domenica 25 aprile 2021

IL LIBERATORE (di Marco Minoletti)

 



La psicologia dell'inconscio è la filosofia della rivoluzione

(Otto Gross)

Nonostante le critiche e gli ostracismi, Michel Onfray è, a mio modesto giudizio, un autore stimolante e controcorrente. Da adolescente, poco equipaggiato teoricamente e indotto da una società che emargina chi non si allinea, mi ero fermamente convinto di essere un caso clinico. Nella foga di trovare le pagine in cui si trattava il mio caso, mi lessi con attenzione gran parte dell'opera di Freud e di alcuni suoi discepoli. Il risultato fu che mi identificai con quasi tutti i casi clinici descritti. Successivamente mi imbattei nella corrente dell'antipsichiatria e mi divorai i libri dei vari Cooper, Laing e compagnia cantante. Il merito di questi autori fu quello di consolarmi: la follia, stando agli autori, era ovunque e dunque mi trovavo in buona compagnia.

L'uomo è un animale sociale. Se ben ricordo Cooper consigliava di invertire le segnaletiche stradali che conducevano ai reparti psichiatrici cittadini. Un giorno, ormai studente universitario, mi recai in Svizzera, ad Ascona, per visitare un curioso museo, il museo Monte Verità. Fra tutti i personaggi che praticarono il monte delle utopie quello che maggiormente attirò la mia attenzione fu Otto Gross. Mi misi con zelo a fare delle ricerche e lessi quel poco che allora si poteva trovare in circolazione su di lui. Chi era costui?

Gross era un medico-psicanalista, anarchico, morfinomane, cocainomane, legato da profonda e fraterna amicizia all'anarchico e scrittore rivoluzionario Erich Mühsam. Il padre di Gross era uno dei più famosi criminologi dell’epoca, Hans Gross.

Hans Gross e il “padre-padrone” della psicoanalisi giocarono un ruolo chiave nell'annientare l'esistenza fisica e psichica di Otto. Sigmund Freud, di cui Otto Gross fu inizialmente fedele discepolo, era dell’opinione che fra tutti i suoi seguaci Jung e Gross fossero le uniche menti veramente originali.

Sorge spontanea la domanda: ma se Freud, sempre parco di lodi e di apprezzamenti positivi, aveva una così alta considerazione di Gross, come mai il suo nome scomparve dagli annali della psicoanalisi? Le ragioni, secondo me, furono sostanzialmente tre.

La psicoanalisi in quegli anni tentava, tra mille difficoltà, di accreditarsi a livello scientifico ed era ancora considerata una scienza per ciarlatani; una figura come Gross – anarchico, implicato nel misterioso avvelenamento di una sua paziente, prima sorvegliato e poi ricercato dalla polizia elvetica per presunti furti, ricatti e appropriazioni indebite – non deponeva certo a favore dell’elevazione della psicanalisi al rango di scienza.

In secondo luogo, il figlio geniale entrò ben presto in conflitto teorico col maestro. Mentre Freud rimaneva saldamente legato alla teoria della nevrosi legata al presupposto sessuale, Gross allargava il campo ai condizionamenti sociali come postulati della psicoanalisi, ridimensionando il ruolo del fattore sessuale come conditio sine qua non dei disturbi psichici conflittuali. È ovvio che questa apertura al ruolo dei condizionamenti sociali sulla sfera psichica non potesse essere gradita a Freud.

Infine la sua vera o presunta schizofrenia, l'internamento in manicomio voluto dal padre-rivale Hans e il suicidio mentre prestava servizio in un reggimento ungherese durante la guerra concorsero al suo oblio.

Mentre sul fronte della vita teorica Gross era impegnato a ridimensionare il ruolo del sesso nelle nevrosi, sul versante pratico della vita quotidiana si dava un gran da fare per liberarlo dalle pastoie della morale sessuale piccolo-borghese. Grazie alla moglie Frieda Schloffer, amica e compagna di studi di Else von Richthofen, entrò in contatto col noto circolo di Heidelberg che faceva capo al famoso economista Edgar Jaffé, marito di Else. Ben presto si legò ad altri membri del circolo, tra i quali i fratelli Alfred e Max Weber. Con le sorelle Else e Frieda Richthofen e la moglie Frieda Schloffer aveva un rapporto molto appassionato che venne coronato dalla nascita, nello stesso anno, di due maschietti, uno partorito dalla moglie Frieda e l’altro da Else. Alcuni anni dopo, Frieda Richthofen che, grazie soprattutto a Gross, aveva preso coscienza di sé liberandosi del soffocante ruolo di donna e moglie ideale, lascerà il marito, il linguista Weekley, per diventare la compagna dello scrittore D.H. Lawrence il quale, a sua volta, fu influenzato dalle idee dello psicanalista austriaco. Un’opera come Il Serpente piumato, completamente impregnata di sessualità mistica, non avrebbe mai visto la luce senza l’influsso di Frieda la liberata, e di Otto, il liberatore.

Le teorie di Gross non sono prive di un certo fascino e tanti, Wilhelm Reich in primis  ma anche Bronisław Malinowski, lo subirono. Nel 1904 pubblicò sulla “Psychiatrische-neurologische Wochenschrift” uno scritto nel quale, secondo il suo allievo Ernst Jones, “la dissociazione delle idee descritta da Freud veniva acutamente contrapposta alla dissociazione dell’attività cosciente osservabile nella demenza precoce.” (Ernst Jones, Vita e opere di Freud, Milano, il Saggiatore, 1995, vol. II, p. 50). In un libro del 1907, “Das Freudsche Ideogenitätsmoment und seine Bedeutung im manisch-depressiven Irresein Kraepelins”, Gross metteva in luce l'importanza della teoria della libido e di altri concetti psicoanalitici-chiave sviluppati da Freud. Ma è nel breve saggio del 1919: “Die kommunistische Grundidee in der Paradiessymbolik” che emerge nella sua totalità la visione matriarcale del mondo grossiano. Visione con la quale l’autore fa coincidere, coerentemente, la propria esperienza esistenziale.

Secondo lui il traviamento dell’umanità e la conseguente cacciata dell’uomo dal paradiso terrestre avvengono con “l'allontanamento dal libero matriarcato dei tempi primitivi” che nella Genesi è indicato “come peccato contro lo spirito e il volere divino”. La conseguenza è l’origine alla società patriarcale e dei vincoli giuridici tra gli uomini, che finiscono con il sovvertire l’originaria solidarietà decisionale e umana che aveva caratterizzato il matriarcato. In sostanza, secondo l'autore, il peccato originale consiste nel passaggio innaturale dal matriarcato al patriarcato.

“L'effetto psicologico immediato del peccato commesso è la comparsa della vergogna per il sesso. Bisogna quindi presupporre un'azione di cui la prima conseguenza fu un profondo cambiamento interiore, in seguito al quale andò perduta la consapevolezza della purezza di ogni atto sessuale, la grandezza del valore dell'esperienza sessuale in sé e per sé.”

