lunedì 14 aprile 2025

Arendt nell’Antropocene

 



Il lavoro è un'attività alienante o emancipatrice? L'automazione del lavoro sociale offre la prospettiva di un tempo liberato o, al contrario, è da temere?

Tali questioni sono nuovamente oggetto di dibattito mentre l'intelligenza artificiale imperversa nella società e molti pensatori ecologisti tentano di riabilitare i lavori di sussistenza come fonti di autonomia e gioia. Altrettanti motivi per riscoprire il pensiero di Hannah Arendt.

 

Céline Marty, in FRACAS n° 3, primavera 2025

 

Padroni e personale politico sono già in fermento: i progressi dell'intelligenza artificiale sarebbero pieni di opportunità per automatizzare ulteriormente la produzione e permettere un risparmio senza precedenti di posti di lavoro. Dal lato dei dipendenti, riemerge una vecchia paura: dei robot li sostituiranno presto? Da due secoli, ogni balzo in avanti della tecnologia ha suscitato l’angoscia di un'obsolescenza del lavoro umano. Nel diciannovesimo secolo, i luddisti fecero a pezzi i telai; Nel 1930, di fronte alla “disoccupazione tecnologica”, l’economista britannico John Maynard Keines predisse una settimana lavorativa di quindici ore entro il 2030 oggi siamo ben lontani da quest’obiettivo.

Sulle sue orme, Hannah Arendt, nel libro La condizione dell’uomo moderno pubblicato nel 1958, teme “l'automazione che, nel giro di qualche decennio, svuoterà probabilmente le fabbriche e libererà l'umanità dal suo fardello più antico e naturale, il peso del lavoro, la schiavitù della necessità”. La nostra società ha dunque fondato i suoi valori sul lavoro, fonte d’identità e di senso. Arendt teme allora “una società di lavoratori liberati dalle catene del lavoro, in una società che non sa più nulla delle attività più elevate e arricchenti per le quali varrebbe la pena di ottenere questa libertà”; si tratterebbe di una “società di lavoratori senza lavoro, cioè privati dell'unica attività che rimane loro”. Segregata in una ricerca incessante di produttività, la nostra società è incapace di darsi altre ragioni per agire se non quella di produrre: una volta fermata la ruota del criceto, essa resterebbe stordita e disorientata. Arendt è antiproduttivista e propugnatrice della decrescita prima in anticipo?

Lavoro, opera e azione

Per il filosofo, il lavoro designa la produzione infinita necessaria alla riproduzione della vita, attraverso la quale l'organismo vivente soddisfa i propri bisogni: “Il lavoro è l'attività che corrisponde al processo biologico del corpo umano, la cui crescita spontanea, il cui metabolismo ed eventualmente la cui corruzione sono legati alle produzioni alimentari il cui lavoro alimenta questo processo vitale. La condizione umana del lavoro è la vita stessa”. Per Hannah Arendt, il lavoro è un'attività condivisa con tutti gli esseri viventi. Non è qualcosa di eccezionale, specifico di un essere umano, che trasformerebbe la natura, come Marx in particolare lo considera. Viceversa, “l’opera” e “l’azione politica” sono specificamente umane, perché autoteliche, cioè valide solo per se stesse, secondo i fini che gli individui si prefiggono. Sono, però, indebolite dalla nostra società industriale. Perché l’opera crea qualcosa di duraturo da trasmettere: è il modello artigianale, opposto alla società industriale produttivista, che genera costantemente nuovi bisogni per vendere un flusso ininterrotto di merci rapidamente obsolete. Quanto all'azione politica, che dovrebbe nascere dal confronto e dal libero dialogo tra esseri umani, oggi si riduce a una gestione d’imperativi economici.

Arendt critica la nostra società per aver messo in secondo piano l’opera e l'azione, facendo del lavoro l'attività principale, confinando così tutti in una ricerca permanente di produttività: i lavoratori di entrambi i sessi hanno dimenticato l'esistenza delle altre attività che giustificherebbero di liberarsi dalle catene del lavoro.

Una concezione aristocratica?

