lunedì 21 giugno 2021

I HAVE A DREAM

 





Etienne de la Boétie ha vinto le elezioni regionali in Francia al primo turno con una maggioranza assoluta del 68% dei suffragi. Solo i servitori volontari votano ormai per i candidati marci della politica spettacolo. Fascisti, gauchisti e tutti quanti gli altri demo totalitari di destra, di centro di sinistra e di altrove, sovranisti, repubblicani o socialisti, non rappresentano più che i resti putrescenti della società dello spettacolo in decomposizione. Persino nel terzo della popolazione addomesticata all’antica che frequenta ancora il voto parlamentarista, tutti i peggiori fascisti di destra o di sinistra restano minoritari, cariatidi in via d’estinzione.

Il fantasma di Coluche plana nell’aria, tra i ristoranti del cuore e i cuori di uomini e donne che si liberano lentamente ma sicuramente di ogni confinamento sociale nel ghetto dell’economia politica. I rappresentanti senili della truffa parlamentarista marciano come zombi verso l’abisso, ripetendo i loro stupidi mantra imparati nelle scuole di giornalismo o di funzionari della politica. I loro grotteschi “abbiamo vinto” sono ubriachi di un potere che li abbandona sul marciapiede del loro mestiere di marciatori nel vuoto del capitalismo finanziario.

Ora bisognerà sostenere ancora di più La Boétie nelle prossime elezioni presidenziali con Comitati di democrazia diretta in ogni rotonda, in ogni Comune della nazione francese. Che assemblee pacifiche di liberi cittadini fioriscano dappertutto, federandosi, appena possibile, in assemblée delle assemblée che sboccino in piena autonomia dallo Stato che continua la sua traiettoria di caduta verso la sua sparizione spontanea. Non è questione di combatterlo, piuttosto ignorarlo salvo se osa imporre la dittatura della sua violenza auto legittimata. Birmania docet. Nel partito preso de La Boétie nessun rappresentante autoproclamato, nessun capo che si appropri dell’intelligenza collettiva e della sensibilità di ciascuna e di ciascuno. Una nuova coscienza sta nascendo, a noi di svilupparla insieme, proteggendola da iene e avvoltoi che rodono.

La nazione francese internazionalista sta aspettando dalla Comune di Parigi di rivedere il giorno. Ancora una volta nella storia umana, una rivoluzione francese può riversarsi sul mondo dando alle diverse nazioni che lo abitano il gusto intimo di un internazionalismo unico a poter ricostituire il tessuto di una società organica che il produttivismo ha spezzato, inquinato, genocidizzato. Una società nuova, reinventata e non primitivista fondata sull’acrazia, la solidarietà e l’aiuto reciproco con la natura è all’appuntamento con la storia.

L’elezione de La Boétie a ultimo presidente della Repubblica francese sarà l’inizio di un’autogestione generalizzata della vita quotidiana destinata a diventare un’Internazionale del genere umano.

 


I HAVE A DREAM

 

Etienne de la Boétie a gagné les élections régionales en France au premier tour avec une majorité absolue de 68% des suffrages. Seuls les serviteurs volontaires votent désormais pour les pourris de la politique spectacle. Fascistes, gauchistes et tous les autres demototalitaires de droite, du centre, de gauche et d’ailleurs, souverainistes, républicains ou socialistes, ne représentent plus que les restes putrescents de la société du spectacle en décomposition. Même dans le tiers de la population domestiquée à l’ancienne qui fréquente encore le vote parlementariste, tous les pires fachos de droite ou de gauche restent minoritaires, des cariatides en voie d’extinction.

Le fantôme de Coluche plane dans les airs, entre les restaurants du cœur et les cœurs des hommes et des femmes qui se libèrent, lentement mais surement, de tout confinement social dans le ghetto de l’économie politique. Les représentants grabataires de l’arnaque parlementariste marchent comme des zombies vers l’abime répétant leurs mantras débiles appris à l’école de journalisme ou à l’ENA. Leurs grotesques « on a gagné » sont ivres d’un pouvoir qui les abandonne sur le trottoir de leur métier de marcheurs dans le vide du capitalisme financier.

Maintenant il faudra soutenir encore plus la Boétie dans les prochaines élections présidentielles par des comités de démocratie directe dans chaque rondpoint, dans chaque Commune de la nation française. Que des assemblées pacifiques de libres citoyens fleurissent partout, en se fédérant, dés que possible, en assemblées des assemblées qui jaillissent en pleine autonomie de l’Etat qui continue sa courbe de chute vers sa disparition spontanée. Pas question de le combattre, plutôt l’ignorer sauf s’il ose imposer la dictature de sa violence auto légitimée. Burma docet. Dans le parti pris de la Boétie pas de représentants autoproclamés, pas de chefs qui s’approprient de l’intelligence collective et de la sensibilité de chacun et de chacune. Une nouvelle conscience est en train de naître, à nous tous de la développer ensemble, en la protégeant des hyènes et de vautours qui rôdent.

La nation française internationaliste attend depuis la Commune de Paris de revoir le jour. Encore une fois, dans l’histoire humaine, une révolution française peut rejaillir sur le monde donnant aux differentes nations qui l’habitent le goût intime d’un internationalisme qui seul peut reconstituer le tissus d’une société organique que le productivisme a brisée, polluée, génocidée. Une société nouvelle, réinventée et non primitiviste, fondée sur l’acratie, la solidarité et l’entraide avec la nature est au rendez-vous de l’histoire.

L’élection de la Boétie à ultime président de la République française sera le début d’une autogestion généralisée de la vie quotidienne destinée à devenir une Internationale du genre humain.

venerdì 18 giugno 2021

Elucubrazioni fatte da lontano sulla condizione metropolitana in Messico - Miguel Amoros

 

 

** Amiche, amici, camarades, vi propongo la traduzione dal castigliano di questo intervento messicano di Miguel Amoros perché tocca punti secondo me fondamentali per muoversi collettivamente verso quella coscienza pratica di cui sono un convinto sostenitore. La sua riflessione si riferisce per di più alla realtà specifica da cui è scaturito quel movimento zapatista che è all’inizio dell’attuale fase di lotte planetarie, proprio nel momento in cui alcuni suoi rappresentanti hanno fatto il cammino inverso di Cristoforo Colombo. Questi anticonquistadores venuti a dialogare nella vecchia Europa dei barbari produttivisti ci invitano a un’emancipazione comune, preziosa e necessaria.


Sergio Ghirardi Sauvageon


La mia conferenza cercherà di evocare lo sviluppo dell'urbano come una sorta di genealogia del disastro, con l'intento di rendere visibili le crepe del dominio che facilitano la rivolta vitale contro il capitalismo mortifero. Da tempo, il dibattito sull'espansione delle metropoli e sui mali che provoca ha portato alla conclusione dei vecchi critici delle città industriali, cioè che l'aria della città rende malati. Tuttavia, ci permettiamo di obiettare che la metropoli postmoderna non può in alcun modo essere chiamata città, poiché è il luogo della predazione finanziaria, un luogo sterile e malsano, abbrutente e sovraffollato, slegato dalla storia dei lavoratori che l’hanno in parte plasmato, come dallo stile di vita urbano della borghesia originaria. Tuttavia, un enorme agglomerato amorfo disfunzionale, senza obiettivi “civici” e senza altro scopo che concentrare il potere, comporta la distruzione dei valori libertari riconducibili a progetti collettivi di convivenza, e, di conseguenza, la perdita totale della condizione cittadina.
 
“L’aria della città ti renderà libero” diceva un proverbio tedesco che celebrava la libertà di cui godevano gli abitanti delle città medievali. Murray Bookchin è arrivato a immaginare in quelle associazioni di contadini, artigiani e mercanti chiamate città "il fiorire della ragione nella storia" e Lewis Mumford le considerava la più grande creazione culturale dell'umanità. In effetti, dal X secolo in poi, la comune europea, cresciuta a misura d'uomo e organizzata democraticamente, è stata la culla della politica e la sede del pensiero, della scienza, dell'industria e dell'arte. Nata in un contesto storico concreto, era un tipo artificiale di associazione con caratteristiche particolari, contrattuale, dinamica, regolata da leggi e orientata al progresso, molto diversa dalla società tribale, organica, statica, comunista, prevalentemente rurale, regolata dalla tradizione e attaccata al mito. La popolazione della maggior parte delle città-mercato nell'Europa del XVI secolo variava da 2.000 a 5.000 residenti. Il suo recinto urbano, delimitato da perimetri difensivi e costruito su un reticolo irregolare di strade che conducono a spazi aperti o piazze, contrasta con la griglia uniforme subordinata al palazzo o cattedrale barocchi tipici dell'urbanistica coloniale, e ancor più con il senso geometrico e cosmico che emanano i monumenti cerimoniali delle città amerindie. I conquistadores spagnoli portarono con loro, insieme alla griglia, una nuova forma di amministrazione cittadina, il comune, quando questi non riposava più sull'assemblea generale e aveva perso quasi tutta la sua indipendenza a vantaggio di un potere esterno incarnato dall'autorità regia. Per questo motivo, i comuni della Nuova Spagna furono appesantiti fin dall'inizio dalle servitù del regime coloniale. Ciononostante, secondo la legge spagnola, il loro funzionamento si basava su beni "propri" che non potevano essere alienati, dogane interne che tassavano il commercio e "accise" il cui uso era rigorosamente stabilito. D'altra parte, la stessa legislazione stabiliva che le popolazioni indigene potevano accedere alla terra solo in comune. Si presero in considerazione le pratiche comunitarie precedenti alla colonizzazione e l'uso veicolare della lingua nahuatl. Così, nei comuni dei “naturali” o in quelli al cui governo partecipavano degli “indios”, si mantennero i costumi dei “calpulli” - la cellula fondamentale dell'annientata civiltà azteca, autosufficiente e autogovernata (come la “aylu” nel Perù incaico e il “lof” nel popolo Mapuche). Questa procedura trovava una solida base nei cosiddetti "beni comunitari" - che insieme ai "propios" a quel tempo costituivano poco più della metà del territorio messicano - e nel "tequio", lavoro non retribuito che tutti gli indigeni dovevano alla loro gente, sul quale scrissero ordinanze. L’uso e lo sfruttamento di terre coltivabili, di boschi, prati e acque consolidarono un'economia domestica che rese possibile resistere all'assalto del dispotismo schiavista. Il sepolcro della libertà rimase chiuso sotto sette chiavi fino a quando l'invasione napoleonica della penisola iberica forzò la sua l'apertura. I funzionari comunali convocarono a riunioni collettive tutti i residenti, fatto che la legge amministrativa coloniale contemplava solo per situazioni straordinarie. Inaspettatamente, la sovranità popolare trasformò i consigli comunali in spazi pubblici di fraternizzazione e, più concretamente, in giunte di governo ai margini dell'autorità coloniale. Il fatto si è ripetuto nei moti per l'Indipendenza, dove i consigli aperti hanno svolto un ruolo decisivo, destituendo autorità e formando governi locali che prendevano decisioni, promulgavano leggi e formulavano progetti costituzionali. Tuttavia, lo sviluppo del nuovo Stato nazionale spense tutto il fuoco autonomista della società civile e sotto la guida della frazione borghese liberale preparò il terreno per il capitalismo, il regime economico che avrebbe determinato in futuro l'evoluzione delle città e della campagna. Il lavoro, attività tra tante, sarebbe diventato un’occupazione totale per la maggioranza, mentre lo spazio urbano sarebbe stato riorganizzato secondo i disegni di una nuova divinità astratta come la divinità solare o il dio cattolico: il denaro.

