domenica 20 luglio 2014

Quattro ore a Chatila - di Jean Genet 1982

 
Achille uccide Ettore

  
Nel settembre 1982, Jean Genet (nella foto) accompagna a Beirut Layla Shahid, eletta presidente dell’Unione degli studenti palestinesi. Il 16 settembre si consuma il massacro di Sabra e Chatila da parte delle milizie libanesi, con l’attiva complicità dell’esercito israeliano che aveva invaso e occupato il Libano. Il 19 settembre Genet è il primo europeo a entrare nel campo di Chatila. Nei mesi successivi scrive “Quattro ore a Chatila”, pubblicata nel gennaio 1983 nella Revue d’études palestiniens.

Questo magnifico testo, requisitoria implacabile contro i responsabili dell’atroce atto di barbarie, non comincia con la descrizione del massacro. Comincia col ricordo dei sei mesi passati nei campi palestinesi coi fedayn, dieci anni prima del massacro di Sabra e Chatila


“A Chatila, a Sabra, dei non-ebrei hanno ucciso dei non-ebrei, la cosa non ci riguarda”. Menahem Begin alla Knesset



Nessuno e niente, nessuna tecnica del racconto, potrà dire cosa furono i sei mesi passati dai fedayn sulle montagne di Jerash e di Ajloun in Giordania, e soprattutto le prime settimane. Altri hanno scritto un resoconto degli avvenimenti, la cronologia, i successi e gli errori dell’OLP. L’aria del tempo, il colore del cielo, della terra e degli alberi, lo si potrà anche descrivere, ma non si potrà far sentire la leggera ebrezza, il camminare sulla polvere, lo sfavillio degli occhi, la lealtà dei rapporti, non solo tra fedayn ma anche tra loro e i capi. Tutti, tutti, sotto gli alberi erano frementi, scherzosi, stupiti da una vita così nuova per tutti, e in questi fremiti qualcosa di stranamente fisso, in agguato, protetto, riservato come qualcuno che prega senza parlare. Tutto era di tutti. Ognuno in sé stesso era solo. E forse no. Insomma sorridente e stralunato. La regione giordana dove avevano ripiegato, per scelta politica, era un perimetro che si allungava dalla frontiera siriana fino a Sait, delimitata dal Giordano e dalla strada da Jerash a Irbid. Una striscia lunga circa sessanta chilometri, profonda venti, in una regione assai montagnosa ricoperta di querce verdi, disseminata di piccoli villaggi giordani e una terra poco fertile.  Nei boschi e sotto le tende mimetizzate, i fedayn avevano  allocato alcune unità di combattenti e delle armi leggere e semi pesanti. Appena arrivati, dispiegata l’artiglieria soprattutto contro eventuali operazioni giordane, i giovani soldati si occupavano delle armi, le smontavano per pulirle, le ingrassavano e le rimontavano in modo velocissimo. Qualcuno riusciva perfino a smontare e rimontarle con gli occhi bendati, così avrebbe potuto farlo anche di notte. Tra ciascun soldato e la sua arma si era stabilito un rapporto amorevole e magico, e siccome i fedayn erano poco più che adolescenti, il fucile era il segno della virilità trionfante, e dava loro certezza. L’aggressività cedeva il posto ai sorrisi.

Tutto il resto del tempo i fedayn bevevano il tè, criticavano i loro capi e le persone ricche, palestinesi e altro, insultavano Israele, ma parlavano soprattutto della rivoluzione, di quella che facevano e quella che avrebbero fatto.

Per me, ogni volta che vedo la parola “palestinese”, che sia in un titolo, nel corpo di un articolo, su un volantino, esso evoca immediatamente i fedayn in un luogo preciso – la Giordania – e un tempo che si può facilmente datare ottobre, novembre, dicembre 1970, gennaio, febbraio, marzo, aprile 1971. E’ stato allora che io ho conosciuto la Rivoluzione palestinese. La straordinaria evidenza di quanto accadeva, la forza di questo benessere hanno anche un altro nome: bellezza.

Sono passati dieci anni e non ho saputo più niente di loro, salvo che i fedayn erano in Libano. La stampa europea parlava con disinvoltura del popolo palestinese, anche con disprezzo. E improvvisamente, Beirut ovest.


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Una piatta fotografia, uno schermo televisivo - né l'una né l'altro si possono attraversare. Da un muro all'altro della strada, rattrappiti o inarcati, i piedi di qua e il capo contro il muro opposto, i cadaveri gonfi e neri in cui continuamente inciampavo erano sempre di palestinesi e libanesi. Per me, come per tutta la popolazione sopravvissuta, girare per Chatila e Sabra era come giocare alla salta-cavallina. Basta un morto bambino a volte per bloccare una strada, sono strade così strette, quasi dei vicoli, e i morti talmente tanti! Mandano un odore che ai vecchi è familiare: a me non dava fastidio. Ma quante mosche! Se sollevavo la pezza, o il giornale arabo posato su una testa, le infastidivo. Inferocite dal gesto, mi venivano a sciami sul dorso della mano, in cerca di cibo. Il primo cadavere che ho visto era quello di un uomo di cinquanta o sessant’anni.

Avrebbe avuto una corona di capelli bianchi, se una ferita (un colpo d’ascia, mi è sembrato) non gli avesse aperto il cranio. Una parte del cervello annerita era a terra, vicino alla testa. Tutto il corpo poggiava su un mare di sangue, nero e coagulato. La cintura non era allacciata, i pantaloni si tenevano con un solo bottone. I piedi e le gambe del morto erano nudi, neri, violetti e malva: forse era stato sorpreso nella notte o all’alba? Fuggiva? Era steso in una stradina immediatamente sulla destra dell’ingresso del campo di Chatila, che si trova di fronte all’Ambasciata del Kuwait. Il massacro di Chatila deve essersi consumato nei sussurri o in un silenzio totale, se gli Israeliani, soldati e ufficiali, pretendono di non aver sentito niente, né d’essersi accorti di niente nonostante occupassero questo edificio dal pomeriggio di mercoledì.


La fotografia non coglie le mosche, né l'odore bianco e greve della morte; e neppure dice che per proseguire bisogna saltare da un cadavere all'altro.









Quando si guarda fisso un morto, succede uno strano fenomeno: la mancanza di vita in quel corpo equivale a una mancanza totale del corpo, o meglio, a un suo ritrarsi interrotto. Anche se ci avviciniamo, ci sembra che non lo toccheremo mai. Questo se stiamo a guardare. Ma basta un gesto rivolto al morto, chinarsi su di lui, cambiare di posto a un braccio o a un dito, ed eccolo ben presente, e quasi amico.