Arendt non cerca l'autonomia nel lavoro, a differenza del movimento marxista e comunista. Per lei soddisfare i bisogni e riprodurre la vita sono compiti animali e ingrati. Questo giudizio si ritrova in Simone de Beauvoir, ne Il secondo sesso (1949), a proposito del lavoro domestico, descritto come una pena infinita, dai risultati effimeri: “Legioni di donne hanno dunque in comune solo una fatica ripetuta all'infinito durante una lotta che non porta mai alla vittoria. Anche nei casi più privilegiati, questa vittoria non è mai definitiva. Pochi compiti sono più simili alla tortura di Sisifo di quelli domestici.”

L’eco-femminismo di Geneviève Pruvost (Quotidien politique, 2021) e l’ecologia libertaria di Aurélien Berlan (Terre et liberté, 2021) contestano oggi questa visione aristocratica che vorrebbe liberarsi dai lavori manuali e dalla sussistenza quotidiana per dedicarsi a occupazioni più nobili. Per Aurélien Berlan, la posizione privilegiata degli intellettuali professionisti, che consente loro di liberarsi dalle necessità materiali, li spinge a far prevalere l'ideale dell'emancipazione su quello dell'eliminazione del dominio sociale e politico.

Il dominante è "libero" solo nella misura in cui dei dominati si occupano al suo posto dei compiti ritenuti “ingrati”. A quanti vogliono “liberarsi del lavoro”, Aurélien Berlan e Geneviève Pruvost mostrano che i lavori di sussistenza sono fonte di autonomia, creatività e gioia, vissuti collettivamente.

Autonomia dell'inutile contro necessità materiale

Questi dibattiti sono antichi nel marxismo e nell'ecologia politica. Nel 1980, nel suo libro Addio al proletariato, il filosofo André Gorz difende, come Berlan e Prouvost oggi, l'autogestione del lavoro e dei bisogni per ritrovare della libertà in queste attività quotidiane. Tuttavia, sostiene anche, come Arendt, l'importanza di attività gratuite e disinteressate, attraverso le quali il soggetto fa prova di autonomia, perché può darsi i propri fini e valori. Arendt e Gorz pensano, in quanto filosofi ancora eredi del dualismo tra corpo e spirito, che si diventi liberi solo quando siano state soddisfatte le necessità materiali di riproduzione della vita biologica cosa che contesta, ad esempio, l'ecofemminismo. Gorz riconosce che l'autoproduzione può portare gioia e un sentimento di libertà, a patto che non sia l'unico modo per soddisfare un bisogno: il pane fatto in casa è un’opera gioiosa se non ne dipende la nostra sopravvivenza. L'obiettivo è sfuggire alla logica di mercato, non ricreare della precarietà. Le attività di sussistenza, più o meno autodeterminate dal soggetto nelle sue modalità – scelta delle colture dell’orto, degli orari di svolgimento dei compiti – restano quindi etero determinate dalla loro utilità – si lava la propria biancheria perché si deve indossare biancheria pulita. Le attività veramente autonome sono disinteressate, inutili e senza giustificazione.

Difendere la gratuità e l'inutilità non significa negare il valore dei compiti di sussistenza, ma rifiutare che ogni attività debba essere utile, perché gli esseri umani possono fare di più che soddisfare i propri bisogni. André Gorz vuole che tutte e tutti possano scegliere i propri fini e mezzi, sia nelle attività di sussistenza sia in quelle superflue. Il suo ideale decrescente è quello di dedicare il minimo di risorse – energetiche, economiche e temporali – alla soddisfazione collettiva dei bisogni sociali per garantire delle attività gratuite. Questa sobrietà scelta ridurrebbe l'impatto ecologico delle nostre attività e la nostra dipendenza riguardo a quel che è necessario, liberando spazi e tempi liberi per il gioco, il tempo sociale e la contemplazione. Le attività autonome devono essere conquistate contro il capitalismo e la sua mercificazione che si estende a tutte le dimensioni della vita, contro il controllo sociale che cerca di “mettere al lavoro” le popolazioni povere e precarie, ma anche contro la glorificazione dello sforzo produttivo.

