectacle. Ce ne sera pas si facile, mais ils essaieront et ils essaient déjà. Par exemple, en faisant applaudir pour leur esprit de sacrifice les premières victimes du virus – les soignants – par les deuxièmes victimes, les plus nombreuses, enfermés à la maison, impuissantes, sous l’épée de Damoclès d’une angoissante roulette russe.
Tout cela est gentiment lugubre et les premiers à le vivre mal sont un bon nombre de docteurs et soignants, femmes et hommes qui se dédient avec passion humanitaire et amour, au risque de leur vie, à l’entraide et à la solidarité, valeurs que le productivisme exploite et dont il se moque systématiquement.
« On doit soutenir la croissance économique, s’enrichir, être des gagnants » nous ont répété comme un mantra les domestiques politiques et médiatiques du spectacle. Idiots ! Pour avoir quelques gagnants, il faut beaucoup de perdants, pour quelques fourbes opportunistes, beaucoup de cons exploités et soumis. C’est cela que vous vouliez, nous l’avons. Parce que le productivisme c’est ça : une idéologie économico-politique plurimillénaire qui a progressivement transformé (le voilà, pour l’essentiel, votre progrès tant sacralisé) la capacité humaine à produire ce qui est utile et nécessaire pour rendre possible le bonheur de vivre, en une machine de guerre qui permet de dominer, violer et avoir toujours plus en dépouillant les autres.
Etre au monde et en jouir le mieux possible, s’est réduit à un avoir qui s’accumule, polluant tout et tous, même eux, les dominants pourtant honteusement privilégiés. Toutefois, cela n’a pas suffi, et avec la matérialisation du pouvoir capitaliste, l’avoir s’est encore réduit en devenant le paraître (dans la passion amoureuse, en mangeant, dans la communication, le travail, les soins de santé, le temps libre, les voyages, la culture, la vie en somme) par un mouvement convulsif et monomaniaque qui a tout réduit à la rentabilité en rendant artificiel chaque geste, chaque émotion. Voilà le développement progressif, depuis des millénaires, du Léviathan productiviste avec son esclavagisme structurel, son patriarcat, ses massacres d’Etat et de marché, son moderne mode de production capitaliste, désormais en phase terminale, nihiliste comme toute pathologie cancérigène.
Car nous sommes à la fin d’une civilisation, je dirais même de toute la civilisation préhistorique qui met l’humanité survécue à la porte de l’histoire. Une histoire jamais réalisée, mais toujours rêvée par beaucoup de nous, les humains décidés à rester des êtres. Pour cette espèce dans l’espèce et pour sa conscience, c’est une occasion unique de dépasser cette porte qu’on a souvent entrevue mais qu’on n’a encore jamais franchie. Et je souligne unique car si on ne saura pas la saisir, les conditions de survie sur la planète sont destinées à se dégrader avec la même rapidité soudaine qui a imposé à milliards d’êtres humains la dictature du coronavirus.
D’un côté, depuis des années, les catastrophes annoncées avec une accentuation croissante pour mieux continuer à ne rien faire qui altère le mécanisme létal du productivisme capitaliste, sinon des messes de régime officiées par le clergé sociologique et médiatique ; de l’autre l’envie de vivre qui urge, mais qui ne trouve pas assez des formes politiques qui échappent aux via crucis répétitives où des bureaucrates syndicaux et des politiciens de droite ou de gauche se mêlent à la rage authentique d’une population réduite aux marges de la survie, mais en quête de vie. Entourée de beaucoup trop de parasites, la rage du peuple se manifeste avec lucidité mais difficilement, orpheline d’une conscience de classe pas encore complètement revitalisée en conscience d’espèce. Elle marque, néanmoins, une gaillarde résistance, alors que les plus soumis n’ont même pas besoin du virus pour s’enfermer à la maison par peur des révoltés sans révolution qui descendent dans la rue pour détruire un peu plus ce qui est déjà en démolition, hébétés par un militarisme minable et aveuglés par une rage impuissante.
La vie pulse mais on ne sait plus où la mettre. Déjà avant le virus, les individus étaient réduits, dans leur vie quotidienne, à la jouissance en plastique du consumérisme et il accumulaient dans les corps, dans les océans et sur les montagnes les plus hautes, la poubelle qui est l’impérissable symbole de notre unique misérable richesse : une richesse de choses qui circulent en folie dans un fétichisme pathologique qui fonctionne de miroir pour la pauvreté de l’être, réduit à marchandise dans des individus dont la seule CHOSE qui compte est leur force de travail. Travail de production de choses et travail de consommation de choses exécutés par des sujets réduits à des choses : le fameux capital humain si brillamment et cyniquement défini, à son temps, par Staline et pratiqué de façon industrielle, depuis toujours, par la société libérale et sa publicité de la marchandise, de plus en plus invasive et grotesque.
Essayez, donc de regarder aujourd’hui un des spots qui continuent de sévir, entre une proclamation tragique et l’autre à propos du coronavirus de la part des domestiques des médias. Jaillit, puissant, un effet psychédélique face à l’artificialité de la séduction marchande qui veut vendre une assurance sur la vie ou une crème de rasage à qui l’écoute à moitié, en se demandant s’il n’a pas les premiers symptômes d’une insuffisance respiratoire. Le jouet, déjà mal en point, s’est rompu. La normalité qui a toujours servi d’alibi à l’insupportable, montre son anormalité structurelle et intolérable car la mort qui rode rend immédiatement ridicule et macabre la moindre idiotie optimiste du langage publicitaire.
Le virus a un effet de loupe sur ce qui a toujours été vrai : la publicité de la marchandise est le Frankenstein visible du bonheur qui te vend des choses pour te faire oublier que tu as vendu ton être sur le marché du travail salarié, forme moderne de l’indémodable esclavagisme sur lequel se base le productivisme. En retard, comme toujours, un quelque expert finira, peut-être, par confiner aussi les spots publicitaires, car ils annoncent uniquement, désormais, que ce monde est fini pour toujours.
Cela, toutefois, ne nous suffira pas, ça ne peut pas suffire. A ceux qui survivront ne reste, désormais, que prendre en main ses propres vies pour les restituer à leur authenticité. Un regard rapide en arrière nous fera faire un bond en avant. On trouvera mélangés les Spartacus d’antan, les Frères et les sœurs du libre esprit, les Phalanstériens de Fourier, les communards, les marins de Kronstadt, les libertaires espagnols avec tous ceux qui avaient déjà fait, à des époques impossibles, l’eternel choix de la liberté.
Face à nous, dans le fracas de l’écroulement de toutes les institutions, de toutes les valeurs de la société productiviste, le projet ancien et éminemment moderne d’une communauté planétaire d’infiniment differents, rendus égaux par l’aide réciproque, la solidarité et l’amour sensuel et amical que le singe soi-disant sapiens a partagé depuis toujours contre l’instinct prédateur qui tétanise sa potentialité humaine en la polluant de peste émotionnelle.
Ce ne sera pas une nouvelle morale, mais une étique de la jouissance réciproque, d’une socialité orgastique où les femmes et les hommes pourront entretenir leurs merveilleuses différences, en éliminant les conflictualités dérisoires que le productivisme a multiplié à l’infini et mis au centre de la socialité. Il sera question d’abroger toutes les institutions passées autant que nécessaire, et donner tout le pouvoir à l’autogestion généralisée de la vie quotidienne, solidaires dans la diversité et l’autonomie, avec le Chiapas, le Rojava, le Chili, les Gilets jaunes français et tous ceux qui ont compris et décidé que ça suffit. Ya Basta !
Une seule idée à développer tout de suite, pour commencer : unir les groupes d’affinité locaux (à partir des plus petits, les confinés dans une même maison) el les fédérant par le dialogue et les assemblées dans les quartiers, les villages les villes, les régions, les nations finalement libérées de la peste étatique et marchande, pour donner vie, tous ensemble et tous differents, à cette commune d’Europe qui sera le dépassement radical de l’européisme mondialiste et de l’anti européisme fascisant. Notre seule patrie étant le monde entier, ce monde dont le virus nous a soudainement privés.
Ce n’est pas à moi, petit homme rescapé du vingtième siècle, de décrire comment on fera. C’e sera le pari de tous ou de personne, l’opposé du confinement, sans l’Etat qui nous guette. Je me limite à dire qu’on peut et on doit le faire pour ne pas mourir, bien sûr, mais surtout pour vivre. Parce que la vie est belle mais elle ne dure pas longtemps, quelques moments à peine, entre une bise sensuelle, une étreinte affectueuse, un sourire, un peu de musique et un bon repas avec ceux qu’on aime.

Sergio Ghirardi  30 mars 2020

domenica 29 marzo 2020

Decamerone platonico

Boccaccio reading from the Decamerone to Queen Johanna of Naples, c.1849 - Gustaf Wappers


La comune non è morta!