L'amore e la morte. Scrivi di uno e l'altro si precipita a completare la coppia. Ho dovuto andare a Chatila per cogliere l'oscenità dell'amore e l'oscenità della morte. In ambedue i casi i corpi non hanno più niente da nascondere: posizioni, contorcimenti, gesti, segni, anche i silenzi appartengono all'uno e all'altro mondo. Il corpo di un uomo di trenta - trentacinque anni era steso sul ventre.  Come se tutto il corpo altro non fosse se non una camera d’aria a forma di uomo, s’era gonfiata sotto il sole e per la chimica di decomposizione fino a tendere i pantaloni. fino a farli scoppiare in corrispondenza dei glutei e delle cosce. L’unica parte del viso che ho potuto vedere era nera e violacea. Poco più su del ginocchio, la gamba ripiegata mostrava una piaga, sotto la stoffa strappata. Origine di essa: una baionetta, un coltello, un pugnale? Mosche sulla piaga e intorno. La testa più grossa di un cocomero. Chiesi il suo nome, era mussulmano.


“Chi è?”
“Palestinese- mi rispose in francese un uomo di una quarantina d’anni – Guardate che cosa hanno fatto”.


Sollevò la coperta che ricopriva i piedi e una parte delle gambe. I polpacci erano nudi, neri e gonfi. I piedi, chiusi in due stivaletti neri non allacciati, e le caviglie strette fortemente da una corda solida – la sua solidità era visibile – di circa tre metri di lunghezza, che io sistemai in modo che la signora S. (statunitense) potesse fotografarla con precisione. Chiesi all’uomo di quarant’anni se potessi vederne il volto.


“Se vuole. Può aiutarmi a girargli la testa?”
«No».
«L'hanno trascinato per le strade con questa corda?».
«Non lo so, monsieur».
«Chi l'ha legato?».
«Non lo so, monsieur».
«Quelli del comandante Haddad?».
«Non lo so».
«Gli israeliani?».
«Non lo so».
« I kataéb?».
«Non lo so».
«Lo conoscevi?».
«Sì».
«L'hai visto morire?».
«Sì».
«Chi l'ha ucciso?».
«Non lo so».

Si è allontanato dal morto e da me piuttosto in fretta. Ormai lontano, si è voltato a guardarmi, poi è scomparso in un vicolo laterale.


E adesso che vicolo prendere? Ero strattonato da uomini sui cinquanta, da giovani di venti, da due vecchie arabe, mi sembrava di stare al centro di una rosa dei venti, dove ognuno dei raggi racchiudeva centinaia di morti.

L'annoto qui, non so bene perché a questo punto del racconto: «I francesi sono abituati a usare questa scialba espressione: ‘uno sporco lavoro’. Bene, come l'esercito israeliano ha ordinato questo ‘sporco lavoro’ ai kataèb, o agli uomini di Haddad, i laburisti hanno fatto terminare lo ‘sporco lavoro’ al Likud, Begin, Sharon, Shamir». Ho ripetuto quanto mi ha detto R., giornalista palestinese, ancora a Beirut, domenica 19 settembre.
Tra loro e accanto a loro, a tutte le vittime torturate, la mia mente non riesce a liberarsi da questa "visione invisibile": com'era il torturatore? Chi era? Lo vedo e non lo vedo. Ce l'ho sotto gli occhi, per me non avrà mai altro aspetto che quello tratteggiato dagli atteggiamenti, dalle posizioni, dai gesti grotteschi dei morti tormentati nel sole da sciami di mosche.

Visto che sono partiti tanto in fretta (gli italiani, arrivati per nave con due giorni di ritardo, poi se la sono battuta su aerei Hercules!), i marine americani, i parà francesi, i bersaglieri italiani, che formavano la forza di dissuasione in Libano, un giorno o trentasei ore prima della partenza ufficiale, come se si mettessero in salvo, e alla vigilia dell'assassinio di Bechir Gemayel, hanno davvero torto i palestinesi a chiedersi se americani, francesi e italiani non fossero stati avvertiti che bisognava sloggiare in tutta fretta per non sembrare coinvolti nell'esplosione della sede dei kataèb?


Resta che sono partiti in tutta fretta e immediatamente. Israele si vanta e vanta la sua efficacia in combattimento, la preparazione delle sue azioni, la sua abilità a trarre profitto dalle situazioni, a creare le situazioni. Vediamo. L’OLP lascia Beirut con onore, su una nave greca, con una scorta navale. Bechir, nascondendosi come può, va parlare con Begin in Israele. L’intervento dei tre eserciti (statunitense, francese e italiano) termina il lunedì. Martedì Bechir viene assassinato. Tsahal entra a Beirut ovest il mercoledì mattina.
Come se venissero dal porto, i soldati israeliani salivano verso Beirut nella mattinata in cui Bechir veniva sepolto. Dall’ottavo piano della mia casa, con un binocolo, li ho visti arrivare in fila indiana: un’unica fila. Mi sono meravigliato del fatto che non succedesse niente, perché un buon fucile di precisione avrebbe potuto stenderli tutti. Ma la loro ferocia li precedeva.

E dietro di loro i carri armati, poi le jeep.

Stanchi per una così lunga e mattiniera marcia, si fermarono vicino all’ambasciata francese. Lasciando i tank avanzare davanti a loro, entrando con decisione nello Hamra. I soldati, a intervalli di dieci metri, si sedettero sul marciapiede, il fucile puntato avanti,  le spalle appoggiate ai muri dell’ambasciata. Il busto massiccio, mi sembravano delle boe che avessero due gambe allungata davanti a loro.


“Israele si era impegnata col rappresentante statunitense, Habib, a non mettere piede a Beirut ovest e soprattutto a rispettare la popolazione civile dei campi palestinesi. Arafat ha ancora la lettera con la quale Reagan gli ha fatto la stessa promessa. Habib avrebbe promesso ad Arafat la liberazione di novemila prigionieri. Israele. Giovedì i massacri di Chatila e Sabra cominciano. Il ‘bagno di sangue’ che Israele pretendeva di poter evitare riportando l’ordine nei campi…” mi dice uno scrittore libanese.


“Sarà facilissimo per Israele difendersi dalle accuse. Alcuni giornalisti in tutti i giornali europei sono già impegnati ad assolverli: nessuno dirà che nella notte tra giovedì e venerdì e in quella tra venerdì e sabato si parlava ebreo a Chatila”, mi dice un altro Libanese.