Il Messico moderno non sarà costruito dalle città, cioè dalla primitiva scena politica, ma dallo Stato, fattore antisociale per eccellenza. Per tutto il XIX secolo, la borghesia messicana ha messo in pratica la sua idea federale e si è liberata di tutti gli ostacoli che impedivano la sua visione liberale del mondo e il suo arricchimento privato: le proprietà della Chiesa e dei comuni, l'autonomia amministrativa e il sistema giuridico locale, i beni comunali, l’usufrutto di boschi, prati e acque, le terre libere e gli ostacoli corporativi allo sfruttamento del lavoro. In sintesi, quella che venne chiamata l'inviolabilità della proprietà individuale, la confisca e il libero mercato. Poi redasse una costituzione democratica, ma solo per non rispettarla, perché la sua stessa natura caciquil e latifondista gli impediva di forgiare un regime di affidabile apparenza democratica, con una effettiva divisione dei poteri, grandi partiti stabili e suffragio universale diretto, senza corruzione né frode. In ogni caso, queste carenze politiche, aggravate durante il Porfiriato, non comportarono alcun disagio per la delimitazione delle terre comuni e il loro affitto a investitori privati e stimolarono la costruzione di porti, linee elettriche e ferrovia. Si sarebbe così formato un Messico capitalista, oligarchico, agropastorale ed esportatore. All'inizio del XX secolo esistevano solo vie di comunicazione non sempre sicure: la prima strada che collegava il Distretto Federale con Puebla, fu costruita nel 1926. Fu quindi soprattutto grazie al treno che gli emarginati della terra riuscirono a fuggire dal lavoro forzato delle haciendas, ma solo per finire ad affollarsi nelle "vicinanze" delle città (in Argentina le chiamavano "conventillos", a Cuba "ciudadelas", in Perù "quintas"). Nel 1900, Città del Messico raggiungeva il fregio di mezzo milione di abitanti! La vita riproduceva la separazione operata nella produzione: questo tipo di abitazione con alloggi ridotti e spazi condivisi era la soluzione per i poveri al problema dell'alloggio, e sebbene le autorità li considerassero fonti di miseria e degrado morale, la verità è che in questi spazi si è manifestato un alto grado di aiuto reciproco e coscienza di classe. La questione sociale era assente su tutti i fronti della Rivoluzione - ad eccezione degli zapatisti che sostenevano il ritorno al villaggio comunale, e dei magonisti che volevano il socialismo. I vincitori si consideravano continuatori della "modernizzazione" economica liberale dell'epoca precedente e, non appena si poteva stabilire un'alleanza tra la burocrazia politica generatasi dopo il periodo rivoluzionario che si appropriava dell'amministrazione e controllava i sindacati e l'oligarchia finanziaria-imprenditoriale legata a consorzi nordamericani, iniziò un periodo d’industrializzazione accelerata, accompagnata dalla costruzione d’isolati e di strade, che cambiò radicalmente la morfologia delle città messicane. Le meno di cinquanta esistenti nel 1930 aumentarono a 174 nel 1980, quando fu consolidata la rete stradale. In pochi decenni, la nazione passò con tutte le sue conseguenze da paese rurale a urbano.
 
Sotto un regime monopartitico temperato dalla corruzione, avvenne il salto definitivo dalla bottega alla fabbrica. Effettivamente, lo sviluppo di un'industria nazionale destinata a sostituire le importazioni, fu protagonista di quello che i vertici del PRI definirono un “miracolo economico”, responsabile di un'urbanizzazione fuori controllo centrata sulla capitale dello Stato che, principalmente con l'aiuto dei tram elettrici, poi dei filobus e della metropolitana dal 1962 e, in generale, di una variegata rete di trasporti pendolari, iniziò a far mostra dei propri meriti. Era circondata da conurbazioni e nel 1970 era già diventata una metropoli di undici milioni di abitanti. La capitale era il motore principale dell'economia nazionale, la sua cassaforte. L'opposizione tra campagna e città è stata esacerbata dalla meccanizzazione, dai pesticidi e dai fertilizzanti, risolvendosi in un esodo rurale che ha avuto conseguenze. La terra ha definitivamente cessato di essere il crogiolo della cultura e della vita sociale. Lo squilibrio territoriale e la deturpazione del paesaggio agrario si aggravarono ancora di più con l'estrazione del petrolio e la costruzione di dighe idrauliche che costrinsero violenti spostamenti dei residenti, mentre la città industriale, di fronte all'ondata di disoccupati e al proliferare dell'automobile, è diventata incapace di far fronte alla domanda di edilizia popolare, al deficit di trasporto pubblico, alla mancanza di attrezzature e alla mancanza di infrastrutture. Gli esperti dello Stato paternalistico erano consapevoli del disordine e della disorganizzazione che la crescita economica aveva causato nelle città, ma lungi dal metterlo in discussione, si proposero di risolvere i loro mali attraverso la “pianificazione”, cioè cercando soluzioni tecniche anziché sociali. I Piani regolatori, urbanistici e insediativi che lo Stato autoritario ordinò ai suoi tecnici di elaborare in nome dell'ordine e del progresso negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, rivelarono un'ideologia funzionalista mutuata dai CIAM e dalla scuola di Chicago. La città era ora vista come lo spazio di razionalizzazione corrispondente alle esigenze tecniche e poliziesche del regime capitalista. Le strade e le piazze pubbliche furono soppresse come luoghi d’incontro, scambio e libera espressione, per riconvertirsi in spazi di circolazione. Non stupiamoci che la divisione in zone o la suddivisione della città-macchina in aree di lavoro, abitative e ricreative abbia ricreato una città schematica basata su aggregati, “cellule” e “zone” nettamente separate in cui i suoi abitanti si erano adattati come a un letto di Procuste. Si voleva intronizzare un nuovo ordine spaziale sostenuto da un'architettura uniforme e monotona fatta di unità o progetti abitativi (in Spagna erano chiamati “poligoni”), magazzini e paesaggi, riflesso della mentalità d'apparato il cui potere pretendeva simboleggiarsi in grattacieli come la Torre Latinoamericana o il complesso del WTC. Il risultato è stato un mosaico di frammenti sparsi senza identità la cui realizzazione ha ignorato le relazioni sociali mentre alimentava la speculazione immobiliare e facilitava il dominio. Gli allineamenti hausmanniani, gli allargamenti, i corridoi, i viali monumentali e i grandi spazi aperti (come la Plaza Tapatía a Guadalajara) hanno causato notevoli perdite patrimoniali e distrutto il tessuto sociale dei quartieri interessati dal regolamento; le differenze di potere d'acquisto segregarono le fasce povere della popolazione e anche le classi medie, trasferendole nelle dense periferie, ridotte alla funzione di dormitorio.
Parallelamente, la borghesia fuggiva dal centro verso insediamenti privati esclusivi simili a quelli nordamericani. Essendo la velocità la caratteristica principale del progresso economico, la viabilità era l'asse su cui s’imperniava la pianificazione urbanistica dei piani regolatori e aziendali. La sua razionalizzazione ha generato infiniti percorsi rettilinei, incroci, rotonde, tunnel, autostrade e accessi, che, lungi dallo strutturare le nuove città, hanno finito per disgiungerle. Infine, la crescita demografica esplosiva ha portato all'autocostruzione d’insediamenti irregolari su terreni non edificati occupati da persone escluse da tutte le attività, dal lavoro alla vita quotidiana, creando a un contro urbanismo marginale, a un'invasione di costruzioni di fortuna chiamate in Brasile favelas, in Cile callampas, in Venezuela ranchos e in Argentina villas miseria. Nel tempo, i frutti della “tugurizzazione” sarebbero arrivati a occupare tra il trenta e il 60% della superficie delle metropoli latinoamericane. La creazione storica che chiamarono la città sfuggì definitivamente al controllo dei suoi stessi dirigenti, perdendo forma e limiti: semplicemente è esplosa. Ha smesso di essere il luogo civilizzato della storia per essere lo scenario selvaggio dell'economia. La protesta è nata dall'interno, dal Messico colto e "sviluppato", a causa della rottura della gioventù della nuova borghesia con lo status quo della burocrazia corrotta. Il massacro del 1968 segnò, tra l'altro, la fine del consenso interclassista relativo al processo di modernizzazione controllata della società messicana.
 