Il confinamento ci lascia del tempo, ma io rifiuto ogni intellettualismo, lacrimevole o arrabbiato, sarcastico o paternalista.
Il radicalismo non è che l’ideologia della radicalità. Orbene, se “io odio tutti gli dei”come scriveva un Marx ancora molto giovane, con l’età, io detesto anche sempre di più tutte le ideologie, tutti gli -ismi e i loro preti, adepti e devoti.
In questo momento, il numero di malati gravi del coronavirus (una minoranza ma importante) è superiore alle capacità di cura. Ciò è tragicamente vero in Italia e in Spagna (sulla Cina evidentemente non si è saputo nulla) e rischia di diventarlo in Francia e altrove. Per questo la pratica spiacevole e insufficiente del confinamento è per me, per l’istante, una scelta personale condivisa (e laboriosamente autogestita in questa società totalitaria) con quelli che amo e mi amano, ma anche, idealmente, con tutti quanti funzionano seguendo il principio dell’aiuto reciproco. Ciò è prioritario: il sostegno reciproco e immediato, non l’esecuzione del diktat che lo accompagna e lo impone. Qui e ora non posso fare di meglio né altrimenti, purtroppo.
Evidentemente l’incubo in corso e la sua gestione delirante sono in gran parte la responsabilità del sistema produttivista, del suo capitalismo in fase terminale e del suo industrialismo cancerogeno diretto dall'economia politica e dal suo cinismo cieco, ma è pur tuttavia prioritario evitare che molti altri malati (un solo pugno sarebbe già stato inaccettabile in relazione con le capacità potenziali della medicina attuale) muoiano soffrendo come cani, senza aiuto respiratorio e in una solitudine tragica.
Amare la vita e voler dunque la fine di questa società malata e nichilista può eccezionalmente obbligare a ingoiare antibiotici (ammesso che servano ancora a qualcosa, ora che ne ingoiamo quotidianamente mangiando – soprattutto i più poveri) anche se ciò è triste, disgraziato e carico di evidenti effetti collaterali “contro la vita”. Ecco un tipo di contraddizione da assumere per opporsi concretamente, non solo alla fascistizzazione progressiva in corso dello spettacolo sociale, ma alla sua stessa esistenza. Ecco il senso della mia scelta “prioritaria” che rivendico come un elemento della coscienza di specie nascente, destinata a integrare la coscienza di classe superandola, ora che il proletariato di un tempo è stato divorato dal consumismo e gli intellettuali dallo spettacolo della critica.
Ebbene, diffidando più che mai delle elucubrazioni della letteratura politica prodotta dall'’intellettualismo in stile prositu, sempre all’avanguardia dello spettacolo dominante ma in ritardo di un’ideologia nell’opporsi concretamente al potere economico-mediatico-militare statale, ho utilizzato il termine di priorità per denunciare l’indecenza ideologica di una rabbia impotente, cieca e cattedratica.
Se un poliziotto mi sbarra l’accesso a un precipizio, non mi ci butto dentro apposta. Il che non m’impedisce di lottare contro la repressione poliziesca.
Intendiamoci: prioritario non significa più importante, ma “che viene per primo”. Oggi, di fronte al feticismo della merce trionfante sulla carenza di maschere protettive, di gel disinfettante, di apparecchi per la respirazione e, in conseguenza di cimiteri per seppellire i morti, contabilizzati tra i profitti e le perdite del business ospedaliero, è finito il tempo di tutte le ideologie della società produttivista: le antiche, religiose (monoteiste o no), e le moderne, laiche (capitalismo liberale o di Stato, neoliberale o pseudo comunista), reazionarie e conservatrici (fascismi, nazionalismi, integralismi) o rivoluzionarie e utopiste (marxismi,anarchismi e situazionismi).
La natura ci sta insegnando come riuscire uno sciopero generale nella vita quotidiana, al riparo dalle burocrazie sindacali. A noi essere dei buoni allievi facendo di ogni intuizione individuale un dono per l’intelligenza collettiva. In questo punto zero della storia, il rifiuto di confrontarsi con la realtà che abbiamo denunciato da mezzo secolo come spettacolo è l’Aleph di tutte le alienazioni. La catastrofe in corso nel laboratorio dell’attuale società planetaria per il condizionamento delle intelligenze, ci sta liberando dell’ipnosi. Bisogna approfittarne in nome della vita, perché una rivoluzione sociale si prepara, urgente e necessaria, per quando il confinamento cesserà. È appunto riconoscendo lucidamente le priorità del reale, pronti a ripartire, senza concessioni allo spettacolo né alla sua critica spettacolare, che renderemo finalmente possibile la fine dell’incubo sociale e la destituzione vivificante dei suoi responsabili di ogni bordo.
Più niente sarà come prima: la normalità produttivista morirà del virus e sarà la sola morte che non piangeremo. Viva la Comune!

Sergio Ghirardi, 28 3 2020



Cosa ci insegnano le migliaia di "gilets jaunes" che in Francia ...

Documento 1)
Sono arrabbiato
Claude Baniam (pseudonimo), psicologo all’Ospedale di Mulhouse — 24 marzo 2020 à 18h
Uno psicologo dell’ospedale di Mulhouse urla la sua rivolta contro quanti hanno demolito il sistema sanitario in nome dei risparmi di bilancio. Una volta debellata la pandemia, dovranno rendere conto.
Tribuna.
Sono in collera e arrabbiato, quando sfilano sui media, mostrano il loro muso in televisione, fanno intendere la loro voce perfettamente sotto controllo alla radio, pubblicano i loro discorsi nei giornali. Sempre per parlarci di una situazione di cui sono un fattore aggravante, sempre per perorare sulla cittadinanza, sul rischio di recessione, sulle responsabilità degli abitanti, degli avversari politici, degli stranieri... mai per presentarci le loro scuse, implorare il nostro perdono, poiché sono in parte responsabili di quello che viviamo.
Sono in collera e arrabbiato, perché in quanto psicologo nell’ospedale più colpito, quello di Mulhouse, vedo tutto il giorno decine di persone arrivare in urgenza nei nostri locali e so che una buona parte di loro non uscirà viva, sorridente, spensierata come poteva accadere ancora due settimane fa.
Sono in collera e arrabbiato, perché so che queste persone, questi esseri viventi, questi fratelli e sorelle, padri e madri, figli e figlie, nonni e nonne moriranno soli, in un servizio sorpassato dagli avvenimenti, nonostante il coraggioso sforzo del personale curante, soli, senza lo sguardo o la mano di quanti li amano e che amano.
Sono in collera e arrabbiato, davanti questa folle situazione che vuole che lasciamo i maggiori, i nostri vecchi, quelli che hanno permesso che il nostro presente non sia un inferno, quelli che detengono un sapere e una saggezza che nessun altro ha; che li lasciamo dunque, morire a grappoli nelle pensioni per anziani che di pensioni non hanno che il nome, non potendo, ci dicono, salvare tutti.
Il lutto impossibile delle famiglie.
Sono in collera e arrabbiato, pensando a tutte queste famiglie che vivranno con il terribile dolore di un lutto impossibile, di un addio impossibile, di una giustizia impossibile. Queste famiglie che non possono accedere ai loro parenti, queste famiglie che chiamano continuamente i servizi per avere notizie e alle quali nessuno del personale può rispondere perché troppo occupato a tentare un intervento dell’ultima ora. Queste famiglie che sono o potrebbero essere le nostre...
Sono in collera e arrabbiato, quando vedo i miei colleghi del personale medico battersi tutti i giorni, tutti i minuti per tentare di portare aiuto a tutte le persone che si ritrovano in difficoltà respiratoria, perdevi un’energia folle, ma tornarvi tutti i giorni, tutti i minuti.
Sono in collera e arrabbiato, davanti le condizioni di lavoro dei miei colleghi di entrambi i generi barellieri, agenti di servizio ospedaliero (ASH), segretari, aiutanti di cura, infermieri, medici, psicologi, assistenti sociali, fisioterapisti, ergoterapisti, dirigenti, specialisti in psicomotricità, educatori, personale informatico e addetti alla sicurezza... perché manchiamo di tutto, eppure bisogna rimboccarsi le maniche.
Sono in collera e arrabbiato, perché quando mi reco al lavoro e quando ne riparto incrocio in qualche minuto tre o quattro veicoli del pronto soccorso che trasportano una persona piena di speranze di essere salvata... Come non avere fiducia nei nostri ospedali? Sono tra i migliori, perfettamente in grado di funzionare, di proteggere, di guarire... eppure, quante di queste ambulanze portano il loro passeggero verso l’ultima dimora? Quanti dei propri cari usciranno dalla porta sani e salvi?
Sono in collera e arrabbiato, perché sono anni che gridiamo la nostra inquietudine, la nostra incomprensione, il nostro disgusto, la nostra insoddisfazione di fronte alle politiche della salute portate avanti dai diversi governi che hanno pensato che l’ospedale fosse un’impresa come un’altra, che la salute poteva essere un bene speculativo, che l’economia doveva prevalere sulle cure, che le nostre vite avevano un valore mercantile.
Sono in collera e arrabbiato, quando costato che i nostri servizi d’urgenza domandano dell’aiuto da un sacco di tempo, quando penso che lo sguardo (spesso l’ultimo verso l’esterno) delle persone che arrivano con la guardia medica si posa sugli striscioni che dicono “PRONTO SOCCORSO IN SCIOPERO” per poi trovarsi di fronte a medici in pensione a causa della partenza del personale dei pronto soccorso, questi specialisti delle urgenze che sarebbero indispensabili in questi giorni tristi...
Sullo sfruttamento degli studenti infermieri.
Sono in collera e arrabbiato, di fronte alle maniere in cui si sfruttano gli studenti infermieri e aiutanti di cura che si ritrovano a fare lavori di una durezza che non augurerei al mio peggior nemico. Ragazze e ragazzi di appena venti anni devono mettere i corpi dei morti in sacchi mortuari, senza preparazione, senza sostegno, senza avere potuto dichiararsi volontari. Perché chiedere? Ciò fa parte della loro formazione, insomma! E dovrebbero stimarsi fortunati di ricevere una gratificazione di qualche centinaia di euro, visto che intervengono come apprendisti.
Sono in collera e arrabbiato, perché la situazione attuale è il frutto di quelle politiche, di quelle “chiusure di letti” come amano dire, dimenticando che su quei letti c’erano degli esseri umani che ne avevano bisogno, di quei cazzo di letti! È frutto delle soppressioni di posti perché un infermiere costa caro, pesa sul bilancio preventivo; di quelle esternalizzazioni di tutti i mestieri della salute perché un ASH in meno nelle cifre del numero di funzionari è sempre un funzionario in meno di cui vantarsi.
Sono in collera e arrabbiato, perché quelle e quelli che sono al lavoro tutti i giorni, malgrado la paura al ventre, paura di essere contagiati, paura di trasmettere il virus ai parenti, paura di rifilarlo agli altri pazienti, paura di vedere un collega sul letto della camera 10; tutti loro si sono fatti sputare addosso per anni nei discorsi politici, si sono ritrovati privati della loro dignità quando si è domandato loro di eseguire in due e in pochi minuti tutte le cure di un servizio scossi nella loro etica e deontologia professionale dalle domande contraddittorie e folli dell’amministrazione. Oggi sono queste persone che in auto, in bicicletta o a piedi vanno al lavoro tutti i giorni nonostante il rischio continuo di essere contagiati dal virus, mentre quelli che li hanno malmenati sono tranquillamente installati a casa loro o nei loro appartamenti di funzione.
Sono in collera e arrabbiato, perché oggi il mio ospedale è confrontato a una crisi senza precedenti, mentre quelli che l’hanno svuotato delle sue forze sono lontano. Perché il mio ospedale è stato preso per un cazzo di trampolino da direttori altrettanto effimeri che incompetenti che non miravano alla direzione di un CHU e che sono passati da Mulhouse giusto per provare che sapevano esercitare una politica d’austerità stupida e cattiva... Perché il mio ospedale è stato il bersaglio d’ingiunzioni insensate in nome di un’oscura certificazione per la quale sembrava molto più importante mostrare una tracciabilità perfetta piuttosto che una qualità di cure ai pazienti. Perché in grosso, il mio ospedale non è stato nient’altro che una cavia per amministratori per i quali solo l’auto valorizzazione egoista aveva dell’importanza. Perché aldilà del mio ospedale, sono le persone che vi sono accolte che sono considerate come dei valori trascurabili, delle cifre in mezzo ad altre delle variabili sulla linea entrate/uscite. Perché nello spirito stupidamente contabile della direzione generale dell’organizzazione delle cure, pazienti e curanti sono tutti nello stesso paniere di una gestione alleggerita - lean management- tra le più disgustose...
I primi della cordata e il loro respiratore.
Sono in collera e arrabbiato, quando ripenso ai primi della cordata (immagine utilizzata dall'’attuale presidente francese per giustificare la sua politica, NdT) che dovrebbero dirigere il nostro paese, esserne la punta di diamante, condurre noi, piccola gente, verso le cime; è, invece questa piccola gente, queste cassiere di supermercato, questi spazzini nelle strade questi agenti di servizio negli ospedali, questi agricoltori nei campi, questi lavoratori di Amazon, questi camionisti nei loro veicoli, queste segretarie nelle istituzioni e tanti altri, che permettono agli abitanti di continuare a vivere, di nutrirsi, d’informarsi, di evitare altre epidemie... Nel frattempo, i primi della cordata sbirciano il loro respiratore artificiale personale e i depliant della clinica hi-tech ultimo grido che eventualmente li salverà, mentre osservano le fluttuazioni della Borsa come altri contano i cadaveri nel loro servizio.
Sono in collera e arrabbiato, verso quelle donne e quegli uomini politici che non hanno smesso di demolire il nostro sistema sociale e di salute, che non hanno smesso di spiegarci che bisognava fare uno sforzo collettivo per raggiungere il sacrosanto equilibrio di bilancio (a che prezzo?); che” i mestieri legati alla salute richiedono sacrificio, vocazione”... Questi politici che oggi osano dirci che non è il momento delle recriminazioni e delle accuse, ma quello dell’unione sacra e della riconciliazione... Sul serio? Credete veramente che dimenticheremo chi ha svuotato lo stock di maschere, di test, di occhiali di protezione, di soluzioni idroalcoliche, di soprascarpe, di bluse, di guanti, di charlottes, di respiratori (di quei cazzo di respiratori talmente primordiali adesso)? Che dimenticheremo chi ci ha detto di non inquietarci, che era solo un’influenza, che non arriverà mai in Francia, che non serviva a nulla proteggersi, che persino per i professionisti le maschere erano un di più? Che dimenticheremo l’indifferenza e il disprezzo per quel che è successo alle nostre sorelle e fratelli cinesi, iraniani, italiani e che sta per arrivare alle nostre sorelle e fratelli africani e latino americani? Non lo dimenticheremo. Siatene certi.
Sono in collera e arrabbiato, perché vivo da una settimana con questo maledetto groppo in gola, questa voglia di prostrarmi, di piangere tutte le lacrime che ho in corpo quando ascolto la difficoltà e la sofferenza dei miei colleghi e colleghe, quando mi parlano del fatto di non poter abbracciare i loro figli perché nessuno può essere certo di non portare il virus, quando esplodono i momenti di crisi in auto, prima e dopo la giornata di lavoro, quando penso alle devastazioni a venire, da un punto di vista psichico, quando tutto sarà passato e ci sarà il tempo di pensare...