Ma torniamo ad Onfray. Nel 2010 Onfray pubblica una contro-biografia di Freud, “Crepuscolo di un idolo”. Onfray è consapevole del fatto che la dottrina freudiana dell'inconscio e dei bisogni fisici (istinti) sia stata in grado di sedurre la nostra cultura. Ma Freud è visto dall'autore come una sorta di sciamano la cui “grande fiaba” non è altro che un'illusione collettiva priva di fondamento scientifico.

“Il diniego del corpo e il rifiuto del reale portano Freud verso un mondo che lui crea di sana pianta, un mondo al quale ha attribuito pieni poteri”. Freud non pensava scientificamente, non guariva alcun paziente e non liberava la sessualità di nessuno. Inoltre Freud viene inquadrato come un pensatore politicamente reazionario e un odiatore di donne. In sostanza Onfray compie un'opera di demolizione non solo del singolo pensatore che, partendo dalle proprie esigenze personali, ha edificato un castello di carta poggiante su traballanti fondamenta scientifiche, ma smantella il freudismo liquidandolo come l'eredità sciamanica dello stregone di Vienna.

Nel mese di novembre del 2020 è stato pubblicato in Italia il volume intitolato “I freudiani eretici”. In questo saggio Onfray prende in esame la vita e l'opera di Otto Gross, Wilhelm Reich e Erich Fromm, ossia i tre autori che, come si legge nella nota di copertina, “hanno aperto la pratica e la teoria psicoanalitica alla critica sociale, alla cura dei meno abbienti e all'obiettivo dell'efficacia pratica”.

Gross voleva abolire il capitalismo autoritario (patriarcato) e realizzare il comunismo libertario (matriarcato) e può a pieno titolo essere considerato l'ideatore del freudo-marxismo.

Reich, come Gross metaforicamente favorevole al parricidio, dinamizzò in modo originale e dialettico sia il freudismo (contro i marxisti dogmatici), sia il marxismo (contro i freudiani ortodossi), continuando sul solco tracciato da Gross. Alla fine li scontentò tutti, inimicandoseli. Il maggio '68 realizzò le sue aspettative e i suoi desideri in materia di rivoluzione sessuale e culturale. Molti degli slogan apparsi sui muri di Parigi e di altre città francesi (“proibito proibire”, “sotto i pavé la spiaggia”, “godere senza ostacoli”) furono ispirati dalla lettura dell'opera reichiana e non certo da quella freudiana.

Quanto a Erich Fromm, che agli occhi degli intellettuali da salotto ha il difetto di scrivere in modo chiaro e che diversamente dal suo quasi-coetaneo Lacan non si è limitato a partorire un oscuro “castello di carte concettuale”, una volta emigrato in America contribuì a ridefinire eticamente e su basi empiriche e non fumose o astratte una psicanalisi ad uso e consumo della gente comune. Gli psicanalisti francesi e gli intellettuali con la puzza sotto il naso non glielo perdoneranno mai! Come fa notare Onfray: “Non esiste una biografia di Erich Fromm in francese. […] Per la maggioranza degli intellettuali francesi, è preferibile una leggenda rassicurante che non una verità angosciante: dunque meglio le pagliacciate surrealiste di un Lacan maurassiano che i progressi clinici di Erich Fromm”.

Quanto all'Italia – dove Gross è un perfetto sconosciuto, Reich è caduto nel dimenticatoio e Fromm lo si legge di tanto in tanto tra le massime utilizzate nella carta stagnola di certi cioccolatini – non resta che consolarci con gli scritti del divulgatore delle astrusità di Lacan, il liberal-riformista Massimo Recalcati!

Ma a questo punto, quasi meglio consolarci con il film di David Cronenberg A Dangerous Method, dove Gross è magistralmente interpretato daVincent Cassel...


domenica 18 aprile 2021

Digressione sulla secessione

 



Per scoraggiamento, nella maggior parte dei casi, ci si può dire che sarebbe finalmente più utile sottrarsi al gioco sociale anziché cercare vanamente di sovvertirne l’ordine, ma nessuna secessione è possibile al di fuori di quella che per calcolo o ragione, l’ordine sociale tollera. Il che non vuol dire che la secessione individuale sarebbe, per principio, inutile o non avrebbe altro interesse se non soddisfare una scelta personale, come, per esempio, fuggire la città piovra. Collegata ad altre forme di secessione, offensive, collettive, acquista senso, ma solo a questa condizione. Senza altra prospettiva che l’evasione verso un altro mondo vivibile ma limitato, essa non rileva che dell’esperienza personale.


Se il soggetto ha il suo interesse, è perché il tema della secessione come forma desiderante di “deterritorializzazione”, per dirla alla Deleuze, è oggi presentata sempre più come una sorta di panacea o di nec plus ultra del “pensiero contro”. Contro le forme di vita riconosciute come definitivamente alienate, per essere più precisi. Pensiero che, preso così da chi s’identifica con esso da indirizzo a indirizzo alle giovani generazioni, irriga – con la prospettiva di Agamben della destituzione o quella dell’esodo cara a Paolo Virno – una forma di discorso del metodo che agisce soggettivamente e che dovrebbe costruire del “comune” altrove che nello spazio del capitale. Non si cercherà qui di dimostrare, talmente l’evidenza ci sembra accecante, che il capitale è dappertutto, ma di dedicarci a una genealogia di questa tentazione che ha a che vedere, come dice Rancière, con lo scarto “orfano di un mondo simbolico e vissuto cui appoggiarsi” (En quel temps vivons-nous?).

In verità e perché le cose siano chiare, l’esperienza secessionista è già stata tentata e più spesso di quel che si crede, senza che l’ordine del capitale sia cambiato di una virgola. Precisiamo: si tratta dell’esperienza della fuga, del ripiego, individualmente o collettivamente fondato sull’idea del campo da ricostruire, della base da rifare, del territorio finalmente purificato da ogni catastrofe di civiltà. Degli anarchici dell’inizio del XX° secolo vi hanno creduto con ostinazione. Fino a rompersi la schiena, i denti e vedere le “affinità” che li collegavano disfarsi. Le “comunità” del dopo 68 hanno ricominciato nell’euforia più in voga a quel tempo di cambiare la “loro” vita non potendo trasformare il mondo. Senza un miglior successo oppure marginalmente componendo con le leggi di mercato, fino a partecipare talvolta alla sua rimodelizzazione “etica”.