Il periodo di sviluppo terminò nel 1982, quando il mercato nazionale non riuscì a sostenere il tasso di crescita richiesto, facendo precipitare il paese in una profonda crisi che si tradusse in debito, povertà e, per cambiare, in un sorprendente aumento della popolazione urbana. La sub urbanizzazione continuò nonostante la battuta d'arresto economica, diventando autonoma. La classe dirigente messicana, come tutte le altre, ha obbedito ai dettami del WTO e del FMI virando al neoliberismo. Così, attraverso vari trattati e accordi, ha eliminato tutte le barriere alla finanza globale, comportando tagli ai sussidi, privatizzazioni di aziende pubbliche (alcune importanti come banche, telefoni, ferrovie, aeroporti e comunicazioni satellitari), la fine della pianificazione urbana, il boom delle imprese maquiladoras (sfruttatrici di mano d’opera) e la consegna del territorio a promotori turistici e a multinazionali estrattive.
Il settore terziario ha preso il comando (i servizi costituivano il 76% del PIL nel 2000) e, infine, c'è stato un cambiamento qualitativo nella società messicana. D'ora in poi, lo stato avrebbe svolto un ruolo sussidiario di un'economia mondiale che assorbisse e digerisse le economie nazionali. La tendenza alla concentrazione della popolazione nelle aree metropolitane si accentuò con questo "aggiustamento strutturale", e la forza centripeta delle metropoli divenne incontrollabile. La conurbazione intorno alla capitale contava 27 milioni di abitanti nel 2000. Frank Lloyd Wright, osservando gli schemi confusi delle grandi città statunitensi, disse che erano "la forma universale dell'angoscia". Quindici agglomerati urbani messicani superavano il milione di abitanti, ma la caratteristica più sorprendente è stata la crescita delle città di medie dimensioni. Il numero delle regioni metropolitane nel 2000 era salito a 56, con la particolarità che le corone esterne superavano in numero di abitanti i centri, mostrando chiaramente la frattura sociale di un'espansione senza senso. La baraccopoli divenne onnipresente quanto la disuguaglianza: due terzi delle case erano auto costruite e mancavano dei servizi più elementari. La popolazione urbana ha raggiunto i 66 milioni, circa il 70% del totale: il Messico ha smesso di essere semplicemente urbano per diventare un Paese metropolitano. La metropolizzazione, strettamente legata alla globalizzazione, ha imposto una brutale riconfigurazione del territorio. Gli imperativi di accessibilità e mobilità richiedevano ora grandi strade ad alta velocità, un vasto parco automobilistico, reti di trasporto pubblico private, ampi parcheggi e nuovi aeroporti più grandi. Per quanto riguarda il trasporto pubblico non redditizio, e quindi difficile da privatizzare, a Città del Messico, ad esempio, è stata creata nel 2000 una rete di autobus, la RTP, per provvedere allo spostamento nei quartieri marginali oltre le stazioni dalla metropolitana, ma negli anni successivi si tentò di costruire un sistema di corridoi a più lungo raggio (Metrobús). Infine, dopo diversi progetti falliti per conflitti d’interesse tra i diversi apparati burocratici e imprese edili straniere, nel 2008 è stata inaugurata una linea ferroviaria suburbana dell'Area Metropolitana, “la via rapida verso il benessere”, cioè la globalizzazione. Crescevano, invece, in maniera esponenziale i bisogni delle aree metropolitane: gli approvvigionamenti richiedevano dighe, acquedotti, gasdotti, importazioni, nuove fonti di energia, eccetera e cosi via. Insomma, il Paese funzionava, in altre parole, come un sistema policentrico metastatico coronato da una megalopoli ben integrata nel mercato globale, senza limiti e con un deficit cronico di arterie. Il fenomeno urbano era già ovunque, si era diffuso, però, allo stato brado, come non-città, come periferia totale, come regno disumano della completa separazione.
 
La generalizzazione dell'urbano è un fenomeno universale, ma nei paesi in cui le condizioni prevalenti non sono sufficientemente capitalistiche ed è per questo che vengono chiamate "sottosviluppate" o "in via di sviluppo" presenta caratteristiche specifiche che ne intensificano la fragilità e l'instabilità. Abbiamo già segnalato la moltiplicazione dei ghetti dovuta allo sviluppo caotico, sfrenato e autonomo degli agglomerati urbani in America Latina. La mancanza di capitali era un’altra causa, qualcosa di paradossale poiché l'Area Metropolitana della Valle del Messico era la principale destinataria degli investimenti stranieri e lì erano concentrati gli uffici della maggior parte delle corporazioni internazionali. La crescita ipertrofica segnalata era una conseguenza palpabile, così come l'inadeguatezza, l'insicurezza e il cattivo funzionamento dei trasporti pubblici, o la congestione del traffico endemica e il tempo perso nei veicoli, che poteva arrivare fino a sei ore per giorno. Allo stesso modo, le discariche clandestine, lo stress idrico nelle falde acquifere vicine, l'inquinamento e il costo ambientale conseguente. Altra specificità: un fattore di stabilizzazione importante quanto il ceto medio, due terzi della popolazione nei paesi turbo capitalisti, supera di poco un terzo in America Latina (meno nelle campagne, un po' più negli agglomerati urbani) e non si mostra molto conformista. Per contro, l'esclusione che in Spagna era vicina al 20%, in Messico ha superato il 40% nel 2016 (nel Distretto Federale era del 64%). Approssimativamente la metà dei posti di lavoro sono precari, mal pagati e senza copertura sociale, e il settore informale dell'economia rappresenta il 23% del PIL (in Spagna l'economia “sotterranea” ha un peso simile). Il mercato nero del lavoro assorbe più lavoro del settore formale, controllato da sindacati corrotti. Sei su dieci in Messico per uno su dieci in Spagna. Inoltre, mezzo milione di persone lavora per la criminalità organizzata. L'eccessiva violenza quotidiana rivela non solo l'abbondanza di predatori sociopatici tipica della condizione metropolitana, ma la presenza di una classe numerosa che Marx chiamava sottoproletariato e Jack London denominava popolo dell’abisso. È la caratteristica più differenziata della metropolizzazione terzomondista. Non si tratta in assoluto di un nuovo soggetto storico. La ribellione cieca, disperata e manipolabile dell'abisso porta inesorabilmente a uno scenario mafioso e prefascista da cui trarranno vantaggio solo lo Stato repressivo, i capi corrotti e le bande criminali. Fuori dalla barbarie urbana, ma non al riparo da essa, nelle campagne, le successive "ristrutturazioni" vanno direttamente contro la piccola proprietà, la proprietà collettiva e la sovranità alimentare. Il modello di autosufficienza alimentare caratteristico dell'agricoltura della Riforma divenne un ostacolo all'espansione delle grandi corporazioni agroalimentari e alla conversione del territorio in capitale. La reazione contadina allora si ribellò contro la burocrazia e la politica: nessun partito o istituzione la rappresentava. Allora, la questione sociale non poteva più essere mostrata come un semplice problema politico come voleva l'opposizione populista, né poteva certo essere risolta con le elezioni. Da un lato emergerà come questione urbana, dall'altro come difesa del territorio. Entra così in scena una società civile attraverso nuovi attori extra-politici giovani cittadini, donne, contadini, emarginati, popolazione mobilitata contro progetti dannosi e si inaugura una nuova riflessione critica antipatriarcale, ambientalista e antisviluppo. La repressione dispiegata contro di loro indica che oggi la reale correlazione di forze è meno favorevole agli oppressori e che il cambiamento di tendenza dal globale al locale non è del tutto impossibile.
 
Potenti interessi corporativi vogliono l'intero territorio compreso l'ambiente naturale, l'acqua e il sottosuolo svincolato dai vincoli comunitari e trattabile come merce, in balia di progetti di sviluppo di ogni genere. In America Latina, l'estrattivismo ha assunto la forma di una guerra di espropriazione che non esita a impiegare metodi terroristici. I suoi responsabili fanno sul serio perché i benefici in gioco sono enormi e l'urgenza delle trasformazioni scoraggia le trattative con gli interessati, sempre lunghe e complicate, e quindi troppo costose. Si comprano decisioni e non si rifugge dai massacri. Per contro, la difesa del territorio pone i contadini in prima linea e le comunità indigene in testa. La libertà aveva disertato le città che un tempo ne erano la culla per riapparire ora dalla parte dei contadini insorti. Le prime mobilitazioni degli anni '70 contro le centrali petrolifere, la costruzione di un reattore nucleare, il disboscamento a uso comunale, l'apertura di miniere o di complessi turistici furono la risposta popolare allo sfruttamento industriale delle risorse territoriali. Tuttavia, le prime battaglie in difesa della terra, pur riconsiderando modalità di resistenza collettiva contro il capitalismo neoliberista, la burocrazia statale, i sindacati filo-governativi e le forze dell'ordine, non hanno cristallizzato un progetto sociale alternativo, o meglio, un piano di autogoverno, fino al 1994, anno quando ebbe luogo il pronunciamiento zapatista in Chiapas. Al culmine di un processo di autorganizzazione indigena nella lotta contro i grandi latifondisti e la politica repressiva del governatore, le comunità zapatiste hanno costituito un ostacolo esemplare contro la marea estrattivista. Hanno significato il risveglio rivendicativo dei diritti del popolo indigeno (diventato poi manifesto con la creazione di un Congresso Nazionale Indigeno), che, a giudicare dal sostegno ottenuto e dalle lotte che ispirò in tutto il paese, fu ancora una volta al centro della questione sociale. La riforma dell'articolo 27 della Costituzione nel 1992, che ha liquidato le conquiste agrarie della Rivoluzione, aveva riscaldato l'ambiente, che è andato in ebollizione con l'espropriazione criminale delle terre, principalmente del contado e comunali, per costruire le grandi infrastrutture inutili che chiedevano "il progresso e la modernizzazione", cioè il diktat dei mercati internazionali. Le mobilitazioni autonome contro la costruzione d’invasi, le concessioni minerarie e di disboscamento e, soprattutto, il conflitto per il nuovo aeroporto di Atenco, hanno rivelato la difesa del territorio come l'asse centrale della nuova lotta di classe. Molte volte, le lotte per la sopravvivenza hanno generato forme di autogestione, autodifesa e giustizia basate su organizzazioni assembleari, come nella Comune di Oaxaca, nell'Istmo di Tehuantepec, in Santa María Ostula o Cherán. Hanno anche rivitalizzato il tequio e l'aiuto reciproco e rivendicato i diritti delle donne e l'autodeterminazione dei popoli. La globalizzazione ha fatto del territorio il principale fattore strategico, ei suoi difensori, la personificazione del nuovo soggetto rivoluzionario, estraneo ai mercati e refrattario allo Stato e alle metropoli. Questo soggetto scopre che il suo modo di vivere, che la sua stessa esistenza come comunità, si oppone alla mercificazione del territorio e trova nell'autonomia territoriale l'autodeterminazione il primo grande obiettivo che rende possibili tutti gli altri. Un certo embrione di civiltà libertaria rifiorisce sulla terra.
 