Sono in collera e arrabbiato, e per il momento non posso lasciare uscire queste emozioni. Si acquattano in fondo alla mia anima, consumandomi a fuoco basso. Presto, però, quando tornerà la calma, lascerò venire fuori questa collera e questa rabbia come tutti quelli e quelle che le hanno represse. E credetemi, questo momento verrà. La rabbia e la collera s’infuocheranno ed esigeremo giustizia, domanderemo dei conti a tutti quelli che ci hanno guidato contro questo muro terribile. Senza violenza. A che pro? No, con un’umanità e una saggezza di cui sono sprovvisti Sentite questa musichetta? Quella che si mormora sommessamente ma monta in potenza? Questo ritornello dei Fugees: «Ready or not, here I come ! You can hide ! Gonna find you and take it slowly!» Arriviamo ...

Coronavirus - il documento segreto: "Curate solo chi può salvarsi"



Document 2)
Applausi al personale curante alle 20h: la falsa buona idea?
23 mars 2020 Par Théo Portais - Mediapart.fr
Da una settimana tutte le sere, alle venti, le finestre si aprono e degli applausi e degli hurrà risuonano per celebrare il personale ospedaliero, in prima linea nella crisi sanitaria. Un’intenzione forse lodevole ma che potrebbe avere delle conseguenze nefaste se non è discussa almeno un po’. Sono dunque il solo a essere imbarazzato da questi applausi, tutte le sere alle otto, per celebrare l’impegno del personale curante nella lotta contro il coronavirus? Non che le persone che agiscono per salvare delle vite in questo momento non meritino la nostra ammirazione, lungi da questa idea. Tuttavia, che cosa indicano precisamente questi applausi? Per quale ragione tutto questo settore professionale, ignorato da anni dai poteri pubblici, si ritrova d’improvviso lodato incondizionatamente? Perché salvano delle vite? A priori, no, poiché è quello che fanno tutti i giorni in tempi normali. Perché fanno il loro lavoro in condizioni deplorevoli? Nemmeno, poiché la situazione dura da anni e peggiora mentre i loro numerosi appelli d’aiuto sono rimasti lettera morta. No, la ragione è evidentemente la congiuntura attuale che rende le loro condizioni di lavoro ancora più deplorevoli del solito: talmente deprecabili che salvano ormai delle vite mettendo in pericolo la loro. Degli “eroi” ha detto Macron. Ecco dunque quel che si applaude: il loro senso del sacrificio. Non voglio parlare in loro nome, ma devono fregarsene non poco. La megalomania esiste in ogni corpo di mestiere, ma dubito che molti di quanti sono mobilitati in questo momento negli ospedali si considerino degli eroi. Quel che mi disturba, soprattutto, è che il processo di eroizzazione è innanzitutto il fatto di una classe politica che da anni non si cura delle rivendicazioni di coloro che essa erige adesso in salvatori della nazione. Si possono ricordare le cifre più recenti: più di otto mesi di sciopero e di manifestazioni nel 2019, quasi 300 servizi di pronto soccorso in sciopero lo scorso autunno, più di 1000 medici capiservizio dimissionari dalle loro funzioni amministrative a gennaio, il tutto per denunciare la carenza di personale, di materiale, la soppressione dei servizi d’urgenza di prossimità, dei letti, in breve, tutto quel che l’insalata semantica di una gestione manageriale dell’ospedale pubblico (“ristrutturazione”, “reimpiego”, “fusione”, “modernizzazione” e altro) riesce a mascherare solo mediocremente. L’ironia della storia è che proprio l’assenza di risposte adeguate alle loro rivendicazioni fa oggi degli “eroi” del personale ospedaliero. Sarebbero stati elevati a questo rango dal capo dello Stato se fossero in numero sufficiente? Se ci fossero abbondanti stock di gel idroalcolico e di maschere? Del materiale in buono stato? Il numero di letti necessari? Se i salari fossero attrattivi? In breve, se i mezzi per far fronte a una crisi di tale ampiezza fossero a loro disposizione? Probabilmente no. A difetto di avere risposto alle loro domande, il governo tenta di potenziare un po’ il loro ego, sperando che ciò dia loro quel pizzico in più di motivazione e di autostima necessarie a compensare le carenze materiali. Quanto tempo bisogna attendere prima di dire quel che si pensa di un tale atteggiamento? Se è evidente che gli applausi quotidiani partono da una buona intenzione, essi comportano, tuttavia, il rischio di essere i garanti di questa strategia assolutamente nauseabonda di gestione della crisi da parte del governo.
Si continuerà ad applaudire queste donne e questi uomini quando questo sinistro periodo sarà superato? Niente è meno sicuro. Tra un’eroizzazione di circostanza e la validazione implicita delle loro condizioni d’esercizio, la linea di demarcazione sembra davvero sottile. È sempre nei momenti di tensione, di dramma, in situazioni estreme che appaiono gli eroi. E ne appariranno sempre: si possono avere molte ragioni per non concedere più fiducia all’umanità, tuttavia la nostra specie non è soltanto un mucchio di spazzatura. Il problema è che gli eroi (in quanto costruzione sociale, non gli individui) impediscono di porsi le buone questioni sulle ragioni che ne hanno provocato l’apparizione: ci si gargarizza della loro attitudine esemplare, eretta in valore morale universale di cui l’insieme del corpo sociale fa l’elogio perché esso era già comunque il suo, evidentemente. E bisogna dire che la Francia ne ha conosciuti di eroi, in questi ultimi tempi: i militari uccisi in un’operazione antiterrorista nel Mali, Arnaud Beltrame (che si è consegnato al posto di un ostaggio a un terrorista ed è stato ucciso, NdT), i pompieri in lotta contro l’incendio di Notre-Dame, la redazione di Charlie Hebdo, tra gli altri. Abbiamo forse messo minimamente in discussione i nostri modi di lotta contro il terrorismo? No. Le nostre politiche di bilancio culturali? Neppure. Ci siamo dedicati a difendere sempre di più la libertà d’espressione? Neanche per sogno. Una società che ha bisogno di eroi per restare in piedi è una società malata – è il caso di dirlo. L’esempio attuale è particolarmente clamoroso: lo Stato s’impadronisce del personale ospedaliero che ha disprezzato e umiliato per anni idolatrandolo subitamente per operare suo tramite una forma di rivalorizzazione narcisista il cui unico scopo è mascherare le proprie inconseguenze. Prendendo il rischio di fare della psicologia da bar, provate a sostituire in quest’ultima frase il termine “individuo A” a Stato e “individuo B” a personale ospedaliero; il caso mi sembra abbastanza serio. Aderire a uno slancio di unità nazionale il cui fondamento mi pare prima di tutto rilevare della sfera del patologico, mi convince assai poco. Soprattutto perché la conseguenza di questo grande momento patriottico nel quale nessuna voce discordante sarebbe tollerata, rischia di essere, le esperienze passate lo provano, un’assenza totale di rimessa in questione del nostro funzionamento in quanto società e dei cosiddetti valori che sono i nostri. Evidentemente, perché rimettersi in questione quando abbiamo degli eroi per ricordarci qual è il vero spirito della nazione? Se si avesse il coraggio di guardare le cose in faccia, ci si renderebbe conto che il personale ospedaliero non è l’eroe di questa crisi ma la vittima. E i loro eroi, Superbilancio, Spiderimpiego e Capitan Salario, restano disperatamente dei personaggi di finzione. Allora sia, accetto di uscire tutte le sere alle venti per applaudirli perché è vero che fanno un lavoro notevole. Soltanto, però, se alle otto e un quarto, tutti quanti tornano alla finestra per esecrare il governo e denunciare le condizioni di lavoro che il personale ospedaliero subisce da anni. È lodevole e non ingiustificato, considerare queste donne e questi uomini degli eroi, ma bisogna essere vigilanti per evitare che con lo stesso movimento siano anche presi per degli imbecilli.



