La
teatralizzazione della protesta e la sua successiva banalizzazione sono la
caratteristica più comune dei movimenti della società dello spettacolo, nella
quale tutte le esperienze vissute svaniscono in una rappresentazione dove
l'attivismo si fonde con l'intrattenimento e lo spettatore diventa una
comparsa. Il fatto che “la gente” della
nostra epoca preferisca l'immagine alla cosa e l'illusione alla verità – cioè
lo spettacolo – è dovuto al fatto che questa “gente” è diversa, radicalmente
opposta a quella che contava nell'epoca precedente. Teniamo presente che alla
perdita di centralità del proletariato industriale nelle lotte sociali ha fatto
seguito – nei paesi in cui regnano le condizioni postmoderne di produzione
capitalista – un processo di declassamento che ha portato allo sviluppo di quel
che si chiama “cittadinanza” e che noi potremmo chiamare classi medie
salariate. Queste classi, sedute tra due sedie, la borghese e la popolare, possono
arrivare a sentirsi e persino dichiararsi antagoniste della classe dominante,
ma non manifestano mai nella pratica tale antagonismo. Il denominatore comune delle manifestazioni mesocratiche come l’anti-globalizzazione,
contro la guerra, il 15-M o le Marce della Dignità, è sempre stato la volontà
di non sovvertire le regole del gioco del potere. In realtà la rivolta fasulla
degli strati sociali intermedi, che smettono di lottare, non risponde a una forma
di consapevolezza antitetica, cioè a una nuova coscienza di classe antisistema,
ma si sottomette al principio egemonico che regola la vita nella società dei
consumi: la moda. Ciò spiega non solo la natura frivola e il potere di
seduzione del movimento di cittadinanza, ma anche il suo carattere effimero, pseudo
ludico e visibilmente sensazionalistico. Il peggio è che i media sociali hanno
rafforzato i pilastri dell'irrealtà, infliggendo un colpo mortale a ciò che
restava di comunicazione autonoma e di sentimento comunitario nella società
civile. Spostando il grosso della contestazione nello spazio virtuale, dove le
immagini e le storie parlano più delle parole, lo spettacolo della rivolta
online può tranquillamente sostituire le prosaiche lotte della vita reale.
I progressi
tecnologici non hanno eliminato la palese contraddizione tra i rapporti di
produzione capitalistici e le forze produttive, ma hanno ridotto al minimo l'importanza
sociale dei lavoratori dell'industria, delle officine e delle miniere,
spingendo la classe operaia verso il settore terziario dell'economia, dove i salari,
le condizioni di lavoro e i diritti restano precari. Il declino del
proletariato industriale ha portato alla perdita di controllo del mercato del
lavoro e, di pari passo a causa della frammentazione della classe in strati con
interessi diversi, si è prodotta l'evaporazione della sua coscienza di classe,
cioè il suo declassamento. In seguito il proletariato ha smesso di essere il
punto di riferimento effettivo delle lotte sociali. In quanto soggetto storico,
la classe operaia non poteva mantenersi altro che nel cielo dell’ideologia, come
dogma nelle dottrine operaiste delle sette e nella virtualità del web.
Tuttavia, la globalizzazione economica, che era soprattutto finanziarizzazione,
ha accentuato ulteriormente quella che James O'Connor ha chiamato la seconda
contraddizione capitalista, vale a dire il progressivo degrado delle condizioni
di produzione che rendono possibile lo sfruttamento della mano d’opera. La crescita
illimitata dell'economia si è scontrata con i
limiti biofisici della vita sul pianeta, tendendo a renderlo inabitabile. In sintesi,
la capitalizzazione del territorio – l’estrattivismo – ha reso il metabolismo
tra la società e la natura sempre più distruttivo, scatenando una crisi
ecologica generalizzata. La questione sociale ha lasciato il territorio lavorativo
per concentrarsi sulla difesa del territorio – che, in ultima analisi, è la
difesa della specie – o, per dirla in altro modo, la crisi ambientale è
diventata il primo elemento della crisi sociale. La proletarizzazione delle
masse salariate, principalmente urbane, e lo spopolamento delle campagne hanno
seguito il loro corso, ma ora la condizione di proletario potrebbe essere
meglio definita non solo sulla base della vendita della forza lavoro ma anche
sulla perdita del potere decisionale riguardo all’habitat e alle condizioni di
vita che questo offriva, sempre più povere, dipendenti, artificiali e
consumistiche.
