sabato 28 luglio 2012

IL CREPUSCOLO DEGLI SGHEI (Money get back)



Già da ragazzo attraversare Cornigliano per andare nel centro di Genova significava immergersi in un'atmosfera nebbiosa e dai colori improbabili mentre sotto una cappa di piombo odori marcescenti inondavano l'aria.
La coscienza ambientale era allora ancora addormentata mentre quella operaia si stava definitivamente piegando all'addomesticamento produttivista.
Mezzo secolo dopo, la pedagogia planetaria di un capitalismo altrettanto arrogante che stupido ha prodotto i suoi risultati e i primi che dovrebbero battersi per chiudere le fabbriche in cui si ammalano e fanno ammalare e dove lavorano poco, pagati peggio, difendono invece la continuità del mostro che ne sfrutta le povere vite. Hanno il mutuo da pagare, la famiglia da mantenere e a un primo approccio, come non essere solidali con cotanta tragedia umana?
Poi mi dico che nell'abbondanza inquinata del mostro produttivista a meno di essere totalmente addomesticati, isolati e incapaci di lottare non si può più morire di fame, piuttosto di noia, di cancro e di stress in una vita inquinata e ridotta a spettacolo. Poi mi ricordo quei compagni di avventura dell'Italsider, dell'Ansaldo, delle facoltà di Lettere o di medicina o di altrove già capaci mezzo secolo fa di mettere in discussione il ruolo operaio e il produttivismo in nome di una vita umana degna di questo nome. "Non lavorate mai" si cantava giocando a ping pong nelle fabbriche.
Sacrilegio!
Oltre e contro le ideologie di una sinistra asservita al capitalismo (che importa se liberale o di Stato) come a una seconda natura umana sono emerse le coscienze pratiche di operai e studenti uniti per trasformare un mondo invivibile in una società umana. L'illuminismo di quelle avanguardie di un'aristocrazia operaia e sociale sosteneva un'utopia che il buon senso dei sottomessi si rifiuta ancor oggi d'intendere di fronte al disastro di un paese corrotto e vampirizzato. Eppure quegli elogiatori di una pigrizia solidale con l'emancipazione operaia hanno anticipato di mezzo secolo l'unica prospettiva di salvezza ormai rimasta agli umani: abolizione del modo di produzione capitalista e trasformazione del produttivismo in un'autogestione generalizzata della vita quotidiana che faccia della decrescita piacevole un punto d'inversione della prospettiva sociale. Autocostruzione e produzione funzionale alle esigenze umane e non al mercato e agli Stati canaglia. Fine del profitto in nome dell'economia antiutilitarista.
Il capitalismo stesso sta dimostrando che la civiltà del lavoro salariato è un ancien régime in via d’estinzione e che la salvezza passerà per una reinvenzione del sociale e per la redistribuzione equa delle ricchezze sottratte all'ingordigia senza limiti delle caste dei privilegiati affaristi.
Un secolo d'illuminismo ha preceduto 1789.
Quanto ci resta per arrivare al nodo storico in cui abolire il capitalismo prima dell'estinzione della specie?
Sergio Ghirardi


Caro Jacopo,

Taranto: la diossina e la disoccupazioneuccidono

che lo zelante burocrate addetto alla premoderazione ha deciso di censurare.
Ti invio il riferimento per poterlo leggere e valutare se come credo una tale censura non funzioni gravemente da recupero autoritario di ogni pensiero critico alla logica dominante. La stessa cosa capita spesso ed era già arrivata nel blog della Collevecchio sul tema dell'amore. E guarda caso ogni volta che il mio pensiero critico mette in discussionre il manicheismo su cui funziona l'addomesticamento capitalistico di destra e di sinistra. Spero che come Lei ti attiverai per far riemergere il censurato non tanto perché importante in se, ma perché è importante che il pensiero critico sia messo in grado di riaprire i giochi troppo volgarmente truccati dal conformismo bigotto.
Ho fiducia nella tua onestà intellettuale e se anche questo terribile commento sarà cancellato, ti scriverò direttamente visto che il nostro contatto diretto ha già funzionato in passato. Preferisco però, ovviamente, che questa mia denuncia passi alla luce del sole di un'agora virtuale così importante e così malmenata. 
saluti    Sergio


Seguito delle peripezie di un’agora virtuale in pessima salute

Un terzo mio commento è stato rimosso e dunque censurato. Non l’ho registrato, ma vi denunciavo brevemente e tranquillamente il razzismo e il becerismo insito nel definire radical chic chiunque critichi la retorica operaista.
Intanto i tifosi del masochismo operaio imperversano invece impunemente a cavallo dell’asino dei loro stupidi clichè.
La risposta seguente di un anonimo coglione al mio terzo commento censurato e rimosso(non so come abbia potuto leggerlo e commentarlo, mistero) è stato (e tanto meglio!) pubblicato:
Molto più disgustoso il clichè dell'operaio ignorante, fatto proprio da chi dovrebbe in qualche modo capirli. A meno che non si arrivi a un'amara conclusione, che i clichè (inclusi i radical chic con il cocktail in mano) sono in fondo veri.
Ho chiuso allora, ben conscio del potere miserabile della censura, denunciando il moderatore a se stesso ma risulta evidente che così non si può più continuare: l’agora sta morendo soffocata dalla burocrazia e dall’autoritarismo idiota di moderatori sprovvisti di moderazione.
Mi stupirebbe che questo mio ultimo commento sia messo in circolazione, ma c’è da tener conto che il confusionismo coatto è spesso imprevedibile:

La preignoranza del premoderatore impedisce ogni chiarimento mentre i luoghi comuni circolano liberamente in un'orgia pubblicitaria di retorica operaista e di razzismo piccoloborghese.
Rimuovere, rimuovere che non si sappia nulla di queste indecenti critiche!!!!

THE END

venerdì 27 luglio 2012

A TARANTO COME A FUKUSHIMA



L'Ilva di Taranto è esemplare della decadenza della civiltà del lavoro e del suo sfruttamento capitalistico in fase terminale.
Il suo equivalente di Genova Cornigliano dava già negli anni settanta un colore rossastro e marziano al tramonto programmato della centralità operaia, ma oggi gli schiavi di un'esistenza acquistata a rate non distinguono definitivamente più la vita dalla sopravvivenza e si limitano sempre e solo a scegliere tra due forme di morte.
Dalla parte della vita c'è il rifiuto del ruolo operaio e dello sfruttamento del lavoro ma per prendere questa direzione ci vuole la pratica di una coscienza radicale che il consumismo e l'idiotizzazione pubblicitaria hanno sommerso sotto tonnellate di spazzatura ideologica di destra e di sinistra.
Siamo decisamente a una svolta della storia: da una parte l'uomo e la natura, dall'altra l'uomo snaturato e i suoi carnefici, negazionisti di ogni inquinamento industriale e affaristi pronti a ogni crimine contro l'umanità.