Nonostante le resistenze, il flusso sovversivo della difesa del territorio si diluisce di fronte all'oceano urbano. Lo spirito comunitario – “la ritrovata gioia di vivere insieme” di cui parla Raoul Vaneigem – non è riuscito a entrare nelle metropoli postmoderne e, quindi, al loro interno non si sono sviluppate contro-istituzioni autonome e forme di vita libere da vincoli commerciali simili a quelli agrari. Al contrario, la critica radicale non è arrivata a influenzare le città in modo efficace e i programmi anticapitalisti sono stati messi da parte a beneficio di un possibilismo politico grossolano. Per questo, la reazione anti-neoliberista che si è risvegliata nel 2000 nel continente portando al potere dei movimenti populisti, ha consacrato lo Stato come strumento fondamentale d’intervento nella sfera economico sociale. Le organizzazioni che li promuovevano o li sostenevano erano immancabilmente cooptate e trasformate in strumenti di smobilitazione e controllo, mentre apparati di assistenza erano innalzati dall'alto per contenere le classi disagiate e mantenerle calme, addormentate, sulla base di programmi sociali. All'interno di un'economia globale inalterata, la macchina redistributiva del populismo ha funzionato mentre la domanda internazionale di materie prime era forte, ma la debacle economica del 2008-2012 ha costretto i governi populisti a prendere una svolta conservatrice verso modelli più estrattivi e di sviluppo al fine di mantenere il voto prigioniero. In Messico una sorta di nazional-populismo interclassista è rinata nelle metropoli con la crisi della partitocrazia e la sua ultima versione non ha tardato a mostrare il suo vero volto con megaprogetti come il Corridoio Transoceanico, il Treno Maya, il nuovo aeroporto o il Progetto Integrale di Morelos. Mumford ha avvertito nel suo libro "The City in History" che le metropoli erano "un mondo in cui le grandi masse della popolazione, incapaci di raggiungere uno stile di vita più pieno e soddisfacente, vivono la loro vita per interposta persona, in qualità di elettori, spettatori, ascoltatori e osservatori passivi”. La complessità e la dimensione dei conglomerati urbani vietavano la minima socialità e l’ancora più esigua cultura politica, con la conseguenza di precludere qualsiasi approccio di classe generalizzato. Che tipo di progetto libertario, ad esempio, potrebbe essere realizzato in un’incontrollabile tirannopoli di 30 milioni di abitanti? Nonostante l'alto grado di disaggregazione politica e sociale del Paese, le condizioni patologiche di una vita urbana estremamente artificiale e dipendente, monetizzata, incentrata sulla vita privata, sull'anonimato e sul consumismo individuale, non lasciano spazio alla costituzione di una società civile indipendente dallo Stato. L’anomia condanna la popolazione imprigionata negli agglomerati urbani a essere nient'altro che un pubblico passivo, indolente e smemorato di un caudillo redentorista, e una massa di manovra per il "riassetto elettorale" di un sistema partitico in bancarotta.
 
Le metropoli hanno superato il limite che le rende gestibili, poiché lo spreco economico che la loro amministrazione richiede è impossibile da assumere e porta alla morte del fenomeno urbano. La crisi finale del sistema di produzione dello spazio urbano è servita e il collasso sociale sarà inevitabile, così che sebbene l'adattamento al disastro sia lo slogan interno del nuovo capitalismo, lo smantellamento metropolitano deve essere l'asse del pensiero critico e dell'azione trasformativa radicale. Tutto va ricostruito, ma in una direzione diametralmente opposta a quella indicata dal capitalismo della “resilienza”. La lotta per una società libera ed equilibrata deve essere una lotta per la città intesa nella sua concezione originaria di comunità autogovernata e paritaria con il proprio territorio. Tuttavia, solo un processo desurbanizzante e municipalista permetterebbe ai suoi frammenti autogestiti di convergere in spazi di libertà cittadina in un comune sforzo di emancipazione con le comunità agrarie. Si creerebbero così le condizioni favorevoli all'autonomia in tutti i suoi aspetti, riuscendo a smantellare le metropoli e a provocare un ritiro comunalista capace di favorire la vita attiva di cui ci ha parlato Hannah Arendt. Tuttavia, una tal eventualità non sarà possibile dall'interno finché i flussi di capitale saranno così potenti e onnipresenti. Una strategia anti-sviluppo che voglia l'uscita dal capitalismo dovrebbe cercare di metterli in cortocircuito. Recuperare la memoria, de-mercificare il mondo, de-metropolizzare la vita. Di questo è questione.
Miguel Amorós.

Contribución al seminario La lucha por la vida en las ciudades. Defensa del territorio, irrupciones subterráneas, proyectos de autonomía, organizado por la Cátedra Jorge Alonso de la Universidad de Guadalajara (México). Sesión del 16-06-2021.



Lucubraciones hechas desde lejos sobre la condición metropolitana en México

 

     Mi conferencia tratará de evocar el desarrollo de lo urbano como una especie de genealogía del desastre, con la intención de hacer visibles las grietas de la dominación que faciliten la revuelta vital contra el capitalismo mortífero. Desde hace algún tiempo, el debate sobre la expansión de las metrópolis y los males que ocasiona redunda en la conclusión de los antiguos críticos de las ciudades industriales, a saber, que el aire de la ciudad enferma. Sin embargo, nos permitimos objetar que a la metrópolis posmoderna no se la puede de ninguna manera llamar ciudad, pues se trata del hogar de la depredación financiera, un lugar estéril e insalubre, embrutecedor y superpoblado, desvinculado tanto de la historia de los trabajadores que la conformaron en parte, como del estilo de vida urbana de la burguesía originaria. Pero una enorme aglomeración amorfa disfuncional, sin objetivos “cívicos” ni más fin que el de concentrar poder comporta la destrucción de los valores libertarios atribuibles a los proyectos colectivos de convivencia, y, por consiguiente, la pérdida total de la condición ciudadana.

 

     “El aire de la ciudad te hará libre” decía un proverbio alemán que celebraba la libertad gozada por los vecinos de los burgos medievales. Murray Bookchin llegó a imaginar en esas asociaciones de labradores, artesanos y mercaderes llamadas ciudades “el florecimiento de la razón en la historia” y Lewis Mumford las consideró la creación cultural más grande de la humanidad. En efecto, a partir del siglo X, la comuna europea, levantada a escala humana y organizada democráticamente, fue la cuna de la política y el hogar del pensamiento, la ciencia, la industria y el arte. Nacida en un contexto histórico concreto, era un tipo artificial de asociación con características particulares, contractual, dinámica, regulada por leyes y orientada hacia el progreso, muy diferente de la sociedad tribal, orgánica, estática, comunista, predominantemente rural, regulada por la tradición y apegada al mito. La población de la mayoría de ciudades-mercado en la Europa del siglo XVI oscilaba entre los dos mil y cinco mil vecinos. Su recinto urbano, acotado por perímetros defensivos y edificado sobre una trama irregular de calles desembocando en espacios abiertos o plazas, contrasta con la retícula uniforme subordinada al palacio o catedral barroca típica del urbanismo colonial, y más todavía con el sentido geométrico y cósmico que emanan los monumentos ceremoniales de las ciudades amerindias. Los conquistadores españoles trajeron consigo, junto con la cuadrícula, una forma nueva de administración ciudadana, el municipio, cuando este ya no descansaba en la asamblea general y había perdido casi toda su independencia en provecho de un poder exterior encarnado por la autoridad real. Por eso mismo, los municipios de la Nueva España estuvieron lastrados desde el principio por las servidumbres del régimen colonial. No obstante, conforme la ley española, su funcionamiento se sustentaba sobre bienes “propios” que no podían enajenarse, aduanas interiores que gravaban el comercio y “arbitrios” cuyo empleo se hallaba estrictamente fijado. Por otra parte, la misma legislación establecía que los indígenas solamente podían acceder a la tierra en forma comunal. Se tuvieron en cuenta prácticas comunitarias anteriores a la colonización y el empleo vehicular de la lengua náhuatl. Así pues, en los municipios de “naturales” o en aquellos en cuyo gobierno participaban “indios” se mantuvieron las costumbres del “calpulli” -la célula básica de la aniquilada civilización azteca, autosuficiente y autogobernada (como el “aylu” en el Perú incaico y el “lof” en el pueblo Mapuche). Tal proceder encontró una sólida base en los llamados “bienes de comunidad” -que junto con los “propios” constituían por entonces algo más de la mitad del territorio mexicano- y en el “tequio”, el trabajo no remunerado que todo indígena debía a su gente, sobre el que redactaron ordenanzas. Los usos y aprovechamientos de tierras cultivables, bosques, praderas y aguas consolidaron una economía doméstica que permitió resistir las acometidas del despotismo esclavista. El sepulcro de la libertad permaneció cerrado bajo siete llaves hasta que la invasión napoleónica de la Península Ibérica forzó su apertura. Los funcionarios municipales convocaron a “cabildo abierto” a todos los vecinos, algo que el derecho administrativo colonial contemplaba solo para situaciones extraordinarias. Inesperadamente, la soberanía popular transformó los cabildos en espacios públicos de fraternización, y más concretamente, en juntas gubernativas al margen de la autoridad colonial. El hecho se repitió en los levantamientos por la Independencia, donde los cabildos abiertos desempeñaron un papel decisivo, destituyendo autoridades y formando gobiernos locales que tomaron decisiones, promulgaron leyes y formularon proyectos constitucionales. Sin embargo, el desarrollo del nuevo Estado nacional apagó todo el fuego autonómico de la sociedad civil y bajo la dirección de la fracción burguesa liberal preparó el terreno al capitalismo, el régimen económico que iba a determinar en el futuro la evolución de las ciudades y el campo. El trabajo, una actividad entre tantas, se volvería ocupación total para la mayoría, mientras que el espacio urbano se reordenaría según los designios de una nueva divinidad tan abstracta como la deidad solar o el dios católico: el dinero.