L'Italia fa bene a condividere le sue ansie coi flash mob alla ...

Documento 3)
L’anno 01* è cominciato!      François Ruffin

* L’anno 01 è un film francese del 1973 di Jacques Doillon, adattato dal fumetto omonimo di Gébé. Il film racconta un festivo abbandono collettivo dell’economia di mercato e del produttivismo sulle ali del maggio 68 appena passato ma ancora ben presente.
L’anno 01 è cominciato! “Fermiamo tutto, riflettiamo e non è per niente triste”. Era questo il motto di Gébé nell’anno 01. Oggi siamo decisamente obbligati a fermarci. Che cosa ne facciamo?
NOI SAPPIAMO
La pandemia che obbliga più di tre miliardi di esseri umani a restare confinati a casa sembra essere arrivata di sorpresa, come un flagello caduto dal cielo. La maggior parte dei dirigenti degli Stati che ci governano giura con la mano sul cuore che questa pandemia è un avvenimento unico, mai visto, di una portata inaspettata. Quindi, di fronte a questo imprevisto caso di forza maggiore, i politici appoggiano necessariamente dei metodi più o meno convalidati su reazioni più o meno razionali, ma predomina, in ogni caso, un vago sentimento d’improvvisazione e di tentennamento; mentre il conteggio macabro dei morti non cessa di scorrere, implacabile. Eppure questa emergenza di un nuovo coronavirus era prevedibile e il campanello d’allarme aveva già suonato parecchie volte. Invano. Come se fossimo colpiti da una strana sordità quando una catastrofe è annunciata.
Lo spettacolo del mondo è molto strano: in qualche giorno, tre miliardi di esseri umani hanno ricevuto l’ordine di restare confinati a casa loro. Le economie di quasi tutti i paesi esistenti sul pianeta hanno messo un ginocchio a terra, quando non sono colpite da un’embolia severa. Gli uccelli cinguettano tra le fronde delle nostre città, le strade sono deserte di ogni circolazione, l’aria diventerebbe straordinariamente respirabile se si potesse passeggiare per dilettarsene. Le coppie confinate nei loro appartamenti riapprendono a vivere insieme, i lavoratori hanno scoperto in un attimo che il telelavoro non era un lusso per ecologisti da salotto. Dei miliardi caduti dal cielo circolano a gogò per aiutare settori interi dell’economia. La nuova vita sarebbe quasi bella se non ci fosse in questa primavera deliziosa un profumo di morte, l’eco di ospedali sovraffollati, di bare ammucchiate e di centinaia di migliaia di malati angosciati.
Sono diventati matti?
In questo paesaggio surrealista, i dirigenti degli Stati sembrano avere completamente perduto i loro punti di riferimento. Si distingue qui un presidente francese che martella con aria marziale che siamo in guerra contro un nemico... microscopico, una cancelliera tedesca rinchiusa in una comoda quarantena, un capo inglese che tergiversa per poi girare in tondo, un leader americano twittomane che esita nella scelta del suo personaggio: istrione oltraggioso davanti ai suoi elettori o comico soldato davanti ai suoi eserciti sanitari.
I dirigenti del mondo sono forse diventati matti? Incapaci di fare delle scelte in una situazione alla quale non erano preparati, si trincerano seguendo alla giornata gli oracoli degli scienziati e sbirciano altre curve di quelle dell’indice di gradimento della loro immagine, quelle dei loro morti. Lusingano, stimolano, minacciano affinché i ricercatori si diano da fare per trovare l’arma fatale contro il virus. Si gettano su tutto quello che potrebbe servire il loro interesse dirottando dei prodotti urgenti destinati ad altri paesi o tentando di appropriarsi sfrontatamente di brevetti e competenze. Gli uni cercano maschere, gli altri dei respiratori o dei letti di rianimazione. C’è panico a bordo. Il negozio chiude. Le frontiere chiudono. Ci si barrica. La solidarietà fra Stati è ormai un lontano ricordo, mentre l’Europa brilla per la sua assenza. In questo sconquasso del mondo si distinguono battaglioni di nuovi eroi in blusa bianca ch fanno quel che possono con quello che è loro dato. Sono in prima linea per salvare delle vite e la popolazione lo sa e li applaude.
Una piccola bestiola di cui non conoscevamo il nome ancora tre mesi fa. Una piccola cosa che ci da scacco matto e rivela tutta l’ampiezza delle nostre fragilità.
Lo spettacolo si svolge davanti ai nostri occhi in un mondo di alta intelligenza, in un mondo che vuole andare su Marte e che sa manipolare i segreti della materia; in un mondo di grande tecnologia in cui si vuole far regredire i limiti dell’età e sfondare quelli della natura. Questo mondo così sicuro di sé, conquistatore e dominatore, è fracassato da un virus. Una piccola bestiola di cui non si conosceva il nome ancora tre mesi fa. Una piccola cosa che ci da scacco matto e rivela tutta l’ampiezza delle nostre fragilità.
La prima delle quali è la nostra incapacità atavica di prendere in considerazione la catastrofe. Il filosofo Jean-Pierre Dupuy è uno dei grandi pensatori della catastrofe. “La catastrofe ha questo di terribile – scrive – che non solo non si crede che arriverà quando si hanno tutte le ragioni di sapere che sopraggiungerà, ma anche che, una volta arrivata, essa sembra far parte dell’ordine normale delle cose. La sua stessa realtà la rende banale”.
Prima che la catastrofe si produca, nessuno ci crede, quando arriva, essa entra senza imbarazzo nel registro del reale. È esattamente quel che succede con questa pandemia del coronavirus. Essa era annunciata. Numerose voci hanno dato l’allerta al mondo sull’imminenza di una pandemia. C’erano tutti i dettagli. Sono rimasti inascoltati.
Cronaca di una catastrofe annunciata
UP’ Magazine si è fatto l’eco più volte di queste previsioni e di questa catastrofe pandemica annunciata. A forza anche di ripeterci, come altri media, è stato persino fatto il processo per diffusione di cattive notizie a fini di sensazionalismo. Tuttavia, gli scritti restano e questi messaggi meritano di essere rivisti alla luce del giorno.
Il 12 febbraio 2018, il direttore generale dell’OMS prende la parola dinanzi a un parterre scelto: quello del vertice dei governi che si tiene a Dubai. In un silenzio glaciale, annuncia che l’apocalisse non è mai stata così vicina. “Non si tratta di uno scenario da incubo del futuro”, ha detto. “È quanto è successo esattamente cento anni fa durante l’epidemia d’influenza spagnola”.
Su un tono terribilmente grave continua: “Un’epidemia devastatrice potrebbe cominciare in qualunque paese, in ogni momento, e uccidere milioni di persone perché non siamo ancora pronti. Il mondo resta vulnerabile”.
Un’epidemia dalle conseguenze disastrose tanto sulla vita umana che sull’economia.
Aggiunge: ”Quel che sappiamo è che avrà delle conseguenze disastrose tanto sulla vita umana che sull’economia”. Termina invitando i capi di Stato e di governo seduti davanti a lui a non lesinare i mezzi per evitare che un agente patogeno prenda il controllo della situazione.
Risultato: nulla.
Altro messaggio, all’inizio di maggio del 2018, questa volta da parte di un nome conosciutissimo dal grande pubblico: Bill Gates, fondatore di Microsoft. Informato degli ultimi dati dell’organizzazione mondiale della sanità (OMS), è persuaso che le probabilità dell’emergenza di una pandemia continuino ad aumentare. Non si tratta di un personaggio incline a dilettarsi di cattive notizie; è un ottimista che crede nell’intelligenza dell’uomo. Eppure, il discorso che tiene nella prestigiosa tribuna del MIT, davanti a un areopago di dottori dà i brividi. Afferma: “Se diceste ai governi del mondo intero che delle armi capaci di uccidere 30 milioni di persone sono attualmente in costruzione, ci sarebbe un sentimento d’urgenza di prepararsi alla minaccia”.
Trovare dei mezzi per lottare contro una malattia mortale emergente.
Siamo in apparenza meglio preparati di quanto lo fossimo per le epidemie precedenti, spiega. Abbiamo delle medicine antivirali che possono, in numerosi casi, aumentare il tasso di sopravvivenza. Abbiamo degli antibiotici che possono trattare le infezioni secondarie come la polmonite associata all’influenza. Tuttavia, dice in sostanza, non siamo ancora abbastanza efficaci nell'identificare rapidamente la minaccia di una malattia e coordinare una risposta. Termina con un appello ai governi affinché trovino dei mezzi con l’aiuto del settore privato per mettere a punto delle tecnologie e degli utensili in misura di lottare contro una malattia mortale emergente.
Risultato: nulla.
Terzo esempio, all’inizio di giugno 2018, una squadra di scenziati del John Hopkins Center for Health Security pubblica un rapporto intitolato « The Characteristics of Pandemic Pathogens » che stabilisce un quadro per l’identificazione dei microorganismi naturali che creano un “rischio biologico catastrofico globale” (GCBR nella terminologia degli esperti di salute pubblica). Questi “GCBR” sono avvenimenti nei quali degli agenti biologici potrebbero condurre a una catastrofe improvvisa, straordinaria e generalizzata, oltre la capacità collettiva dei governi nazionali e internazionali e del settore privato nel controllarla.
Secondo i ricercatori, la prossima pandemia non verrà da un virus ad alto tasso di mortalità, ma da un virus banale, della famiglia di quelli che ci attaccano in inverno come il rinovirus o il coronavirus, per esempio. Sono poco mortali ma il loro potenziale pandemico è enorme. Gli autori sottolineano, in effetti, che per destabilizzare i governi, l’economia, le società e tutte le organizzazioni sanitarie, la mortalità importa meno del tasso di persone malate nello stesso tempo. È provato che un virus scarsamente mortale ma estremamente contagioso, in particolare per le vie aeree, può finalmente provocare un’ecatombe.
Foto segnaletica del futuro agente pandemico: un coronavirus a ARN d’origine respiratoria
I lavori della squadra di ricerca realizzano una foto segnaletica del futuro agente pandemico. Il suo modo di trasmissione, conclude l’equipe, sarà molto probabilmente respiratorio. Sarà contagioso durante il periodo d’incubazione, prima dell’apparizione dei sintomi o quando le persone contagiate presentano solo sintomi benigni. Infine, avrà bisogno di fattori specifici della popolazione ospite (per esempio persone non immunizzate contro di lui) e altre caratteristiche di patogenicità microbica intrinseca (per esempio un tasso di mortalità debole ma significativo), altrettanti tratti che insieme aumentano considerevolmente la propagazione della malattia e l’infezione. Tanto più che tra i criteri, i ricercatori aggiungono che quest’agente patogeno si distingue per il fatto che nessun trattamento diretto né alcun metodo di prevenzione esistono, a tutt’oggi, contro di esso.
Dentro a tutto il bestiario di microbi che i ricercatori hanno analizzato, ne distinguono una famiglia in particolare: quella dei virus RNA come il coronavirus della SRAS per esempio. I ricercatori raccomandano dunque di fissare come una grande priorità la sorveglianza delle infezioni umane causate da virus RNA d’origine respiratoria. Dei programmi di ricerca clinica volti a ottimizzare il trattamento di questi virus dovrebbero essere finanziati meglio. Infine gli autori del rapporto reclamano un rafforzamento della priorità della ricerca sui vaccini contro i virus respiratori RNA, compreso un vaccino universale per l’influenza.
Risultato: nulla.
Sapevano. Questi messaggi datano del 2018. Senza dubbio sono stati letti e visti da innumerevoli responsabili nel mondo. I politici, i governanti, le autorità sanitarie degli Stati ne avevano conoscenza. Ciò è incontestabile.
Hanno pur tuttavia preso le misure necessarie? Nello stesso anno 2018, in Francia, il ministro della salute, Agnès Buzyn, ha verificato lo stock di maschere di cui il paese ha bisogno? Si è chiesta se disponessimo di letti sufficienti per la rianimazione e un numero sufficiente di respiratori o di materiali per i test? Che cosa hanno fatto i suoi colleghi negli altri paesi? Il p residente Trump ha preso le misure per proteggere i cittadini americani dall'’onda epidemica che sta per travolgere il suo paese? Certo ha una buona scusa: era troppo occupato a sparare cazzate su twitter. Quali misure ha preso il mondo di fronte alla bomba epidemica a scoppio ritardato che minaccia di esplodere in Africa?
Mentre gli annunci della catastrofe si facevano più pressanti...
Mentre gli annunci della catastrofe si facevano più pressanti, scrive il biologo Eric Muraille, il sottofinanziamento e la gestione manageriale della ricerca fondamentale come dei servizi di sanità riducevano, in Francia in particolare, la nostra capacità di anticipare e rispondere alle epidemie. Ricercatori resi precari, reti cooperative tra squadre di ricerca fragilizzate, una tale situazione non favorisce la conservazione delle competenze e l’esplorazione di nuovi settori di ricerca in grado di contribuire a conoscere meglio gli agenti d’infezione emergenti e a identificare le nuove minacce. La pratica negli ospedali del JIT (Just in time, in francese flux tendu,vale a dire copertura alleggerita dei bisogni in ogni settore, NdT), è diventata la norma che riduce la capacità di affrontare delle crisi sanitarie importanti. Le riduzioni di finanziamento di questi servizi pubblici in corso da anni come la gestione a corto termine del sistema di salute pubblica ha, di fatto, spento ogni capacità d’anticipazione. Il presidente Macron ha ben giurato nella sua allocuzione del 20 marzo: “Questa pandemia rivela che ci sono beni e servizi che devono restare fuori dalle leggi del mercato”. Non è già troppo tardi?