Il
proletariato tradizionale sosteneva lo sviluppo e non prestava la dovuta attenzione
ai problemi ambientali che nell’ultimo cinquantennio hanno cominciato a
diventare cruciali. La sconfitta del movimento operaio rivoluzionario e il
declino della lotta di classe hanno lasciato il posto agli attivisti ecologisti,
in particolare al movimento antinucleare. C'erano collettivi come
"Alfalfa" che hanno fatto un buon lavoro, ma il danno subito dai
valori, dalla memoria delle lotte, dai progetti di trasformazione radicale e,
in generale, da tutto il patrimonio storico della vecchia classe operaia, ha
lasciato gli ecologisti soli con le loro tecnologie non inquinanti, le loro
energie alternative e i loro progetti di raccolta dei rifiuti, senza passato, eredità
né progetto d’emancipazione da rivendicare. Nel frattempo, così come i
sindacati di concertazione hanno definitivamente eliminato la conflittualità
del lavoro agendo da mediatori, i partiti e le organizzazioni politiche verdi hanno
cercato di fare lo stesso con le questioni territoriali. Con l'aumentare del
numero di attacchi e con lo sviluppo, sostenibile o meno, dell'economia, il
parassitismo verde ha potuto lavorare in favore dell’ordine. Se guardiamo alla
Catalogna, l'espansione dell'area metropolitana di Barcellona e le politiche di
sviluppo della Generalitat (il governo catalano) hanno portato a un sovra
sfruttamento di risorse e causato danni irreversibili al territorio catalano. Alla
fine del secolo scorso, il paese aveva il dubbio onore ufficiale di essere una
delle regioni europee con la maggiore predazione territoriale. Tuttavia, la
difesa del territorio si basava su conflitti locali isolati e autolimitati e
soffriva di una preoccupante mancanza di risorse e di personale. Le grandi mobilitazioni
del 2000 contro il Piano Idrologico Nazionale e il Trasferimento delle acque
del fiume Ebro furono epocali e alimentarono una volontà di un'azione unitaria,
ma solo nelle piattaforme di quartiere come "Salvem", nei gruppi
ambientalisti deboli e in organizzazioni "civiche" raccoglitrici di
firme contro gli attacchi ambientali. Negli incontri di Figueres (2003) e
Montserrat (2008) fu stilato un elenco di proposte che non mettevano in
discussione il regime capitalista o le istituzioni stataliste che lo favoriscono,
ma solo i suoi eccessi. Si dava semplicemente priorità alle "dichiarazioni internazionali
di sostenibilità" rispetto alla crescita deregolamentata, qualcosa che
potrebbe essere realizzato in altri "modelli" capitalistici di
energia rinnovabile, pianificazione urbana compatta, mobilità pubblica e
sviluppo territoriale rispettoso dell'ambiente. L’intero lotto fu poi definito
“nuova cultura del territorio”. La strategia noviculturale da seguire era molto semplice: le piattaforme e i
gruppi si ponevano come interlocutori stabili delle amministrazioni, al fine di
stabilire, attraverso "meccanismi favorevoli alla partecipazione dei
cittadini", una legislazione ambientale con i suoi osservatori, tribunali,
procure, tasse e sanzioni. Non si metteva in discussione il ruolo della
burocrazia amministrativa, succursale d’interessi economici esterni, né si dubitava
della legittimità dei partiti politici, dei quali si sperava servirsi per
pianificare misure protezionistiche in Parlamento e presentare proposte non
legislative. Con ogni probabilità, gli attivisti di partito hanno influenzato i
programmi, poiché tutte le loro rivendicazioni erano incluse nei loro programmi
ambientalisti. La loro presunta imparzialità era soltanto una tattica per
presentare come interessi generali quelli che erano semplicemente interessi
elettorali camuffati.