 

El México moderno no se construirá desde las ciudades, o sea, desde la primitiva escena política, sino desde el Estado, el factor antisocial por excelencia. A lo largo del siglo XIX, la burguesía mexicana llevó a la práctica su idea federal y se deshizo de todos los obstáculos que se interponían a su cosmovisión liberal y a su enriquecimiento privado: las propiedades de la Iglesia y de los municipios, la autonomía administrativa y jurídica local, los bienes comunales, el usufructo de bosques, praderas y aguas, los terrenos baldíos y las trabas gremiales a la explotación del trabajo. En resumen, lo que dio en llamarse inviolabilidad de la propiedad individual, desamortización y libre mercado. Luego elaboró una constitución democrática pero solo para no cumplirla, porque su propia naturaleza caciquil y latifundista le impedía forjar un régimen de apariencia democrática fiable, con división efectiva de poderes, grandes partidos estables y sufragio universal directo, sin corrupción ni fraude. De todas formas, esas carencias políticas, agravadas durante el Porfiriato, no significaron inconveniente alguno para el deslinde de las tierras del común y su arriendo a inversionistas privados, y estimularon la construcción de puertos, tendidos eléctricos y del ferrocarril. De esta manera se conformaría un México capitalista, oligárquico, agropecuario y exportador. A principios del siglo XX solo había caminos, no siempre seguros: la primera carretera, la que comunicó el Distrito Federal con Puebla, se construyó en 1926. Así pues, fue principalmente gracias al tren que los parias de la tierra pudieron huir del trabajo forzado de las haciendas, pero solo para acabar hacinándose en las “vecindades” de las ciudades (en Argentina las llamaron “conventillos”, en Cuba, “ciudadelas”, en Perú, “quintas”). ¡Ciudad de México alcanzaba en 1900 la friolera de medio millón de habitantes! La vida reproducía la separación operada en la producción: este tipo de vivienda con habitáculos reducidos y con espacios compartidos fue la solución para los pobres al problema del alojamiento, y aunque las autoridades las consideraron focos de miseria y degradación moral, lo cierto es que en dichos espacios se dio un alto grado de ayuda mutua y conciencia de clase. La cuestión social estuvo ausente en todos los bandos de la Revolución -con la excepción del zapatista, partidario del regreso a la aldea comunal, y del magonista, que quería el socialismo. Los vencedores se consideraban continuadores de la “modernización” liberal económica de la época anterior, y, tan pronto como pudo establecerse una alianza entre la burocracia política engendrada tras el periodo revolucionario -que patrimonializaba la administración y controlaba los sindicatos- y la oligarquía financiero-empresarial ligada a consorcios norteamericanos, debutó un periodo de industrialización acelerado, acompañado por la construcción de bloques y carreteras, que cambió radicalmente la morfología de las ciudades mexicanas. Las menos de cincuenta que había en 1930 aumentaron a 174 en 1980, momento en que se consolidó la red viaria. En pocas décadas, la nación pasó con todas sus consecuencias de país rural a urbano.

 

     Bajo un régimen de partido único atemperado por la corrupción se produjo el salto definitivo del taller a la fábrica. Efectivamente, el desarrollo de una industria nacional destinada a sustituir las importaciones protagonizó lo que los dirigentes priistas calificaron de “milagro económico”, responsable de una desbocada urbanización centrada en la capital del Estado, la que, con la ayuda primero de los tranvías eléctricos, trolebuses después, metro a partir de 1962 y, en general, una variopinta red de transportes de cercanías, empezó a modelar en derredor su propio decorado. Se rodeó de conurbaciones y para 1970 ya se había convertido en una metrópolis de once millones de habitantes. La capital era el motor principal de la economía nacional, su caja de caudales. La oposición entre campo y ciudad se exacerbó con la mecanización, los plaguicidas y los fertilizantes, resolviéndose en un éxodo rural que tuvo consecuencias. Definitivamente, la tierra dejó de ser el crisol de la cultura y la vida social. El desequilibrio territorial y la desfiguración del paisaje agrario empeoraron aún más con la extracción de petróleo y la construcción de presas hidráulicas, que forzaron desplazamientos violentos de pobladores, mientras que la urbe industrial, ante la oleada de desocupados y la proliferación del automóvil, se veía incapaz de hacer frente a la demanda de vivienda pública, al déficit del transporte colectivo, a la falta de equipamientos y a la carencia de infraestructuras. Los expertos del Estado paternalista eran conscientes del desorden y desarreglo que el crecimiento económico había provocado en las ciudades, pero lejos de cuestionarlo, se dispusieron a despachar sus males mediante la “planeación”, es decir, que buscaron soluciones técnicas en vez de sociales. Los Planes de Regulación, Desarrollo Urbano y Asentamiento que el Estado autoritario mandó elaborar a sus técnicos en nombre del orden y el progreso durante los sesenta y setenta del siglo pasado, traslucían una ideología funcionalista tomada prestada de los CIAM y la escuela de Chicago. La ciudad se contemplaba ahora como el espacio de racionalización correspondiente a las exigencias técnicas y policiales del régimen capitalista. Las calles y plazas públicas se suprimían como lugares de encuentro, intercambio y libre expresión, para reconvertirse en espacios de circulación. No nos extrañemos ante el hecho de que la zonificación o división de la ciudad-máquina en áreas de trabajo, habitación y esparcimiento recrease una ciudad esquemática a base de agregados, “células” y “zonas” netamente separadas a la que sus habitantes se habían de adaptar como a un lecho de Procusto. Se quería entronizar un nuevo orden espacial apoyado en una arquitectura uniforme y monótona hecha a base de unidades o proyectos habitacionales (en España se llamaron “polígonos”), naves y ajardinamientos, reflejo de la mentalidad de aparato cuyo poder pretendía simbolizarse en rascacielos como la Torre Latinoamericana o el complejo WTC. El resultado fue un mosaico de fragmentos dispersos sin identidad cuya realización ignoraba las relaciones sociales al tiempo que alimentaba la especulación inmobiliaria y facilitaba la dominación. Los alineamientos hausmannianos, ensanches, corredores, avenidas monumentales y grandes espacios abiertos (como el de la Plaza Tapatía en Guadalajara) ocasionaron pérdidas patrimoniales importantes y destruyeron el tejido social de los barrios afectados por la regulación; las diferencias en el nivel adquisitivo segregaron a las capas pobres de población e incluso a las clases medias, transfiriéndolas a los suburbios densificados, reducidos a la función de dormitorio. En paralelo, la burguesía huía del centro hacia urbanizaciones privadas exclusivas similares a las norteamericanas. Ya que la velocidad era la característica mayor del progreso económico, el tránsito rodado era el eje donde pivotaba el urbanismo de los planes reguladores y los negocios. Su racionalización alumbró trazados rectilíneos inacabables, glorietas, rotondas, túneles, autopistas y accesos, que, lejos de vertebrar las nuevas ciudades terminaron por desconyuntarlas. Finalmente, el crecimiento demográfico explosivo propició la autoconstrucción de asentamientos irregulares en suelo ocupado no urbanizable por parte del gentío excluido de todos los mercados, del laboral al de la vivienda, dando lugar a un contraurbanismo marginal, una eclosión de edificaciones improvisadas que en Brasil se denominaron favelas, en Chile, callampas, en Venezuela, ranchos, y en Argentina, villas miseria. Con el tiempo, los frutos de la “tugurización” llegarían a ocupar entre el 30 y el 60% de la superficie de las metrópolis latinoamericanas. La creación histórica que llamaron ciudad escapó definitivamente al control de sus mismos dirigentes perdiendo su forma y sus límites: sencillamente estalló. Dejó de ser el lugar civilizado de la historia para ser el escenario salvaje de la economía. La protesta surgió desde dentro, desde el México culto y “desarrollado”, debido a la ruptura de la juventud de las nuevas clases medias con el statu quo de la burocracia corrupta. La masacre de 1968 significó entre otras cosas el final del consenso interclasista relativo al proceso de modernización tutelada de la sociedad mexicana.

 

     El periodo desarrollista acabó en 1982, cuando el mercado nacional no pudo sostener la tasa de crecimiento requerida, sumiendo al país en una crisis profunda que se tradujo en endeudamiento, pobreza y para variar, en un sorprendente incremento de la población urbana. La suburbanización prosiguió a pesar del parón económico: se volvió autónoma. La clase dirigente mexicana, como todas las demás, obedeció los dictados de la OMC y el FMI y viró hacia el neoliberalismo. Así pues, mediante diversos tratados y acuerdos eliminó todas las barreras a las finanzas mundiales, lo que comportaría recortes de subsidios, privatizaciones de empresas públicas (algunas tan importantes como la Banca, teléfonos, ferrocarriles, aeropuertos y comunicación por satélite), el fin del planeamiento urbano, el auge de las maquiladoras y la entrega del territorio a los promotores turísticos y a las multinacionales extractivas. El sector terciario tomó la delantera (los servicios constituyeron el 76% del PIB en el 2000), y, en fin, se produjo un cambio cualitativo en la sociedad mexicana. En lo sucesivo, el Estado desempeñaría un papel subsidiario de una economía-mundo que absorbía y digería las economías nacionales. La tendencia a la concentración poblacional en áreas metropolitanas se acentuó con ese “ajuste estructural”, y la fuerza centrípeta de las metrópolis se hizo incontrolable. El conjunto conurbado alrededor de la capital sumaba 27 millones de habitantes en el 2000. Frank Lloyd Wright, al observar las confusas tramas de las grandes urbes estadounidenses, dijo que eran “la forma universal de la angustia”. Quince conurbaciones mexicanas superaban el millón de habitantes, pero el rasgo más llamativo fue el crecimiento de las ciudades medianas. El número de regiones metropolitanas en el 2000 se había elevado a 56, con la particularidad de que las coronas exteriores superaban en habitantes a los centros, evidenciando claramente la fractura social de una expansión sin sentido. El chabolismo se hacía ubicuo a la par que la desigualdad: las dos terceras partes de las viviendas eran autoconstruidas y carecían de los más elementales servicios. La población urbana alcanzaba los 66 millones, cerca del 70% del total: México dejaba de ser simplemente urbano para convertirse en un país metropolitano. La metropolitanización, muy ligada a la mundialización, forzaba una reconfiguración brutal del territorio. Los imperativos de accesibilidad y movilidad exigían ahora grandes vías de alta velocidad, un parque automovilístico extenso, redes privadas de transporte colectivo, amplias zonas de aparcamiento y nuevos aeropuertos más extensos. En lo que respecta al transporte publico no rentable, y por lo tanto, de difícil privatización, en Ciudad de México, por ejemplo, se constituyó en el 2000 una red de autobuses, la RTP, para atender el desplazamiento en las barriadas marginales hacia estaciones del metro, pero en los años siguientes se intentó construir un sistema de corredores (Metrobús) de mayor alcance. Finalmente, tras varios proyectos fallidos a causa de los conflictos de intereses entre los diferentes aparatos burocráticos y las constructoras foráneas, en 2008 se inauguró una línea del tren suburbano de la Zona Metropolitana, “la vía rápida al bienestar”, o sea, a la globalización. Por otra parte, las necesidades de las áreas metropolitanas se elevaban exponencialmente: los suministros requerían presas, acueductos, gasoductos, importaciones, nuevas fuentes de energía, etc., y así sucesivamente. En definitiva, el país funcionaba, es un decir, como un sistema policéntrico metastásico coronado por una megalópolis bien integrada en el mercado global, sin límites y con un déficit crónico de arterias. El fenómeno urbano ya estaba en todas partes, se había generalizado, pero a lo bestia, como no-ciudad, como suburbio total, como reino inhumano de la completa separación.