Democratizzare e ridurre il lavoro: una lotta per la decrescita

Hannah Arendt non colloca la sua critica del lavoro all'interno della critica marxista del capitalismo perché intende distinguere tra lavoro e opera, che sarebbero confusi in Marx. Tuttavia, la sua diagnosi del trionfo del “lavoro” al servizio dei bisogni è davvero adatta alla nostra realtà capitalista? Gli impieghi attuali non servono a soddisfare dei bisogni, ma a vendere merci e generare profitto. Nel 1988, in Metamorfosi del lavoro, André Gorz la rimprovera d’interpretare come lavoro “vitale” quello che in realtà è una costruzione del mercato capitalista. Secondo lui, in questa società, gli individui non lavorano in realtà per rispondere alle necessità biologiche e a bisogni “autentici”, poiché il capitalismo industriale ha già risposto a ciò con la produzione di massa. Se lavorano, è unicamente per rispondere ai bisogni del mercato del lavoro. Attraverso la razionalizzazione capitalista, il lavoro produce surplus e abbondanza in certi settori, ma si scontra anche con gli imperativi del capitale e con i limiti ecologici.

Prevedendo una società di lavoratori senza lavoro, Hannah Arendt insinua che il “lavoro” potrebbe scomparire automaticamente. Poiché Arendt separa l'economia (la soddisfazione dei bisogni) dalla politica (il libero dialogo tra valori e azioni umane), non ritiene che la politica possa influenzare l'economia. Al contrario, nel 1944, in La grande trasformazione, Karl Polanyi mostra che l'economia è tradizionalmente radicata in progetti politici e norme culturali, ma se ne libera solo con il capitalismo. Regolamentare e lottare contro il capitalismo è un atto politico, così come sono politiche le trasformazioni che l'economia capitalista impone alla società. Il capitalismo cerca cosi di ridurre la quota di lavoro umano nell'organizzazione della produzione, per ragioni economiche di aumento del saggio di profitto, ma anche per ragioni politiche di controllo della forza-lavoro restante, resa precaria da questa minaccia dell’automazione. È la tesi degli operaisti italiani degli anni '60 come Raniero Panzieri e Mario Tronti, che costatano come l'automazione della produzione miri a spezzare le lotte operaie per invertire i rapporti di forza. Il ricatto sull'occupazione e le minacce di delocalizzazione dagli anni '80 hanno in seguito indebolito le lotte dei lavoratori dei paesi dell'Europa occidentale. Le recenti lotte vittoriose riguardano i servizi quelle guidate, ad esempio, dal personale addetto alla manutenzione , attività che non possono essere de localizzate.

Una società senza lavoratori non potrà esistere finché perdurerà un orario di lavoro regolamentare elevato, a tempo pieno e a vita. La riduzione dell'orario di lavoro e il miglioramento delle condizioni di lavoro possono derivare solo da rapporti di forza concreti, vuoi locali, in ogni unità di produzione, reparto e direzione. Mantenere orari di lavoro così elevati, parallelamente a condizioni di lavoro precarie, è una scelta politica di disciplina sociale. È così che David Graeber ha interpretato nel 2018 i “bullshit jobs”, posti di lavoro che i lavoratori ritengono inutili, non correlati ai bisogni sociali e al servizio di compiti superflui: anziché ridurre l'orario di lavoro complessivo e ripartire tra tutte e tutti i compiti sociali necessari, le élite politiche ed economiche preferiscono occupare invano un certo numero di lavoratori a tempo pieno, rendendo precari ed esclusi dall’impiego gli altri. Si tratta di dominare la loro esistenza anziché dare loro tempo libero, per paura di quel che le classi popolari potrebbero farne ricostituire forze fisiche e psicologiche, riflettere, organizzarsi e lottare. Di fronte al potere del capitale, ridurre collettivamente il tempo di lavoro e il volume dei posti di lavoro, condividerli e organizzare la decrescita non ha dunque niente di automatico. È una lotta che va combattuta ed è di vitale importanza.

Céline Marty

L’articolo qui tradotto è stato pubblicato in Francia su FRACAS n° 3, primavera 2025. Céline Marty è professoressa e dottoressa in filosofia, specializzata in ecologia del lavoro e politica. È autrice del libro Découvrir Gorz, pubblicato nel gennaio 2025 da Editions sociales, di L’écologie libertaire di André Gorz in uscita il 9 aprile per PUF e di Travailler moins pour vivre mieux, Dunod, 2021.