Non ignoro che una lunga memoria può portare a intese eccessive, soprattutto quando il fallimento è il loro punto comune. E niente collega davvero l’aspirazione secessionista attuale alle esperienze evocate in precedenza. Né lo stato del mondo, né le condizioni reali di esistenza, né la corda sensibile che le collegava. Una tale aspirazione procede da altri desideri, più terra-terra. Si tratta, con la ritirata, di sfuggire al movimento infinito del capitale, maelström che sconvolge in permanenza quel che faceva la temporalità delle nostre vite – queste vite che il rapporto con gli altri e la percezione cognitiva di un mondo destinato a smantellarsi infinitamente disfa metodicamente fin nell’intimo. Quel che presiede, in molti casi e a un certo livello di coscienza, a questo processo di ritirata attiva, è spesso una maniera di credere che non si potrà sfuggire al sistema – uscire dal capitalismo – se non attraverso lo scarto, uno scarto capace di fare pluralità e basato sull’idea che la fuga non sarebbe soltanto la nostra ultima libertà, ma la nostra ultima capacità di agire. Più che all’esteriore dell’anarchia e ai “comunitari” degli anni settanta questo revival della ritirata rinvia piuttosto all’approccio di Landauer. Una ritirata vissuta come aspirazione a ricominciare qualcosa creando in seno all’ordine spaziotemporale esistente, un altro modo spaziale e temporale di abitare un mondo sensibile e comune, un piccolo mondo suscettibile di gettare le basi di un mondo più largo, di un mondo per tutti. È l’idea di tracciare il proprio solco, di fare esperienza, di rifondare del vivibile, del vivente, dell’invidiabile e del trasmissibile.

Detto questo, si tratta di un dato duplice assolutamente specifico a quest’epoca. Da una parte, sono gli effetti della postmodernità in materia di decostruzione sistematica degli antichi concetti che fondavano, non più soltanto la speranza nell’idea di emancipazione, ma il desiderio di farla sbocciare. Dall’altra, il trionfo di quel che bisogna pur chiamare un pensiero post heideggeriano della catastrofe definitiva, talmente influente sugli affetti dei combattenti per la libertà e l’uguaglianza che la fine del capitalismo non sarebbe più di attualità – quella del mondo essendo quasi certa. In chiaro, la difesa di Gaia prevarrebbe su tutto il resto e ci si dovrà ormai dedicare corpo e anima a preservare il pianeta per controbilanciare gli effetti distruttori di non si sa chi o che cosa. Perché se il catastrofismo stile collapsologia fa parte del pensiero postmoderno, è precisamente nel fatto che identifica soltanto degli effetti. E che, infine, come dice ancora Rancière, non è che una figura del “nichilismo contemporaneo” che non pensa “la salvezza […] che sullo sfondo della “grossa nube nera” (En quel temps vivons-nous ?). L’ecologia, che ne è alla base, ma una base “mutilata” per parlare come Renaud Garcia, è in qualche sorta venuta a prendere il posto del marxismo. Mentre questo diceva: non cambierete nulla se non cambiate i rapporti di produzione, l’ecologia perpetua reinventandola la superstizione della Grande Causalità: non cambierete nulla se non salvate il Pianeta. Poco importa se nel frattempo la questione dell’uguaglianza è evacuata: il supposto mutuo aiuto tra “resilienti” del terrestre vi porrà rimedio in una forma di comunismo platonico al quale preferiremo sempre quello che il giovane Marx, nei Manoscritti del 1844, definiva l’umanizzazione dei sensi umani.

Fare secessione vuol dunque dire prendere le distanze. Questo movimento può dunque iscriversi in un’iniziativa individuale di sopravvivenza tendente ad attenuare la propria miseria o a calmare le carenze: andare a vedere altrove e tentarvi la fortuna. Quale fortuna? Quella non trascurabile di trovarvi di che sopravvivere o, ancora meglio per chi l’intraprende, di vivere in accordo con quello che raccorda al mondo non necessariamente per cambiarlo, ma per dare un altro senso alla propria vita. È, allora evidentemente questione di un’altra forma di secessione, quella che evoca una certa arte del contrappunto o del controtempo per iscrivere il proprio progetto in una ritirata che corrisponderebbe a un ritorno alle origini più naturali della vita stessa. Altrettanti passi di lato ontologici, di aspirazioni alla simbiosi, di desideri di ridare forma a un mondo disfatto e reso artificiale che se si coniugassero potrebbero rendere conto di una coscienza esigente e scrupolosa colta nel granaio dottrinale dell’emancipazione.

L’iniziativa secessionista si apparenta a un modo di disertare il centro nervoso del sistema per combatterlo in margine, sui suoi bordi, costruendo zone, luoghi che potrebbero, anche provvisoriamente, indebolirne il potere. L’esempio di Notre-Dame-des-Landes resta, per il caso, emblematico dell’ultimo decennio. Gli zadisti hanno raggiunto il loro obiettivo – il ritiro del progetto mortifero dell’aeroporto – ed esemplarmente aperto una chiara prospettiva emancipatrice. Il resto procede di un accomodamento negoziato. Come nel caso di uno sciopero vittorioso dove il solo punto che potrebbe far accedere alla reale emancipazione – l’abolizione del salariato – è sempre lasciato da parte. Non per dimenticanza ma per pragmatismo. Il nemico può retrocedere ma continua a distribuire le carte. Vuol dire che il gioco non vale la candela? Assolutamente no, perché ogni breccia aperta nel muro dell’innominabile porcheria del mondo è una vittoria.

Quel che conviene pensare ormai, non è l’opportunità delle secessioni, che sono in parte le nuove forme di resistenza di questi tempi decostruiti, ma le loro articolazioni come sostituti delle antiche strategie di confronto tra possidenti e spossessati rese tutte caduche dallo smantellamento metodico del tessuto produttivo. Se la vita mostra ampiamente che è spesso necessario recidere certi legami per continuare ad avanzare, il momento in cui ci troviamo obbligati a disfarci metodicamente, ma senza indebolirsi, di certe appartenenze paralizzanti, di vecchi riflessi apparentemente identificanti ma inefficienti per apprendere il reale e convincersi dell’enormità del compito che ci incombe per farla finita con questo mondo prima che la faccia finita con noi. Ci vorrà molta audacia, inventività, vagabondaggio e passi perduti per aprire nuovi passaggi nel muro del disprezzo di cui si è circondata la fortezza tecno capitalista.

Più che mai, è giunto il momento della fuga che è un’altra forma di secessione. Sfuggire al peso delle parole, alla forza delle cose, alle menzogne sconcertanti, alla mollezza propagandistica, ai pensieri deboli, alla falsa parola, all’estetizzazione della rabbia. In fondo, quando entra in un processo di emancipazione collettiva, il desiderio di secessione è desiderio di rompere con forme oggettivamente inefficaci – perché viziate – di resistenza, di ripensare lo scontro, di renderlo appassionante, d’inventare nuove connivenze emancipate dai pensieri fissi, d’immaginare, a ogni livello, nuove linee di forza suscettibili di allargare il più possibile, e senza a priori puristi, i perimetri infiniti delle collere sociali. Accogliendole tutte per quel che dicono: il rifiuto delle sozzure della povertà e l’aspirazione a una vita dignitosa.