La donna palestinese – perché non potevo uscire da Chatila senza andare da un cadavere all’altro e questo gioco dell’oca si concluderà fatalmente con un prodigio: Chatila e Sabra rase al suolo dalle Immobiliari per ricostruire su questo cimitero ripianato – la donna palestinese era probabilmente anziana perché aveva i capelli grigi. Era distesa sul dorso, disposta o abbandonata su dei conci, dei mattoni, delle sbarre di ferro piegate, senza confort. Sono rimasto per prima cosa colpito da uno strano legaccio, fatto di corda e stoffa, che legava i due polsi in modo da tenere le due braccia aperte orizzontalmente, come crocifisse. Il volto nero e gonfio volto verso il cielo, mostrava una bocca aperta, nera di mosche, con dei denti che mi sono sembrati bianchissimi, volto che sembrava, senza che un solo muscolo si muovesse,  fare una smorfia, o ridere o urlare di un urlo silenzioso e ininterrotto. Le calze erano di lana nera, l’abito di fiori rosa e grigi, leggermente sollevato o troppo corto, non so, lasciava in vista la parte alta dei polpacci che erano neri e gonfi, punteggiati da delicate macchie color malva, e il contrappunto di altre simili macchie color malva e viola sulle guance. Erano ecchimosi o il naturale effetto della putrefazione al sole?


“L’hanno colpita con una mazza?”
“Guardi, signore, guardi le sue mani”.


Non le avevo notate. Le dita di entrambe le mani erano a ventaglio e le dieci dita erano state tagliate come se ci si fosse serviti di cesoie da giardiniere. Dei soldati, ridendo come ragazzi e cantando gioiosamente, si erano probabilmente divertiti a cercare la cesoia e a servirsene.


“Guardi, signore”


Le punte delle dita, le falangi, con le unghie, erano nella polvere. Il giovane che mi mostrava, con naturalezza, senza alcuna enfasi, il supplizio dei morti, coprì tranquillamente il volto e le mani della donna palestinese con una stoffa, e con un cartone ruvido le gambe. Non potei più distinguere nulla in un ammasso di stoffa rosa e grigia, sorvolata da mosche.


Tre giovani mi hanno trascinato in un vicolo.
«Entri signore, noi aspettiamo fuori».

Il primo locale era quanto restava di una casa a due piani. Ambiente molto tranquillo, quasi accogliente, un assaggio di benessere, forse un benessere pieno era stato messo su con dei rottami, con quanto restava di un pezzo di muro, con ciò che ho creduto dapprima essere tre poltrone, ma in realtà tre sedili di un'auto (forse una Mercedes in disuso), un divano coi cuscini ricavati da una stoffa a fiori di colori vivaci e disegno stilizzato, la radio silenziosa, due candelabri spenti. Locale molto tranquillo, malgrado il tappeto di bossoli... Una porta sbatteva, come per una corrente d'aria. Camminavo sui bossoli, e ho spinto la porta che si apriva nell'altra direzione ma ho dovuto fare forza: mi impediva il passaggio il tacco di uno stivale, appartenente a un cadavere buttato di schiena, vicino ad altri due cadaveri di uomini a pancia in giù, che giacevano anch'essi su un identico tappeto di bossoli di rame. Su questi bossoli ho rischiato spesso di cadere.
In fondo al locale c'era una porta aperta, senza serratura, senza catenaccio. Scavalcavo i morti come si varca un abisso. Dentro la stanza, ammucchiati su un unico letto, quattro cadaveri maschili; uno sopra l'altro, quasi che ognuno avesse voluto così proteggere chi gli stava sotto, o come se fossero stati presi da una foia erotica in decomposizione. Questo ammasso di scudi emanava un odore forte, non era un odore cattivo. L’odore e le mosche si erano – mi sembrava – abituati a me. Non avrei più infastidito niente di queste rovine e di questa calma.


“Nella notte tra giovedì e venerdì, durante quelle tra venerdì e sabato e sabato e domenica nessuno li ha vegliati”, pensai.

Eppure mi pareva che qualcuno fosse passato prima di me vicino a questi morti e dopo la loro morte. I tre giovani mi aspettavano piuttosto lontano dalla casa, con un fazzoletto premuto sul naso.

E fu allora, all'uscita da quella casa,  che mi ha preso un attacco di improvvisa e leggera follia, e ne ho quasi riso. Mi sono detto che non sarebbero state mai abbastanza le assi e i falegnami per le bare. Ma poi, perché delle bare? Tutti gli uomini e le donne che erano morti erano musulmani, e i musulmani da morti vengono avvolti in un sudario. Quanti metri occorrevano per poter seppellire tanti morti? E quante preghiere? In quel luogo - me ne sono accorto allora - non si recitavano più le preghiere.


“Venga signore, venga presto”


E’ tempo di scrivere che questa improvvisa e del tutto momentanea follia che mi ha spinto a fare il conto di quanti metri di tessuto bianco sarebbero occorsi, diede alla mia andatura una vivacità quasi allegra, ed essa fu forse dovuta al racconto, ascoltato il giorno prima, di una amica palestinese.

“Aspettavo che mi portassero le chiavi (quali chiavi: della macchina della casa, io non so più altro che la parola chiavi), un vecchio è passato correndo.

- Dove vai?
- A cercare aiuto. Io sono il becchino. Hanno bombardato il cimitero. Tutte le ossa dei morti sono state dissepolte. Mi occorre aiuto per raccogliere le ossa”.

Questa amica è – credo – cristiana. Mi ha detto ancora: “Quando la bomba a  implosione ha ucciso duecentocinquanta persone, avevamo una sola cassa. Gli uomini hanno scavato una fossa comune nel cimitero della chiesa ortodossa. Si riempiva la cassa e la si andava a svuotare nella fossa. Si è fatto un via vai sotto le bombe, sgombrando i corpi e le membra come si poteva”.



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Da tre mesi le mani servivano a due cose: di giorno prendere e toccare, di notte vedere. Le interruzioni di corrente elettrica obbligavano a questa educazione da ciechi, come alla salita, bi o tri-quotidiana, della scogliera di marmo bianco, gli otto piani di scale. Avevamo dovuto riempire d’acqua tutti i recipienti di casa. Il telefono si è interrotto quando sono entrati a Beirut i soldati israeliani, e con loro le scritte ebraiche. Lo furono anche le strade intorno a Beirut. I carri armati Merkeba sempre in movimento facevano intendere che sorvegliavano tutta la città e nello stesso tempo si capiva che i loro occupanti si preoccupavano che i carri non diventassero un bersaglio fisso.  Temevano certamente le azioni dei morabitoune e dei fedayn rimasti a Beirut ovest.


L’indomani dell’arrivo dell’esercito israeliano eravamo prigionieri, ebbene mi pareva che gli invasori fossero meno temuti che disprezzati, provocassero meno terrore che disgusto. Nessun soldato qui rideva o sorrideva. Non è certo qui tempo di lanci di riso o di fiori.


Dopo l’interruzione delle vie di comunicazione, il telefono silenzioso, escluso da ogni contatto col resto del mondo, per la prima volta nella mia vita mi sono sentito diventare palestinese e odiare Israele.


