martedì 26 aprile 2011

Il lavoro rende liberi gli sfruttatori




Se ha un merito, Domenico (l’artista provocatore che due notti fa ha montato l’insegna “neonazista” sul ponticello della ferrovia fra il vecchio e il nuovo Pigneto, proprio dove inizia la periferia a Roma) è quello di averci mandato (e mi riferisco soprattutto ai media, ma non solo) in cortocircuito. E’ andato in tilt, ancora una volta, il riflesso condizionato, l’associazione di idee scontata, l’automatismo del sistema informativo. Se provate a fare una ricerca su Google, trovate trecento notizie, che derivano dalla stessa Ansa, che ripetono tutte la stessa cosa: “Scritta nazista al Pigneto”. E dire che una cantonata simile era stata presa, nello stesso quartiere, proprio due anni fa, ed esattamente seguendo lo stesso schema: si era parlato di raid nazista contro un negozio di immigrati in via Macerata, e invece – ad assaltare il negozio – era stato un simpatico coatto con tanto di Che Guevara tatuato. Che rivendicava il suo assalto con motivazioni di sinistra, essendo intervenuto per vendicare un borseggio contro una signora del quartiere. Il cliché – poi – era sbagliato anche per le presunte vittime, visto che davanti al quell’alimentari, si riuniva una simpatica comitiva di spacciatori. Africani, certo. Ma sempre spacciatori. Nulla è come sembra, dunque, e mai come oggi, il verosimile (prima legge di Tetris) prevale sempre sul reale: la visione manichea impone l’idea che ci siano buoni e cattivi, e un cattivo nazista è perfetto, al punto che il sindaco di destra e la presidentessa della regione di destra, devono condannare con foga dieci volte superiore al dovuto, altrimenti saranno sospettati di connivenza con gli antisemiti. Gesto non del tutto privo di motivazioni, da parte loro, se è vero che leggevo in rete commenti che dicevano: “Hanno potuto montarlo, quel cancello, perché sono stati ‘protetti’ dal giunta, perché ci sono delle connivenze, perché adesso il neonazismo è più tollerato”. Ma come si poteva pensare che per montare un cancello alle quattro del mattino, in un quartiere di periferia occorra una protezione politica?
E allora ecco che cosa vi dico. Io considero Auschwitz un luogo di culto, di memoria, e persino sacro, ci sono stato quattro volte, ne ho scritto. Ritengo che qualsiasi tentativo di revisionismo sull’Olocausto vada condannato, soprattutto quando è mosso da un intento politico e speculativo. Però devo anche dire che la beffa di Domenico secondo me non può rientrare in questa casistica: ci ha spiazzati, e ci ha costretti a riconsiderare le nostre certezze. Ci ha fatto pensare, magari, che in questa città non siamo buoni e accoglienti come pensiamo di essere, nei giorni in cui si sgombravano i Rom dalla basilica di San Paolo.
Ci ha costretto a notare che poi quel cancello era diverso da quello del lager, anche se per i media era troppo facile, quindi comodo, dire che era “identico”. Ci ha costretti a capire che poteva esserci un’idea diversa da quella che ragionando in modo pigro ci veniva in testa. Mi ha fatto scoprire, guardando indietro, che il cronista di
Repubblica.it, diversamente dalle agenzie, andando sul posto qualcosa aveva fiutato (non ha firmato il suo pezzo, spero che legga questo articolo): infatti riportava dei commenti in cui persone non certo sospette di simpatie naziste consideravano quel gesto “geniale” (oserei dire: aveva capito, ma se avesse dubitato, i suoi capi cosa avrebbero detto?).
Io spero che Domenico, ragazzo fuori sede, precario, lucano, trentenne, figlio di operai, che fa l’artista nelle periferie e si guadagna la vita facendo corsi di grafica con i disoccupati, non finisca in carcere per questa provocazione. Gli basta la paura che si è preso, vedendosi imputato per apologia di Olocausto e simili amenità. E se merita una punizione, dopotutto, la meritiamo pure noi, che ormai sembriamo incapaci di ragionare al di fuori del congegno micidiale dell’emotività televisiva, e della ricerca continua del cattivo sociale. In altri tempi mi sarei incazzato molto di più con lui. In questi tempi, nell’epoca del falso industriale e delle manipolazioni istituzionali, mi viene quasi da essergli grato per averci ricordato l’obbligo del dubbio.
Ghirardi Sergio replica il giorno stessoscrive:
Nella società dello spettacolo il vero è un momento del falso. Ce lo ricorda Debord che con i situazionisti aveva già deturnato l’arbeit macht frei per squarciare la maschera che falsifica l’orrore.
L’orrore di Auschwitz era la dimensione concentrazionaria, il sopruso di pretesi superuomini torturatori di presunti untermenchen, ma quella scritta era il risultato di oscene complicità tra il capitalismo internazionale e gli ideologi affaristi del nazismo. Gli internati lavoravano e i loro padroni a svastica facevano affari col nonno di Bush. Eh si, avete letto bene, l’esportatore di democrazia. L’originale di quella scritta era in inglese e potete verificarlo facilmente su Internet.
L’oscenità di quella scritta sta oggi più che mai nell’identificare la libertà nella schiavitù salariata. Allora ci si è spinti fino all’eliminazione programmata degli schiavi, ma sul mito del lavoro (disoccupazione inclusa) si fonda ancor oggi una società produttivistica che impone il ricatto economico anche quando allontana sdegnata da sé il fantasma orribile del fascismo.
Non so le intenzioni dell’autore del gesto romano, ma oltre la rivendicazione della libertà di espressione, vedervi un’apologia di fascismo mi pare addirittura demente. Il che non stupisce in una società che ha fatto della demenza pubblicitaria la base della falsa coscienza diffusa come cultura.