Sergio Ghirardi

giovedì 19 luglio 2012

Né tribuni, né eroi

Per una coscienza sacrilega
Siete realisti? Siete pronti a diventarlo? In caso affermativo, ci si prenderà cura di voi. L’avvenire si degnerà di sorridervi. Qualsiasi cosa facciate e con qualsiasi spirito la facciate, vi rimarrà sempre una faccia di ricambio, una porta ancora praticabile, parole sottili o eroiche per restare a galla in caso di naufragio, buone possibilità di essere un giorno — sempre che i vostri intrighi siano all’altezza delle vostre ambizioni! — al soldo di una delle tre casse del destino: gloria, denaro, potere. O di tutte e tre assieme, se sarete abbastanza abili da fingere di non dare importanza a nessuno di questi tre temibili strumenti di dominio. Così fanno infatti alcuni grandi asceti della nostra epoca i quali, tuttavia, quando sono certi di aver convinto tutti della loro elevata integrità morale, non resistono alla tentazione di farsi ricamare un piccolo fregio qua, una grossa infiorettatura là. Notate che, anche se beccato in flagrante delitto di gallonatura, un realista dell’ascetismo darà del suo atto mille giustificazioni plausibili, plausibili se si collocano appunto su di un particolare piano: quello dell’utilità immediata e dell’interesse tattico. La forza, l’immensa forza dei realisti deriva dal fatto che ignorano il flagrante delitto. Quale presa potrebbe mai avere su persone talmente immerse in quel che chiamano reale, che nessuna ovvietà potrà mai confondere?...
Se viceversa non intendete cedere alla triplice tentazione che la gloria, il denaro e il potere esercitano a vantaggio del realismo politico, preparatevi a passare per un instancabile agitatore di astrazioni. Secondo l’opinione generale, siete senza contatto con la vita, senza conoscenza delle gioie e delle sofferenze degli uomini, votati allo sterile ambito della teoria. In un mondo abituato ormai a trafficare con la stessa lena coi valori dello spirito e coi prodotti manufatti, una sfumatura di crescente disprezzo macchia il termine stesso di teoria. Immediatamente, eccovi sulla difensiva. Dovete cominciare col provare che non mancate né di cuore né di viscere a persone che di mestiere organizzano le emozioni altrui. E, data la dimostrazione, resterete loro sospetti come prima qualora non reagiate agli ottoni delle loro fanfare. Dal momento che si perfeziona la civiltà del ricatto e della contraffazione, ogni teoria degna di questo nome si presenta come un’insopportabile sfida all’agilità di spirito degli uni e alla capacità di acrobazie degli altri. A questo proposito è edificante vedere i superstiti di una ortodossia che, ai suoi albori, faceva sfoggio d’un rigore più poliziesco che intellettuale, fraternizzare oggi coi dilettanti di espedienti e coi professionisti dell’improvvisazione politica, in un’avversione comune per ogni attività critica dello spirito, per non parlare poi della fedeltà a qualcosa di tanto vano come i princìpi.
Dalla più implacabile ortodossia alle manipolazioni politiche meno scrupolose, il passaggio si è rivelato ben agevole da superare. Ma, se l’ortodossia ha potuto condurre nella lotta quotidiana a pratiche così aberranti, non è che alcune coscienze partigiane — sostituendo la cultura delle idee con il loro culto puro e semplice, cioè sostituendo le normali pratiche della ragione con un rito più o meno intangibile — hanno imparato a sbarazzarsi a buon mercato, prima di ogni conflitto di interpretazione, poi di ogni questione pregiudiziale relativa alla scelta d’azione da condurre e all’atteggiamento da assumere? Un difensore di questo genere di ortodossia, talmente disponibile a scendere in basso, riassumeva per me con parole toccanti che mi affretto a trascrivere qui la regola aurea del suo comportamento: «È proprio perché abbiamo princìpi fortemente stabiliti, che possiamo permetterci tutto!». Lo si tenga a mente. Questa non è una battuta da liquidare con un’alzata di spalle. È l’espressione sincera e limpida di uno stato d’animo assai diffuso, che consiste nel trasformare dei valori vivi e mutevoli in valori emblematici, nel dedicare loro devozioni rituali, nel considerarli non insudiciabili dai compromessi realisti del momento, sopra cui volteggiano molto in alto.
Singolare impresa quella che si ostina a salvare l’ideale dandogli ali di fango! Chiunque sia portato ad aderire a questa concezione di vita politica, dovrà autoregolarsi due coscienze distinte e non comunicanti, una che abbia cura di preservare nella loro pretesa purezza i princìpi permanenti e la visione dello scopo finale, l’altra che estenda il suo benevolo controllo alle minute fornicazioni quotidiane. Che per di più questa continua dissociazione, questo perenne divorzio fra le attività immediate e il mondo dei princìpi sovrani, possa passare per l’espressione finale dello spirito di sintesi, ecco ciò che permette di misurare le possibilità di mistificazione di cui l’intelligenza è al tempo stesso complice e vittima.
Disprezzo — prima sapientemente suggerito, poi spontaneo e quasi unanime — nei confronti di qualsiasi idea preoccupata di ricercare altro dalle opportunità di negarsi o di alienarsi, sottomissione di ogni pensiero alla prima realtà pervenuta, riduzione arbitraria ad uno stesso contenuto di nozioni talmente poco sovrapponibili le une alle altre che dogmatismo e ideologia, ortodossia e demagogia, sono i segni della spaventosa confusione che si aggrava e si complica senza sosta, che prende gli uomini alla testa per meglio convincerli a concedersi da soli, spontaneamente, col sorriso sulle labbra, da veri cittadini quali sono, ad una qualsiasi delle tirannie di moda.
È a forza di giocare con le parole, di abusare dell’elasticità di linguaggio, che si è potuto giungere all’attuale stato di disfacimento in cui una cosa, un uomo, un’idea riescono ad essere nello stesso tempo o successivamente sia se stessi che il loro contrario. Quante volte abbiamo sentito il motto di quel luogotenente di Hitler che, allorché sentiva parlare di cultura o di intelligenza, brandiva la sua rivoltella. Ahimé, perché mai altre parole gradite dal vocabolario politico e sociale degli uomini non possono beneficiare di significati così netti? Perfino la parola «pace», avendo da tempo cessato di essere rassicurante, evoca segreti terrori ed emette un tale tanfo di catastrofe. Nell’attesa che, secondo il suggerimento di qualcuno, sia costituito un «ministero del significato delle parole», è importante ridare una chiara e precisa sostanza ai termini più corrotti, più avviliti da un utilizzo cieco.
Una teoria non è un catechismo. È un nucleo di idee indicatrici, eccitatrici, che orientano lo spirito ma che soprattutto lo incitano a pensare, a prendere — sviluppando fruttuosamente quegli elementi di partenza — coscienza della sua libertà.
Una teoria afferra il pensiero con un certo messaggio ma, lungi dall’imbrigliarne il movimento naturale, non ne compromette nemmeno per un attimo la preziosa autonomia. Ogni messaggio complementare è il benvenuto. Ogni contributo originale del pensiero afferrato assicura lo sviluppo necessario e continuo del messaggio teorico. Un’idea deve essere pensata da tutti, non da uno. È qui che la lotta contro le idee ricevute — contro la docile riproduzione di formule prestabilite da milioni di sudditi addomesticati — deve innalzarsi al suo apice. È qui che alla sottrazione del libero arbitrio individuale da parte dei mille inganni della suggestione o delle mille minacce della violenza di Stato, si deve contrapporre la partecipazione consapevole di ciascuno allo sviluppo dei valori teorici. Se deploriamo lo stato di abbandono e di scadimento in cui sono cadute le teorie del secolo, è perché vi vediamo un grave arretramento della libertà nella sua forma più elevata e creatrice. Una società che presentasse solo fornitori di idee — in numero limitato e in distribuzione controllata — e consumatori di idee in stato di passività quasi ipnotica — una società in cui gli scambi intellettuali si riconducessero a preparati di laboratorio da una parte e a rituali manifestazioni di adesione e di entusiasmo plebiscitario dall’altra, una società simile non sarebbe, dietro un’apparenza forse più indulgente, né più né meno mostruosa dell’organizzazione hitleriana della servitù.
Contrariamente alle dottrine, che hanno lo scopo di cristallizzare — dunque di fissare — l’opinione attorno al loro insegnamento, esso stesso consolidato e ossificato, ogni teoria si accompagna ad un appello implicito al proprio superamento. A questo proposito, non esiste miglior addestramento per lo spirito di quello che consiste nell’attaccare le convinzioni-limite, nello spostare continuamente il proprio campo visivo. Per secoli e secoli, lo spirito ha provato il sinistro bisogno di trincerarsi dietro infinite serie di linee fortificate, ciascuna delle quali ha costituito, nella sua epoca, la linea della più grande ignoranza. L’umanità ha vissuto finora quasi unicamente sotto l’imperio della ragione utilitarista, cioè in ginocchio. E ogni volta che sopraggiungeva un fremito di follia per accordare all’uomo una parte crescente di libertà, le forze della regressione non tardavano a riconquistare il terreno perduto, a canalizzare gli slanci liberatori, a costruire nuovi altari o a modernizzare vecchi idoli, in poche parole a rinchiudere le acquisizioni del genio umano in un sistema di disciplina rituale in cui non fanno che sanzionare con il loro prestigio l’incessante ritorno all’oppressione. Permane così fra l’uomo e la libertà un vero e proprio supplizio di Tantalo, con la libertà che si tira indietro nel momento stesso in cui tutto concorre al suo trionfo cedendo il posto a qualche tirannico edificio sulla cui facciata brillerà comunque il suo nome come una falsa etichetta su un articolo di contrabbando.
La lotta anti-teorica mira solo a disarmare l’intelligenza, a spogliarla della sua funzione critica, ad abituarla al rispetto di verità gerarchicamente fissate e valide fino a nuovo ordine. Col pretesto di farla finita con le speculazioni arbitrarie, andiamo verso dogmi elementari, verso spaventosi catechismi sociali in cui le parole più esaltanti saranno piegate a colpi di manganello.
L’ideale dei realisti sarebbe quello di confinare l’intelligenza in una sorta di Gazzetta ufficiale. Forse che si discute la Gazzetta ufficiale? Vi si apprendono i decreti del giorno. Mentre nelle piazze e sulle strade, alcune attrazioni ben scelte argineranno l’eccitazione favorevole delle masse (chi può contestare che le sfilate sulla piazza Rossa abbiano contribuito alla solidità del regime stalinista?). Così vengono dati in pasto il cuore e le emozioni dai realisti... Il giorno in cui gli uomini diserteranno le sfilate e i mausolei, magari i realisti li rimprovereranno di aver perso il proprio cuore, mentre essi non avranno fatto che preservarne i battiti per un uso migliore.
Il realismo politico si basa su due formule che si completano solo in apparenza. «Tutti i mezzi sono buoni», ci informano i realisti. E aggiungono un attimo dopo: «Bisogna sapersi adattare alle circostanze». L’antinomia che rende queste due massime non associabili non può catturare a lungo l’attenzione dei realisti. Per costoro non vi sono antinomie definitive, così come non esistono antagonismi irriducibili. A loro importa solo sviluppare a partire da certi aforismi primari una filosofia del camuffamento destinata a procurar loro la più comoda libertà di manovra. Al massimo si potrebbe concepire che dicessero: «Tutti i mezzi sono buoni per adattare le circostanze». Ma adattare le circostanze, al posto di adattarvisi, implica una volontà di cambiare il reale, di travolgere l’ostacolo e non di lasciarsi modellare da esso.
I realisti hanno paura dell’ignoto. Il loro compito non è quello di cambiare il reale, ma di gestirlo. Dove potrebbero trovarsi più a loro agio, se non in una realtà cordiale e familiare che li ricompensi con ogni tipo di successo per la stabilità che essa deve a loro? Alla fine, potrebbe non essere più tanto facile distinguere, fra il reale o il realista, chi abbia alimentato l’altro. Ma, se interviene qualche cambiamento radicale, tutto ridiventa chiaro. È allora che «tutti i mezzi sono buoni» per soprassedere a questo cambiamento, per dimostrarne l’inutilità e, in ultima analisi, per schiacciarne i fautori. Rimettere ad un realista il compito di cambiare le cose è come incaricare un inserviente del circo di districare la giungla.
No, non tutti i mezzi sono buoni! Ci sono certi mezzi, proprio quelli più ricercati dai realisti, che sono buoni solo a falsare il corso degli eventi e ad introdurre nei progetti d’azione tracciati una tale deviazione, di solito sufficiente a tenere in scacco le forze accorse inutilmente al bivio. Proprio come quelle piaghe che evitano la cicatrizzazione, gli angoli aperti dalle «deviazioni realiste» diventano ben difficili da richiudere. Tanto più che il realismo consiste nell’installarsi nella deviazione e nel considerarla non come uno stadio intermedio, ma come uno stadio finale, una situazione in sé. Una situazione che i non-realisti dovranno decidersi a recidere.