 

     La generalización de lo urbano es un fenómeno universal, pero en los países donde las condiciones reinantes no son suficientemente capitalistas – y por eso los llaman “subdesarrollados” o “en vías de desarrollo”- presenta rasgos específicos que intensifican su fragilidad e inestabilidad. Ya señalamos la multiplicación de los guetos debida al desarrollo caótico, desenfrenado y autónomo de las aglomeraciones urbanas en América Latina. La falta de capitales era otra, algo paradójico pues la Zona Metropolitana del Valle de México fue el principal destino de las inversiones extranjeras y en ella se concentraron las oficinas de la mayoría las corporaciones internacionales. El crecimiento hipertrófico informe era una consecuencia palpable, igual que la insuficiencia, inseguridad y mal funcionamiento del transporte público, o la congestión endémica del tráfico y el tiempo perdido dentro de los vehículos, que podía llegar a las seis horas diarias. Asimismo, los basureros clandestinos, el estrés hídrico de los acuíferos próximos, la contaminación y el coste ambiental asociado. Otra especificidad: un factor de estabilización tan importante como las clases medias, los dos tercios de la población en los países turbocapitalistas, apenas sobrepasan el tercio en Latinoamérica (menos en el campo, algo más en las conurbaciones) y no se muestran tan conformistas. En cambio, la exclusión, que en España se acercaba al 20%, en México sobrepasaba el 40% en 2016 (en el Distrito Federal era el 64%). Aproximadamente la mitad de los empleos son precarios, mal pagados y sin cobertura social, y el sector informal de la economía alcanza el 23% del PIB (en España la economía “sumergida” tiene un peso similar). El mercado negro del trabajo absorbe más mano de obra que el sector formal, controlado por sindicatos corrompidos. Seis de cada diez en México por uno de cada diez en España. Además, medio millón de personas trabajan para el crimen organizado. La excesiva violencia cotidiana revela no solo la abundancia de depredadores sociópatas propia de la condición metropolitana, sino la presencia de una clase numerosa a la que Marx llamó lumpenproletariado y Jack London denominaba pueblo del abismo. Es la característica más diferencial de la metropolitanización tercermundista. No se trata en absoluto de un nuevo sujeto histórico. La rebelión ciega, desesperada y manipulable del abismo conduce inexorablemente a un escenario mafioso y prefascista del que solo sacarán partido el Estado represor, los dirigentes corruptos y las bandas criminales. Fuera de la barbarie urbana pero no a salvo de ella, en el campo, las sucesivas “reestructuraciones” van directamente contra la pequeña propiedad, la propiedad colectiva y la soberanía alimentaria. El modelo de autosuficiencia alimenticia característico de la agricultura de la Reforma devino un obstáculo para la expansión de las grandes corporaciones agroalimentarias y la conversión del territorio en capital. La reacción campesina se revolvió entonces contra la burocracia y la política: ningún partido ni ninguna institución la representaba. Entonces, la cuestión social ya no podía mostrarse como simple problema político tal como pretendía la oposición populista, ni por supuesto solucionarse con elecciones. Por una parte surgirá como cuestión urbana, y por la otra, como defensa de la tierra. Así entra en escena una sociedad civil a través de nuevos actores extrapolíticos - jóvenes urbanitas, mujeres, campesinos, marginados, población movilizada contra proyectos lesivos- y se inaugura una nueva reflexión crítica antipatriarcal, ecologista y antidesarrollista. La represión desplegada en su contra indica que hoy por hoy la correlación real de fuerzas es menos favorable a los opresores, y que el cambio de tendencia de lo mundial a lo local no es imposible del todo.      

 

     Poderosos intereses corporativos quieren a todo el territorio -incluido el medio natural, el agua y el subsuelo- liberado de ataduras comunitarias y tratable como mercancía, a merced de proyectos desarrollistas de todo tipo. En América Latina, el extractivismo ha tomado la forma de una guerra de despojo que no duda en emplear métodos terroristas. Sus responsables no se andan con chiquitas, pues los beneficios en juego son enormes y la urgencia de las transformaciones desaconseja las negociaciones con los afectados, siempre largas y complicadas, y, por consiguiente, demasiado caras. Se compran voluntades y no se retrocede ante las masacres. En contrapartida, la defensa del territorio coloca en primera línea al campesinado, y a la cabeza, a las comunidades indígenas. La libertad había huido de las ciudades que antaño fueron su cuna para reaparecer ahora en el bando insurgente campesino. Las primeras movilizaciones de los años 70 contra las plantas petroleras, la construcción de un reactor nuclear, la tala de bosques de uso comunal, la apertura de minas o los complejos turísticos fueron la respuesta popular a la explotación industrial de recursos territoriales. No obstante, las primeras batallas en defensa de la tierra, si bien replantearon modos de resistencia colectiva frente al capitalismo neoliberal, a la burocracia estatal, a los sindicatos oficialistas y a las fuerzas del orden, no cristalizaron un proyecto social alternativo, o mejor, un Plan de autogobierno, hasta 1994, cuando tuvo lugar el pronunciamiento zapatista de Chiapas. Culminando un proceso de autoorganización indígena en combate contra los grandes propietarios y la política represora del gobernador, las comunidades zapatistas constituyeron un ejemplar escollo contra la marea extractivista. Significaron el despertar reivindicativo de los derechos del pueblo nativo (puesta luego de manifiesto en la creación de un Congreso Nacional Indígena), que, a juzgar por los apoyos obtenidos y las luchas que inspiró en todo el país, se colocaba de nuevo en el centro de la cuestión social. La reforma del artículo 27 de la Constitución en 1992 que liquidaba las conquistas agrarias de la Revolución, había caldeado el ambiente, el cual entró en ebullición con la expropiación criminal de tierras, principalmente ejidales y comunales, de cara a construir las grandes infraestructuras inútiles que exigía “el progreso y la modernización”, es decir, el dictamen de los mercados internacionales. Las movilizaciones autónomas contra la construcción de embalses, las concesiones mineras y madereras, y, por encima de todo, el conflicto del nuevo aeropuerto de Atenco, revelaron la defensa del territorio como eje central de la nueva lucha de clases. A menudo, las luchas por sobrevivir han generado formas de autogestión, autodefensa y justicia basadas en organismos asamblearios, como en la Comuna de Oaxaca, el Istmo de Tehuantepec, Santa María Ostula o Cherán. También han revitalizado el tequio y la ayuda mutua, y reivindicado los derechos de las mujeres y la autodeterminación de los pueblos. La globalización ha convertido el territorio en factor estratégico principal, y a sus defensores, en la personificación del nuevo sujeto revolucionario, ajeno a los mercados y refractario al Estado y las metrópolis. Dicho sujeto descubre que su modo de vida, que su propia existencia como comunidad, se opone a la mercantilización del territorio y encuentra en la autonomía territorial -la autodeterminación- el primer gran objetivo que hace posible todos las demás. Un cierto embrión de civilización libertaria florece de nuevo en la tierra.

 

     A pesar de las resistencias, el caudal subversivo de la defensa del territorio se diluye ante el océano urbano. El espíritu comunitario -“la alegría recobrada de convivir” de la que habla Raoul Vaneigem-  no ha conseguido entrar en las metrópolis posmodernas y, por lo tanto, no se han desarrollado en su seno contrainstituciones autónomas ni formas de vida libres de apremios mercantiles similares a las agrarias. Bien al contrario, la crítica radical no ha llegado a influir de forma efectiva en las urbes y los programas anticapitalistas se han ido arrinconando en beneficio de un posibilismo político ramplón. Por eso, la reacción anti-neoliberal que despertó el 2000 en el continente y llevó al poder a movimientos populistas, consagró al Estado como instrumento fundamental de intervención en la esfera económica y social. Las organizaciones que los impulsaron o apoyaron fueron invariablemente cooptadas y transformadas en instrumentos de desmovilización y control, mientras que se levantaban desde arriba aparatos asistenciales destinados a contener las clases desfavorecidas y mantenerlas en calma, adormecidas, a base de programas sociales. Dentro de una economía global inalterada, la maquinaria redistributiva del populismo funcionó mientras la demanda internacional de materias primas fue pujante, pero la debacle económica de 2008-2012 obligó a los gobiernos populistas a dar un giro conservador hacia modelos más extractivistas y desarrollistas a fin de mantener el voto cautivo. En México, una suerte de nacionalpopulismo interclasista renació en las metrópolis con la crisis de la partitocracia, y su última versión no ha tardado en mostrar su verdadera cara con megaproyectos como el Corredor Transoceánico, el Tren Maya, el nuevo aeropuerto o el Proyecto Integral de Morelos. Mumford advertía en su libro “La Ciudad en la historia” que las metrópolis eran “un mundo donde las grandes masas de la población, incapaces de alcanzar un medio de vida más pleno y satisfactorio, viven su vida por persona interpuesta, en calidad de electores, espectadores, oyentes y observadores pasivos.” La complejidad y tamaño de los conglomerados urbanos prohibían la menor sociabilidad y la más mínima cultura política; por consiguiente, impedían cualquier planteamiento de clase generalizado. ¿Qué tipo de proyecto libertario, por ejemplo, podría llevarse a cabo en una incontrolable tiranópolis de 30 millones de habitantes? A pesar del elevado grado de desagregación política y social del país, las condiciones patológicas de una vida urbana extremadamente artificial y dependiente, monetarizada, centrada en la vida privada, el anonimato y el consumismo individual, no dejan espacio para la constitución de una sociedad civil apartada del Estado. La anomia condena la población aprisionada en las conurbaciones a no ser más que público pasivo, indolente y desmemoriado de un caudillo redentorista, y masa de maniobra para el “reajuste electoral” de un sistema de partidos en bancarrota.