Non lavorate mai, dicevano i situazionisti, e siamo in parecchi ad averci provato SENZA SFRUTTARE NESSUNO. Si può non essere d’accordo, beninteso. Non sarà certo La Boetie a stupirsene, ma riflettete sul fatto che l’autore del DIRITTO ALLA PIGRIZIA, Paul Lafargue, era genero di Marx, medico cubano e fervente sostenitore di un’ancora utopica società comunista.
Auschwitz era una fabbrica, una fabbrica di morte eccezionalmente produttiva che tutti i tiranni hanno sempre imitato aldilà dalle differenze ideologiche.
Il lavoro rende schiavi, l’attività creatrice rende umani. So che una tale scandalosa affermazione manda in tilt i servitori volontari, ma c’est la vie !

In risposta a :CI VORREBBE UN PARTITO Video di Merighi Troja



In risposta a :CI VORREBBE UN PARTITO

Ghirardi Sergio scrive: 25 aprile 2011
Correte compagni. Il vecchio mondo è dietro di voi!
40 anni dopo, la lucidità di questo slogan resta purtroppo intatta ma la situazione è anche peggio: il vecchio mondo è ormai dentro di voi.
Il video è esplicito: i sensi di colpa del movimentista pentito, il pretazzo di servizio, la confessione e i dirigenti di partito che si fanno un mazzo così per un mondo migliore. No, non è la FGCI, questa è la RAI o comunque le somiglia come un programma di Mediaset.
La storiella del lavoro dall’interno è da sempre la torta alla crema di tutti i burocrati che hanno fatto carriera dedicandosi al popollo. I partiti formali sono finiti storicamente da quando la rivoluzione sociale si è coagulata nella critica della vita quotidiana degli individui. Chi ha provato a riflettere su questi temi lo sa da mezzo secolo e più. Persino uno dei fondatori del PCI, Bordiga, denunciava già negli anni trenta l’inattualità dei “partiti formali” ai quali opponeva il “partito storico”. In 2000 segni non si può certo sviluppare il tema, ma smettetela, please, con i borborismi da sacrestia della politica.
Se volete una bibliografia posso comunicarla agli interessati, poi sta a ognuno forgiarsi una coscienza politica fuori dalle sabbie mobili della società dello spettacolo. Il movimentismo è un sintomo, la malattia è la corruzione sistemica del capitalismo. I partiti formali sono false aspirine per malati di cancro, business per ciarlatani.
La guarigione passa per una soggettività che trasformi la favola della sovranità popolare in un nuovo tipo di organizzazione sociale orizzontale in grado di decidere politicamente. Solo l’instaurarsi di una forma moderna di democrazia diretta - il partito preso della vita - segnerà la fine dell’Ancien Régime della democrazia spettacolare sotto cui si traveste l’oclocrazia dominante. Dalla monarchia alla repubblica ieri, dall’oclocrazia all’autogestione generalizzata adesso: a ogni epoca la sua rivoluzione, la sua resistenza, altro che partiti.
Lo Stato non è più niente, sta a noi essere tutto!
Massimo Merighi scrive: 25 aprile 2011 alle 18:50
Io propongo una soluzione alla piaga della corruzione che passa per la partecipazione. il cambiamento che auspica lei, a mio modo di vedere, è certamente una bella masturbazione intellettualoide, ma nel concreto non mi pare in alcun modo realizzabile, meno che mai senza indicare, oltre all’obiettivo irraggiungibile, un percorso concreto e verificabile passo dopo passo, misurabile e dunque efficace. le chiacchiere e le elucubrazioni degli pseudo-intellettuali disancorati dalla realtà stanno a zero e sottozero. brutalmente detto, è onanismo. io indico un percorso. criticabile, opinabile. ma è un percorso, per giungere all’obiettivo di cambiare classe dirigente in base alla loro qualità politica ed etica. e l’unico mezzo, in una società dove nessuno ha tanto tempo per dedicarsi alla politica, preso com’è dalle mille necessità quotidiane, è quello della rappresentatività