Quando dei politici che hanno sempre vissuto di espedienti sostengono di lasciar libero corso alle volontà popolari, possiamo stare certi che questo ricorso al popolo costituisce solo un espediente in più del loro gioco. D’altronde, di regola questi politici si appellano al popolo solo quando sono minacciati di venire sloggiati da un banda rivale, più abile e più ricca di espedienti. Non di rado è stata posta la questione di sapere se le masse abbiano qualche interesse a rispondere a tali occasionali e interessati appelli. Giacché nelle fila dei lavoratori si trovano pressappoco altrettanti professori di realismo che nel campo avverso. È bello vedere questi Machiavelli in berretto mettere delicatamente a punto le alleanze più scabrose, le riconciliazioni più desolanti, gli innesti politici meno raccomandabili. In questo ricorso all’adulterazione politica si comincia con l’ingannare il proprio ideale col vicino dirimpettaio, poi si finisce col condividere qualsiasi giaciglio con qualsiasi partner.
Le masse hanno in sé le proprie risorse e i propri strumenti di lotta. Non hanno bisogno di subaffittare dei professionisti già consumati al servizio altrui per realizzare la propria opera. Non devono nemmeno prestare le proprie energie a imprese di riciclaggio di politici e partiti entrambi marci, i primi dall’illimitata pratica dell’intrigo, i secondi dall’illimitata pratica del compromesso.
Quando le masse si sentono invitare all’azione da personaggi e gruppi che devono la propria sopravvivenza solo all’inazione delle masse, è bene che avvertano alcuni motivi di preoccupazione. Perché ovviamente non può trattarsi che di una data azione canalizzata in una certa direzione. Fino ad ora i politici sono riusciti mille volte a canalizzare le masse; le masse mai a canalizzare i politici. Quelli che incitano le masse ad andare a rimorchio di questo o di quel grand’uomo, di questo o di quel partito, liberi entrambi di disporre a proprio piacimento dei “desideri popolari”, quelli che pretendono che a forza di devozione verrà permesso alle masse di influenzare le decisioni di un leader o di un partito, quelli sono in realtà strani consiglieri dalla cui bocca si può imparare solo l’arte di falsificare la storia.
Certo, le masse conservano un ruolo enorme, un ruolo supremo da svolgere. Ma un ruolo autonomo. Ogni volta che è necessario adularle dall’alto di una tribuna, le si apostrofa parlando del loro peso sulla bilancia delle forze politiche. Questo peso è reale, l’essenziale è sapere cosa lo sposta. L’azione autonoma delle masse — con ciò di cui ha bisogno quanto a romanticismo per ristabilire l’unità etica fra mezzi e fini fratturata dalle politiche realiste — deve radere al suolo il mostruoso cumulo di espedienti e di artifizi sotto cui rischiamo a lungo andare di restare seppelliti.
Adesso bisogna uscire dalla notte, ed è qui la difficoltà maggiore. Così come gli occhi si abituano all’oscurità, lo spirito si abitua all’ignoranza, l’intelligenza si abitua al progresso del feticismo, l’individuo libero si abitua alle costrizioni che i suoi padroni forgiano. Bisogna uscire dalla notte e non sarà né l’eloquenza dei tribuni, né l’eroismo dei martiri che potranno aiutarci. È reagendo contro la pretesa delle grandi entità collettive ad un’autorità assoluta (Stato, Partito, Assemblea), è facendo dell’esercizio individuale delle facoltà critiche, non un capo d’accusa in assurdi processi di sabotaggio o tradimento, bensì la condizione necessaria di una piena consapevolezza, è in questo modo e a questo prezzo che si potrà tentare una prima liberazione.
Né l’eloquenza dei tribuni, né l’eroismo dei martiri. La libera e sacrilega coscienza degli individui senza più bisogno di intercessori presso il destino.
[libera traduzione di G. Henein, Machete n. 3, Novembre 2008]
grazie a http://finimondo.org/node/864- le sottolineature sono mie
 