Esistono caratteristiche comuni alle diverse secessioni collettive di questi ultimi tempi: una stessa pratica dello scarto, un identico rifiuto della separazione tra i mezzi e i fini, un agire insieme nella tessitura delle fraternità riconquistate, il dominio di un tempo di lotta che si sa poter essere lungo, ma anche profittevole, nella sua durata, per fare rifugio, radice, storia, solidarietà. Un po’ come se il vicolo cieco del mondo e l’oblio liquidatore prodotto in massa dai rappresentanti autorizzati e dagli impiegati del sistema avessero avuto l’effetto contrario a quello scontato: aprire una tale breccia nel consenso dominante che ogni secessione che spunta e prende corpo, conferma la certezza che qualunque cosa faccia il Capitale non riuscirà a colonizzare i nostri neuroni.

Lo scarto è il momento in cui il risveglio porta lontano. Verso la secessione generale. Su questo piano, e perché viene da un altrove che nessuno ha visto arrivare, i Gilets jaunes hanno chiaramente dinamitato la pseudo civiltà unificata del nuovo mondo macroniano. La loro secessione ha avuto un duplice effetto: zittire gli spiriti ben fatti della militanza della Teoria e dell’Università e riappropriarsi di tutto quel che mancava loro per rimettere la storia sui binari. D’un colpo solo e senza perdere tempo nel commentare cose insignificanti, si sono occupati dei ronds-points per farne delle piccole ZAD (zone da difendere), si sono costituiti in popolo egualitario che nessun “populismo di sinistra” potrà mai fondare, hanno ritrovato il gusto dell’antagonismo rissoso, della pertinenza tattica, del rifiuto della delega. Per puro istinto, senza tante parole, marciando.

Fare secessione è precisamente questo: riprendere in mano la propria vita e tracciare il proprio cammino. Il pensiero ad angolo retto pena sempre a captare altro che la figura geometrica della sua impotenza. È solo nel marinare i doveri, nel furtivo, nel selvaggio, nell’imprevisto nell’astuzia e nel coraggio che si avrà qualche probabilità di mettere finalmente in difficoltà l’ordine logistico di un mondo e, come diceva Walter Benjamin, di “liberare l’avvenire da quel che oggi lo sfigura”. La lenta diffusione del rigetto rimane tanto misteriosa quanto il momento in cui il rifiuto raggiunge l’intensità necessaria e sufficiente per passare all’azione e scuotere lo stato delle cose. Si chiamava rivoluzione ed era sempre preceduta da secessioni puntuali. Il passato ce lo insegna. Ci fa sempre segno. 

 

Freddy GOMEZ, A contretemps, 22marzo 2021

 

Traduzione dal francese di Sergio Ghirardi Sauvageon




Digression sur la sécession

On peut, par découragement le plus souvent, se dire qu’il serait finalement plus utile de se soustraire au jeu social que de chercher vainement à subvertir son ordre, mais nulle sécession n’est possible hors celle que l’ordre social, par calcul ou par raison, tolère. Ce qui ne saurait signifier que la sécession individuelle serait, par principe, inutile ou n’aurait d’autre intérêt que de satisfaire un penchant personnel, comme de fuir la ville-pieuvre par exemple. Conjuguée à d’autres formes, offensives, collectives, de sécessions, elle peut prendre sens, mais à cette seule condition. Sans autre perspective que l’évasion vers un autre monde vivable, mais limité, elle ne relève que de l’expérience personnelle.

Si le sujet à son intérêt, c’est que la thématique de la sécession comme forme désirante de « déterritorialisation », pour parler comme Deleuze, est aujourd’hui présentée, et de plus en plus, comme une sorte de panacée ou de nec plus ultra de la « pensée contre ». Contre les formes de vie admises comme définitivement aliénées, pour être plus précis. Et que, prise ainsi par celles et ceux qui s’y reconnaissent d’adresse en adresse aux jeunes générations, elle irrigue, avec l’agambéenne perspective de la « destitution » ou celle de l’« exode » chère à Paolo Virno, une manière de discours de la méthode subjectivement agissant et censé construire du commun ailleurs que dans l’espace du capital. On ne tentera pas de démontrer ici, tant l’évidence nous semble aveuglante, que le capital est partout, mais de nous livrer à une généalogie de cette tentation qui a à voir, comme le dit Rancière, avec l’écart « orphelin d’un monde symbolique et vécu auquel s’adosser » (En quel temps vivons-nous ?)

À vrai dire, et pour que les choses soient claires, l’expérience sécessionniste a déjà été tentée, et plus souvent qu’on ne le pense, sans que l’ordre du capital n’en eût été changé d’un iota. Précisons : il s’agit de l’expérience de la fuite, du repli, individuellement ou collectivement fondé sur l’idée du camp à reconstruire, de la base à refaire, du territoire enfin purifié de toute catastrophe civilisationnelle. Des anarchistes du début du XXe siècle y ont cru avec obstination. Jusqu’à s’y rompre le dos, les dents et y voir se défaire les « affinités » qui les liaient. Les « communautés » de l’après-68 ont remis ça dans l’ivresse, plus en vogue avec leur temps, de changer « leur » vie à défaut de transformer le monde. Sans plus de succès, ou alors marginalement et en composant avec les lois du marché, jusqu’à participer parfois à sa remodélisation « éthique ».

Je n’ignore pas qu’une longue mémoire peut occasionner des rapprochements excessifs, surtout quand leur point commun est l’échec. Et pas davantage que rien ne corrèle vraiment l’aspiration sécessionniste d’aujourd’hui aux expériences évoquées précédemment. Ni l’état du monde, ni les conditions réelles d’existence, ni la corde sensible qui les reliait. Elle procède d’autres désirs, plus terre à terre. Il s’agit là, par le retrait, d’échapper au mouvement infini du capital, ce maelström qui bouleverse en permanence ce qui faisait la temporalité de nos vies – ces vies qu’il défait méthodiquement jusque dans l’intime, le rapport aux autres et la perception cognitive d’un monde voué à se défaire infiniment. Ce qui préside, dans bien des cas et à un certain niveau de conscience, à cette démarche de retrait actif, c’est souvent une manière de croire qu’on ne pourrait échapper au système – sortir du capitalisme – que par l’écart, un écart capable de faire pluralité et fondé sur l’idée que la fuite serait non seulement notre dernière liberté, mais notre dernière capacité d’agir. Plus qu’aux en-dehors de l’anarchie et aux « communautaires » des seventies, c’est plus sûrement à l’approche landauérienne que renvoie ce revival du retrait vécu comme aspiration à recommencer quelque chose en créant au sein de l’ordre spatio-temporel existant, une autre façon, spatiale et temporelle, d’habiter un monde sensible en commun, un petit monde susceptible de jeter les bases d’un monde plus large, d’un monde pour tous. C’est l’idée de tracer son sillon, de faire expérience, de refonder du vivable, du vivant, de l’enviable et du transmissible.