e della delega. il problema è la delega in bianco, senza alcuna partecipazione, senza alcun modo per revocarla. senza la possibilità di intervenire in itinere. l’antidoto a tale pericolo consiste nella partecipazione sempre più consapevole ed efficace. in un percorso che miri a estendere il campo della democrazia diretta a scapito del principio della delega, ma progressivamente. passo dopo passo. il resto sono chiacchiere, a mio modestissimo avviso. e a me le chiacchiere, perfino quando sono firmate da grandi nomi, mi fanno allergia. sarà per il fatto che ho bisogno di risolvere problemi concreti… come la maggior parte della gente.
e poi le suggerisco, se ha delle idee utili come presume, di imparare ad offrirle con meno supponenza. la gente ha allergia alla supponenza. se le sue idee sono valide, le offra agli altri, che le apprezzeranno, magari, più facilmente, se non si sentiranno trattati dall’alto verso il basso. glielo dico umilmente. nella speranza che se davvero ha qualcosa di valido da offrire, io o altri possiamo approfittarne per apprendere. il confronto fa bene a tutti
Ghirardi Sergio scrive: 25 aprile 2011 alle 20:09
Apprezzo il dialogo diretto anche quando non ne condivido i contenuti. Guarda che l’idea di una democrazia diretta è una masturbazione che circola da tempo e per un secolo ha riempito le utopie concrete della politica da Rosa Luxembourg ad altri intellettualoidi che non cito per non ferire con una supponenza supposta chi propone un itinerario che ho solo voluto criticare radicalmente. Ognuno si masturba come può, ma nel 1780 forse anche l’idea della repubblica in Francia poteva sembrare una masturbazione da intellettualoidi. Non ho certezze, ma credo che valga la pena di considerare l’ipotesi di un approccio radicale alla questione sociale, idea che condivido con una folta minoranza di individui reali ed esistenti. Credimi, rivendico solo l’autonomia di pensiero e il diritto di non menarmela con proposte che non hanno mai ottenuto il minimo cambiamento e funzionano da alibi per il potere. Proporre un discorso più ampio in un blog non si puote. Per questo ho parlato di bibliografia: perché ogni pratica necessita teoria e viceversa. Io rappresento solo me stesso e come tale ti parlo, ma se capitasse di approfondire sensibilità e differenze potremmo magari sorprenderci. Se ho sperimentato questo modo di funzionare so di esperienze ben più significative delle mie (che non cito per non produrre supponenza) che lo hanno adottato. Credo anche che rifarsi alla storia sia una necessità per tutti e ciò non è incompatibile col fare canzoni e cantare insieme per far circolare le idee. Apprezzo, anzi, il metodo al punto che non ho resistito a criticarne i contenuti. E’ il rischio della notorietà – la tua non la mia – ma io sono disponibile al dialogo. Ho pubblicato da parte mia sul tema del contendere una masturbazioncina intitolata: Lettera aperta ai sopravvissuti, Nautilus Torino. Se riesce a eccitarti l’idea di leggerla, ascolterei con interesse le tue critiche e le tue proposte per orgasmi sociali meno masturbatorii. Non mi dispiacerebbe se riuscissimo a farlo a ritmo di blues.
Massimo Merighi scrive: 25 aprile 2011 alle 22:28
Non mi nascondo mai al confronto. Sento forte la vocazione al dialogo e al rapporto col pubblico propria della mia caratteristica di musicista. Di democrazia diretta non credo di aver parlato negativamente. Ritengo solo che essa non possa instaurarsi senza un progressivo susseguirsi di passi propedeutici. La DD (democrazia diretta) insieme alla DR (rappresentativa) sono due momenti che possono e devono coesistere. Per arrivare a un sistema democratico più maturo (o se vuoi meno immaturo). Il mio modello è la Svizzera dove ho vissuto per un anno. Come avevo asserito, la prima (DD) potrà crescere nella misura in cui si saprà migliorare la seconda (DR), cominciando con una maggiore partecipazione della gente nelle varie strutture partitiche. Adesso cerco il tuo articolo. Lo leggerò con piacere. Se lo trovo su google. Masturbazione per me è inseguire idee esteticamente belle ma difficilmente raggiungibili. Non per criminalizzare la masturbazione (ci mancherebbe, anzi) ma per aggiungere anche la bellezza di un rapporto concreto, magari meno “idealizzato” ma REALE.