mercoledì 18 luglio 2012

un movimento open source, senza barriere, organizzazione, strutture per un mondo nuovo SENZA PARTITI.





Non riescono proprio a farsene una ragione: il M5s non vuole organizzarsi per diventare il loro zimbello come tutti gli altri.
Noi abbiamo da fare: cerchiamo di organizzarci come popolo per impedirgli di ammazzarci del tutto e anche per salvaguardare i beni comuni che sono anche i loro e che finora sono stati depredati dalle cricche che sostengono i partiti.
Il modello mafioso ha vinto, che sia pace all'anima di Borsellino, il potere è organizzato solo per derubare la gente che si fa un mazzo tanto per non arrivare mai a niente e per non finire rovinata, se ce la fa.
Quindi le carriere politiche non sono il motivo per cui siamo attivi come M5s, noi vogliamo cambiare il modo di agire insieme, vogliamo che sia restituita la dignità a chi se la vede portar via da ladri armati di leggi e di polizie contro qualsiasi protesta contro le prepotenze più varie.
Si stupiscono che preferiamo il nostro modo magmatico di “marciare divisi per colpire uniti” come è stato per varie battaglie, in primis quelle dei referendum. Abbiamo messo in circolo il virus della partecipazione attiva alla vita pubblica…. In un momento in cui nel mondo si cerca in ogni modo di estremizzare lo scontro per far finire tutto in un bagno di sangue. Ma come dice il movimento di Occupy, noi siamo il 99%. Il M5s è il treno che ci permette di arrivare a prenderci la vita e la libertà, sancendo un altro modo di vivere con gli altri nel mondo, all’insegna del buon senso, del rispetto e dell’intelligenza condivisa generosamente e grazie a tecnologie diffuse e autoprodotte.
L’informazione professionale è lei stessa nemica del M5s che propone invece un lavoro in rete di fonti dirette e in grado di smascherare i giochini come quello che Il Fatto continua a proporci per lamentare la mancata democrazia interna.  
Il M5s entra nelle istituzioni per cercare di impedire e controllare gli abusi in nome della legge.
Entrano dei portavoce ben consapevoli che vanno lì perché sono stati mandati da un network di persone che non perderanno di vista il lavoro che verrà fatto nei palazzi affinché fuori, nella vita vera, si possa lavorare proficuamente a sostenere buone pratiche e buone idee in grado di farci superare tutte le difficoltà, senza più farci vampirizzare dalle caste e dalle cricche di ogni sorta …. da tutti coloro che come missione hanno quella di fare i parassiti e gli aguzzini degli altri.
Il popolo ogni tanto si sveglia e adesso sembra sul punto di farlo.
Se siamo capaci di FARE LA RIVOLUZIONE SENZA GUERRA che ho in mente, sarà fantastico.

martedì 17 luglio 2012

Il programma anarchico del 1919 (Errico Malatesta)