Il est, cela dit, une double donnée tout à fait spécifique à cette époque. C’est, d’une part, les effets de la postmodernité en matière de déconstruction systématique des anciens concepts qui fondaient, non pas seulement l’espoir dans l’idée d’émancipation, mais le désir de la faire éclore. Et, de l’autre, le triomphe de ce qu’il faut bien appeler une pensée post-heideggérienne de la catastrophe définitive influant de telle manière sur les affects des combattants pour la liberté et l’égalité que, la fin du monde étant presque sûre, celle du capitalisme ne serait plus tellement d’actualité. En clair, la défense de Gaïa l’emporterait objectivement sur tout le reste, et c’est à préserver la planète qu’il faudrait désormais se vouer corps et âme pour contrebalancer les effets destructeurs d’on ne sait qui ni quoi. Car si l’effondrisme version collapsologique participe de la pensée postmoderne, c’est précisément en cela qu’il n’identifie que des effets. Et qu’il n’est, in fine, comme le dit encore Rancière, qu’une figure du « nihilisme contemporain » qui ne pense « le salut […] que sur le fond du “gros nuage noir” » (En quel temps vivons-nous ?). L’écologie, qui est sa base, mais une base « mutilée » pour parler comme Renaud Garcia, est en quelque sorte venue prendre le relais du marxisme. Quand celui-ci disait : vous ne changerez rien à rien si vous ne changez pas les rapports de production, celle-là perpétue, en la réinventant, la superstition de la Grande Causalité : vous ne changerez rien à rien si vous ne sauvez pas la Planète. Qu’au passage, la question de l’égalité file à la trappe, la chose est sans importance : la supposée entraide des « résilients » du terrestre y palliera dans une forme de communisme platonicien auquel nous préférerons toujours celui que le jeune Marx, dans les Manuscrits de 1844, définissait comme l’humanisation des sens humains.

Faire sécession, c’est donc faire écart. Ce mouvement peut s’inscrire dans une démarche individuelle de survie visant à tamiser sa misère ou à calmer ses manques : aller voir ailleurs et y tenter sa chance. Quelle chance ? Celle, non négligeable d’y trouver de quoi survivre ou mieux encore, pour celui qui l’entreprend, de vivre en accord avec ce qui le raccorde au monde, pas forcément pour le changer, mais pour donner un autre sens à sa propre vie. C’est évidemment d’une autre forme de sécession dont il est ici question, celle qui convoque un certain art du contrepoint – ou du contretemps – pour inscrire sa démarche dans un retrait qui serait aussi retour aux sources les plus naturelles de la vie même. Autant de pas de côté ontologiques, d’aspirations à la symbiose, de désirs de redonner forme à un monde défait et artificialisé qui, s’ils se conjuguaient, pourraient attester d’une conscience exigeante et scrupuleuse puisée au grenier doctrinal de l’émancipation.

La démarche sécessionniste s’apparente à une manière de déserter le centre nerveux du système pour le combattre depuis la marge, sur ses bords, en construisant des zones, des lieux qui pourraient, même provisoirement, affaiblir son pouvoir. L’exemple de Notre-Dame-des-Landes reste, pour le cas, emblématique de la dernière décennie. Les zadistes ont atteint leur objectif – le retrait du projet mortifère d’aéroport – et exemplairement ouvert une claire perspective émancipatrice. Le reste procède d’un accommodement négocié. Comme dans le cadre d’une grève victorieuse où le seul point qui permettrait d’accéder à la réelle émancipation – l’abolition du salariat – est toujours laissé de côté. Pas par oubli, mais par pragmatisme. L’ennemi peut reculer, mais il continue de distribuer les cartes. Est-ce à dire que le jeu n’en vaut pas la chandelle ? En aucune façon, car toute brèche ouverte dans le mur de l’innommable saloperie du monde est une victoire.

Ce qu’il convient de penser désormais, ce n’est pas l’opportunité des sécessions, qui sont pour partie les nouvelles formes de résistance de ces temps déconstruits, mais leur articulation comme substituts aux anciennes stratégies d’affrontement entre possédants et dépossédés, rendues toutes caduques par le démantèlement méthodique du tissu productif. Si la vie démontre à foison qu’il est souvent nécessaire de trancher certains liens pour continuer d’avancer, le moment dans lequel nous nous trouvons nous oblige à nous défaire méthodiquement, mais sans faiblir, de certaines appartenances paralysantes, d’anciens réflexes apparemment identifiants, mais sans efficience pour appréhender le réel et se convaincre de l’énormité de la tâche qui nous incombe pour en finir avec ce monde avant qu’il n’en finisse avec nous. Il faudra beaucoup d’audace, d’inventivité, de déambulations et de pas perdus pour ouvrir de nouveaux passages dans le mur de mépris dont s’est entourée la forteresse techno-capitaliste.

Plus que jamais, le temps est venu de l’échappée, qui est une autre forme de la sécession. S’échapper du poids des mots, de la force des choses, des mensonges déconcertants, de la veulerie propagandiste, des pensées faibles, de la fausse parole, de l’esthétisation des colères. Au fond, quand il entre dans une démarche d’émancipation collective, le désir de sécession est désir de se désaffilier des formes objectivement inopérantes – car viciées – de résistance, de repenser l’affrontement, de le rendre passionnant, d’inventer de nouvelles connivences émancipées des pensées fixes, d’imaginer à toutes échelles de nouvelles lignes de force susceptibles d’élargir autant que faire se peut, et sans a priori puristes, le périmètre infini des colères sociales. En les accueillant toutes pour ce qu’elles disent : le refus des souillures de la pauvreté et l’aspiration à une vie décente.

Il existe des caractéristiques communes aux diverses sécessions collectives de ces derniers temps : une même pratique de l’écart, un identique refus de la séparation des moyens et des fins, un agir ensemble dans le tissage des fraternités reconquises, la maîtrise d’un temps de lutte qu’on sait pouvoir être long, mais aussi profitable, dans sa durée, à faire terreau, racine, histoire, solidarité. Un peu comme si l’impasse du monde et l’oubli liquidateur que produisent en masse les fondés de pouvoir et les commis du système, avaient eu l’effet contraire à celui escompté : ouvrir une telle brèche dans le consensus dominant que chaque sécession qui pointe et prend, atteste de la certitude que, quoi qu’il entreprenne, le Capital ne parviendra pas à coloniser nos neurones.