Massimo Merighi scrive: 26 aprile 2011 alle 03:00
ho visto che si tratta di un libro… pardon
Ghirardi Sergio scrive: 26 aprile 2011 alle 11:00
Sono profondamente convinto che non esistano colpe ma errori più o meno gravi di cui si è responsabili e che ognuno può cercare di correggere. A questo dovrebbe contribuire un dialogo senza concessioni in cui dire e ascoltare diventino una jam session riuscita.
Penso e spero che tramite il Fatto potrai avere il mio mail per eventuali reciproci approfondimenti critici. Comunque buona musica e buone canzoni visto che pare che la canzone sia capace di parlare contemporaneamente ai due emisferi cerebrali dei quali uno recepisce la musica, l’altro la parola. Abbiamo tutti un gran bisogno che i cervelli e i cuori riprendano a funzionare all’unisono, sottraendosi all’alienazione che li ipnotizza da tempo.
Replica di nonnoangelo scrive: 26 aprile 2011 alle 10:15
MI dici cosa è oggi una organizzazione sociale orizzontale in grado di decidere politicamente ? è un partito riformato dal basso con nuove regole ma sempre un partito,se no si fà la figura del candidato sindaco a milano (cinque stelle) che non sapeva rispondere alle domande di gadlenner in quanto solo movimento è non partito organizzato in qualche forma.
Replica di Ghirardi Sergio scrive: 26 aprile 2011 alle 11:23
La differenza sostanziale con un partito sta nella frantumazione costante di ogni gerarchia. Ciò comporta il superamento di un funzionamento specialistico e dell’incancrenirsi di poteri personali. Non pretendo certo di essere esaustivo, ma indico una sensibilità e una direzione su cui lavorare. Bisogna smetterla di chiedere alla teoria una qualunque perfezione a priori: si tratta già di opporsi alle derive più pericolose e alle abitudini più deleterie leggendo la storia e i suoi verdetti. La forma partito è figlia di una visione putchista della politica. Ha come obiettivo la presa del potere e non la sua abolizione perché la sua imposizione di fatto riproduce il dominio di qualcuno su altri.
Esempi storici di un’organizzazione orizzontale sono stati la Comune di Parigi, il movimento spartakista in Germania e le comunità catalane e aragonesi del 36-37. Nessuna di queste organizzazioni della vita quotidiana è venuta meno su questi punti, anzi, solo lo sterminio militare ha avuto ragione di queste utopie concrete. Negli anni sessanta l’Internazionale situazionista ha ripreso questa sensibilità dimenticata facendone il perno dell’effimera ma fondamentale rivoluzione politico-culturale del ‘68. La forma partito è stata criticata in ognuno di questi esperimenti così come non esiste oggi nel movimento zapatista che continua a resistere in Messico nonostante una repressione forsennata. Non so in che modo un paese come l’Italia (ma ciò vale anche per tutti gli altri stati canaglia del capitalismo planetario) saprà rompere con la democrazia autoritaria e le sue liturgie oclocratiche ma se ci provano in nordafrica e altrove vuol dire che il vento della storia soffia ovunque e non porta soltanto islamismi, mafie, scorie radioattive e plutonio. Sta a noi essere tutto, tutti insieme, cominciando a passare dall’indignazione all’organizzazione di un radicale rovesciamento di prospettiva sociale. Almeno cominciamo a parlarne.