 

      Las metrópolis han sobrepasado el límite que las hace gestionables, pues el despilfarro económico que requiere su administración es imposible de asumir y desemboca en la muerte del fenómeno urbano. La crisis final del sistema de producción del espacio urbano está servida y el colapso social será inevitable, por lo que si bien la adaptación al desastre es la consigna interna del nuevo capitalismo, el desmantelamiento metropolitano ha de ser el eje del pensamiento crítico y la acción radical transformadora. Hay que reconstruirlo todo, pero en dirección diametralmente opuesta a la que indica el capitalismo de la “resiliencia”. La lucha por una sociedad libre y equilibrada ha de ser una lucha por la ciudad entendida en su concepción original de comunidad autogobernada en pie de igualdad con su territorio. No obstante, solamente un proceso desurbanizador y municipalista que, al crear condiciones propicias para la autonomía en todos sus aspectos, logre desmontar las metrópolis y provoque un repliegue comunal capaz de propiciar la vita activa en la que incidía Hannah Arendt, haría que sus fragmentos autogestionados confluyeran como espacios de libertad ciudadana en un mismo esfuerzo emancipador con las comunidades agrarias. Pero tal eventualidad no será posible desde dentro mientras los flujos de capital sean tan potentes y sigan tan omnipresentes. Una estrategia antidesarrollista que buscara la salida del capitalismo debería tratar de cortocircuitarlos.  Recuperar la memoria, desmercantilizar el mundo, desmetropolitanizar la vida. Esa es la cuestión.           

 

Miguel Amorós.

Contribución al seminario La lucha por la vida en las ciudades. Defensa del territorio, irrupciones subterráneas, proyectos de autonomía, organizado por la Cátedra Jorge Alonso de la Universidad de Guadalajara (México). Sesión del 16-06-2021.

 






mercoledì 16 giugno 2021

FOX – di Piero Coppo (dal blog di Altraparola)

FOX – di Piero Coppo 

14 Giugno 2021 

 di FRANCESCO BIAGI

Pubblichiamo alcune pagine inedite di Piero Coppo, venuto a mancare nei giorni scorsi. Piero è stato uno dei fondatori e dei più importanti esponenti dell’etnopsichiatria in Italia; ma anche un pensatore critico radicale, contro i fantasmi e la manipolazioni psichiche del capitalismo attuale. Chi lo ha conosciuto conserverà per sempre nella mente e nel cuore il suo rigore morale, la sua passione libertaria, la sua generosità di amico.
 
«Le barche sono strani animali: un filo lungo esce dal loro naso e sprofonda nell’acqua. All’estremità, là in basso, un duro rampino si aggrappa al fondo. Così galleggiano, ferme, sul mare. Poi, se il vento si leva, ritirano filo e rampino, aprono le ali e scivolano via.» Un occhio più grande e l’altro più piccolo, uno buono e uno cattivo, il Capitano seduto su uno sgabello sgangherato all’ombra di uno spuntone di roccia, osserva, lontane, le barche in rada. Laggiù, sul blu cupo dell’acqua incorniciata da rocce dove vento e onde hanno scavato grotte, creste, punte e dentelli, si stagliano le sagome di alcuni scafi alla fonda.
«Le barche sono archi tesi, la freccia dell’albero piantata a punta in giù, nel bulbo. Nelle loro sartie e nelle carene si concentra, compressa, la loro energia. Se va in risonanza con quella del vento, la barca non può restare ferma. Vibra, risuona tutta, vuole essere aiutata a ritirare il rampino che la trattiene. Deve correre.»
 