 Arendt dans l’anthropocène





Travailler est-il une activité aliénante ou émancipatrice ? L’automatisation du travail social offre-t-elle la perspective d’un temps libéré ou doit-elle, au contraire, être redoutée ?

Ces questions refont débat alors que l’intelligence artificielle déferle sur la société, et tandis que de nombreux penseurs et penseuses écologistes tentent de réhabiliter les taches de subsistance comme sources d’autonomie et de joie. Autant de raisons pour redécouvrir la pensée d’Hannah Arendt.

Céline Marty, dans FRACAS n° 3, Printemps 2025

Patrons et personnel politique en tremblent déjà d’excitation : le progrès de l’intelligence artificielle regorgerait d’opportunités pour poursuivre l’automatisation de la production et permettrait des économies d’emplois sans précédent. Coté salarié.es, une peur ancienne resurgit : des robots vont-ils bientôt les remplacer ? Depuis deux siècles, chaque saut technologique suscite l’angoisse d’une obsolescence du travail humain. Au XIX siècle, les luddites brisent les métiers à tisser ; en 1930 face au « chômage technologique », l’économiste britannique John Maynard Keines prophétise une semaine de quinze heures à l’horizon 2030 – on est aujourd’hui loin du compte.

À sa suite, Hanna Arendt, dans La condition de l’homme moderne publié en 1958, craint « l’automatisation qui, en quelques décennies, probablement videra les usines et libérera l’humanité de son fardeau le plus ancien et le plus naturel, le fardeau du travail, l’asservissement à la nécessité ». Or notre société a fondé ses valeurs sur le travail, source d’identité et de sens. Arendt redoute alors « une société de travailleurs que l’on va délivrer des chaines du travail, et cette société ne sait plus rien des activités plus hautes et plus enrichissantes pour lesquelles il vaudrait la peine de gagner cette liberté » ; ce serait une « société de travailleurs sans travail, c'est-à-dire privés de la seule activité qui leur reste ». Enfermée dans une quête incessante de productivité, notre société est incapable de se donner d’autres raisons d’agir que de produire : une fois la roue du hamster arrêtée elle serait hagarde et déboussolée. Arendt est-elle antiproductiviste et décroissante avant l’heure ?

Le travail, l’oeuvre et l’action

Pour la philosophe, le travail désigne la production infinie nécessaire à la reproduction de la vie, par laquelle l’organisme vivant satisfait ses besoins : « Le travail est l’activité qui correspond au processus biologique du corps humain, dont la croissance spontanée, le métabolisme et éventuellement la corruption, sont liés aux productions alimentaires dont le travail nourrit ce processus vital La condition humaine du travail est la vie elle-même. » Chez Hannah Arendt, le travail est une activité partagée avec tout le monde vivant. Ce n’est pas quelque chose d’exceptionnel, le propre d’un être humain, qui transformerait la nature, comme le considère notamment Marx. En revanche, « l’œuvre » et « l’action politique » sont spécifiquement humaines, parce que elles sont autotéliques, c'est-à-dire qu’elles ne valent que pour elles mêmes, selon les fins que se fixent les individus. Mais elles sont mises à mal par notre société industrielle. Car l’œuvre crée du durable à transmettre : c’est le modèle artisanal, opposé à la société industrielle productiviste, qui génère en permanence de nouveaux besoins pour écouler un flux ininterrompu de marchandises rapidement obsolètes. Quant à l’action politique, censée émerger de la confrontation et du libre dialogue entre humains, se réduit aujourd’hui à une gestion d’impératifs économiques.

Arendt reproche à notre société d’avoir fait passer l’œuvre et l’action au second plan en érigeant le travail en activité principale, enfermant alors chacun.e dans une quête permanente de productivité : les travailleurs et les travailleuses ont oublié l’existence des autres activités qui justifieraient de se libérer des chaines du travail.

Une conception aristocratique ?