Il programma dell'Unione Anarchica Italiana è il programma comunista anarchico rivoluzionario, che già da cinquant'anni fu sostenuto in Italia nel seno della I Internazionale sotto il nome di programma socialista, che più tardi si distinse col nome di socialista anarchico, e che poi, in seguito e per reazione alla crescente degenerazione autoritaria e parlamentare dei movimento socialista, si disse semplicemente anarchico.
1. Che cosa vogliamo
Noi crediamo che la più gran parte dei mali che affliggono gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione sociale, e che gli uomini volendo e sapendo, possono distruggerli. La società attuale è il risultato delle lotte secolari che gli uomini han combattuto tra di loro. Non comprendendo i vantaggi che potevano venire a tutti dalla cooperazione e dalla solidarietà, vedendo in ogni altro uomo (salvo al massimo i più vicini per vincoli di sangue) un concorrente ed un nemico, han cercato di accaparrare, ciascun per sé, la più grande quantità di godimenti possibili, senza curarsi degli interessi degli altri. Data la lotta, naturalmente i più forti, o i più fortunati, dovevano vincere ed in vario modo sottoporre ed opprimere i vinti. Fino a che l'uomo non fu capace di produrre di più di quello che bastava strettamente al suo mantenimento, i vincitori non potevano che fugare e massacrare i vinti ed impossessarsi degli alimenti da essi raccolti. Poi, quando con la scoperta della pastorizia e dell'agricoltura un uomo potè produrre più di ciò che gli occorreva per vivere, i vincitori trovarono più conveniente ridurre i vinti in schiavitù e farli lavorare per loro.
Più tardi, i vincitori si accorsero che era più comodo, più produttivo e più sicuro sfruttare il lavoro altrui con un altro sistema: ritenere per sé la proprietà esclusiva della terra e di tutti ì mezzi di lavoro, e lasciar nominalmente liberi gli spogliati, i quali poi non avendo mezzi di vivere, erano costretti a ricorrere ai proprietari ed a lavorare per conto loro, ai patti che essi volevano. Così, man mano, attraverso tutta una rete complicatissima di lotte di ogni specie, invasioni, guerre, ribellioni, repressioni, concessioni strappate, associazioni di vinti unitisi per la difesa, e di vincitori unitisi per l'offesa, si è giunti allo stato attuale della società in cui alcuni detengono ereditariamente la terra e tutta la ricchezza sociale, mentre la gran massa degli uomini, diseredata di tutto, è sfruttata ed oppressa dai pochi proprietari. Da questo dipendono lo stato di miseria in cui si trovano generalmente i lavoratori, e tutti i mali che dalla miseria derivano: ignoranza, delitti, prostituzione. Da questo, la costituzione di una classe speciale (governo), la quale, fornita di mezzi materiali di repressione, ha missione di legalizzare e difendere i proprietari contro le rivendicazioni dei proletari; e poi si serve della forza che ha, per creare a sé stessa dei privilegi e sottomettere, se può, alla sua supremazia anche la stessa classe proprietaria. Da questo, la costituzione di un'altra classe speciale (il clero), la quale con una serie di favole sulla volontà di Dio, sulla vita futura, ecc., cerca d'indurre gli oppressi a sopportare docilmente l'oppres-sione, ed al pari del Governo oltre di fare gli interessi dei proprietari, fa anche i suoi propri. Da questo, la formazione di una scienza ufficiale che è, in tutto ciò che può servire agl'interessi dei dominatori, la negazione della scienza vera. Da questo, lo spirito patriottico, gli odi di razza, le guerre, e le paci armate talvolta più disastrose delle guerre stesse. Da questo, l'amore trasformato in tormento o in turpe mercato. Da ciò l'odio più o meno larvato, la rivalità, il sospetto fra tutti gli uomini, l'incertezza e la paura per tutti. Tale stato di cose noi vogliamo radicalmente cambiare. E poiché tutti questi mali derivano dalla lotta fra gli uomini, dalla ricerca del benessere fatta da ciascuno per conto suo e contro tutti, noi vogliamo rimediarvi sostituendo all'odio l'amore, alla concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di tutti, alla oppressione ed all'imposizione la libertà, alla menzogna religiosa e pseudoscientifica la verità. Dunque:
1. Abolizione della proprietà privata della terra, delle materie prime e degli strumenti di lavoro, perché nessuno abbia il mezzo di vivere sfruttando il lavoro altrui, e tutti, avendo garantiti i mezzi per produrre e vivere, siano veramente indipendenti e possano associarsi agli altri liberamente; per l'interesse comune e conformemente alle proprie simpatie.
2. Abolizione dei Governo e di ogni potere che faccia la legge e la imponga agli altri: quindi abolizione di monarchie, repubbliche, parlamenti, eserciti, polizie, magistratura, ed ogni qualsiasi istituzione dotata di mezzi coercitivi.
3. Organizzazione della vita sociale per opera di libere associazioni e federazioni di produttori e consumatori, fatte e modificate secondo la volontà dei componenti, guidati dalla scienza e dall'esperienza e liberi da ogni imposizione che non derivi dalle necessità naturali, a cui ognuno, vinto dal sentimento stesso della necessità ineluttabile, volontariamente si sottomette.
4. Garantiti i mezzi di vita, di sviluppo, di benessere ai fanciulli ed a tutti coloro che sono impotenti a provvedere a loro stessi.
5. Guerra alle religioni ed a tutte le menzogne, anche se si nascondono sotto il manto della scienza. Istruzione scientifica per tutti e fino ai suoi gradi più elevati.
6. Guerra alle rivalità ed ai pregiudizi patriottici. Abolizione delle frontiere: fratellanza fra tutti i popoli.
7. Ricostruzione della famiglia in quel modo che risulterà dalla pratica dell'amore, libero da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o fisica, da ogni pregiudizio religioso
2. Vie e mezzi
Abbiamo esposto a sommi capi qual'è lo scopo che vogliamo raggiungere quale l'ideale pel quale lottiamo.
Ma non basta desiderare una cosa: se si vuole ottenerla davvero bisogna impiegare i mezzi adatti al suo conseguimento. E questi mezzi non sono arbitrari, ma derivano, necessariamente, dal fine cui si mira e dalle circostanze nelle quali si lotta; giacché ingannandosi sulla scelta dei mezzi, non si raggiungerebbe il fine propostosi, ma un altro, magari opposto che sarebbe conseguenza naturale, necessaria, dei mezzi adoperati. Chi si mette in cammino e sbaglia strada, non va dove vuole, ma dove lo porta la strada percorsa.
Occorre dunque, dire quali sono i mezzi che, secondo noi, conducono allo scopo prefissoci, e che noi intendiamo adoperare.
Il nostro ideale non è di quelli il cui conseguimento dipende dall'individuo considerato isolatamente. Si tratta di cambiare il modo di vivere in società, di stabilire tra gli uomini rapporti di amore e solidarietà, di conseguire la pienezza dello sviluppo materiale, morale e intellettuale, non per un dato partito, ma per tutti quanti gli esseri umani - e questo non è cosa che si possa imporre colla forza, ma deve sorgere dalla coscienza illuminata di ciascuno ed attuarsi mediante il libero consentimento di tutti.
Nostro primo compito quindi deve essere quello di persuadere la gente. Bisogna che noi richiamiamo l'attenzione degli uomini sui mali che soffrono e sulla possibilità di distruggerli. Bisogna che suscitiamo in ciascuno la simpatia pei mali altrui ed il desiderio vivo del bene di tutti.
A chi ha fame e freddo noi mostreremo come sarebbe possibile, e facile, assicurare a tutti la soddisfazione dei bisogni materiali. A chi è oppresso e vilipeso, noi diremo come si può vivere felicemente in una società di liberi e uguali; a chi è tormentato dall'odio e dal rancore, noi additeremo la via per raggiungere, amando i propri simili, la pace e la gioia del cuore.
E quando saremo riusciti a far nascere nell'animo degli uomini il sentimento di ribellione contro i mali ingiusti ed inevitabili di cui si soffre nella società presente, ed a far comprendere quali sono le cause di questi mali e come dipenda dalla volontà umana l'eliminarli; quando avremo ispirato il desiderio vivo, prepotente, di trasformare la società per il bene di tutti, di coloro che li han preceduti nella convinzione, si uniranno e vorranno, e potranno, attuare i comuni ideali.