Il movimento
ambientalista catalano ha celebrato come un
successo la dichiarazione di emergenza climatica da parte della Generalitat e
il suo impegno a decarbonizzare l'economia (2019), senza soffermarsi a
considerare che il modello energetico "100% rinnovabile" da essa promosso
non era altro che un greenwashing del
capitalismo di sempre. La costruzione di grandi infrastrutture, grandi parchi eolici
e impianti fotovoltaici perpetuava il
modello estrattivo e speculativo di sfruttamento del territorio. Il penultimo
tentativo di articolare le decine di conflitti ambientali (SOSNatura.cat, 2021)
non ha trovato metodologia migliore che fare pressione sull'amministrazione e
sui partiti politici per una "nuova orientazione del modello
catalano", più turistico che produttivo, verso la sostenibilità. La stessa
tattica di sempre. Per l'ennesima volta, si è fatto appello a una
"partecipazione effettiva dei cittadini attraverso dibattiti aperti e
consultazioni popolari vincolanti". Infine,
si è osato chiedere alla Generalitat di conformarsi alle direttive europee, la
moratoria sui grandi progetti inutili e il ripristino del Dipartimento
dell'Ambiente voluto da Pujol, abolito nel 2010, "uno strumento chiave per
costruire il futuro Paese che vogliamo" (Ecologistas en Acción). Le
critiche anti-sviluppo sono state decisamente sepolte nel cimitero della
moderazione e del buonismo dialogante. Ciononostante, la lotta ecologica era
troppo importante per lasciarla nelle mani dei suoi seppellitori. Spettava ai
veri difensori del territorio salvarlo dal pantano del collaborazionismo
complice. Dov'erano?
L’apparizione
di "Revoltes de la Terra" nel gennaio di quest'anno è stata molto
opportuna, dopo due anni d’incontri e riunioni, lottando per un'alternativa
comunitarista, definita come "un'edera di legami al di fuori della logica
produttivista". Era giusto sperare un'analisi panoramica del momento
critico in cui ci troviamo e un vigoroso programma di mobilitazioni, ma la
nostra gioia è durata poco. Il linguaggio utilizzato nel loro manifesto era
estremamente retorico, pieno di approssimazioni e di luoghi comuni postmoderni,
ben al di sotto dell’ecologismo più elementare. Innanzitutto, questa “terra che
si ribella” che voleva “promuovere una serie di possibilità” e “costruire una
rete di passioni, sovranità e metodi” non si definiva come coordinatrice, né
come piattaforma, né come gruppo motore: era piuttosto “una rete di legami”,
“un insieme di risorse logistiche, operative e relazionali”, “una gamma di
strumenti replicabili ovunque”. Si
trattava quindi di un plotone di persone di buon carattere, di diverse origini,
con poche idee in comune e nessuna prospettiva a medio termine, per cui non c’era
da stupirsi che si vantassero di "diversità strategica", anche se
avrebbero dovuto piuttosto vantarsi di cautela, tiepidezza e mano libera se
volevano ispirarsi al lavoro misurato di piattaforme blande di stile SOS
Territori e "Salvem". Tuttavia, i campanelli d'allarme hanno iniziato
a suonare quando hanno dichiarato di cercare rinforzi da "entità come
Ecologists in Action" e di "seguire gli impulsi" di schemi
sospetti come Extinction Rebellion o "Soulèvements de la Terre", tanto
messi in discussione dai libertari. Ci spieghiamo.