Nella cittadella sportiva, nei pressi della strada Beirut-Damasco, stadio già mezzo distrutto dai bombardamenti a tappeto, i Libanesi consegnano agli ufficiali israeliani ammassi di armi, sembrerebbe, tutte rese volontariamente inutilizzabili.


Nell’appartamento che occupo, ognuno al suo posto radio. Si ascolta Radio Kataeb, Radio Morabitoune, Radio Amman, Radio Gerusalemme (in francese), Radio Libano. Certamente si fa la stessa cosa in tutti gli appartamenti.


“Ci collegano a Israele molti flussi che portano qui bombe, carri armati, soldati, frutti, legumi; loro portano con sé in Palestina i nostri soldati, i nostri figli… in un via vai continuo che non cessa più, come, dicono, siamo collegati ad essi da Abramo, nella sua discendenza, nella sua lingua, nella medesima origine…”(un fedayn palestinese). “Insomma – aggiunge – loro ci invadono, ci ingozzano, ci soffocano e vorrebbero baciarci. Dicono di essere nostri cugini. Sono molto rattristati nel vedere che ci si sottrae. Devono essere furiosi contro di noi e contro loro stessi”.



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L’asserzione che esiste una bellezza propria ai rivoluzionari pone diverse difficoltà. Si sa- si suppone – che i ragazzi giovani o alcuni adolescenti che vivono in ambienti  antichi e severi abbiano una bellezza di viso, di corpo, di movimento, di sguardi, molto vicina alla bellezza dei fedayn. La spiegazione è forse questa: spezzando gli ordini arcaici, una libertà nuova si libera delle pelli morte, e i padri e i nonni peneranno nel vedere lo sfavillio degli occhi, il pulsare delle tempie, il tripudio del sangue nelle vene.


Nelle basi palestinesi, nella primavera del 1971, la bellezza era sottilmente diffusa in una foresta animata dalla libertà dei fedayn. Nei campi era una bellezza ancora differente, un po’ più smorzata, che si installava nel regno delle donne e dei bambini. I campi ricevevano una specie di luce proveniente dal campo di battaglia e, quanto alle donne, la spiegazione del loro sfavillio richiederebbe una lunga e complessa discussione. Più ancora degli uomini, più dei fedayn nella guerra, le donne palestinesi sembravano più forti per sostenere la resistenza e accettare le novità di una rivoluzione.  Avevano già disobbedito ai costumi: sguardo diretto che reggeva quello degli uomini, rifiuto del velo, capelli in vista e talvolta completamente nudi, voci senza incrinature. La più piccola e la più prosaica delle loro azioni era il frammento di un’avanzata determinata verso un ordine nuovo, dunque sconosciuto, ma dove esse presentivano per loro la liberazione come una immersione in acqua, e per gli uomini una fierezza luminosa. Esse erano pronte a diventare nello stesso tempo mogli e madri di eroi, come lo erano già dei loro uomini.


Nei boschi di Ajloun i fedayn sognavano forse di ragazze, sembra piuttosto che ciascuno progettasse per se stesso – o modellasse coi suoi gesti – una ragazza attaccata a lui, di qui la grazia e la forza – coi loro scoppi di risa divertite – dei fedayn in armi. Non eravamo solo al limitare di una pre-rivoluzione, ma in una indistinta sensualità.  Uno strato di ghiaccio che irrigidiva ogni gesto lo rendeva dolce.

Sempre, e tutti i giorni per un mese, sempre a Ajloun, ho veduto una domma magra ma forte, accovacciata nel freddo, ma accovacciata come gli Indios delle Ande, alcuni Africani neri, gli Intoccabili di Tokio, gli Zigani in un mercato, in posizione pronta a scattare in caso di pericolo, sotto gli alberi, davanti al posto di guardia – una casupola in muratura, tirata su in fretta. Attendeva, a piedi nudi, avvolta nel suo abito nero, gallonato agli orli e agli orli delle maniche. Il volto severo ma non astioso, affaticato ma non scoraggiato. Il responsabile del commando allestiva una stanza quasi completamente nuda, poi le faceva un segno. Lei entrava chiudendo la porta, ma non a chiave. Poi ne usciva, senza un parola e senza sorridere, sui suoi piedi nudi ritornava dritta dritta a Jerash, e al campo di Baq’a. Nella stanza, riservata a lei nel posto di guardia, ho saputo che si levava le sue due gonne nere, staccava tutte le buste e le lettere che vi aveva cucito, ne faceva un pacchetto, quindi batteva un colpettino alla porta. Consegnava le lettere al responsabile, usciva, se ne andava senza avere detto una parola. Ritornava il giorno dopo.





Altre donne, più anziane, ridevano del fatto che gli erano rimaste solo tre pietre annerite che chiamavano ridendo, a Djebel Hussein (Amman): “la nostra casa”. Con quella voce infantile mi mostravano le tre pietre, e qualche volta la brace accesa dicendo, ridenti: “Dama”. Queste vecchie non facevano parte né della rivoluzione, né della resistenza palestinese: erano la gaiezza che più non spera. Il sole su di loro continuava la sua curva. Un braccio o un dito teso offrivano un’ombra sempre più magra. Ma quale sole? Giordano in virtù di una finzione amministrativa e politica decisa dalla Francia, l’Inghilterra, la Turchia, gli Stati Uniti… “La gaiezza che più non spera”, la più gioiosa perché la più disperata. Vedevano ancora una Palestina che non esisteva più quando avevano sedici anni, ma infine avevano un sole. Non erano né sotto né sopra, in uno spazio inquietante dove il minimo movimento sarebbe un falso movimento. Sotto i piedi nudi di queste attrici tragiche ottuagenarie e supremamente eleganti, la terra era ferma?


Era sempre meno vero. Quando erano scappate da Hebron, minacciate dagli Israeliani, la terra qui sembrava solida, ognuno si faceva leggero e si muoveva in modo sensuale nella lingua araba. Col passare del tempo sembrava che questa terra sperimentasse questo: i Palestinesi erano sempre meno accettabili nel momento stesso in qui questi Palestinesi, questi contadini, scoprivano la mobilità, il cammino, la corsa, il gioco delle idee redistribuite quasi ogni giorno come carte da gioco, le armi, montate, smontate, usate. Ogni donna, a turno, prende la parola. Ridono. Riportiamo una frase di una di loro:


“Eroi! Che sciocchezza. Io ne ho fatto e sculacciato cinque o sei di quelli che adesso sono al djebel. Ho pulito loro il sedere. So quanto valgono e posso farne altri”.