Bisognerà pure, un giorno o l’altro, trarre le lezioni da questa crisi sanitaria che scuote il mondo. Tanto più che le catastrofi non mancheranno di riprodursi. Stavolta climatiche, anch’esse annunciate con insistenza. Sappiamo che avremo già la prossima estate degli episodi di canicola mortiferi, forse anche prima di esserci rimessi dall'’episodio del coronavirus. Sappiamo che il mare invade le coste dovunque sul pianeta. Sappiamo che milioni di rifugiati climatici si ammasseranno alle frontiere. Sappiamo che il mondo diventerà irrespirabile, sappiamo che la nostra alimentazione, la nostra acqua, i nostri figli sono in pericolo. Noi sappiamo.

Bookride: BOCCACCIO. IL DECAMERONE. 1471. (Part 1) La Commune, pas morte !

Le confinement nous donne du temps, mais je me refuse à tout intellectualisme, larmoyant ou enragé, sarcastique ou paternaliste.
Le radicalisme n'est que l'idéologie de la radicalité. Or si "je hais tous les dieux", comme écrivait un Marx encore très jeune, avec l'âge, je déteste aussi, de plus en plus, toutes les idéologies, tous les -ismes et tous leurs prêtres, adeptes, dévots.
En ce moment, le nombre des malades graves du coronavirus (une minorité, mais importante) est supérieur aux capacités de soins. Cela est tragiquement vrai en Italie et en Espagne (en Chine on a rien su, bien sûr) et risque de le devenir en France, et ailleurs. Pour cela la pratique désagréable et insuffisante du confinement est pour moi, pour l'instant, un choix personnel partagé (et laborieusement autogéré, hélas, dans cette société totalitaire) avec ceux que j'aime et qui m'aiment, mais aussi, idéalement, avec tous ceux qui fonctionnent selon le principe de l’entraide. Cela est prioritaire: le soutien réciproque et immédiat, non pas l'exécution du diktat qui l'accompagne et l'impose. Ici et maintenant, je ne peux pas faire mieux, ni autrement, hélas.
Evidemment le cauchemar en cours et sa gestion délirante sont en grand partie la responsabilité du système productiviste, de son capitalisme en phase terminal et de son industrialisme cancérigène dirigé par l'économie politique et son cynisme aveugle, mais c'est pourtant prioritaire éviter que beaucoup d’autres malades (une poignée aurait déjà été inacceptable en comparaison des capacités potentielles de la médecine actuelle) meurent souffrant comme des chiens, sans aide respiratoire et dans une solitude tragique.
Aimer la vie et vouloir donc la fin de cette société malade et nihiliste peut exceptionnellement obliger à avaler des antibiotiques (s'ils servent encore à quelque chose, maintenant qu'on les avale quotidiennement en mangeant - surtout les plus pauvres), même si cela est triste, malheureux et chargé d’évidents effets collatéraux « contre la vie ». Voilà un type de contradiction à assumer pour s'opposer concrètement, non pas seulement à la fascistisation progressive en cours du spectacle social, mais à son existence même. Voilà le sens de mon choix "prioritaire" que je revendique comme un élément de la conscience d'espèce naissante, destinée à intégrer la conscience de classe en la dépassant, maintenant que le prolétariat d’antan à été dévoré par le consumérisme et les intellectuels par le spectacle de la critique.
Or, plus que jamais méfiant des élucubrations de la littérature politique produite par l’intellectualisme au style prositu, toujours en avance sur le spectacle dominant mais en retard d'une idéologie pour s’opposer concrètement au pouvoir économico-médiatico-militaire étatiste, j'ai utilisé le terme de priorité pour dénoncer l’indécence idéologique d’une rage impuissante, aveugle et donneuse de leçons.
Ce n'est pas parce qu'un flic me barre le passage vers le précipice que je vais m'y jeter dedans. Ce qui ne m’empêchera pas de lutter contre la répression policière.
Entendons-nous : prioritaire ne signifie pas plus important mais "qui vient en premier". Aujourd’hui, face au fétichisme de la marchandise triomphant sur le manque de masques de protection, de gel hydro alcoolique, d’appareils de respiration, puis, en conséquence, de cimetières pour enterrer les morts, comptabilisés dans les profits et les pertes du business hospitalier, le temps est révolu pour toutes les idéologies de la société productiviste: les anciennes, religieuses (monothéistes ou pas), et les modernes, laïques (capitalisme libéral ou d'Etat, néolibérale ou pseudo communiste), réactionnaires et conservatrices (fascismes, nationalismes, intégrismes) ou révolutionnaires et utopistes (marxismes, anarchismes et situationnismes).
La nature est en train de nous apprendre comment réussir la grève générale dans la vie quotidienne, à l’abri des bureaucraties syndicales. A nous d’être de bons élèves en faisant de toute intuition individuelle un don pour l’intelligence collective. A ce point zéro de l’histoire, le déni de réalité qu'on a dénoncé lucidement comme spectacle il y a un demi siècle, est l’aleph de toutes les aliénations. La catastrophe en cours dans le laboratoire du conditionnement de l’esprit de l’actuelle société planétaire vient de nous sortir de l’hypnose. Il faut en profiter au nom de la vie, car une révolution sociale gronde, urgente et nécessaire, pour quand le confinement finira. C'est, justement, en reconnaissant lucidement les priorités du réel, prêts à rebondir, sans concessions au spectacle ni à sa critique spectaculaire, qu'on va rendre finalement possible la fin du cauchemar social et la destitution vivifiante de ses responsables de tout bord. Plus rien ne sera comme avant : la normalité productiviste va mourir du virus et c’est la seule mort qu’on ne pleurera pas. Vive la Commune !
Sergio Ghirardi, 28 3 2020
Coronavirus, gli operatori sanitari : «Grazie degli applausi ma ...