Arendt ne cherche pas l’autonomie au travail, contrairement au mouvement marxiste et communiste. Pour elle, satisfaire les besoins et reproduire la vie sont des tâches animales et ingrates. Ce jugement se retrouve chez Simone de Beauvoir, dans Le deuxième sexe (1949) à propos du travail domestique, décrit comme une peine infinie, aux résultats éphémères : « Des légions de femmes n’ont ainsi en partage qu’une fatigue indéfiniment recommencée au cours d’un combat qui ne comporte jamais de victoire. Même en des cas plus privilégiés, cette victoire n’est jamais définitive. Il y a peu de tâches qui s’apparentent plus que celles de la ménagère au supplice de Sisyphe. » L’éco féminisme de Geneviève Pruvost (Quotidien politique, 2021) et l’écologie libertaire d’Aurélien Berlan (Terre et liberté, 2021) contestent aujourd’hui cette vision aristocratique qui voudrait se délivrer des tâches manuelles et de subsistance quotidienne pour se consacrer à des occupations plus nobles. Pour Aurélien Berlan, la position privilégiée des intellectuels professionnels, qui leur permet d’être libérés de la nécessité matérielle, les pousse à faire primer l’idéal d’émancipation sur l’idéal de suppression de la domination sociale et politique.

Le dominant n’est « libre » que dans la mesure où des dominés s’occupent des tâches réputées « ingrates » à sa place. À ceux qui veulent se « libérer du travail », Aurélien Berlan et Geneviève Pruvost montrent que les tâches de subsistance sont source d’autonomie, de créativité et de joie, vécues collectivement.

Autonomie de l’inutile contre nécessité matérielle

Ces débats sont anciens dans le marxisme et l’écologie politique. En 1980, dans son livre, Adieux au prolétariat, le philosophe André Gorz défend, à l’instar de Berlan et Prouvost aujourd’hui, l’autogestion du travail et des besoins pour retrouver de la liberté dans ces activités quotidiennes. Mais il soutient aussi, comme Arendt, l’importance d’activités gratuites et désintéressées, par lesquelles le sujet fait preuve d’autonomie, parce qu’il peut s’y donner ses propres fins et valeurs. Arendt et Gorz pensent, en philosophes encore héritiers du dualisme entre le corps et l’esprit, qu’on ne devient libre qu’une fois les nécessités matérielles de reproduction de la vie biologique satisfaites – ce que conteste, par exemple, l’éco féminisme. Gorz reconnaît que l’autoproduction peut procurer de la joie et un sentiment de liberté, à condition qu’elle ne soit pas l’unique moyen de satisfaire un besoin : le pain que l’on fait soi-même est une œuvre joyeuse si notre survie n’en dépend pas. Le but est d’échapper à la logique marchande, pas de récréer de la précarité. Les activités de subsistance, plus ou moins autodéterminées par le sujet dans ses modalités – choix des cultures du potager, des horaires pour effectuer les tâches –, restent donc hétéro déterminées par leur utilité – on lave son linge parce qu’il faut bien porter du linge propre. Les activités réellement autonomes, elles, sont désintéressées, inutiles, sans justification.

Defendre la gratuité et l’inutilité, ce n’est pas nier la valeur des tâches de subsistance, mais refuser que toute activité se doit d’être utile, parce que l’humain peut faire plus que satisfaire ses besoins. André Gorz veut que chacun et chacune puisse choisir ses propres fins et moyens, dans ses activités de subsistance comme dans ses activités superflues. Son idéal décroissant est de consacrer le minimum de ressources – énergétiques, économiques et temporelles – à la satisfaction collective des besoins sociaux pour garantir des activités gratuites. Cette sobriété choisie réduirait l’impact écologique de nos activités et notre dépendance à l’égard du nécessaire, pour dégager des espaces et temps gratuits, de jeu, de temps social et de contemplation. Les activités autonomes sont à conquérir contre le capitalisme et sa marchandisation qui s’étend à toutes les dimensions de la vie, contre le contrôle social qui cherche à « mettre au travail » les populations pauvres et précaires, mais aussi contre la glorification de l’effort productif.