Nel cielo sempre blu, il sole segue la sua curva, ma fa ancora caldo. Queste attrici tragiche ricordano e immaginano allo stesso tempo. Per farsi meglio intendere, puntano l’indice alla fine di un periodo e accentuano le consonanti enfatiche. Se un soldato giordano passasse in questo momento, sarebbe entusiasta: nel ritmo delle frasi ritroverebbe il ritmo delle danze beduine. Senza frasi un soldato israeliano, se vedesse queste dee pianterebbe loro nel cranio una raffica di mitraglietta.



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Qui, tra le rovine di Chatila, non c'è più niente. Qualche vecchia, muta, che presto scompare dietro una porta su cui ricade una candida tenda. Di fedayn giovanissimi ne incontrerò di nuovo qualcuno a Damasco.
La scelta di una comunità privilegiata, al di là delle origini, quando si appartiene a quel popolo per nascita, è una scelta che si fa per un'adesione non ragionata, non che la giustizia non vi partecipi, ma questa giustizia e per intero la difesa di tale comunità si fanno in virtù di un richiamo sentimentale, forse addirittura sensibile, sensuale; io sono francese, ma completamente, e pregiudizialmente, difendo i Palestinesi. Il diritto è dalla loro parte, perché io li amo. Ma li amerei se l'ingiustizia non li avesse resi un popolo nomade?


Le case di Beirut sono quasi tutte lesionate, nella zona che si chiama ancora Beirut ovest. Crollano in vari modi: come un millefoglie serrato tra le dita di un gigantesco King-Kong, indifferente e vorace, oppure gli ultimi tre o quattro piani cedono deliziosamente, secondo un plissé molto elegante, una sorta di drappeggio della casa alla libanese. Se c'è una facciata intatta, fate un giro intorno alla casa, sono state colpite le altre facciate. Se sui quattro lati non ci sono crepe, la bomba sganciata dall'aereo è caduta al centro e, dove c'erano le scale e l'ascensore, adesso c'è un buco profondo.

A Beirut ovest, dopo l'arrivo degli israeliani, S. mi dice: «Era calata la notte, dovevano essere le sette di sera. Di colpo, un gran rumore di ferraglie, di ferraglie, di ferraglie. Tutti quanti, mia sorella, mio cognato e io, corriamo al balcone. Notte molto nera. E di tanto in tanto, come dei lampi a meno di cento metri. Sai che quasi di fronte a noi c'è una specie di postazione israeliana: quattro carri, una casa occupata da alcuni soldati e ufficiali, e delle sentinelle. La notte. E il rumore di ferraglie che s'avvicina. I lampi: alcune torce per illuminare. E quaranta o cinquanta ragazzini di circa dodici o tredici anni che battevano ritmicamente su dei barattoli di ferro, con delle pietre o dei martelli o qualcos'altro. Gridavano, ritmando fortissimo: Là ilah illa Allah, La Kataeb wa la yahoud (Non c’ altro dio che dio. No al Kataeb, no agli ebrei)».


H. mi dice: “Quando sei venuto a Beirut e Damasco nel 1928, Damasco era distrutta. Il generale Gouraud e le sue truppe, fucilieri marocchini e tunisini, avevano sparato e ripulito Damasco. Chi accusava la popolazione siriana?


Io – I Siriani accusavano la Francia dei massacri e della distruzione di Damasco
Lui – Noi accusiamo Israele dei massacri di Chatila e Sabra. Che non si scarichino questi crimini sulla spalle solo dei loro ausiliari Kataeb. Israele è colpevole di aver fatto entrare nei campi due compagnie di Kataeb, di aver dato loro degli ordini, di averli incoraggiati per tre giorni e tre notti, di averli riforniti di acqua e cibo, di avere illuminato i campi di notte”.


Ancora H., professore di storia. Mi dice: “Nel 1917 si è ripetuto il colpo di Abramo o, se preferisci, dio era già la prefigurazione di lord Balfour. Dio, dicevano e dicono ancora gli ebrei, aveva promesso una terra di miele e di latte ad Abramo e alla sua discendenza. Ebbene questa contrada, che non apparteneva affatto al dio degli ebrei ( queste terre erano piene di dei), questa contrada era abitata dai Cananei, che avevano anch’essi i loro dei, e che si sono battuti contro le truppe di Giosué, fino a sottrarre loro quella famosa arca dell’alleanza senza la quale non vi sarebbe stata vittoria per i Giudei. L’Inghilterra che, nel 1917, non possedeva ancora la Palestina (questa terra di miele e di latte) perché il trattato che gliela ha conferita non era stato ancora firmato.


- Begin sostiene di essere tornato a casa.
- E’ il titolo di un film “Un’assenza tanto lunga”. Questo Polacco, se lo vede come erede del re Salomone?


Nei campi, dopo venti anni di esilio, i rifugiati sognavano la loro Palestina, nessuno osava sapere né osava dire che Israele l’aveva sconvolta da cima a fondo, che al posto del campo di orzo c’era una banca, una centrale elettrica al posto di una vigna.


- Bisogna sostituire la staccionata del campo?
- Bisogna rifare una parte del muro vicino al fico.
- Tutte i tegami sono arrugginiti: tela smerigliata da comprare
- Perché non portare l’elettricità anche nella stalla?
- Ah no, i vestiti fatti a mano, è finita: mi devi procurare una macchina da cucire e una da ricamo.

La popolazione anziana dei campi è miserabile, forse lo era anche in Palestina ma la nostalgia qui ha effetti magici. Questa gente rischia di restare prigioniera dell'incanto malefico dei campi. Non è affatto certo che questi palestinesi abbandonino i campi senza rimpianto. In questo senso l'indigenza estrema è passatista. Chi l'abbia incontrata, insieme all'amarezza avrà incontrato una gioia sublime, solitaria, ineffabile. I campi giordani, inerpicati su declivi pietrosi, sono nudi, ma ai loro confini c'è una nudità ancora più desolata: baracche, tende piene di buchi, dove abitavano famiglie splendidamente orgogliose. Significa non sapere niente del cuore umano se non si arriva a capire come gli uomini possano attaccarsi ed essere orgogliosi di miserie tangibili, e questo orgoglio è possibile perché la miseria di superficie ha per contrappeso una gloria sotterranea. La solitudine dei morti, nel campo di Chatila, era ancora più tangibile perché avevano gesti e pose di cui non erano responsabili. Morti non importa come. Morti abbandonati. Tuttavia, nel campo, intorno a noi, ogni affetto, ogni tenerezza, ogni amore, correvano in cerca dei palestinesi che non vi avrebbero più potuto corrispondere.



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Come dirlo ai loro genitori, che sono partiti con Arafat, fiduciosi nelle promesse di Reagan, di Mitterrand, di Pertini, che avevano loro dato assicurazioni che non sarebbe stata toccata la popolazione civile dei campi? Come dire loro che si sono lasciati massacrare i bambini, i vecchi, le donne, e che i loro cadaveri sono stati abbandonati senza preghiere? Come spiegare loro che si ignora dove siano sepolti?