A
parte alcune delegazioni territoriali, Ecologists
in Action non è l'organizzazione di attivisti con principi ideologici
radicali che noi stessi sottoscriveremmo. Si tratta di una vera lobby; una
ristretta struttura di professionisti dell'ecologismo che vivono di sussidi,
molti dei quali di origini oscure, come quelli provenienti da aziende
inquinanti o da oligopoli energetici di cui sono consulenti. Attualmente,
sostenitori di quella che negli uffici del potere si chiama “transizione
energetica” e Green New Deal, sono convinti difensori dell'eolico e del
fotovoltaico industriale, dell’auto elettrica e dell'estrazione del litio. Per
questo sono grandi alleati delle multinazionali elettriche e dei gruppi
automobilistici, e pure i migliori collaboratori dei governi regionali e dei
ministeri. D’altra parte, Extinction
Rebellion, XR, è la succursale di un movimento inglese che cerca la copertura
mediatica attraverso atti simbolici, tentando di fare pressione sui governi
affinché adottino misure nei confronti della crisi climatica. Sono non
violenti, dogmatici, mistici, senza cultura politica; usano un linguaggio da
marketing, aborrono l’anarchismo e non intervengono nelle lotte locali. Quanto
ai “Soulèvements de la Terre” (SDT), ci sarebbe molto da dire, ma non che si
tratti di “un movimento di azione diretta che combina l’allegria con la “disperazione”,
come ha scritto il luminare pensatore de “Les Revoltes”. I suoi iniziatori, né
allegri né disperati, intendevano “costruire ampie alleanze” con chiunque lo
desiderasse e “federare il maggior numero possibile di militanti e gruppi
provenienti da diversi orizzonti ideologici”, ma non erano esattamente
sostenitori dell'azione diretta. Il legame tra i tifosi de “l’insurrezione che
viene”, collettivi variopinti, estinzionisti, contadini della “Conf” e occupanti,
si è concretizzato non tanto per i racconti festosi di lotte romanzesche e di
vittorie sopravalutate come quella della ZAD di Nantes (“Zona di
condizionamento differito” ribattezzata “Zona da difendere”), quanto per la
frustrazione e la stanchezza di molta gente infuriata per il disastro regnante,
priva di riflessione e senza chiare possibilità di agire autonomamente. La
brutale repressione poliziesca a Saint Soline e il successivo ordine revocato
di scioglimento dell’SDT hanno fatto il resto. Le adesioni del microcosmo
politico, sindacale, televisivo e culturale hanno fornito il necessario grado d’indeterminatezza
affinché i generali dei “Sollevamenti” potessero apparire davanti ai media come
rappresentanti del movimento più radicale di Francia in difesa del territorio.
Da dove vengono?
Se
contiamo solo il ritiro del progetto aeroportuale, la lotta nella ZAD di Notre
Dame des Landes è stata una vittoria. Se consideriamo l’eradicazione di ogni
progetto di convivenza collettiva e il ripristino delle attività economiche
convenzionali, potremmo anche parlare di fallimento. Fin dall'inizio, le
componenti zadiste avevano obiettivi disparati e incompatibili: l'ACIPA era
un'associazione di cittadini pacifica e conciliante; COPAIN, un'organizzazione
di contadini espropriati, nemica dell’agricoltura industriale e pratica
dell’autosufficienza; c’era poi la coordinazione degli oppositori al progetto
composta da entità politiche e sindacali; i comitati di supporto esterno; gli
occupanti camaleontici della ZAD capeggiati dall’autoproclamato CMDO, detti
“Appellisti” (imparentati con “l’Appel” del “Comitato Invisibile”) e infine i
gruppi della ZAD Orientale, anarchici, primitivisti “sans Fiche”e in generale
antiautoritari come quelli della rete “Radis-co”che si battevano per la
gestione collettiva di una Zona di Autonomia Definitiva. La coesistenza non è
mai stata facile e l'orizzontalità ha sempre brillato per la sua assenza. Le
assemblee generali furono teatro di continue manovre, manipolazioni e
conflittualità. Molti gruppi smisero di parteciparvi o ne organizzarono altre.