Démocratiser et réduire le travail : un combat décroissant

Hannah Arendt ne situe pas sa critique du travail dans la critique marxiste du capitalisme parce qu’elle entend distinguer le travail et l’œuvre, qui seraient confondus chez Marx. Mais son diagnostic du triomphe du « travail » au service des besoins est-il adapté à notre réalité capitaliste ? Les emplois actuels ne servent pas à satisfaire des besoins, mais à vendre des marchandises et à produire du profit. En 1988, dans Métamorphoses du travail, André Gorz lui reproche d’interpréter comme du travail « vital » ce qui est en fait une construction du marché capitaliste. Pour lui, dans cette société, les individus ne travaillent en réalité pas pour repondre aux nécessités biologiques et à des besoins « authentiques », puisque le capitalisme industriel y a déjà répondu par la production de masse. S’ils travaillent, c’est uniquement pour repondre aux besoins du marché du travail. Par la rationalisation capitaliste, le travail produit du superflu et de l’abondance dans certains domaines, mais se heurte aussi aux impératifs du capital et aux limites écologiques.

En présageant une société de travailleurs sans travail Hannah Arendt insinue que le « travail » pourrait disparaitre automatiquement. Puisqu’elle sépare l’économie (la satisfaction des besoins) de la politique (le libre dialogue entre des valeurs et des actes humains) elle ne pense pas que la politique peut porter sur l’économie. A l’inverse, en 1944, dans La grande transformation, Karl Polanyi montre que l’économie est traditionnellement encastrée dans des projets politiques et des normes culturelles, mais ne s’en émancipe qu’avec le capitalisme. Réguler et lutter contre le capitalisme, c’est politique, de même que les transformations que l’économie capitaliste impose à la société sont politiques. Ainsi, le capitalisme cherche à diminuer la part de travail humain dans l’organisation de la production, pour des raisons économiques d’augmentation du taux de profit, mais aussi politiques de contrôle de la main d’œuvre restante, précarisée par cette menace de l’automatisation. C’est la thèse des opéraïstes italiens des années 1960 comme Raniero Panzieri et Mario Tronti, qui constatent que l’automatisation de la production vise à casser les luttes ouvrières pour inverser le rapport de forces. Le chantage à l’emploi et les menaces de délocalisation à partir des années 1980 sapent ensuite les luttes des travailleurs et travailleuses des pays d’Europe de l’Ouest. Les luttes victorieuses récentes sont dans les services – menées par des personnels d’entretien par exemple –, activités qui ne peuvent être délocalisées.

Une société sans travailleurs et travailleuses n’adviendra pas tant que perdurera une durée du travail réglementaire élevée, à plein temps et à vie. La réduction du temps de travail et l’amélioration des conditions de travail ne peuvent résulter que de rapports de force concrets, voire locaux, dans chaque unité de production, service et direction. Maintenir un temps de travail si élevé, en parallèle de conditions de travail précaires, est un choix politique de discipline sociale. C’est ainsi que David Graeber interprète en 2018 les bullshit jobs, ces emplois que les travailleurs trouvent inutiles, dé corrélés des besoins sociaux et au service de tâches superflues : plutôt que de réduire le temps de travail global et de repartir les tâches sociales nécessaires entre tous et toutes, les élites politiques et économiques préfèrent occuper en vain certains travailleurs et travailleuses à temps plein ainsi que précariser et exclure de l’emploi les autres. Il s’agit de dominer leur existence plutôt que de leur donner du temps libre, de peur de ce que les classes populaires pourraient en faire – reconstituer des forces physiques et psychologiques, réfléchir, s’organiser et lutter. Face au pouvoir du capital, réduire collectivement le temps de travail et le volume des emplois, les partager et organiser la décroissance n’a donc rien d’automatique. C’est une lutte qu’il faut mener et elle est vitale.

 

Céline Marty

  

Céline Marty est agrégée et docteure en philosophie, spécialiste du travail et de l’écologie politique. Elle est l’autrice de l’ouvrage Découvrir Gorz, paru en janvier 2025 aux Editions sociales, de L’écologie libertaire d’André Gorz qui paraît le 9 avril aux PUF et de Travailler moins pour vivre mieux, Dunod, 2021.