lunedì 25 aprile 2011

Felicità, qualcuno ha detto felicità?



La felicità è da sempre la questione centrale di un’umanità il cui superamento incompiuto dell’animalità tende, appunto, a una felicità altrettanto imperfetta e claudicante dell’umanità dell’uomo.

La felicità come la volontà di vivere che la secerne, non può essere davvero definita; la si avverte cercandola, come si cerca il cibo prima di avere fame, come il corpo ci chiede di poter bere ben prima di avere sete, spinto dal piacere di dissetarsi in compagnia e per amore. La socialità ruota infatti senza alcun dubbio attorno all’amicizia che esprime la nostra socievolezza naturale e all’amore che circonda come un’aura sempre presente pur se mai certa, i nostri incontri possibili in situazioni costruite o sul filo del caso delle derive della vita.

La felicità è lo scopo dei desideri che animano la volontà di vivere. I quali, però, cessano di essere autentici non appena si trasformano in bisogni insoddisfatti o quando si sforzano di soddisfare dei bisogni che non sono mai stati dei veri desideri.

La diffusione del lavoro al posto della creatività e delle capacità concrete di un essere umano liberamente occupato a ballare la danza dei generi attorno alla centralità femminile, ha ridotto il tema della felicità a un calcolo essenzialmente economico fondato sull’avere e non sull’essere, sulla quantità e non sulla qualità, sull’individualità alienata del produttore-consumatore anziché sulla soggettività esploratrice di poetesse e poeti sensuali dall’anima vagabonda.

Dopo millenni di inquinamento spirituale da parte della morale religiosa, i diversi ostensori e guru che dappertutto hanno invaso la società umana come piante velenose, hanno sempre operato al servizio della spada e del signore di turno per garantire i diritti di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Solo la poesia e la sua versione estrema e involontaria che è la follia sono riuscite a sottrarsi all’inquadramento produttivista salvaguardando il diritto alla diserzione di fronte al dovere del lavoro imposto dal ricatto economico.

Nell’etimologia stessa del termine “poesia”, il poeta non è affatto il contemplativo etereo e socialmente conforme dai nobili sentimenti che la società gerarchica dipinge, manipolando il senso delle parole secondo un’abitudine consolidata. Al contrario, il poeta è esattamente l’uomo del fare (dal greco poieo = io faccio), l’individuo creativo che costruisce a ogni passo un mondo nuovo, che inventa una nuova urbanistica unitaria e varia dove si prova piacere a vivere perché il corpo e lo spirito si trovano finalmente riuniti nella sensualità del vivente dalle pratiche dell’intelligenza sensibile.

La richiesta intima di ogni poesia resta la felicità di vivere, persino quando il mondo a rovescio dell’alienazione economica spinge le masse al consumo miserabile e alla decadenza e qualche poeta sperduto, frustrato e ferito cade nella trappola senza uscita di una risposta nichilista al sistema.

Il nichilismo non è altro che un canto disperato e disperante alla vita quando la morte ha vinto.

Da quando il meccanicismo opportunista del funzionamento economico riproduce in modo civilizzato il meccanismo naturale della bestia (l’animale primitivo), con il suo mors tua vita mea, con i suoi odiosi e meschini maschi dominanti e le sue intollerabili depredazioni di ogni tipo, l’ipotesi spontanea della felicità è stata massicciamente falsata e rimossa fino a diventare quasi indicibile.

Com’è castrata e infibulata la felicità ogni volta che il godimento si traduce nel possesso di cose anziché nella magia fusionale, puntuale e affettuosa dell’orgasmo reciproco di liberi soggetti !

Ecco, del resto, ancora una parola confiscata dal nemico dell’umano che si nasconde nell’uomo, acquattato nella corazza emozionale rigida e incapace di abbandoni generosi. Da qualunque ideologia sia generato, il pestiferato emozionale interpreta alternativamente l’orgasmo vitale - e quello genitale in particolare - come un mito o un tabù, una vergogna o una mania ossessiva mentre, invece, esso non è altro che la semplice espressione armoniosa di una “dépense” vitale gioiosa, opera d’arte spontanea che ci permette di risentire l’unità nella differenza, l’identità nell’autonomia, la solidarietà in un egoismo comunista che solo in apparenza è un ossimoro perché esprime perfettamente, in modo dialettico, la critica radicale di tutti gli altruismi sadomasochisti imposti dalle diverse morali eteronome. Un tale egoismo rivoluzionario, collettivo e individuale nello stesso tempo, denuncia con disgusto tutti gli egoismi ristretti e meschini che l’ideologia economicista impone tanto nei suoi archetipi autoritari che nella sua modernità liberale.

La rivoluzione sociale bussa dunque alla nostra porta nel nome di una felicità per tutti e non in quello di un qualunque risentimento corporativo di ruolo o di genere (operaismo, femminismo, per esempio).

L’umanità dell’essere umano è infatti il dono che ognuno fa a se stesso per il piacere di tutti. Il dono che include tutti gli altri.

Come direbbe qualcuno: “L’umanità soggettiva si nutre di un sogno che deve soltanto arrivare alla coscienza per diventare realtà”.

Sergio Ghirardi, 25 Aprile 2011