I massacri non possono essere avvenuti nel silenzio e al buio. Al chiarore dei razzi luminosi israeliani, ogni orecchio israeliano, da giovedì sera, ascoltava Chatila. Che festa, che baldoria c'è stata là dove la morte sembrava prendere parte all'allegria dei soldati ubriachi di vino, di odio, e indubbiamente ubriachi della gioia di piacere all'esercito israeliano che ascoltava, guardava, incoraggiava, sgridava. Non ho visto l'esercito israeliano ascoltare e vedere. Ho visto ciò che ha fatto.


All’obiezione: “Cosa ci avrebbe guadagnato Israele ad assassinare Bechir: entrare a Beirut, riportare l’ordine e evitare il bagno di sangue”.

- Cosa ci avrebbe guadagnato Israele a massacrare Chatila? Risposta: “Cosa avrebbe guadagnato a entrare in Libano? Cosa ci avrebbe guadagnato a bombardare per due mesi la popolazione civile: a dare la caccia e annientare i Palestinesi. Cosa si proponeva di fare a Chatila: eliminare i Palestinesi”.
Uccide degli uomini,  uccide dei morti. Rade al suolo Chatila. Non è estraneo alla speculazione immobiliare sul terreno edificabile: sono cinque vecchi milioni al metro quadro devastato. Ma sarà “ripulito”?


L’ho scritto a Beirut dove, forse per la vicinanza alla morte, ancora a fior di terra, tutto è più vero che in Francia: tutto sembra accadere come se, stanco di essere un esempio, di essere intoccabile, di sfruttare quel che crede di essere diventata: la santa inquisizione e vendicatrice, Israele aveva deciso di farsi giudicare freddamente. Grazie ad una metamorfosi sapiente ma prevedibile, eccolo come si preparava a essere da molto tempo: un potere temporale esecrabile, colonizzatore come non lo si osa più, diventato l’Autorità Definitiva che deve alla sua antica maledizione, oltre che alla sua elezione.


 Restano aperte molte domande:
Se gli israeliani non hanno fatto nient'altro che illuminare il campo, restare in ascolto, udire i colpi sparati da tutte quelle munizioni di cui ho calpestato i bossoli (decine di migliaia), chi sparava in realtà? Chi, uccidendo, rischiava la pelle? Dei falangisti? Degli uomini di Haddad? Chi? E quanti?

Dove sono finite le armi che hanno fatto tutti quei morti? E dove le armi di chi si è difeso? Nella zona del campo che ho visitato, non ho visto che due armi anticarro non usate.

Come sono entrati gli assassini nei campi? Gli israeliani comandavano tutte le entrate al campo di Chatila? In ogni caso, da giovedì erano all'ospedale di Acca, di fronte a un ingresso del campo.

I giornali hanno scritto che gli israeliani sono entrati nel campo di Chatila subito dopo avere saputo dei massacri, e che li hanno fatti immediatamente cessare, dunque il sabato. Ma che ne hanno fatto dei massacratori, che fine hanno fatto?


Dopo l’assassinio di Bechir Gemayel e di venti suoi compagni, dopo i massacri, quando seppe che tornavo da Chatila, la signora B., dell’alta borghesia di Beirut, venne a trovarmi. Salì – niente elettricità – gli otto piani del palazzo – penso sia anziana, elegante ma anziana.


- Prima della morte di Bechir, prima dei massacri, ebbe ragione di dirmi che il peggio stava per venire. L’ho visto.
- Soprattutto non mi dica cosa ha visto a Chatila, la prego. I miei nervi sono troppo fragili, devo aver cura dei miei nervi in vista del peggio che deve ancora venire.
- Noi sappiamo che Bechir era andato in Israele. Ha avuto torto. Quando si è capi di Stato eletti, non si deve frequentare quella gente. Io ero certo che gli sarebbe andata male. Ma non voglio sapere niente. Devo aver cura dei miei nervi per sopportare i colpi terribili che non sono ancora venuti. Bechir doveva restituire quella lettera nella quale il signor Begin lo chiamava: caro amico.

L’alta borghesia, coi suoi servitori muti, resiste a modo suo. La signora B. e suo marito non “credono per niente alla metempsicosi”. Che succederebbe se rinascessero in forma di Israeliani?


Il giorno dei funerali di Bechir è stato anche il giorno dell’entrata a Beirut ovest dell’esercito israeliano. Le esplosioni si avvicinano al palazzo dove ci troviamo; alla fine tutti scendono al riparo, in una cantina. Ambasciatori, medici, le loro moglie, le figlie, un funzionario dell’ONU in Libano, i loro domestici.


- Carlos mi porti un cuscino
- Carlos, i miei occhiali
- Carlos, un po’ d’acqua

I domestici, perché anche loro parlano francese, sono accolti nel rifugio. Bisogna anche forse proteggerli, eventuali ferite, trasportarli all’ospedale o al cimitero, che casino!


Bisogna sapere che i campi palestinesi di Chatila e Sabra, sono chilometri e chilometri di stradine strette – perché qui anche le strade sono tanto magre, tanto scheletriche che due persone non possono passarvi se una almeno non proceda di lato -  piene di calcinacci, blocchi di pietre, mattoni, stracci multicolore e sporchi, e la notte, alla luce degli spari israeliani che illuminano il campo, quindici o venti cecchini, anche se bene armati, non sarebbero riusciti a provocare questo eccidio. Gli assassini hanno agito, ma numerosi, e probabilmente delle squadre di torturatori che aprivano i crani, tagliavano le cosce, troncavano braccia, mani e dita, trascinavano con corde gli agonizzanti incatenati, uomini e donne ancora vivi perché per lungo tempo il sangue ha continuato a colare dai loro corpi, tanto che non riuscii a capire, nel corridoio di una casa, chi avesse lasciato quel ruscelletto di sangue essiccato, dal fondo del corridoio dove era la pozza fino alla soglia dove si perdeva nella polvere. Era un Palestinese? Una donna? Un falangista del quale avevano raccolto il corpo?


Da Parigi, soprattutto se si ignora la topografia dei campi, si può dubitare davvero di tutto!  Si può permettere a Israele di affermare che i giornalisti di Gerusalemme sono stati i primi a dare notizia del massacro. Come lo hanno detto verso i paesi arabi e in lingua araba? Come in francese e in inglese? E quando precisamente? Quando si pensa alle precauzioni di cui ci si circonda in Occidente dopo aver constatato una morte sospetta, le impronte, l'impatto dei proiettili, le autopsie e controperizie! A Beirut, appena saputo del massacro, l'esercito libanese prendeva ufficialmente in consegna i campi e immediatamente li ripuliva, dalle macerie e dai cadaveri. Chi ha ordinato questa fretta? Dopo che un'affermazione aveva fatto tuttavia il giro del mondo: cristiani e musulmani si sono ammazzati tra loro, e dopo che le macchine da presa avevano registrato la ferocia del massacro.