Sarebbe - lo abbiam già detto - assurdo ed in contraddizione col nostro scopo di voler imporre la libertà, l'amore fra gli uomini, lo sviluppo integrale di tutte le facoltà umane, per mezzo della forza. Bisogna dunque contare sulla libera volontà degli altri, e la sola cosa che possiamo fare è quella di provocare il formarsi ed il manifestarsi di detta volontà. Ma sarebbe però egualmente assurdo e contrario al nostro scopo l'ammettere che coloro i quali non la pensano come noi c'impediscano di attuare la nostra volontà, sempre che essa non leda il loro diritto ad una libertà uguale alla nostra.
Libertà dunque per tutti di propagare ed esperimentare le proprie idee, senza altro limite che quello che risulta naturalmente dall'eguale libertà di tutti.
Ma a questo si oppongono - e si oppongono colla forza brutale - coloro che sono i beneficiari degli attuali privilegi e dominano e regolano tutta la vita sociale presente.
Essi hanno in mano tutti i mezzi di produzione; e quindi sopprimono non solo la possibilità di esperimentare nuovi modi dì convivenza sociale, non solo il diritto dei lavoratori di vivere liberamente col proprio lavoro, ma anche lo stesso diritto all'esi-stenza; ed obbligano chi non è proprietario a lasciarsi sfruttare ed opprimere se non vuole morire di fame.
Essi hanno polizie, magistrature, eserciti creati appositamente per difendere i loro privilegi; e perseguitano, incarcerano, massacrano coloro che vogliono abolire quei privilegi e reclamano i mezzi di vita e la libertà per tutti.
Gelosi dei loro interessi presenti ed immediati, corrosi dallo spirito di dominazione paurosi dell'avvenire. essi, i privilegiati, sono, generalmente parlando, incapaci di uno slancio generoso, sono incapaci benanco di una più larga concezione dei loro interessi. E sarebbe follia sperare ch'essi rinunzino volontariamente alla proprietà ed al potere, e si adattino ad essere gli eguali dì coloro che oggi tengono sottoposti.
Lasciando da parte l'esperienza storica (la quale dimostra che mai una classe privilegiata si è spogliata, in tutto o in parte dei suoi privilegi, e mai un governo ha abbandonato il potere se non vi è stato obbligato dalla forza o dalla paura della forza), bastano i fatti contemporanei per convincere chiunque che la borghesia ed i governi intendono impiegare la forza materiale per difendersi, non solo contro l'espropriazione totale, ma anche contro le più piccole pretese popolari, e son pronti sempre alle più atroci persecuzioni, ai più sanguinosi massacri. Al popolo che vuole emanciparsi non resta altra via che quella di opporre la forza alla forza.
Risulta da quanto abbiamo detto che noi dobbiamo lavorare, per risvegliare negli oppressi il desiderio vivo di una radicale trasformazione sociale, e persuaderli che unendosi, essi hanno la forza di vincere; dobbiamo propagare il nostro ideale e preparare le forze morali e materiali necessari a vincere le forze nemiche, e ad organizzare la nuova società. E quando avremo la forza sufficiente dobbiamo, profittando delle circostanze favorevoli che si producono o creandole noi stessi, fare la rivoluzione sociale, abbattendo, colla forza, il governo, espropriando, colla forza, i proprietari; mettendo in comune i mezzi di vita e di produzione, ed impedendo che nuovi governi vengano ad imporre la loro volontà e ad ostacolare la riorganizzazione sociale fatta direttamente dagli interessati.
Tutto questo però è meno semplice di quello che potrebbe a prima giunta parere. Noi abbiamo da fare cogli uomini quali sono nell'attuale società, in condizioni morali e materiali disgraziatissime; e c'inganneremo pensando che basta la propaganda per elevarli a quel grado di sviluppo intellettuale e morale che è necessario all'attua-zione dei nostri ideali.
Tra l'uomo e l'ambiente sociale vi è un'azione reciproca. Gli uomini fanno la società come essa è e la società fa gli uomini come essi sono, e da ciò risulta una specie di circolo vizioso. Per trasformare la società bisogna trasformare gli uomini e per trasformare gli uomini bisogna trasformare la società.
La miseria abbruttisce l'uomo e per distruggere la miseria bisogna che gli uomini abbiano coscienza e volontà. La schiavitù educa gli uomini ad essere schiavi e per liberarsi dalla schiavitù v'è bisogno di uomini aspiranti alla libertà. L'ignoranza fa sì che gli uomini non conoscano le cause dei loro mali e non sappiano rimediarvi, e per distruggere l'ignoranza bisogna che gli uomini abbiano il tempo ed il modo d'istruirsi.
Il governo abitua la gente a subire la legge ed a credere che la legge sia necessaria alla società; e per abolire il governo bisogna che gli uomini siano persuasi della sua inutilità e del suo danno.
Come uscire da questo circolo vizioso?
Fortunatamente la società attuale non è stata formata dalla volontà illuminata di una classe dominante, che abbia potuto ridurre tutti i dominati a strumenti passivi ed incoscienti dei suoi interessi. Essa è il risultato di mille lotte intestine, di mille fattori naturali ed umani agenti casualmente senza criteri direttivi; e quindi non vi sono divisioni nette né tra gli individui né tra le classi.
Infinite sono le varietà dì condizioni materiali; infiniti i gradi di sviluppo morale ed intellettuale; e non sempre - diremmo quasi molto raramente - il posto che uno occupa in società corrisponde alle sue facoltà ed alle sue aspirazioni. Spessissimo alcuni individui cadono in condizioni inferiori a quelle a cui sono abituati, ed altri, per circostanze eccezionalmente favorevoli, riescono ad elevarsi a condizioni superiori a quelle in cui sono nati. Una parte notevole del proletariato è già arrivata ad uscire dallo stato di miseria assoluta, abbrutente, o non ha mai potuto esservi ridotta; nessun lavoratore, o quasi nessuno si trova nello stato di incoscienza completa, di completa acquiescenza alle condizioni che gli fanno i padroni. E le stesse istituzioni, quali sono state prodotte dalla storia, contengono delle contraddizioni organiche che sono come dei germi di morte, i quali sviluppandosi producono la dissoluzione dell'istituzione e la necessità della trasformazione.
Da ciò la possibilità dei progresso; ma non la possibilità di portare, per mezzo della propaganda, tutti gli uomini al livello necessario perché vogliano e facciano l'anarchia, senza un'anteriore graduale trasformazione dell'ambiente.
Il progresso deve camminare contemporaneamente, parallelamente negli individui e nell'ambiente; dobbiamo profittare di tutti i mezzi di tutte le possibilità, dì tutte le occasioni che ci lascia l'ambiente attuale, per agire sugli uomini e sviluppare la loro coscienza ed i loro desideri; dobbiamo utilizzare tutti i progressi avvenuti nella coscienza degli uomini per indurli a reclamare ed imporre quelle maggiori trasformazioni sociali che sono possibili e che meglio servono ad aprire la via a progressi ulteriori.
Noi non dobbiamo aspettare dì poter fare l'anarchia ed intanto limitarci alla semplice propaganda. Se facessimo così, presto avremmo esaurito il campo; avremmo convertiti cioè, tutti quelli che nell'ambiente sono suscettibili di comprendere ed accettare le nostre idee e la nostra ulteriore propaganda resterebbe sterile; o se delle trasformazioni d'ambiente elevassero nuovi strati popolari alla possibilità di ricevere idee nuove, ciò avverrebbe senza l'opera nostra, forse contro l'opera nostra e quindi con pregiudizio delle nostre idee.
Noi dobbiamo cercare che il popolo, nella sua totalità o nelle sue frazioni, pretenda, imponga, prenda da sé tutti i miglioramenti, tutte le libertà che desidera, man mano che giunge a desiderarle ed ha la forza di imporle; e propagandando sempre tutto intero il nostro programma e lottando sempre per la sua attuazione integrale, dobbiamo spingere il popolo a pretendere ed imporre sempre di più fino a che non ha raggiunto l'eman-cipazione completa.