Document 1)
J'AI LA RAGE
Par Claude Baniam (pseudonyme), psychologue à l'hôpital de Mulhouse — 24 mars 2020 à 18h
Un psychologue de l'hôpital de Mulhouse crie sa révolte contre ceux qui ont détruit le système de santé au nom des restrictions budgétaires. Une fois la pandémie passée, ceux-là mêmes rendront des comptes.
Tribune.
Je suis en colère et j’ai la rage, quand ils défilent dans les médias, montrent leur trogne à la télévision, font entendre leur voix parfaitement maîtrisée à la radio, livrent leur discours dans les journaux. Toujours pour nous parler d’une situation dont ils sont un facteur aggravant, toujours pour pérorer sur la citoyenneté, sur le risque de récession, sur les responsabilités des habitants, des adversaires politiques, des étrangers… Jamais pour nous présenter leurs excuses, implorer notre pardon, alors même qu’ils sont en partie responsables de ce que nous vivons.
Je suis en colère et j’ai la rage, car en tant que psychologue dans l’hôpital le plus touché, celui de Mulhouse, je vois toute la journée des dizaines de personnes arriver en urgence dans nos locaux, et je sais que pour une bonne partie d’entre elles, elles n’en ressortiront pas vivantes, souriantes, insouciantes, comme ce pouvait être le cas il y a encore deux semaines.
Je suis en colère et j’ai la rage, car je sais que ces personnes, ces êtres vivants, ces frères et sœurs, pères et mères, fils et filles, grand pères et grand mères, mourront seules dans un service dépassé, malgré les courageux efforts des soignants ; seules, sans le regard ou la main de ceux et celles qui les aiment, et qu’ils aiment.
Je suis en colère et j’ai la rage, devant cette situation folle qui veut que nous laissions nos aînés, nos anciens, ceux et celles qui ont permis que notre présent ne soit pas un enfer, ceux et celles qui détiennent un savoir et une sagesse que nul autre n’a ; que nous les laissions donc mourir par grappes dans des maisons qui n’ont de retraite que le nom, faute de pouvoir sauver tout le monde, disent-ils.
Le deuil impossible des familles.
Je suis en colère et j’ai la rage, en pensant à toutes ces familles qui vivront avec la terrible douleur d’un deuil impossible, d’un adieu impossible, d’une justice impossible. Ces familles auxquelles on ne donne pas accès à leur proche, ces familles qui appellent sans cesse les services pour avoir des nouvelles, et auxquelles aucun soignant ne peut répondre, trop occupé à tenter une intervention de la dernière chance. Ces familles qui sont ou pourraient être la nôtre…
Je suis en colère et j’ai la rage, quand je vois mes collègues soignants se battre, tous les jours, toutes les minutes, pour tenter d’apporter de l’aide à toutes les personnes qui se retrouvent en détresse respiratoire, y perdre une énergie folle, mais y retourner, tous les jours, toutes les minutes.
Je suis en colère et j’ai la rage, devant les conditions de travail de mes collègues brancardiers, ASH, secrétaires, aides-soignants, infirmiers, médecins, psychologues, assistants sociaux, kinés, ergothérapeutes, cadres, psychomotriciens, éducateurs, logiciens, professionnels de la sécurité… car nous manquons de tout, et pourtant, il faut aller au charbon.
Je suis en colère et j’ai la rage, car, lorsque je me rends à mon travail, et lorsque j’en pars, je croise en quelques minutes trois ou quatre véhicules d’urgence, transportant une personne pleine de l’espoir d’être sauvée… Comment ne pas avoir confiance dans nos hôpitaux ? Ils sont à la pointe, ils sont parfaitement en état de fonctionner, de protéger, de guérir… et pourtant, combien de ces ambulances mènent leur passager vers leur dernier lieu ? Combien de ces parents franchiront la porte sains et saufs ?
Je suis en colère et j’ai la rage, car cela fait des années que nous crions notre inquiétude, notre incompréhension, notre dégoût, notre mécontentement, devant les politiques de santé menées par les différents gouvernements, qui ont pensé que l’hôpital était une entreprise comme une autre, que la santé pouvait être un bien spéculatif, que l’économie devait l’emporter sur le soin, que nos vies avaient une valeur marchande.
Je suis en colère et j’ai la rage quand je constate que nos services d’urgences demandent de l’aide depuis si longtemps, quand je pense que les personnes qui arrivent avec le Samu posent leur regard (souvent le dernier sur l’extérieur) sur ces banderoles disant «URGENCES EN GRÈVE», qu’elles se trouvent face à des médecins traitants à la retraite du fait du départ des urgentistes, ces spécialistes de l’urgence qui seraient tant nécessaires en ces jours sombres…
De l’exploitation des étudiants infirmiers.
Je suis en colère et j’ai la rage devant la manière dont on exploite nos étudiants en soins infirmiers ou aides-soignants, qui se retrouvent à faire des travaux d’une dureté que je ne souhaiterais pas à mon pire ennemi, qui, a à peine 20 ans, doivent mettre les corps de nos morts dans des sacs mortuaires, sans préparation, sans soutien, sans qu’ils et elles aient pu se dire volontaires. Pourquoi demander ? Cela fait partie de leur formation, voyons ! Et ils devraient s’estimer heureux, ils reçoivent une gratification de quelques centaines d’euros, vu qu’ils interviennent en tant que stagiaires.
Je suis en colère et j’ai la rage, car la situation actuelle est le fruit de ces politiques, de ces « fermetures de lits » comme ils aiment le dire, oubliant que sur ces lits, il y avait des humains qui en avaient besoin, de ces putains de lits ! De ces suppressions de postes, parce qu’un infirmier, c’est cher, ça prend de la place sur le budget prévisionnel ; de ces externalisations de tous les métiers du soin, puisqu’un ASH en moins dans les chiffres du nombre de fonctionnaires, c’est toujours un fonctionnaire en moins dont ils peuvent s’enorgueillir.
Je suis en colère et j’ai la rage, car celles et ceux qui sont au boulot tous les jours, malgré la peur ancrée au ventre, peur d’être infecté, peur de transmettre le virus aux proches, peur de le refiler aux autres patients, peur de voir un collègue sur le lit de la chambre 10 ; celles-ci et ceux-là se sont fait cracher dessus pendant des années dans les discours politiques, se sont retrouvés privés de leur dignité lorsqu’on leur demandait d’enchaîner à deux professionnels tous les soins d’un service en quelques minutes, bousculés dans leur éthique et leur déontologie professionnelle par les demandes contradictoires et folles de l’administration. Et aujourd’hui, ce sont ces personnes qui prennent leur voiture, leur vélo, leurs pieds, tous les jours pour travailler malgré le risque continu d’être frappées par le virus, alors que ceux qui les ont malmenés sont tranquillement installés chez eux ou dans leur appartement de fonction.
Je suis en colère et j’ai la rage, parce qu’aujourd’hui, mon hôpital fait face à une crise sans précédent, tandis que celles et ceux qui l’ont vidé de ses forces sont loin. Parce que mon hôpital a été pris pour un putain de tremplin pour des directeurs aussi éphémères qu’incompétents qui ne visaient que la direction d’un CHU et qui sont passés par Mulhouse histoire de prouver qu’ils savaient mener une politique d’austérité bête et méchante… Parce que mon hôpital a été la cible d’injonctions insensées au nom d’une obscure certification, pour laquelle il semblait bien plus important de montrer une traçabilité sans faille plutôt qu’une qualité de soin humain. Parce qu’en gros, mon hôpital ne fut rien de plus qu’un cobaye pour des administrateurs dont seule l’auto-valorisation égoïste avait de l’importance. Parce qu’au-delà de mon hôpital, ce sont les personnes qui y sont accueillies qui ont été considérées comme des valeurs négligeables, des chiffres parmi d’autres, des variables sur la ligne recettes/dépenses. Parce que dans l’esprit bêtement comptable de la direction générale de l’organisation des soins, patients et soignants sont tous dans le même panier d’un lean management (gestion allégée) des plus écœurants…
Les premiers de cordée et leur respirateur.
Je suis en colère et j’ai la rage, quand je me souviens des premiers de cordée censés tenir notre pays, censés être le fer de lance de notre pays, censés nous amener, nous, petites gens, vers des sommets ; et que ce sont ces petites gens, ces caissières de supermarché, ces éboueurs dans nos rues, ces ASH dans nos hôpitaux, ces agriculteurs dans les champs, ces manutentionnaires amazone, ces routiers dans leurs camions, ces secrétaires à l’accueil des institutions, et bien d’autres, qui permettent aux habitants de continuer de vivre, de se nourrir, de s’informer, d’éviter d’autres épidémies… Pendant que les premiers de cordée lorgnent leur respirateur artificiel personnel, le prospectus de la clinique hi-tech dernier cri qui les sauvera au cas où, regardent les fluctuations de la Bourse comme d’autres comptent les cadavres dans leur service.
Je suis en colère et j’ai la rage envers ces hommes et ces femmes politiques qui n’ont eu de cesse de détruire notre système social et de santé, qui n’ont eu de cesse de nous expliquer qu’il fallait faire un effort collectif pour atteindre le sacro-saint équilibre budgétaire (à quel prix ?) ; que «les métiers du soin, c’est du sacrifice, de la vocation»… Ces politiques qui aujourd’hui osent nous dire que ce n’est pas le temps des récriminations et des accusations, mais celui de l’union sacrée et de l’apaisement… Sérieux ? Vous croyez vraiment que nous allons oublier qui nous a mis dans cette situation ? Que nous allons oublier qui a vidé les stocks de masques, de tests, de lunettes de sécurité, de solutions hydro-alcooliques, de sur-chaussures, de blouses, de gants, de charlottes, de respirateurs (de putain de respirateurs tellement primordiaux aujourd’hui) ? Que nous allons oublier qui nous a dit de ne pas nous inquiéter, que ce n’était qu’une grippe, que ça ne passerait jamais en France, qu’il ne servait à rien de se protéger, que même pour les professionnels, les masques, c’était too much ? Que nous allons oublier l’indifférence et le mépris pour ce qui se passait chez nos sœurs et nos frères chinois, chez nos sœurs et nos frères iraniens, chez nos sœurs et nos frères italiens, et ce qui se passera sous peu chez nos sœurs et nos frères du continent africain et chez nos sœurs et nos frères latino-américains ? Nous n’oublierons pas ! Tenez-le-vous pour dit…
Je suis en colère et j’ai la rage, car je vis depuis une semaine avec cette satanée boule dans la gorge, cette envie de me prostrer, de pleurer toutes les larmes de mon corps, quand j’écoute la détresse et la souffrance de mes collègues, quand ils et elles me parlent du fait de ne pas pouvoir embrasser leurs enfants parce que personne ne peut être sûr de ne pas ramener le virus, lorsque s’expriment les moments de craquage dans la voiture avant et après la journée de travail, quand je pense aux ravages à venir, psychiquement parlant, lorsque tout ça sera derrière nous, et qu’il y aura le temps de penser…
Je suis en colère et j’ai la rage, mais surtout un désespoir profond, une tristesse infinie…
Je suis en colère et j’ai la rage, et je ne peux pas les laisser sortir pour le moment. Elles se tapissent au fond de mon âme, me consumant à petit feu. Mais sous peu, une fois que ce sera calme, je les laisserai jaillir, cette colère et cette rage, comme tous ceux et toutes celles qui les ont enfouies. Et croyez-moi, ce moment viendra. Elles flamberont, et nous exigerons justice, nous demanderons des comptes à tous ceux qui nous ont conduits dans ce mur terrible. Sans violence. A quoi bon ? Non, avec une humanité et une sagesse dont ils sont dépourvus. Entendez-vous cette petite musique ? Celle qui se murmure tout bas mais qui monte en puissance ? Ce refrain des Fugees: «Ready or not, here I come ! You can hide ! Gonna find you and take it slowly!» Nous arrivons…


Coronavirus, flash mob per i medici in tutta Italia - Corriere ...