L’écart, c’est ce moment où l’éveil porte loin. Vers la sécession générale. Sur ce plan, et parce que venant d’un ailleurs que personne n’avait vu venir, les Gilets jaunes ont clairement dynamité la pseudo-civilisation unifiée du nouveau monde macronien. Leur sécession eut un double effet : réduire au silence les esprits bien faits de la militance, de la Théorie et de l’Université et se réapproprier tout ce qui leur manquait pour remettre l’histoire sur ses rails. D’un coup, d’un seul et sans perdre de temps à commenter des insignifiances, ils ont occupé des ronds-points pour en faire des petites ZAD, ils se sont constitués en peuple égalitaire qu’aucun « populisme de gauche » ne fondera jamais, ils ont retrouvé le goût de l’antagonisme castagneur, de la pertinence tactique, du refus de la délégation. Par instinct pur, sans grands mots, en marchant.

Faire sécession, c’est précisément cela : reprendre la main sur sa propre vie et tracer son chemin. La pensée à angles droits peine toujours à capter autre chose que la figure géométrique de son impuissance. Ce n’est que dans le buissonnier, le furtif, le sauvage, l’imprévu, la ruse et le courage que l’on aura quelque chance de mettre enfin en difficulté l’ordre logistique d’un monde et, comme le disait Walter Benjamin, de « libérer l’avenir de ce qui aujourd’hui le défigure ». La diffusion lente des refus demeure aussi mystérieuse que le moment où ils atteignent l’intensité nécessaire et suffisante pour qu’ils passent dans les faits et bousculent l’état des choses. On appelait ça une révolution. Elle fut toujours précédée de sécessions ponctuelles. Le passé nous l’apprend. Il nous fait toujours signe.

Freddy GOMEZ, A contretemps, 22mars 2021

 


giovedì 15 aprile 2021

LA CASA DI DIO

 

 



Agustín García Calvo è un pensatore sovversivo veramente originale. Crea, però, sorpresa tra i militanti che nella sua riflessione non parta dalla Rivoluzione francese né dai Comuni medievali e neppure dalla guerra civile spagnola, tutte cose di cui sapeva poco, mentre conosceva sulla punta delle dita il molto più lontano mondo greco. Più concretamente, riguardo al momento in cui l’eredità del pensiero presocratico è stata combattuta da un sapere enciclopedico disordinato che pretendeva di spiegare e ordinare la natura e la condotta umana in tutti i loro aspetti. Socrate ha risposto a tali eccessi – all’hubris sofista – invitando alla conoscenza di sé, come dire al riconoscimento dei limiti del proprio sapere. Platone, suo discepolo, ha cercato di chiudere la questione suggerendo una serie di regole razionali per codificare la vita sociale, finendo così in una teoria dialettica dello Stato insopportabile per il nostro erudito greco-latinista. Per Platone gli individui raggiungevano la loro realizzazione in uno Stato perfetto, dove tutti svolgerebbero alla lettera una funzione fissata in anticipo. Agustín non poteva essere maggiormente in disaccordo con l’aberrazione per cui le persone e le cose si conformerebbero gradualmente a schemi normativi al punto di sembrare idee. Le idee erano il fondamento del Potere, entità esteriori e opposte al popolo; non c’è Potere senza un’ideologia che lo giustifichi.

Nel suo opuscolo Cos’è lo Stato?, leggiamo dunque che egli qualifica lo Stato di idea dominante, “pronta a essere utilizzata come arma”, contemporaneamente ingannevole e reale. Menzognera in quanto essa ingloba un mucchio di concetti incompatibili tra loro come, per esempio, “governo” e “popolo”; la menzogna è la base della realtà politica. Reale, perché in quanto menzogna realizza un potere riconoscibile che si esercita contro la società. Per Platone le idee costituivano il mondo davvero autentico di cui l’altro mondo, quello sensibile, non era che una brutta copia. Nel mondo platonico, lo Stato era l’ideale di organizzazione pôlitica, qualcosa di necessario per elevare il popolo informe e inestimabile al rango di “Uomo”, di “Cittadino”, di “Soggetto” e altre idee ancora – che Agustín scriveva sempre con la maiuscola – con le quali rimodellare l’essere popolare indefinibile e comporre la “Realtà”, cioè quel che lo Stato e i suoi media presentano come tale. La riflessione anti ideologica agustiniana consisterà, appunto, nel disfare una mistificazione talmente grande e mostrare che dietro l’astrazione statale non c’è che rinuncia, sottomissione, lavoro, rassegnazione e morte.

Il ragionamento agustiniano rivela l”evidenza dell’essenza totalitaria dello Stato, dato che la sua realizzazione perfetta come organizzazione politica concreta non è possibile se non costituendo uno spazio chiuso misurabile, un Tutto quantificato. Quando questo appare, il popolo – definito in negativo come “ciò che non è governo” – si annulla. Agustín segnala poi la relazione intrinseca tra lo Stato e il Capitale, per concludere finalmente che ogni Stato è capitalista poiché ogni ricchezza sotto il suo dominio prende la forma di Denaro e, in conseguenza, di Tempo, “la vera moneta del Capitale”. Con un esempio di Fede come il Credito, lo Stato si confonde con l’organizzazione religiosa, con Dio, altro progetto totalitario. Il fatto che entrambi, Stato e Capitale, abbiano bisogno di un pubblico credente, è la prova che non sono altro che “le epifanie – politica ed economica – di Dio stesso”. La libertà e il godimento della vita saranno possibili soltanto fuori portata da tutte queste astrazioni schiavizzanti. Questo dato è un punto di contatto con un altro nemico dello Stato la cui critica partiva da posizioni così lontane da Eraclito quanto lo è la filosofia idealista tedesca; si tratta di Bakunin, per cui l’idea generale era sempre “un’astrazione e dunque, in qualche modo, una negazione della vita reale”. Nell’intento di dimostrare che lo Stato moderno è l’istituzione più adeguata per il Potere – o per la megamacchina, come direbbe Mumford –, Agustín fa ricorso a esempi storici di altri tentativi unitari, come gli Imperi, falliti per il fatto di non avere avuto frontiere definite, un’unica lingua ufficiale costruita per mezzo di una combinazione arbitraria di varietà dialettali e una cultura nazionale normalizzata, cioè un’ideologia patriottica – un’idea di Popolo – giustificata dalla Scienza e dal Diritto molto meglio che dalla Religione. Ancora un punto comune con la messa in guardia bakuninista contro il governo degli uomini di scienza. A questo punto, diventa necessario prendere posizione di fronte ai regionalismi e separatismi attuali che Agustín recepisce come tentativi di costituire dei nuovi Stati – piccole Spagne – in tutto simili agli Stati originari e conseguentemente, capitalisti e totalitari anche se su scala minore.