Alla fine, si è creata “l'unità” tra le fazioni di cittadinanza e gli appellisti del CMDO per negoziare con lo
Stato, lasciando fuori i dissidenti. La decantata “vittoria” si è saldata con
la demolizione delle difese anti-poliziesche (“le chicanes”) e le capanne
dell’Este, la distribuzione di alcuni lotti individuali di terreno,
l'espulsione degli occupanti intransigenti e il ritorno all'ordine. Chi ha
davvero vinto, e che, come si dice volgarmente in spagnolo, continua a vendere
la moto, sono gli Appellisti, un gruppo autoritario dall'aspetto informale che
si comporta come un vero e proprio partito cospiratore.
Poiché
gli Appellisti pensano esclusivamente in termini di efficienza e controllo, mai
in termini di autonomia, non tengono un discorso anticapitalista davvero
concreto – solo orientamenti generali e idee vaghe: noi siamo il 99%, la
catastrofe è imminente e cosi via – ma talmente radicaloide che per quanti sono
in buona fede, risulta seducente. Quella che chiamano "la loro
strategia" si basa sulla promozione di comitati locali, sul monopolio del
coordinamento, sulla fabbrica di consensi forzati con elementi eterogenei e
sulla conclusione di compromessi innaturali, mascherando le differenze
insormontabili con una fraseologia e rimuovendo con la violenza i
"puristi" dissidenti, se il caso lo richiede. Il desiderio di
apparire come interlocutori validi del potere costituito li costringe a essere
visibili, per cui davanti alle telecamere i loro membri si esibiscono come a
casa loro: si deve comparire nella foto a qualunque costo; la copertura
mediatica legittima la rappresentatività più della lotta stessa. Dietro le
quinte, sono la struttura verticale, opaca e manipolatrice che muove i fili o pretende
di farlo. Nel 2021 gli Appellisti hanno trasferito ai “Soulèvements” lo stile
con cui erano riusciti a imporsi nella ZAD. Il funzionamento
in rete ha facilitato la creazione e l'occultamento di stati maggiori,
responsabili della distribuzione dei compiti e dell'attribuzione di tutte le
responsabilità possibili. Ecco perché nell'SDT non si sono mai tenute riunioni aperte
al pubblico né assemblee. Al massimo qualche consultazione nello spazio
virtuale. La riflessione e il dibattito non sono considerati necessari, poiché
ciò che è urgente è l'azione e, per questo, ciò che conta è il numero di
persone che si possono riunire, indipendentemente dalla loro provenienza. Di
conseguenza, apertura alle tendenze più diverse, dai Verdi pigri ai sindacati
tradizionali e ai partiti ufficiali, ai gauchisti di ogni tipo, alle femministe
e ai libertari. Istituzionali da una parte, radicali dall'altra con gli esperti
di rivolte nel mezzo. Chiunque può far parte di SDT, indipendentemente dalle
proprie idee, sia part-time sia a tempo pieno. Le
uniche questioni discusse sono di natura tecnica e gestionale. Le grandi
decisioni sono sempre prese in anticipo, in completa verticalità. Nelle
controversie di minore entità, i comitati locali sono liberi di agire come
ritengono opportuno, a meno che l'impatto pubblicitario sia sufficientemente
grande. Nel qual caso una squadra di leader sbarca per sfruttarlo. Per
conseguenza si vampirizza la lotta: s’impongono regole rigide e filtri
selettivi che durano finché la notizia non si raffredda e perde d’interesse.
L'enorme declino del pensiero critico legato al proletariato rivoluzionario, l’oblio
dei suoi attacchi alla società di classe e la disintegrazione dell'ambiente
libertario hanno creato le condizioni affinché tali pratiche si diffondano
senza problemi, tra gli applausi di "personalità" neo-leniniste che
le sottoscrivono sfacciatamente.
Tornando
alle questioni catalane, è ovvio che la formula SDT è alla base delle “Revoltes
de la Terra”, sebbene il linguaggio del suo manifesto sia più in linea con la “teoria
alla francese” che con lo zadismo burattinaio. Senza dubbio, la componente
giovanile metropolitana avrà un certo coinvolgimento, anche se non pensiamo che
agirà come un comitato centrale. Non ha completato il suo apprendistato nella
scuola della ZAD, bensì in quei movimenti pacifici da boyscout d’ispirazione toninegrista.