3. La lotta economica
L'oppressione che, oggi, più direttamente preme sui lavoratori, e che è la causa principale dì tutte le soggezioni morali e materiali cui i lavoratori sottostanno, è l'oppres-sione economica, vale a dire lo sfruttamento che i padroni e i commercianti esercitano su di loro, grazie all'accaparramento di tutti i grandi mezzi di produzione e di scambi.
Per sopprimere radicalmente e senza pericolo di ritorno questa oppressione, occorre che il popolo tutto sia convinto del diritto che esso ha all'uso dei mezzi di produzione, e che attui questo suo diritto primordiale espropriando i detentori dei suolo e di tutte le ricchezze sociali e mettendo quello e queste a disposizione di tutti.
Ma si può ora stesso metter mano a questa espropriazione? Si può oggi passare direttamente, senza gradi intermedi, dall'inferno in cui si trova ora il proletariato, al paradiso della proprietà comune?
I fatti dimostreranno di che cosa i lavoratori sono oggi capaci. Compito nostro è quello di preparare il popolo, moralmente e materialmente, a questa necessaria espropriazione; e di tentarla e ritentarla, ogni volta che una scossa rivoluzionaria ce ne presenta l'occasione fino al trionfo definitivo Ma in che modo possiamo preparare il popolo? In che modo preparare le condizioni che rendano possibile, non solo il fatto materiale dell'espropriazione, ma l'utilizzazione, a vantaggio di tutti, della ricchezza comune?
Abbiamo detto antecedentemente che la sola propaganda, parlata o scritta, è impotente a conquistare alle nostre idee tutta quanta la grande massa popolare. Occorre una educazione pratica, la quale sia a volta a volta causa ed effetto di una graduale trasformazione dell'ambiente Occorre che a mano a mano che si sviluppati nei lavoratori il senso di ribellione contro le ingiuste e inutili sofferenze di cui son vittime, ed il desiderio di migliorare le loro condizioni, essi, uniti e solidali tra loro, lottino per il conseguimento di quel che desiderano. E noi, e come anarchici e come lavoratori, dobbiamo provocarli ed incoraggiarli alla lotta e lottare con loro.
Ma sono possibili, in regime capitalistico, questi miglioramenti? Sono essi utili, dal punto di vista della futura emancipazione integrale dei lavoratori?
Qualunque siano i risultati pratici della lotta per i miglioramenti immediati, l'utilità principale sta nella lotta stessa. Con essa gli operai imparano ad occuparsi dei loro interessi di classe, imparano che il padrone ha interessi opposti al loro e che essi non possono migliorare le loro condizioni ed anche meno emanciparsi, se non unendosi e diventando più forti dei padroni. Se riescono ad ottenere quello che vogliono, staranno meglio: guadagneranno di più, lavoreranno meno, avranno più tempo e più forza per riflettere alle cose che loro interessano, e sentiranno subito desideri maggiori, bisogni maggiori. Se non riescono, saran condotti a studiare le cause dell'insuccesso ed a riconoscere la necessità di maggiore unione, di maggiore energia; e comprenderanno infine che a vincere sicuramente e definitiva niente occorre distruggere il capitalismo. La causa della rivoluzione, la causa dell'elevamento morale del lavoratore e della sua emancipazione non possono che guadagnare dal fatto che i lavoratori si uniscono e lottano per ì loro interessi.
Ma, ancora una volta, è possibile che i lavoratori riescano, nell'attuale stato di cose, a migliorare realmente le loro condizioni?
Ciò dipende dal concorso di una infinità di circostanze. Malgrado ciò che dicono alcuni, non esiste una legge naturale (legge dei salari), la quale determina la parte che va al lavoratore sul prodotto del suo lavoro: o, se legge si vuol formulare, essa non potrebbe essere che questa: il salario non può scendere normalmente ai disotto di quel tanto che è necessario alla vita, né può normalmente salire tanto da non lasciare nessun profitto al padrone.
È chiaro che nel primo caso gli operai morrebbero e quindi non riscuoterebbero più salario, e nel secondo i padroni cesserebbero di far lavorare e quindi non pagherebbero più salari. Ma tra questi i due estremi impossibili vi sono una infinità di gradi, che vanno dalle condizioni miserabili di molti lavoratori agricoli fino a quelle quasi decenti degli operai dei buoni mestieri nelle grandi città.
Il salario, la lunghezza della giornata e tutte le altre condizioni del lavoro sono il risultato della lotta tra padroni e lavoranti. Quelli cercano di dare ai lavoranti il meno che possono e di farli lavorare fino a esaurimento completo; questi cercano, o dovrebbero cercare, di lavorare il meno e guadagnare il più che possono. Dove i lavoratori si contentano di tutto, o, anche essendo scontenti. non sanno opporre valida resistenza ai padroni, sorto presto ridotti a condizioni animalesche di vita: dove invece essi hanno un concetto alquanto elevato del modo come dovrebbero vivere degli esseri umani, e sanno unirsi e, mediante il rifiuto di lavoro e la minaccia latente o esplicita di rivolta, imporsi rispetto ai padroni, essi sono trattati in modo relativamente sopportabile. In modo che può dirsi che il salario dentro certi limiti, è quello che l'operaio (non come individuo, s'intende, ma come classe) pretende.
Lottando dunque, resistendo contro i padroni, i lavoratori possono impedire, fino ad un certo punto. che le loro condizioni peggiorino ed anche ottenere dei miglioramenti reali. E la storia del movimento operaio ha già dimostrato questa verità.
Bisogna però non esagerare la portata di questa lotta combattuta tra operai e padroni sul terreno esclusivamente economico. I padroni possono cedere, e spesso cedono, innanzi alle esigenze operaie energicamente espresse, fino a quando non si tratti di pretese troppo grosse, ma quando gli operai incominciassero (ed è urgente elle incomincino) a pretendere un tale trattamento che assorbirebbe tutto il profitto dei padroni e riuscirebbe così ad una espropriazione indiretta, è certo che i padroni farebbero appello si governo e cercherebbero di costringere gli operai a restare nella loro posizione di schiavi salariati.
Ed anche prima, ben prima che gli operai possano pretendere di ricevere in compenso del loro lavoro l'equivalente di tutto ciò che han prodotto, la lotta economica diventa impotente a continuare a produrre il miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
Gli operai producono tutto e senza di loro non si può, vivere: quindi sembrerebbe che rifiutando il lavoro essi potessero imporre tutto ciò che vogliono. Ma l'unione di tutti i lavoratori anche di un sol mestiere, anche di un sol paese, è difficile ad ottenere, ed all'unione degli operai si oppone l'unione dei padroni. Gli operai vivono alla giornata e, se non lavorano, presto mancano di pane; mentre i padroni dispongono, mediante il denaro, di tutti i prodotti già accumulati, e quindi possono tranquillamente aspettare che la fame abbia ridotti a discrezione i loro salariati. L'invenzione o l'introduzione di nuove macchine rende inutile l'opera di un gran numero di operai ed accresce il grande esercito dei disoccupati, che la fame costringe a vendersi a qualunque condizione. L'immigrazio-ne apporta subito nei paesi dove gli operai riescono a star meglio, delle folle di lavoratori famelici che, volendo o no, offrono ai padroni il modo di ribassare i salari. E tutti questi fatti, derivanti necessariamente dal sistema capitalistico, riescono a controbilanciare il progresso della coscienza e della solidarietà operaia: spesso camminano più rapidamente di questo progresso e lo arrestano e lo distruggono. Ed in tutti i casi resta sempre il fatto primordiale che la produzione, in sistema capitalistico, è organizzata da ciascun capitalista per il suo profitto individuale e non già per soddisfare come sarebbe naturale, nel miglior modo possibile, i bisogni dei lavoratori. Quindi il disordine, lo sciupio di forze umane, la scarsezza voluta dei prodotti, i lavori inutili e dannosi, la disoccupazione, le terre incolte, il poco uso delle macchine ecc. - tutti mali che non si possono evitare se non levando ai capitalisti il possesso dei mezzi di lavoro e quindi la direzione della produzione.
Presto dunque si presenta per gli operai, che intendono emanciparsi o anche solo di migliorare seriamente le loro condizioni, la necessità di attaccare il governo, il quale, legittimando il diritto di proprietà e sostenendola colla forza brutale, costituisce una barriera innanzi al progresso, che bisogna abbattere colla forza se non si vuole restare indefinitamente nello stato attuale e peggio.