Una necessità essenziale per la costituzione dello Stato è quella del Centro, della Capitale, dove si dirigono le operazioni di sorveglianza e di unificazione, soprattutto linguistica. Come lo ricorda da qualche parte Agustín, la normalizzazione non è altro che la prigione in cui si mettono le parole per assicurarsi della Fede nella Realtà. In effetti, l’importanza della fabbricazione della lingua a partire dall’alto è enorme, dato che un popolo che ubbidisce a una norma fissata per sempre in qualcosa di fondamentale come la lingua, non è più popolo e uno Stato che non possiede un gergo proprio – una lingua ufficiale – propagata dalle scuole e dai mass media, non può sviluppare una burocrazia capace di irreggimentare la vita dei cittadini nel minimo dettaglio. Teniamo conto che senza una burocrazia non c’è Stato che tenga. Niente deve sfuggire al controllo, alla misura, insomma, alla definizione. Agustín conclude il suo intervento sull’idea metafisica di Stato confessando che la sua principale intenzione era di smontare l’ideologia statale “parte necessaria della sua Realtà”, affinché quel che resta del popolo vivente diriga la sua azione contro l’Ordine reale, in particolare le donne perché nel femminile risiede la scandalosa verità che sale dal basso: “la paura del vostro amore disordinato fu il cemento e l’inizio di quest’Ordine dei Padri e delle Patrie”.

 

Miguel Amorós, 9 Aprile 2021, traduzione della revisione in spagnolo dell’edizione francese de l’Atelier de création libertaire, Qu’est-ce que l’État? [Cos’è lo Stato?].


 

La casa de Dios

 

Agustín García Calvo es un pensador subversivo verdaderamente original. Causa todavía estupor entre los militantes el hecho de que su reflexión no parta de la Revolución Francesa, o de las comunas medievales, o incluso de la guerra civil española, de todo lo cual sabía poco, sino de mucho más atrás, del mundo griego, que conocía al dedillo. Más concretamente,  del momento en que el legado del pensamiento presocrático era combatido por un saber enciclopédico desordenado que pretendía explicar y ordenar la naturaleza y la conducta humana en todos sus aspectos. Sócrates, respondió a tales excesos -a la hybris sofista-  apelando al autoconocimiento, es decir, al reconocimiento de las limitaciones del saber propio. Platón, su discípulo, intentó cerrar el asunto mediante la sugerencia de un conjunto de reglas racionales con las que codificar la vida de social; así dio con una teoría dialéctica del Estado que soliviantó a nuestro erudito greco-latinista. Para Platón, los individuos alcanzaban su plenitud en un Estado perfecto, donde todos cumpliesen a rajatabla una función fijada de antemano. No podía estar Agustín más en desacuerdo con la aberración de que las personas y las cosas se fueran conformando en moldes reglamentarios hasta parecerse a ideas. Las ideas eran el fundamento del Poder, entidad exterior y opuesta al pueblo; no había Poder sin ideología que lo justificara. Y así leemos que en su opúsculo ¿Qué es el Estado? califica al Estado como idea dominante “dispuesta a usarse como arma”, a la vez mentirosa y real. Mentirosa en cuanto que abarca un montón de conceptos incompatibles como, por ejemplo, “gobierno” y “pueblo”; la mentira es la base de la realidad política. Real, por desempeñar en tanto que mentira un poder reconocible que ejerce contra la sociedad. Para Platón, las ideas constituían el mundo verdaderamente auténtico, del que el otro, el sensible, era una mala copia. En el mundo platónico, el Estado era el ideal de organización política, algo necesario para elevar el pueblo informe e inaprensible a la categoría de “Hombre”, “Ciudadano” o “Súbdito”, otras tantas ideas -que Agustín escribe siempre con mayúsculas- con que remodelar al indefinible ser popular y componer la “Realidad”, es decir, lo que el Estado y sus medios presentan como tal. Pues bien, la reflexión anti-ideológica agustiniana, consistirá en deshacer tamaña mistificación y mostrar que detrás de la abstracción estatista no hay más que renuncia, sumisión, trabajo, resignación y muerte.

El razonamiento agustiniano revela la evidencia de la esencia totalitaria del Estado, puesto que su realización perfecta como organización política concreta solo es posible si constituye un espacio cerrado mensurable, un Todo cuantificado. Cuando este aparece, el pueblo –que define en negativo como “lo que no es gobierno”- se anula. Sigue después señalando la relación intrínseca entre el Estado y el Capital, para terminar concluyendo que todo Estado es capitalista, puesto que toda la riqueza bajo su dominio toma forma de Dinero, y, por consiguiente, de Tiempo, “la verdadera moneda del Capital”. Mediante un ejemplo de Fe como es el Crédito, el Estado se confunde con la organización religiosa, con Dios, otro proyecto totalitario. El hecho de que ambos, Estado y Capital, necesiten de un público creyente, es la prueba de que no son más que “las epifanías política y económica de Dios mismo.” La libertad y el disfrute de la vida solamente serán posibles fuera del alcance de todas esas abstracciones esclavizadoras. Hete aquí un punto de contacto con otro enemigo del Estado cuya crítica partía de posiciones tan alejadas de Heráclito como la filosofía idealista alemana; hablamos de Bakunin, para el cual “la idea general” era siempre “una abstracción, y por eso mismo, en cierto modo, una negación de la vida real.” Con el fin de demostrar que el Estado moderno es la institución más adecuada para el Poder -o para la “megamáquina” como diría Mumford- Agustín recurre a ejemplos históricos de fracasos de otras tentativas unitarias como fueron los Imperios por no contar con fronteras definidas, una única lengua oficial construida mediante una combinación arbitraria de variedades dialectales, y una cultura nacional tipificada, o sea, una ideología patriótica –una idea de Pueblo- que se justificara con la Ciencia y el Derecho, mejor que con la Religión. De nuevo, una coincidencia con la advertencia bakuniniana contra el gobierno de los hombres de ciencia. Llegados a ese punto, es obligado tomar posición frente a los regionalismos y separatismos actuales, que Agustín contempla como intentos de constituir nuevos Estados –españitas- en todo semejantes a los originales y , por lo tanto, capitalistas y totalitarios aunque fuese a menor escala.

Necesidad esencial para la constitución del Estado es la del Centro, la capital, desde donde se dirigen las operaciones de vigilancia y unificación, sobre todo lingüística. Como recordó Agustín en alguna parte, la normalización no es más que la cárcel donde se mete a las palabras para asegurar la Fe en la Realidad. En efecto, la importancia de la fabricación desde arriba de la lengua es enorme, pues un pueblo que acata una norma fija para siempre en algo tan fundamental como el habla, ya no es pueblo, y un Estado que no posea una jerga propia –una lengua oficial- difundida en las Escuelas y los Medios, no puede desarrollar una burocracia capaz de ordenar la vida de los ciudadanos en todo detalle. Tengamos en cuenta que sin burocracia no hay Estado que valga. Nada ha de haber que escape al control, a la medida, y en suma, a la definición. Agustín termina su exposición acerca de la idea metafísica de Estado confesando que su intención primera era desmontar la ideología estatal, “parte necesaria de su Realidad”, a fin de que lo que quedara de pueblo vivo orientara su actitud contra el Orden real, especialmente las mujeres, pues en lo femenino radica la escandalosa verdad de abajo: “el miedo a vuestro amor desordenado fue el cimiento y el comienzo de este Orden de los Padres y las Patrias.”