Infine, le Rivolte suddette comportano un'ambiguità ancora maggiore nel loro
posizionamento, una strategia ancora più esagerata e una totale mancanza di criterio
quando si tratta di giudicare la situazione catalana secondo le linee guida del
capitale. La loro belligeranza verso le istituzioni e i partiti politici sembra
inesistente, per cui le azioni che i “Soulèvements de la Terre” definiscono
“dinamiche”, cioè i sabotaggi e gli scontri, non ci sono né si sperano. Questi
ribelli della terra inzuppati d’acqua non sono per niente insorti e, pertanto,
non cercano di trarre vantaggio dal sensazionalismo suscitato dalle azioni
violente come quelle di Notre Dame des Landes e di Saint Soline, per cui
probabilmente non andranno molto oltre la rivendicazione di un dialogo diretto o
piuttosto indiretto con l'amministrazione. Spero di sbagliare. Al momento della
verità, se la radicalizzazione di turbolenze come quelle del movimento per
l'edilizia abitativa, del movimento antiturismo o dei sindacati contadini non
porranno rimedio a questa situazione, il loro discorso non risulterà diverso da
quello delle piattaforme di cittadinanza, puro pragmatismo di basso livello in
accordo con gli interessi materiali delle classi medie. Le loro attività non
andranno oltre il tipico pacifismo conviviale di amichevoli escursioni e
campeggi, balli di sardana[1] e banchetti popolari. Questo è quel che crediamo, anche se non ci
piacerebbe aver ragione.
Miquel Amorós
Per
la conferenza tenutasi alla giornata campestre di Kan Pasqual (Serra de
Collserola, Barcellona) il 27 aprile 2025.
[1] La sardana non è solo un tipico ballo
catalano, ma un simbolo. Nasce nel XIX secolo e s’insinua nella Catalogna in
mezzo alla popolazione, coinvolgendo tutti, anche se le sue origini sembrano
ancora più antiche (NdT).
LA TIERRA QUE SE SUBLEVA DE BROMA
Revuelta espectáculo en Cataluña
La teatralización de la protesta y su consiguiente
trivialización es la característica más común de las movidas en la sociedad del
espectáculo, aquella en la que todas las experiencias vividas se desvanecen en
una representación. Donde el activismo se funde con el entretenimiento y el
espectador ejerce de figurante. El hecho de que
“la gente” de nuestra época prefiera la imagen a la cosa, la ilusión a la
verdad y el sucedáneo a la autenticidad -o sea, el espectáculo- se debe a que
esa “gente” es otra, radicalmente opuesta a la que contaba en la época
precedente. Tengamos presente que la pérdida de centralidad del proletariado
industrial en las luchas sociales fue seguida -en los países donde reinan las
condiciones posmodernas de producción capitalista- por un proceso de
desclasamiento que desembocó en el desarrollo de algo que llaman “ciudadanía” y
que nosotros podríamos denominar clases medias asalariadas. Dichas clases,
sentadas entre dos sillas, la burguesa y la popular, pueden llegar a sentirse e
incluso declararse antagónicas con la clase dominante, pero nunca manifiestan
en la práctica tal antagonismo. Él común denominador de las demostraciones
mesocráticas como las anti-globalización, contra la guerra, el 15-M o las
Marchas de la Dignidad, ha sido siempre la voluntad de no alterar el orden ni
subvertir las reglas de juego del poder. En realidad, la revuelta fake
de los estratos sociales intermedios que pasan de pelear, no obedece a una toma
de conciencia antitética, esto es, a una nueva conciencia de clase anti-sistema,
sino que se somete al principio hegemónico regulador de la vida en la sociedad
de consumo: la moda. Eso explica no solo el aspecto frívolo y el poder de
atracción del movimentismo ciudadanista, sino su carácter efímero, seudolúdico
y ostensiblemente efectista. Lo peor es que las redes sociales han reforzado
los cimientos de la irrealidad, dando un golpe de muerte a lo que quedaba de
comunicación autónoma y sentido comunitario en la sociedad civil. Al
desplazarse la mayor parte de la contestación hacia el espacio virtual, donde
las imágenes y los cuentos valen más que las palabras, el espectáculo de la
revuelta-red puede sustituir cómodamente a las prosaicas luchas reales.