L'ospedale di Acca, occupato dagli israeliani, di fronte a un ingresso di Chatila, non è a duecento metri dal campo, ma a quaranta. Non hanno visto niente, non hanno sentito niente, non si sono accorti di niente?

È proprio quanto Begin dichiara alla Knesset: «Dei non-ebrei hanno massacrato dei non-ebrei. Cosa c'entriamo noi?».



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Interrotta per un momento, la mia descrizione di Chatila deve concludersi. Ecco gli ultimi morti che ho visto, la domenica, verso le due del pomeriggio, quando la Croce Rossa Internazionale è entrata coi suoi bulldozer.

L’odore di cadaveri non veniva né dai una casa né da un suppliziato: era il mio corpo, il mio spirito che sembrava emetterlo. In una stretta via, in un angolo di muro a spigolo, mi è parso di vedere un boxeur nero seduto a terra, ridente, stupito d’essere K.O. Nessuno aveva avuto il coraggio di chiudergli gli occhi, i suoi occhi fuori dalle orbite, di maiolica bianchissima, mi guardavano. Sembrava avvilito, le braccia alzate, addossato a questo angolo di muro. Era un Palestinese, morto da due o tre giorni. Se l’ho scambiato all’inizio per un boxeur nero, è perché la testa era enorme, gonfia e nera, come tutte le teste e tutti i corpi, fossero al sole o all’ombra delle case. Sono passato vicino ai suoi piedi. Ho raccolto nella polvere una dentiera di mascella superiore che ho posato su ciò che restava dei montanti di una finestra. L’incavo delle mani teso verso il cielo, la bocca aperta, i pantaloni senza cintura aperti: altrettanti rifugi dove le mosche si nutrivano.


Superai un altro cadavere, poi un altro ancora. Nello spazio di polvere tra i due morti, c’era finalmente un oggetto del tutto vivo, intatto in questo carnaio, di un rosa traslucido, che poteva essere ancora utile: la gamba artificiale, apparentemente di materia plastica, calzato da una scarpa nera ed un calzino grigio. E meglio osservando, appariva chiaro che era stata strappata brutalmente alla gamba amputata, perché le cinghie che abitualmente la tengono unita alla coscia, erano tutte rotte.
Questa gamba artificiale apparteneva al secondo morto. Quello del quale avevo visto solo una gamba e un piede calzato da una scarpa nera e un calzino grigio.


In una strada perpendicolare a quella dove ho lasciato i tre morti, ce n’era un altro. Non ostruiva completamente il passaggio, ma stava steso all’imbocco della strada, in modo che ho dovuto superarlo e poi voltarmi per guardare questo spettacolo: seduta su una sedia, circondata da donne e uomini ancor giovani che tacevano, singhiozzava una donna – abiti da donna araba – che mi parve avere sedici o sessanta anni. Piangeva suo fratello il cui corpo bloccava quasi la strada. Mi avvicinai, la guardai meglio. Aveva una sciarpa annodata al collo. Piangeva, lamentava la morte del fratello, affianco ad essa. Il suo viso era rosa – un rosa da bambina, pressoché uniforme, dolcissimo, tenero – ma senza ciglia e sopracciglia e quel che io ho creduto essere rosa non era l’epidermide, ma era derma bordato da un po’ di pelle grigia. Tutto il volto era bruciato. Non ho potuto sapere da cosa, ma ho capito da chi.


Ai primi morti, mi ero sforzato di contarli. Giunto a dodici o quindici, avvolto dall’odore, dal sole, micidiali, non ho più potuto, confondendosi tutto.


Case sventrate da cui escono coperte, palazzi crollati, ne ho visti tanti, con indifferenza, guardando quelli di Beirut ovest, quelli di Chatila, vedevo l’orrore. Le parole, che generalmente mi diventano subito familiari, perfino amicali, vedendo quelli dei campi, riuscivo solo a distinguere l’odio e la gioia di quelli che hanno ucciso. Si era svolta una festa barbara: rabbia, ebbrezza, danze, canti, bestemmie, lamenti, gemiti, in onore dei voyeur che ridevano all’ultimo piano dell’ospedale di Acca.


Prima della guerra di Algeria, in Francia, gli Arabi non erano belli, il loro modo di camminare era pesante, ciondolante, la bocca storta, e quasi d’improvviso la vittoria li imbellì, ma già un po’ prima che fosse lampante, quando più di mezzo milione di soldati francesi si sfiancavano e scoppiavano nell’Aures e in tutta l’Algeria, si poteva percepire un curioso fenomeno, all’opera sul volto e nel corpo degli operai arabi: qualcosa come l’avvicinarsi, il presentimento di una bellezza ancora fragile ma che ci avrebbe abbagliato quando le squame sarebbero infine cadute dalla loro pelle e dai nostri occhi. Bisognava accettare l’evidenza che essi si erano liberati politicamente per apparire come bisognava vederli, bellissimi. Allo stesso modo, sfuggiti ai campi dei rifugiati, sfuggiti alla morale e all’ordine dei campi, a una morale imposta dalla necessità di sopravvivere, sfuggiti contemporaneamente alla vergogna, i fedayn erano bellissimi; e siccome era una bellezza nuova, vale a dire giovane, vale a dire ingenua, essa era fresca, tanto viva da scoprire immediatamente cosa la metteva in sintonia con tutte le bellezze del mondo, strappandosi alla vergogna.


Molti ragazzi algerini, che si prostituivano a Pigalle,  hanno usato la loro bellezza a profitto della rivoluzione algerina. Anche questa è virtù. E’, credo, Hannah Arendt che distingue le rivoluzioni a seconda che progettino la libertà o la virtù – quindi il lavoro. Bisognerà forse riconoscere che le rivoluzioni o le liberazioni si danno – vagamente – per scopo di trovare o ritrovare la bellezza, vale a dire l’impalpabile, innominabile in altro modo se non con questo vocabolo. O piuttosto non attraverso la bellezza intendiamo una insolenza ridanciana che le miserie passate, i sistemi e gli uomini responsabili della miseria e della vergogna sfidano, ma insolenza ridanciana che si avvede che la gioia, fuori dalla vergogna, era facile.


Ma in queste righe deve trattarsi soprattutto di questo: una rivoluzione non è tale quando non riesce a far cadere dai volti e dai corpi la pelle morta che l’afflosciava. Io non parlo di una bellezza accademica, ma dell’impalpabile – innominabile – gioia dei corpi, dei volti, delle grida, delle parole che non sono più cupe, voglio dire una gioia sensuale e tanto forte che vuole eliminare ogni erotismo.