Document 2)
Applaudissements pour les soignants à 20h :
la fausse bonne idée?

23 mars 2020 Par Théo Portais - Mediapart.fr


Depuis une semaine, tous les soirs à 20h, les fenêtres s'ouvrent, et des applaudissements et des hourras résonnent pour célébrer les personnels hospitaliers, en première ligne dans la crise sanitaire. Une intention peut-être louable, mais qui pourrait avoir des conséquences néfastes si elle n'est pas un tant soit peu questionnée. Suis-je le seul à être mal à l’aise avec ces applaudissements, tous les soirs à 20h, pour célébrer l’engagement du personnel hospitalier dans la lutte contre le coronavirus ? Non pas que les personnes qui œuvrent pour sauver des vies en ce moment ne méritent pas notre admiration, loin de là. Mais de quoi ces applaudissements sont-ils le signe exactement ? Pour quelle raison tout ce secteur professionnel, ignoré depuis des années par les pouvoirs publics, se retrouve soudainement porté au pinacle ? Parce qu’ils sauvent des vies ? A priori pas, puisque c’est ce qu’ils font tous les jours en temps normal. Parce qu’ils font leur travail dans des conditions déplorables ? Non plus, cela fait des années que c’est ainsi, que la situation empire, et que leurs nombreux appels au secours sont restés lettre morte. Non, la raison c’est évidemment la conjoncture actuelle, qui rend leurs conditions de travail encore plus déplorables que d’habitude : tellement déplorables qu’ils sauvent désormais des vies au péril de la leur. Des « héros », a dit Macron. Voilà donc ce que l’on applaudit : leur sens du sacrifice. Je ne veux pas parler en leur nom, mais ça doit leur faire une belle jambe. La mégalomanie existe dans tous les corps de métiers, mais je doute que beaucoup de celles et ceux qui sont mobilisés en ce moment dans les hôpitaux se considèrent eux-mêmes comme des héros. Ce qui me dérange surtout, c’est que ce processus d’héroïsation est d’abord le fait d’une classe politique qui, depuis des années, n’a que faire des revendications de celles et ceux qu’elle érige maintenant en sauveurs de la nation. On peut rappeler les chiffres les plus récents : plus de 8 mois de grève et de manifestations en 2019, presque 300 services d’urgences en grève à l’automne dernier, plus de 1000 médecins chefs de services démissionnaires de leurs fonctions administratives en janvier, le tout pour dénoncer le manque de personnel, de matériel, la suppression des services d’urgences de proximité, des lits, bref, tout ce que la salade sémantique d’une gestion managériale de l’hôpital public (« restructuration », « redéploiement », « fusion », « modernisation », et j’en passe) ne parvient que médiocrement à masquer. L’ironie de l’histoire, c’est que c’est précisément l’absence de réponses adéquates à leurs revendications qui fait aujourd’hui des personnels hospitaliers des « héros ». Auraient-ils été élevés à ce rang par le chef de l’état s’ils étaient en nombre suffisant ? S’il y avait de larges stocks de gel hydro alcoolique et de masques ? Du matériel en bon état ? Le nombre de lits nécessaires ? Si les salaires étaient attractifs ? Bref, si les moyens de faire face à une crise de cette ampleur leur avaient été donnés ? Probablement pas. A défaut d’avoir répondu à leurs demandes, le gouvernement tente de booster un peu leur égo en espérant que cela leur donnera le petit surplus de motivation et d’estime de soi qui compensera les carences matérielles. Combien de temps faut-il attendre avant de dire ce que l’on pense d’une telle attitude ? S’il est évident qu’ils partent d’une bonne intention, les applaudissements quotidiens portent toutefois en eux le risque d’être les garants de cette stratégie gouvernementale de gestion de la crise absolument nauséabonde. Continuera-t-on à les applaudir, ces femmes et ces hommes, une fois cette sinistre période derrière nous ? Rien n’est moins sûr. Entre une héroïsation de circonstance et la validation implicite de leurs conditions d’exercice, la frontière semble sacrément ténue. C’est toujours dans des moments de tension, de drame, dans des situations extrêmes qu’apparaissent les héros. Et il en apparaîtra toujours : on peut avoir plein de raisons de ne plus avoir foi en l’humanité, notre espèce n’est pas qu’un ramassis de déchets, quand même. Le problème, c’est que le héros (en tant que construction sociale, pas l’individu) empêche de se poser les bonnes questions sur ce qui a suscité son apparition : on se gargarise de son attitude exemplaire, érigée en valeur morale universelle dont l’ensemble du corps social fait l’éloge, puisqu’elle était de toute façon déjà la sienne, bien évidemment. Et il faut dire que la France en a connu, des héros, ces derniers temps : les militaires tués dans une opération anti-terroriste au Mali, Arnaud Beltrame, les pompiers luttant contre l’incendie de Notre-Dame, la rédaction de Charlie Hebdo, entre autres. Cela nous a-t-il incité à questionner, au minimum, nos modes de lutte contre le terrorisme ? Non. Nos politiques budgétaires culturelles ? Non plus. A défendre toujours plus la liberté d’expression ? Big LOL. Une société qui a besoin de héros pour rester debout est une société malade – c’est le cas de le dire. L’exemple actuel est particulièrement frappant : l’Etat se saisit du personnel hospitalier qu’il a méprisé et humilié pendant des années pour soudainement l’idolâtrer et opérer à travers lui une forme de narcissisation dont l’unique but est de masquer ses propres inconséquences. Au risque de faire de la psychologie de comptoir, essayez donc de remplacer dans cette dernière phrase « Etat » par « individu A » et « personnel hospitalier » par « individu B » ; le cas me semble assez sérieux. Adhérer à un élan d’unité nationale dont le fondement me semble avant tout relever du domaine du pathologique, très peu pour moi. Surtout que la conséquence de ce grand moment patriotique, dans lequel aucune voix discordante ne saurait être tolérée, risque d’être, les expériences passées nous le prouvent, une absence totale de remise en question de notre fonctionnement en tant que société et des soi-disant valeurs qui sont les nôtres. Evidemment, pourquoi se remettre en question alors qu’on a des héros pour nous rappeler quel est le véritable esprit de la nation ? Si l’on avait le courage de regarder les choses en face, on se rendrait compte que les personnels hospitaliers ne sont pas les héros de cette crise : ils en sont des victimes. Et leurs héros à eux, Superbudget, Spiderembauche et Captain Salaire, restent désespérément des personnages de fiction. Alors soit, je veux bien sortir sur mon balcon tous les soirs à 20h pour les applaudir, parce que c’est vrai qu’ils font un travail remarquable. Mais seulement si à 20h15, tout le monde se remet à sa fenêtre pour conspuer le gouvernement et dénoncer les conditions de travail qui sont les leurs depuis des années. Il est louable, et pas injustifié, de prendre ces femmes et ces hommes pour des héros ; mais il faut être vigilants à ce que, d’un même mouvement, ils ne soient pas aussi pris pour des imbéciles.


 Coronavirus, flash mob a mezzogiorno: un applauso dalle finestre d ...