Dalla lotta economica bisogna passare alla lotta politica, cioè alla lotta contro il governo; ed invece di opporre ai milioni dei capitalisti gli scarsi centesimi a stento accumulati dagli operai, bisogna opporre ai fucili ed ai cannoni che difendono la proprietà, quei mezzi migliori che il popolo potrà trovare per vincere la forza con la forza.
4. La lotta politica
Per la lotta politica intendiamo la lotta contro il governo. Governo è l'insieme di quegl'individui che detengono il potere, comunque acquistato, di far la legge ed imporla ai governanti, cioè al pubblico.
Conseguenza dello spirito di dominio e della violenza con cui alcuni uomini si sono imposti agli altri, esso è, nello stesso tempo, creatore e creatura del privilegio e suo difensore naturale.
Erroneamente si dice che il governo compie oggi la funzione di difensore del capitalismo, ma che abolito il capitalismo esso diventerebbe rappresentante e gerente degli interessi generali. Prima di tutto il capitalismo non si potrà distruggere se non quando i lavoratori, cacciato il governo, prendano possesso della ricchezza sociale ed organizzino la produzione ed il consumo nell'interesse di tutti, da loro stessi, senza aspettare l'opera di un governo il quale, anche a volerlo, non sarebbe capace di farlo.
Ma v'è di più: se il capitalismo fosse distrutto e si lasciasse sussistere un governo, questo, mediante la concessione di ogni sorta di privilegi lo creerebbe di nuovo poiché non potendo accontentar tutti avrebbe bisogno di una classe economicamente potente che lo appoggi in cambio della protezione legale e materiale che ne riceve.
Per conseguenza, non si può abolire il privilegio e stabilire solidamente e definitivamente la libertà e l'uguaglianza sociale se non abolendo il governo, non questo o quel governo, ma l'istituzione stessa del governo.
Però, in questo, come in tutti i fatti d'interesse generale, più che in qualunque altro occorre il consenso della generalità: e perciò dobbiamo sforzarci di persuadere la gente che il governo è inutile e dannoso, e che si può vivere meglio senza governo.
Ma, come abbiamo già ripetuto, la sola propaganda è impotente a convincere tutti - e se noi volessimo limitarci a predicare contro il governo, aspettando altrimenti inerti, il giorno in cui il pubblico sarà convinto della possibilità ed utilità di abolire completamente ogni specie di governo, quel giorno non verrebbe mai.
Sempre predicando contro ogni specie di governo, sempre reclamando la libertà integrale, noi dobbiamo favorire tutte le lotte per le libertà parziali, convinti che nella lotta s'impara a lottare e che incominciando a gustare un po' di libertà si finisce col volerla tutta. Noi dobbiamo sempre essere col popolo, e quando non riusciamo a fargli pretender molto, cercare che almeno cominci a pretender qualche cosa: e dobbiamo sforzarci perché apprenda, poco o molto che voglia, a volerlo conquistare da sé, e tenga in odio ed in disprezzo chiunque sta o vuole andare al governo.
Poiché il governo tiene oggi il potere di regolare, mediante le leggi, la vita sociale ed allargare o restringere la libertà dei cittadini, noi non potendo ancora strappargli questo potere, dobbiamo cercare di diminuirglielo e dì obbligarlo a farne l'uso meno dannoso possibile Ma questo lo dobbiamo fare stando sempre fuori e contro il governo, premendo su di lui mediante l'agitazione della piazza minacciando di prendere per forza quello che si reclama. Mai dobbiamo accettare una qualsiasi funzione legislativa, sia essa generale o locale, poiché facendo così diminuiremmo l'efficacia della nostra azione e tradiremmo l'avvenire della nostra causa.
La lotta contro il governo si risolve, in ultima analisi, in lotta fisica, materiale.
Il governo fa la legge. Esso dunque deve avere una forza materiale (esercito e polizia) per imporre la legge, poiché altrimenti non vi ubbidirebbe che chi vuole ed essa non sarebbe più legge, ma una semplice proposta che ciascuno è libero di accettare e di respingere. Ed i governi questa forza l'hanno, e se ne servono per potere con leggi fortificare il loro dominio e fare gl'interessi delle classi privilegiate, opprimendo e sfruttando i lavoratori.
Limite all'oppressione del governo è la forza che il popolo si mostra capace di opporgli. Vi può essere conflitto aperto o latente, ma conflitto v'è sempre; poiché il governo non si arresta innanzi il malcontento ed alla resistenza popolare se non quando sente il pericolo dell'insurrezione.
Quando il popolo sottostà docilmente alla legge, o la protesta è debole e platonica, il governo fa i comodi suoi senza curarsi dei bisogni popolari; quando la protesta diventa viva, insistente, minacciosa, il governo, secondo che è più o meno illuminato, cede o reprime. Ma sempre si arriva all'insurrezione, perché se il governo non cede, il popolo acquista fiducia in sé e pretende sempre di più, fino a che l'incompatibilità tra la libertà e l'autorità diventa evidente e scoppia il conflitto violento.
È necessario dunque prepararsi moralmente e materialmente perché allo scoppio della lotta violenta la vittoria resti al popolo.
L'insurrezione vittoriosa è il fatto più efficace per l'emancipazione popolare, poiché il popolo, scosso il giogo, diventi libero di darsi a quelle istituzioni che egli crede migliori, e la distanza che passa tra la legge, sempre in ritardo, ed il grado di civiltà a cui è arrivata la massa della popolazione, è varcata d'un salto. L'insurrezione determina la rivoluzione, cioè il rapido attuarsi delle forze latenti accumulate durante la precedente evoluzione.
Tutto sta in ciò che il popolo è capace di volere. Nelle insurrezioni passate il popolo, inconscio delle ragioni vere dei suoi mali, ha voluto sempre molto poco, e molto poco ha conseguito.
Che cosa vorrà nella prossima insurrezione? Ciò dipende in parte dalla nostra propaganda e dall'energia che sapremo spiegare.
Noi dovremmo spingere il popolo ad espropriare i proprietari e mettere in comune la roba, ed organizzare la vita sociale da sé stesso, mediante associazioni liberamente costituite, senza aspettare gli ordini di nessuno e rifiutando di nominare o riconoscere qualsiasi governo, qualsiasi corpo costituito, che sotto un nome qualunque (costituente, dittatura, ecc.) si attribuisca, sia pure a titolo provvisorio, il diritto di far la legge ed imporre agli altri con la forza la propria volontà.
E se la massa dei popolo non risponderà all'appello nostro, noi dovremo - in nome del diritto che abbiamo di esser liberi anche se gli altri vogliono restare schiavi e per l'efficacia dell'esempio - attuare da noi quanto più potremo delle nostre idee, e non riconoscere il nuovo governo, e mantenere viva la resistenza, e far si che le località dove le nostre idee saranno simpaticamente accolte si costituiscano in comunanze anarchiche, respingano ogni ingerenza governativa, stabiliscano libere relazioni con le altre località e pretendano di vivere a modo loro.
Noi dovremo, soprattutto, opporci con tutti i mezzi alla ricostituzione della polizia e dell'esercito, e profittare dell'occasione propizia per eccitare i lavoratori delle località non anarchiche a profittare della mancanza di forza repressiva per imporre quelle maggiori pretese che a noi riesca indurli ad avere.
E comunque vadano le cose continuare sempre a lottare, senza un istante di interruzione, contro i proprietari e contro i governanti avendo sempre in vista la emancipazione completa, economica, politica e morale di tutta quanta l'umanità.
5. Conclusione
Noi vogliamo dunque abolire radicalmente la dominazione e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, noi vogliamo che gli uomini affratellati da una solidarietà cosciente e voluta cooperino tutti volontariamente al benessere di tutti; noi vogliamo che la società sia costituita allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile, il massimo possibile sviluppo morale e materiale; noi vogliamo per tutti pane, libertà, amore, scienza.
E per raggiungere questo scopo supremo noi crediamo necessario che i mezzi di produzione siano a disposizione di tutti, e che nessun uomo, o gruppo di uomini possa obbligare gli altri a sottostare alla sua volontà né esercitare la sua influenza altrimenti che con la forza della ragione e dell'esempio.
Dunque, espropriazione dei detentori dei suolo e del capitale a vantaggio di tutti, abolizione del governo. Ed aspettando che questo si possa fare: propaganda dell'ideale; organizzazione delle forze popolari; lotta continua, pacifica o violenta secondo le circostanze, contro il governo e contro i proprietari per conquistare quanto più si può di libertà e di benessere per tutti.