Il Capitano si volta e mi guarda di sbieco con l’occhio buono. L’occhio buono manifesta una meraviglia da bambino. È un occhio aperto, visionario, che vede più di quanto appaia. Ricambio lo sguardo con un sorriso. Sotto il berretto stinto da sole e mare, troppo piccolo per la testa canuta, il viso del Capitano ricorda quello di vecchi e grandi pesci che ho incontrato nei mari caldi. Sulla pelle solcata da pieghe profonde il bianco del sale si è depositato segnando ogni possibile riparo o anfratto. Sulla fronte, alle tempie e sul mento piccole escrescenze, protuberanze tonde e rugose grandi come chicchi di riso o piselli, rompono la distesa della pelle. Nel naso tozzo venuzze disegnano percorsi ramificati, come di fiumi. Una barba bianca corta, ispida e puntuta dà al tutto l’aspetto di uno di quei ricci marini che, in profondità, hanno aculei corti e punte candide.
Si gira ancora appena un po’ e dietro la sella del naso intravvedo l’occhio cattivo: più piccolo, socchiuso, sospettoso e freddo. Si starà chiedendo cosa sono venuto a fare, cosa sto pensando, dove sono andato seguendo le sue parole, cosa mi passa per la mente. Abbozzo un altro sorriso. Lui si distende e torna con lo sguardo alla rada.
Vassili, il guardiano del piccolo porto, lui anche pastore come i pochi che vivono qui coi loro animali tra montagna e mare, mi aveva indicato la sua barca e poi, visto che lui non c’era, quel punto di osservazione alto su uno sperone roccioso. Lì, mi aveva detto, il Capitano aveva organizzato, portandoci persino uno sgabello malandato, il suo punto di osservazione. Vi passava ore e ore assorto, lo sguardo volto attorno o fisso su qualche punto del paesaggio o della superficie dell’acqua. Ne contemplava i movimenti e ogni increspatura, preso da certi suoi complicati ghirigori di pensiero. Se con lui c’era chi lo stesse a sentire e che gli pareva lo meritasse, a volte condivideva pensieri che scaturivano dalle sue osservazioni, come per esempio questi sulle barche-farfalla e le barche-arco. Al porto, sulla sua barca ormeggiata in fondo alla banchina, il Capitano era invece occupato di continuo da un’infinità di piccole mansioni. O studiava le carte, o annotava qualcosa nel libro di bordo, o rilevava punti cospicui (sempre gli stessi, quasi per sincerarsi che quella a cui la barca era legata fosse per davvero terra ferma) o esaminava, per verificare che funzionassero, uno qualsiasi degli strumenti a quadrante (temperatura, giri motore, scandaglio). Oppure, ascoltava per un po’ la radio (notizie ai naviganti) o si dedicava a piccole operazioni di riparazione e manutenzione. Azioni di routine, automatiche e apparentemente inutili visto che la barca, come dimostravano i lunghi capelli di alghe visibili sotto la linea di galleggiamento, non si muoveva da tempo. Sembrava ormai arrivata alla sua destinazione finale. A ore fisse ascoltava i bollettini meteo e li trascriveva con strani segni e abbreviazioni nervose su un quadernetto dalla copertina chiara sulla quale erano riprodotti i nodi principali. Ma le previsioni meteo della radio passavano in secondo piano rispetto al suo fiuto. Intuiva, addirittura incorporava, lui diceva, il tempo e i suoi cambiamenti. Per questo pescatori e velisti gli avevano dato il soprannome “Fox”, la volpe. Gli era piaciuto e lo usava nelle comunicazioni radio. Fox, l’astuzia e il sapere della volpe: metis, avevano detto i greci. Certo, prevedeva variazioni del tempo e del mare meglio e con maggiori dettagli delle stazioni meteo. Si diceva che in navigazione sapesse giocare coi temporali, i colpi di vento, le correnti, le brume, le tempeste, gli scrosci e le risacche come un gatto col topo; o, meglio, come il topo che nei cartoni animati sa come beffare il gatto. Spesso, quasi sempre, ci riusciva grazie anche all’estenuante lavoro in cui impegnava in egual misura ambedue gli occhi. Osservava con attenzione il gioco del vento sul mare e ne accoglieva le indicazioni: poi prendeva repentine e a volte contradditorie decisioni simili ad affondi nervosi.
Tra noi velisti di piccolo cabotaggio Fox, il Capitano, era leggenda. Aveva navigato in solitario per tutti i mari con questa piccola ma robusta barca che aveva attrezzato con grande intelligenza e sapere tecnico. Sapevo di lui da un amico con cui condividevo interessi e lavoro, anche lui velista. L’aveva incrociato un anno fa non lontano da qui. Per alcuni giorni erano stati con le barche ormeggiate vicine. Ambedue avevano goduto dei loro dialoghi quasi subito tracimati oltre i racconti e i temi della vela e del mare. Fox, aveva detto il mio amico, a momenti tirava fuori da un gavone della sua barca certi suoi quaderni sgualciti, pieni di citazioni, note e pensieri che spaziavano tra discipline diverse, più o meno quelle che interessavano anche al mio amico e a me impegnati, come eravamo, in campi diversi ma tra essi connessi: come medicina, antropologia, storia, sociologia, psicologia… Fox gli aveva detto che quei quaderni erano tutto quello che gli era rimasto. I libri che lo avevano accompagnato e che ne erano stati in buona parte la sorgente li aveva via via abbandonati o regalati nei vari incontri e ormeggi. Ma anche, aveva detto, non pochi fogli dei suoi quaderni pieni di osservazioni, citazioni e pensieri erano stati man mano utilizzati in navigazione per usi impropri e così erano andati persi. A volte, infradiciati per un infortunio o altro, li aveva affidati al mare.
Il mio amico insisteva sulla sua meraviglia nell’aver incontrato Fox: uno del tutto fuori dal mondo dei salotti, delle accademie, dei circoli di sapienti e intellettuali ma che aveva perseguito con grande competenza e coerenza una sua straordinaria ricerca scavando tra una disciplina e l’altra. Ne aveva, il mio amico, a più riprese sottolineato l’originalità e le qualità, frutto di uno sguardo che vedeva i mondi umani come da fuori, ma sempre con punti di vista che si avvalevano dei tanti incontri fatti in diverse parti del mondo con pescatori e naviganti. Avevano parlato a lungo, mi diceva, di questo mondo fatto di mondi, di com’era, come era stato e di come sarebbe forse divenuto o addirittura finito; della stupidità, genialità e dei limiti della specie umana; della sua meravigliosa ma pericolosa intelligenza che stava cambiando, e forse distruggendo, il mondo. Il tutto innestato, come dimostravano le sue citazioni, in documenti e libri di alta qualità e, nel loro genere, di punta; poi progressivamente lasciati andare in scambi e usi impropri. Nessuna traccia di quel feticismo per la carta stampata che spesso caratterizza il lavoro degli intellettuali di professione. Non poteva, il mio amico, dimenticare la fecondità di quelle sere passate insieme sulla barca dell’uno o dell’altro e il piacere di quegli incontri reiterati, negli ultimi due anni, incrociando nell’Egeo dove, il Capitano diceva, cercava il posto dove fermarsi. Era lui che gli aveva parlato di questo porticciolo. Quasi tutto l’anno, oramai, era lì, solo. Se vai e lo trovi, mi aveva detto il mio amico, ringrazialo ancora per ciò che mi ha detto e dato.
E così l’avevo cercato. Ho trovato il porto, ho ormeggiato la mia barca non molto lontano dalla sua. C’erano solo le nostre barche e altre due di pescatori. Vassili, il guardiano del porto, vedendo entrare una nuova barca era sceso dalla sua casa, un po’ più su nella collina. Mi ha aiutato a ormeggiare. Dopo i saluti di rito gli ho detto che cercavo Fox. Mi ha guardato con un sorriso e i suoi occhi sono divenuti più luminosi. Sì, mi ha detto; è qui, e quella è la sua barca, quella in quell’angolo remoto del porticciolo. Ma, mi ha subito detto, probabilmente non ci sarà. L’aveva visto poco prima salire al suo osservatorio. Se ha visto arrivare la barca, ha aggiunto, forse scenderà. Si parla di lui in Italia? È un grande marinaio, straordinario velista: vedessi, continuava Vassili, che entrate in porto faceva a vela nei giorni di meltemi teso! Viene spesso a mangiare a casa mia, racconta molte cose dei paesi dove è stato a mia figlia che va a scuola e che lo ascolta a bocca aperta. Ma ora, da mesi, non muove più la barca. Forse l’età, il diminuire delle forze. Lo vede precipitare, in alcuni momenti del giorno, in una stanchezza malinconica. A volte entra in una specie di sonno. Tutte cose che dovevano averlo convinto a fermarsi lì, a vivere nella barca ormeggiata in un angolo del porto. Così la chiglia si era coperta di alghe e denti di cane. Aveva ripiegato e stivato sotto coperta le vele, non si sa ora in quale stato siano. La coperta e le scotte di manovra sembravano però pronte a salpare in ogni momento; le eliche dell’anemometro e del generatore erano sempre vive e seguivano il vento e la sua intensità. Quindi, forse, non aveva ancora deciso di morire qui. Comunque, facendo qualche centinaio di metri di un ripido sentiero, potevo raggiungere lo spuntone di roccia dove era il suo sgabello e dal quale si vedeva la baia. Lui ci passava a volte giornate intere, da solo. Pensando? Guardando il mare? Era vero, aveva concluso Vassili, che aveva fatto il giro del mondo in solitario. Si diceva che gli tenessero compagnia i molti libri che leggeva, annotava e usava per certi suoi scritti. Gran parte, il Capitano diceva, erano finiti per una ragione o l’altra a mare. «Restituiti al mare», lui diceva. Doveva averne pur conservato da qualche parte qualcuno, perché ogni tanto li portava da lui e ne leggeva brani alla figlia e alla moglie. La figlia, che andava a scuola (e per farlo durante la settimana stava dalla nonna su, nel villaggio vicino), diceva che ascoltarlo la faceva sognare. Anche Vassili lo ascoltava a volte, ma per lui, diceva, erano cose troppo difficili. E poi aveva tanto da fare tra pecore, cani, porto, pescatori, turisti…
Salutandomi, Vassili mi aveva indicato, se volevo provare a cercarlo, la strada, lo stretto sentiero che saliva su per il monte.
Se la straordinaria bellezza e potenza del luogo che aveva scelto come rifugio, questo porticciolo sperduto in fondo a un’isola poco frequentata e dove per quasi tutto l’anno era solo, scambiando ogni tanto due parole coi pastori che passavano vicino portando le greggi ai pascoli o coi pescatori, o accettando l’ospitalità della famiglia di Vassili, potevano essere un segno della sua natura, il Capitano doveva essere davvero un uomo fuori dall’ordinario. In più, mi aveva detto l’amico velista che aveva parlato a lungo con lui, le sue analisi e previsioni sul passato e sul futuro del mondo sembravano altrettanto sensate e reali quanto quelle sul mare e il vento e, a volte, altrettanto potenti.
E così l’avevo cercato. Mi sono inerpicato per lo stretto sentiero, un sentiero da capre, su per il monte. L’ho trovato seduto sullo sgabello che guardava il mare anche se, certo, doveva avermi sentito arrivare. Con una certa emozione mi sono presentato. Dopo quello che il mio amico (si, lo ricordava) mi aveva detto di lui, mi interessava incontrarlo. Mi ha chiesto da dove venivo, se ero contento della mia barca che aveva visto entrare in porto. Aveva riconosciuto il modello: una barca vecchia di tutto rispetto, capace di reggere quasi tutti i mari. Mi ha fatto sedere, indicandomi un masso liscio lì accanto. Gli ho detto che lo cercavo perché dalle parole del mio amico mi sembrava che stessimo cercando tutti e due un modo, una posizione per riflettere sul mondo e sul suo divenire. Ce ne stavamo ambedue il più possibile al di fuori per vederlo un po’ come dall’esterno. Lui l’aveva trovato questo punto di vista in questo porto, in questo osservatorio, seduto su quello sgabello? Ha ascoltato con attenzione. Poi un leggero sorriso tra l’ironico e il sorpreso, ma soprattutto un lampo nel suo sguardo subito ritirato, mi hanno fatto pensare che c’eravamo intesi.
Così è stato. Per alcuni giorni abbiamo condiviso nel suo osservatorio momenti di silenzio e altri in cui lentamente e con delicatezza gli raccontavo da dove venivo e quanto, insieme a compagni e amici, stavamo pensando e cercando di fare. Poi si è aperta progressivamente, grazie alle lunghe ore condivise nella mia barca o nella sua, una breccia nella sua crosta. Senza forzature, senza urgenze, ma con la sorpresa di un dialogo che a poco a poco scaturiva e prendeva forma. Da parte mia, con la stessa circospezione e passione di chi si dispone a un incontro, consapevole della sua preziosità e fragilità. Da parte sua, credo (perché in tutti quei giorni e fino al nostro commiato nulla ci siamo detti del reciproco piacere), perché sorpreso dalla gioia che provava nell’aprirsi, nel lasciarsi andare a un dialogo dove ha diritto di presenza ciò che di più profondo, forte, tremante, potente e delicato racchiude il carapace di protezione che è la nostra pelle. Così il tempo (più di un mese!) è passato senza un giorno o una notte (perché i nostri incontri attivavano pensieri che proseguivano anche in sogni e risvegli pieni di emozioni) che non fossero animati da una tensione generativa fatta di sorprese, gioie e mancanze. Qualche volta siamo usciti con la mia barca e ho potuto ammirare la sua padronanza e precisione al timone e alle vele e la sua intimità, quasi un’alleanza, con quel mare: soprattutto quando il vento si levava burrascoso.
Alla fine del mio tempo e alla vigilia della mia partenza ci siamo salutati sapendo tutti e due che non ci saremmo rivisti. Gli ho lasciato il mio orologio da polso (di cui il barometro, la bussola, il cronografo, il profondimetro e altre diavolerie ipermoderne l’avevano incuriosito) e un libro che avevo scritto anni addietro: Passaggi. Lui, con l’ultima stretta di mano, mi ha passato un sacchetto di plastica da supermercato tutto sgualcito. Mi ha detto: fanne quello che vuoi. Dentro, alcuni suoi quaderni zeppi (come scrive chi deve economizzare carta) della sua scrittura fine, precisa, ordinata.
Li ho poi letti. Facendolo, ho capito meglio perché quello era stato un incontro, un dialogo eccezionale e felice. Insieme, senza sapere nulla dell’uno e dell’altro, avevamo percorso le strade diverse ma risonanti una nell’altra.
Non ho più incontrato il Capitano. Mi dicono che la sua barca sia sempre lì, nella baia dove l’ho incontrato, chiusa e apparentemente abbandonata. Di lui, nessuna traccia. Ho parlato più volte al telefono con Vassili. Un giorno, mi ha detto, Fox aveva preso un passaggio su una barca di turisti, dicendo che doveva, per certi suoi affari, andare ad Atene. Gli aveva lasciato un po’ di soldi perché tenesse d’occhio la barca. Ma era passato quasi un anno e di lui più nessuna notizia. Non sapeva cosa fare con la barca. Non sapeva se forzare il tambuccio per entrare e vedere se tutto fosse a posto e cercare documenti. Fox non gli aveva lasciato numeri di telefono, indirizzi, persone di riferimento o altro. Il mio amico velista era poi di nuovo passato da lì, ma neppure lui aveva notizie di Fox. Ora non era solo sotto la linea di galleggiamento che si vedeva come il mare stava riprendendosi la barca, anche la coperta si stava coprendo di polvere, sabbia, foglie e tracce di uccelli. Era salito, il mio amico, all’osservatorio di Fox. C’era lo sgabello arrovesciato. Nessun’altra traccia.
Ho letto, direi quasi “studiato”, i quaderni che Fox mi aveva affidato. Ho cercato di mettere un po’ d’ordine in quello che contenevano e ho selezionato ciò che mi sembrava più importante oggi e qui. Ho rimaneggiato e integrato il tutto con citazioni e rielaborazioni dai suoi e dai miei scritti, mescolandoli tra di loro. Ho infine diviso il tutto in capitoli cercando di raggrupparli in un ordine che certo Fox non avrebbe condiviso, nemico com’era di titoli e generalizzazioni. Ingessavano, diceva, la continuità, l’originalità, l’imprevedibilità, lo scaturire del possibile, del divenire. È stato questo un lavoro che mi ha fatto rivivere i dialoghi, le emozioni, le passioni di quegli incontri nel corso dei quali ci siamo conosciuti e abbiamo condiviso ciò che, come più volte c’eravamo detti, miracolosamente “ci tiene”. Di Fox non conosco, come non lo conosce il mio amico velista né, almeno così dice, Vassili, nome, cognome e residenza. E neppure ho riferimenti di suoi parenti o conoscenti.
 
Ovunque tu sia Capitano Fox: buon vento!

RINGRAZIAMO la rivista Altraparola per questo post che copiamo qui