 

 

Miguel Amorós, 9 de abril de 2021, reseña de la edición francesa de l’Atelier de création libertaire, Qu’est-ce que l’État?


 

La maison de Dieu

 

Agustín García Calvo, Qu’est-ce que l’État ? Traduit de l’espagnol par Manuel Martinez et Marjolaine François, Atelier de création libertaire, 2021

Agustín García Calvo est un penseur subversif véritablement original. Ce qui, dans sa réflexion, provoque encore un grand étonnement parmi les militants, c’est qu’elle ne parte pas de la Révolution française, ni des communes médiévales, ni même de la guerre civile espagnole, choses dont il n’était pas fin connaisseur, mais de bien plus loin, du monde grec, qu’il connaissait sur le bout des doigts. Plus concrètement, de ce moment où l’héritage de la pensée présocratique était combattu par un savoir encyclopédique désordonné qui prétendait expliquer et ordonner la nature et la conduite humaine dans tous leurs aspects. Platon tenta de clore l’affaire en suggérant un ensemble de règles rationnelles pour codifier la vie sociale ; il aboutit ainsi à une théorie dialectique de l’État qui scandalisa notre gréco-latiniste érudit. Pour Platon, les individus atteignaient leur plénitude dans un État parfait, où tous accompliraient au pied de la lettre une fonction fixée au préalable. Agustín ne pouvait pas être plus en désaccord avec l’aberration d’après laquelle les personnes et les choses se conformeraient peu à peu à des moules réglementaires jusqu’à ressembler à des idées. Les idées étaient le fondement du Pouvoir ; il n’y avait pas de Pouvoir sans idéologie. Et ainsi nous lisons dans son opuscule Qu’est-ce que l’État ? qu’il qualifie l’État d’idée dominante « prête à être utilisée comme arme », à la fois mensongère et réelle. Mensongère en tant qu’elle englobe un tas de concepts incompatibles entre eux comme, par exemple, « gouvernement » et « peuple » ; le mensonge est la base de la réalité politique. Réelle, du fait d’accomplir en tant que mensonge un pouvoir reconnaissable qui s’exerce contre la société. Pour Platon, les idées constituaient le monde véritablement authentique, dont l’autre monde, le monde sensible, n’était qu’une mauvaise copie. Dans ce monde platonique, l’État était l’idéal d’organisation politique, quelque chose de nécessaire pour élever le peuple informe et inestimable au rang d’« Homme », de « Citoyen » ou de « Sujet », d’autres idées encore  qu’Agustín écrivait toujours avec une majuscule – avec lesquelles remodeler l’indéfinissable être populaire et composer la « Réalité », c’est-à-dire ce que l’État et ses médias présentent comme telle. Or, la réflexion anti-idéologique agustinienne consistera à défaire une si grande mystification et à montrer que derrière l’abstraction étatiste il n’y a que renoncement, soumission, travail, résignation et mort.

Le raisonnement agustinien révèle l’évidence de l’essence totalitaire de l’État, étant donné que sa réalisation parfaite comme organisation politique concrète n’est possible que s’il constitue un espace fermé mesurable, un Tout quantifié. Quand celui-ci apparaît, le peuple  défini en négatif comme « ce qui n’est pas gouvernement » – s’annule. Agustín signale ensuite la relation intrinsèque entre l’État et le Capital, pour conclure finalement que tout État est capitaliste, puisque que toute richesse sous sa domination prend la forme d’Argent, et, par conséquent, de Temps, « la véritable monnaie du Capital ». Avec un exemple de Foi comme l’est le Crédit, l’État se confond avec l’organisation religieuse, avec Dieu, autre projet totalitaire. Le fait que tous deux, État et Capital, aient besoin d’un public croyant, est la preuve qu’ils ne sont que « les épiphanies politique et économique de Dieu lui-même ». La liberté et la jouissance de la vie seront seulement possibles hors de la portée de toutes ces abstractions civilisatrices. Là se trouve un point de contact avec un autre ennemi de l’État dont la critique partait de positions aussi éloignées d’Héraclite que l’est la philosophie idéaliste allemande ; nous parlons de Bakounine, pour qui l’idée générale était toujours « une abstraction, et, par cela même, en quelque sorte, une négation de la vie réelle ». Dans l’intention de démontrer que l’État moderne est l’institution la plus adéquate pour le Pouvoir, Agustín a recours à des exemples historiques d’échecs d’autres tentatives unitaires comme le furent les Empires, du fait de n’avoir pas disposé de frontières définies, d’une unique langue officielle construite par le biais d’une combinaison arbitraire de variétés dialectales, et d’une culture nationale normalisée, autrement dit d’une idéologie patriotique  une idée de Peuple – justifiée par la Science et le Droit, bien mieux que par la Religion. Voilà un nouveau point commun avec la mise en garde bakouninienne contre le gouvernement des hommes de science. Parvenus à ce point, il devient nécessaire de prendre position face aux régionalismes et séparatismes actuels, qu’Agustín perçoit comme des tentatives de constituer de nouveaux États  petites Espagnes  en tout point semblables aux États originaux et, par conséquent, capitalistes et totalitaires bien qu’à moindre échelle.

Une nécessité essentielle pour la constitution de l’État est celle du Centre, de la Capitale, d’où sont dirigées les opérations de surveillance et d’unification, surtout linguistique. Comme le rappelle Agustín quelque part, la normalisation n’est que la prison où l’on met les mots afin d’assurer la foi en la Réalité. En effet, l’importance de la fabrication de la langue à partir d’en haut est énorme, étant donné qu’un peuple qui obéit à une norme fixée pour toujours dans quelque chose d’aussi fondamental que la langue, n’est plus peuple, et un État qui ne possède pas un jargon propre  une langue officielle  propagé par les Écoles et les Médias, ne peut développer une bureaucratie capable d’ordonner la vie des citoyens dans le moindre détail. Prenons en compte que sans bureaucratie il n’y a pas d’État qui tienne. Rien ne doit échapper au contrôle, à la mesure, et en somme, à la définition. Agustín termine son exposé à propos de l’idée métaphysique d’État, en avouant que son intention première était de démonter l’idéologie étatique, « part nécessaire de sa Réalité », afin que ce qui reste de peuple vivant dirige son comportement contre l’Ordre réel, les femmes en particulier, puisque dans le féminin réside la scandaleuse vérité d’en bas : « la peur de votre amour désordonné fut le ciment et le commencement de cet Ordre des Pères et des Patries ».

 

Miguel Amorós, le 9 avril 2021