Rieccomi a Ajloun, in Giordania, poi a Irbid. Prendo ciò che credo sia uno dei miei capelli bianchi caduto sul maglione e lo poso su un ginocchio di Hamza, seduto vicino a me. Lui lo prende con le dita, lo guarda, sorride, lo ripone nella tasca del suo giubbotto nero, poggia sopra la mano dicendo:


- Un pelo della barba del Profeta vale meno di questo

Respira un po’ più profondamente e ripete:


- Un pelo della barba del Profeta non vale più di questo

Aveva solo ventidue anni, il suo pensare si elevava agevolmente a vette molto più alte di quelle dei Palestinesi di quaranta anni, ma portava già su di sé i segni – su lui, sul suo corpo, nei suoi gesti – che o facevano uguale agli anziani.


Una volta i contadini si pulivano il naso con le mani. Uno schiocco sprizzava il muco negli arbusti. Poi si passavano sotto il naso le maniche di velluto a coste che, in capo a un mese, erano ricoperte da una leggera madreperla. Così i fedayn. Si pulivano il naso come i marchesi, i prelati fiutavano: un po’ incurvati. Io ho fatto la stessa cosa che facevano loro, che me l’hanno insegnata senza rendersene conto.


E le donne? Giorno e notte ricamare i sette vestiti (uno per ogni giorno della settimana) del corredo di fidanzamento offerto da un marito generalmente anziano scelto dalla famiglia, risveglio penoso. Le giovani Palestinesi diventarono bellissime quando si ribellarono al padre e ruppero i loro aghi e le forbici da ricamo. E’ sulle montagne di Ajloun, di Sait e di Irbid, in quelle foreste che si è depositata tutta la sensualità liberata dalla rivolta e i fucili, non dimentichiamo i fucili: questo bastava, ognuno era soddisfatto. I fedayn inconsapevolmente – è vero? – mettevano a punto una bellezza nuova: la vivacità dei gesti e il visibile scoramento, la rapidità dello sguardo e la sua brillantezza, il timbro di voce più chiaro si coniugava con la prontezza della risposta e la sua brevità. Con la precisione anche. Le frasi lunghe, la retorica saccente e loquace, l’avevano uccisa.


A Shatila, molti sono morti e il mio affetto, il mio amore per i loro cadaveri putrescenti, era grande anche perché io li avevo conosciuti. Neri e gonfi, putrefatti dal sole e dalla morte, erano ancora fedayn.
Verso le due del pomeriggio di domenica, tre soldati dell'esercito libanese, col fucile puntato, mi hanno condotto a una jeep dove sonnecchiava un ufficiale. Ho chiesto:

«Parla francese?».
«English».

Era secca la voce, forse perché l'avevo destato di soprassalto. Ha preso in mano il mio passaporto. Poi, in francese:

«Viene di là?» (con la mano indicava Chatila).
«Sì».
«E ha visto?».
«Sì».
«Lo scriverà?».
«Sì».

Mi ha reso il passaporto. Mi ha fatto segno di andare. I tre fucili si sono abbassati. Avevo passato quattro ore a Chatila. Ne avevo per ricordare circa quaranta cadaveri. Tutti - e dico: tutti - erano stati torturati, probabilmente da ubriachi che cantavano, ridevano, tra l'odore di polvere e già di carogna. Indubbiamente ero solo, intendo dire il solo europeo (con poche vecchie palestinesi, ancora aggrappate a un cencio bianco strappato; con pochi giovani fedayn disarmati) ma se cinque o sei esseri umani non fossero stati là, se avessi scoperto io quella città abbattuta, i palestinesi atterrati, neri e gonfi, io sarei impazzito. Dove ero stato? Quella città in briciole e a terra che ho visto o creduto di vedere, percorsa, sollevata, trasportata dall'odore possente della morte, c'era stato davvero tutto ciò?

Non avevo esplorato, e male, che un ventesimo di Sabra e Chatila, non ero stato a Bir Hassan, né a Burj el Barajné.

Non è alle mie inclinazioni che devo l’aver vissuto il periodo giordano come un incanto. Altri Europei e Arabi dell’Africa del nord mi hanno parlato del sortilegio che li aveva tenuti là. Vivendo questa lunga stimolazione  di sei mesi, appena tinta di notte per dodici o tredici ore, ho conosciuto la leggerezza dell’evento, l’eccezionale qualità dei fedayn, ma avvertivo la fragilità dell’edificio. Dovunque, dove l’esercito palestinese in Giordania si era raggruppato – vicino al Giordano – v’erano dei posti di controllo dove i fedayn erano così sicuri dei loro diritti e del loro potere che l’arrivo di un visitatore, di giorno o di notte, era l’occasione per preparare il tè, per parlare con scoppi di risa e di fraterni baci (quello che baciavano partiva quella notte, attraversava il Giordano per collocare bombe in Palestina, e spesso non tornava). Le uniche oasi di silenzio erano i villaggi giordani che li circondavano. Tutti i fedayn sembravano leggermente sollevati dal suolo come per un sottilissimo bicchiere di vino o una boccata di hashish. Cos’era? La giovinezza incurante della morte e che possedeva, per sparare in aria, armi ceche e cinesi. Protetti da armi che sparavano così in alto, i fedayn non avevano paura di niente.
Se qualche lettore ha visto una carta geografica della Palestina e della Giordania, sa che la terra non è un pezzo di carta. La terra, lungo il fiume Giordano, è molto in rilievo. Tutta questa avventura avrebbe dovuto chiamarsi anche “Sogno di una notte d’estate”, nonostante le sfuriate dei comandanti di quaranta anni. Tutto questo è stato possibile a cagione della giovinezza, del piacere di trovarsi sotto gli alberi, di giocare con le armi, di essere lontani dalle donne, cioè di eludere un problema difficile, di essere il punto più luminoso perché il più acuto della rivoluzione, di avere il consenso della popolazione dei campi, di essere fotogenici qualsiasi cosa si facesse, forse di sapere che questa avventura a contenuto rivoluzionario sarebbe stata di lì a poco distrutta: i fedayn non volevano il potere, avevano la libertà.

Al rientro da Beirut, all’aeroporto di Damasco, ho incontrato dei giovani  fedayn, scampati all’infermo israeliano. Avevano sedici o diciassette anni: ridevano, assomigliavano a quelli di Ajloun. Moriranno come loro. La guerra per un paese può riempire una vita assai ricca, ma corta. E’ la scelta, si rammenti, di Achille nell’Iliade.

si ringrazia la FONTE ARTICOLO Quattro ore a Chatila