Document 3)
Lan01.org, c'est parti ! – François Ruffin
Lan01.org, c'est parti ! « On arrête tout, on réfléchit, et ce n’est pas triste ». Telle était la devise de Gébé dans L'An 01. Aujourd'hui, on est bien obligés d'arrêter.
Qu'est ce qu'on en fait...?
NOUS SAVONS
La pandémie qui oblige plus de trois milliards d’humains à rester confinés chez eux semble être arrivée par surprise, comme un fléau tombé du ciel. La plupart des dirigeants des États qui nous gouvernent jurent la main sur le cœur que cette pandémie est un événement unique, jamais vu, d’une ampleur inattendue. Dès lors, face à cet imprévu en forme de force majeure, les politiques reposent nécessairement sur des réactions plus ou moins rationnelles, des méthodes plus ou moins validées, mais dans tous les cas, un vague sentiment d’improvisation et de tâtonnement prédomine ; alors que les décomptes macabres des morts ne cessent de se dérouler, implacablement. Pourtant, cette émergence d’un nouveau coronavirus était prévisible, et le tocsin avait été sonné à plusieurs reprises. En vain. Comme si nous étions atteints d’une étrange surdité quand une catastrophe est annoncée.  
Le spectacle du monde est très étrange : en quelques jours, trois milliards d’humains ont reçu l’ordre de rester confinés chez eux. Les économies d’à peu près tous les pays que compte la Terre mettent un genou à terre, quand elles ne sont pas atteintes d’une embolie sévère. Les oiseaux gazouillent dans les frondaisons de nos villes, les rues sont désertes de toute circulation, l’air deviendrait extraordinairement respirable si l’on pouvait se promener pour nous en délecter. Les couples confinés dans leurs appartements réapprennent à vivre ensemble, les travailleurs ont découvert en quelques instants que le télétravail n’était pas un luxe de bobo. Des milliards venus du ciel coulent à gogo pour aider des secteurs entiers de l’économie. La vie nouvelle serait presque belle s’il n’y avait en ce printemps délicieux ce parfum de mort, ces échos d’hôpitaux bondés, de cercueils entassés et de centaines de milliers de malades angoissés.
Sont-ils devenus fous ?
Dans ce paysage surréaliste, les dirigeants des États semblent avoir complètement perdu leurs repères. On distingue ici un président français martelant d’un air martial que nous sommes en guerre contre un ennemi… microscopique, une chancelière allemande claquemurée dans une quarantaine commode, un chef anglais faisant des valses hésitations pour finalement tourner en rond, un leader américain tweetomane hésitant dans le choix de son personnage : cabot outrancier devant ses électeurs ou comique troupier devant ses armées sanitaires.
Les dirigeants du monde seraient-ils devenus fous ? Incapables de faire des choix dans une situation à laquelle ils n’étaient pas préparés, ils se retranchent au jour le jour derrière les oracles des scientifiques, ils guettent d’autres courbes que celles de leur image, celles de leurs morts. Ils flattent, aiguillonnent, menacent pour que les chercheurs s’activent à trouver l’arme fatale contre le virus. Ils se jettent sur tout ce qui pourrait servir leur intérêt en détournant des cargaisons de produits d’urgence destinés à d’autres pays ou en tentant de s’approprier, à la hussarde, brevets et compétences. Les uns cherchent des masques, les autres des respirateurs ou des lits de réanimation. C’est panique à bord. On ferme boutique. On ferme les frontières. On se claquemure. La solidarité entre États n’est devenue qu’un vieux souvenir, quant à l’Europe, elle brille par son absence. Dans ce charivari du monde, on distingue des bataillons de nouveaux héros en blouse blanche qui font ce qu’ils peuvent avec ce qu’on leur donne. Ils sont en première ligne pour sauver des vies et la population le sait et les applaudit.
Une petite bestiole dont on ne connaissait pas le nom il y a encore trois mois. Une petite chose qui nous met échec et mat et révèle toute l’étendue de nos fragilités.
Le spectacle se déroule sous nos yeux dans un monde de haute intelligence, dans un monde qui veut aller sur Mars et sait manipuler les secrets de la matière ; dans un monde de grande technologie où l’on veut reculer les limites de l’âge et enfoncer celles de la nature. Ce monde si sûr de lui, conquérant et dominateur est fracassé par un virus. Une petite bestiole dont on ne connaissait pas le nom il y a encore trois mois. Une petite chose qui nous met échec et mat et révèle toute l’étendue de nos fragilités.
La première d’entre elles est notre incapacité atavique à envisager la catastrophe. Le philosophe Jean-Pierre Dupuy est un des grands penseurs de la catastrophe. « La catastrophe a ceci de terrible, écrit-il, que non seulement on ne croit pas qu’elle va se produire alors même qu’on a toutes les raisons de savoir qu’elle va se produire, mais qu’une fois qu’elle s’est produite elle apparaît comme relevant de l’ordre normal des choses. Sa réalité même la rend banale ».
Avant que la catastrophe ne se produise, personne n’y croit ; quand elle advient, elle entre sans embarras dans le registre du réel. C’est exactement ce qui se passe avec cette pandémie du coronavirus. Elle était annoncée. De nombreuses voix ont alerté le monde sur l’imminence d’une pandémie. Tous les détails y étaient. Ils sont restés « inouïs » au sens étymologique du terme : non-entendus.
Chronique d’une catastrophe annoncée
UP’ Magazine s’est plusieurs fois fait l’écho de ces prévisions et de cette catastrophe pandémique annoncée. À force même de nous répéter, comme d’autres médias, le procès en diffuseur de mauvaises nouvelles à des fins de sensationnalisme a parfois été fait. Pourtant les écrits restent et ces messages méritent d’être revus à la lumière du jour.
Le 12 février 2018, le directeur général de l’OMS prend la parole devant un parterre de choix : celui du sommet des gouvernements qui se tient à Dubaï. Dans un silence glacial, il annonce que l’apocalypse n’a jamais été aussi proche. « Il ne s’agit pas d’un scénario cauchemardesque du futur » dit-il. « C’est ce qui s’est passé il y a exactement cent ans pendant l’épidémie de grippe espagnole ».
Sur un ton terriblement grave il poursuit : « Une épidémie dévastatrice pourrait commencer dans n’importe quel pays à tout moment et tuer des millions de personnes parce que nous ne sommes pas encore prêts. Le monde reste vulnérable ».
Une épidémie aux conséquences désastreuses tant sur la vie humaine que sur l’économie.
Il ajoute : « Ce que nous savons, c’est qu’elle aura des conséquences désastreuses tant sur la vie humaine que sur l’économie ». Il termine en appelant les chefs d’États et de gouvernements assis devant lui à mettre les moyens pour éviter que ce soit un agent pathogène qui prenne le contrôle.
Résultat : rien.
Autre message, début mai 2018, cette fois-ci d’un nom très connu du grand public : Bill Gates, le fondateur de Microsoft. Informé par les dernières données de l’Organisation mondiale de la santé (OMS), il est persuadé que la probabilité de l’émergence d’une pandémie ne cesse d’augmenter. Ce personnage n’est pas du genre à se délecter de mauvaises nouvelles ; c’est un optimiste qui croit en l’intelligence de l’homme. Pourtant, le discours qu’il tient dans la prestigieuse enceinte du MIT devant un aréopage de médecins donne des frissons. Il assène : « Si vous disiez aux gouvernements du monde entier que des armes qui pourraient tuer 30 millions de personnes sont actuellement en construction, il y aurait un sentiment d’urgence à se préparer à la menace. »
Trouver des moyens pour lutter contre une maladie mortelle émergente.
Nous sommes en apparence mieux préparés que nous ne l’étions pour les pandémies précédentes, explique-t-il. Nous avons des médicaments antiviraux qui peuvent, dans de nombreux cas, améliorer les taux de survie. Nous avons des antibiotiques qui peuvent traiter les infections secondaires comme la pneumonie associée à la grippe. Mais, dit-il en substance, nous ne sommes pas encore assez efficaces pour identifier rapidement la menace d’une maladie et coordonner une réponse. Il termine en un appel aux gouvernements à trouver des moyens avec l’aide du secteur privé pour mettre au point des technologies et des outils en mesure de lutter contre une maladie mortelle émergente.
Résultat : rien.
Troisième exemple, début juin 2018. Une équipe de scientifiques du John Hopkins Center for Health Security publie un rapport intitulé « The Characteristics of Pandemic Pathogens », qui établit un cadre pour l’identification des micro-organismes naturels posant « un risque biologique catastrophique global » (GCBR dans la terminologie des experts de santé publique). Ces « GCBR » sont des événements dans lesquels des agents biologiques pourraient conduire à une catastrophe soudaine, extraordinaire et généralisée, au-delà de la capacité collective des gouvernements nationaux et internationaux et du secteur privé à la contrôler.
Pour les chercheurs, la prochaine pandémie ne viendra pas d’un virus à haut taux de mortalité, mais d’un virus banal, de la famille de ceux qui nous assaillent en hiver comme les rhinovirus ou coronavirus, par exemple. Ils ne sont que peu mortels mais leur potentiel pandémique est énorme. Les auteurs soulignent, en effet, que pour déstabiliser les gouvernements, l’économie, les sociétés et toutes les organisations sanitaires, la mortalité importe moins qu’un taux très élevé de personnes malades en même temps. Il est avéré qu’un virus peu mortel mais extrêmement contagieux, notamment par les voies aériennes, peut finalement provoquer une hécatombe.
Portrait-robot du futur agent pandémique : un coronavirus à ARN d’origine respiratoire
Les travaux de l’équipe de recherche aboutissent à un portrait-robot du futur agent pandémique. Son mode de transmission, conclut l’équipe, sera très probablement respiratoire. Il sera contagieux pendant la période d’incubation, avant l’apparition des symptômes ou lorsque les personnes infectées ne présentent que des symptômes bénins. Enfin, il aura besoin de facteurs spécifiques à la population hôte (par exemple, des personnes non immunisées contre lui) et d’autres caractéristiques de pathogénicité microbienne intrinsèque (par exemple un taux de létalité faible mais significatif), autant de traits qui, ensemble, augmentent considérablement la propagation de la maladie et l’infection. D’autant que, parmi les critères, les chercheurs ajoutent que cet agent pathogène se distingue par le fait qu’aucun traitement direct ou méthode de prévention n’existe à ce jour contre lui.
Parmi tout le bestiaire de microbes que les chercheurs ont analysé, ils en distinguent une famille particulière : celle des virus à ARN comme le coronavirus du SRAS par exemple. Les chercheurs recommandent donc de fixer comme une grande priorité la surveillance des infections humaines causées par des virus à ARN d’origine respiratoire. Des programmes de recherche clinique visant à optimiser le traitement des virus à ARN à diffusion respiratoire devraient être mieux financés. Enfin, les auteurs du rapport appellent à un renforcement de la priorité de la recherche sur les vaccins contre les virus respiratoires à ARN, y compris un vaccin antigrippal universel.
Résultat : rien.
Ils savaient
Ces messages datent de 2018. Ils ont sans doute été lus et vus par des cohortes de responsables dans le monde. Les politiques, les gouvernants, les autorités sanitaires des États en avaient connaissance. C’est incontestable.
Ont-ils pour autant pris les mesures qu’il fallait ? La même année 2018, en France, la ministre de la Santé Agnès Buzyn a-t-elle vérifié les stocks de masques dont le pays a besoin ? S’est-elle demandé si nous disposions de suffisamment de lits de réanimation ou de respirateurs, ou de matériels de test ? Qu’ont fait ses collègues dans les autres pays ? Le président Trump a-t-il pris les mesures pour protéger les citoyens américains de la vague épidémique qui va déferler sur son pays ? Certes il a un mot d’excuse : il était très occupé à twitter des âneries. Quelles mesures a pris le monde face à la bombe à retardement épidémique qui menace d’exploser en Afrique ?  
Alors que les annonces de la catastrophe se faisaient plus pressantes, écrit le biologiste Eric Muraille, le sous-financement et la gestion managériale de la recherche fondamentale ainsi que des services de santé réduisaient, en France notamment, notre capacité d’anticiper et de répondre aux épidémies. Chercheurs précarisés, réseaux coopératifs entre équipes de recherche fragilisés, cette situation ne favorise pas le maintien des compétences et l’exploration de nouveaux domaines de recherche pouvant contribuer à mieux connaître les agents infectieux émergents et à identifier les nouvelles menaces. La pratique du flux tendu (JIT) dans les hôpitaux, est devenue la norme qui réduit leur capacité à faire face à des crises sanitaires majeures. Les baisses de financement de ces services publics depuis des années comme la gestion court-termiste du système de santé publique a, de facto, éteint toute capacité d’anticipation. Le président Macron a bien juré dans son allocution du 20 mars : « Ce que révèle cette pandémie, c’est qu’il est des biens et des services qui doivent être placés en dehors des lois du marché ». N’est-ce pas déjà trop tard ?
Il faudra bien, un jour ou l’autre, tirer les leçons de cette crise sanitaire qui secoue le monde. D’autant que les catastrophes ne manqueront pas de se reproduire. Climatiques cette fois-ci. Elles aussi sont annoncées à cor et à cris. Nous savons que nous aurons dès l’été prochain des épisodes caniculaires meurtriers, peut-être même avant que nous ne soyons remis de l’épisode coronavirus. Nous savons que la mer grignote les côtes partout sur la planète. Nous savons que des millions de réfugiés climatiques vont s’agglutiner aux frontières. Nous savons que le monde va devenir irrespirable, nous savons que notre alimentation, notre eau, nos enfants sont en danger. Nous savons.


Lepri nei parchi, delfini, anatre nelle fontane, uccelli in volo ...