Los avances tecnológicos no
suprimieron la flagrante contradicción entre las relaciones de producción
capitalistas y las fuerzas productivas, pero redujeron al mínimo la importancia
social de los trabajadores de la industria, los talleres y los tajos, empujando
la clase obrera hacia el sector terciario de la economía, donde los salarios,
las condiciones de trabajo y los derechos eran precarios. El retroceso del
proletariado industrial ocasionó la pérdida de control del mercado laboral, y
en consonancia con la fragmentación en capas con distintos intereses, se
evaporó su conciencia de clase, es decir, se desclasó. En lo sucesivo, el
proletariado dejaba de ser el referente efectivo de los combates sociales. Como
sujeto histórico, la clase obrera no podía mantenerse más que en el cielo de la
ideología, como dogma en las doctrinas obreristas de las sectas y en la
virtualidad de las webs. Sin embargo, la globalización económica, que era sobre
todo financiarización, acentuó más si cabe lo que James O'Connor calificó de
segunda contradicción capitalista, a saber, la degradación progresiva de las
condiciones de producción que hacían posible la explotación de la mano de obra. El crecimiento
ilimitado de la economía chocaba con los límites biofísicos de la vida en el planeta volviéndolo inhabitable. Resumiendo, la
capitalización del territorio -el extractivismo- volvía cada vez más
destructivo el metabolismo entre la sociedad y la naturaleza, desencadenando
una crisis ecológica generalizada. La cuestión social se salió del terreno
laboral para irse a centrar en la defensa del territorio -que en definitiva es
la defensa de la especie-, o dicho de otra manera, la crisis medioambiental se
convirtió en el primer punto de la crisis social. La proletarización de las
masas asalariadas, principalmente urbanas, y la despoblación del campo seguían
su curso, pero ahora la condición de proletario podía definirse mejor basándose
no solo en la venta de la fuerza de trabajo, sino en la pérdida del poder de
decisión respecto al hábitat y a las condiciones de vida que este
proporcionaba, cada vez más pobres, dependientes, artificiales y consumistas.
El proletariado tradicional era
desarrollista y no prestó la atención debida a los problemas ambientales, que en los pasados
cincuenta empezaron a ser acuciantes. La derrota del movimiento obrero
revolucionario y la regresión de la lucha de clases cedieron el protagonismo a
los combatientes ecológicos, particularmente al movimiento anti-nuclear. Hubo
colectivos como “Alfalfa” que hicieron buena labor, pero el quebranto sufrido
por los valores, la memoria de las luchas, los planes de transformación radical
y, en general, por todo el patrimonio histórico de la vieja clase obrera, dejó
a los ecologistas solos con sus tecnologías no contaminantes, sus energías
alternativas y sus proyectos de recogida de residuos, sin pasado, herencia ni
proyecto de emancipación que reivindicar. Mientras tanto, igual que los
sindicatos de concertación anularon definitivamente la conflictividad laboral
ejerciendo de mediadores, los partidos y organizaciones políticas verdes
quisieron hacer lo mismo con la problemática territorial. Dado que el número de
agresiones se multiplicaron con el desarrollo -“sostenible” o insostenible- de
la economía, el parasitismo verde pudo trabajar para el orden. Si nos atenemos
a Cataluña, la expansión del área metropolitana de Barcelona y las políticas
desarrollistas de la Generalitat habían acarreado una sobre-explotación de
recursos y causado daños irreversibles al territorio catalán. A finales del
siglo pasado, el país tenía el dudoso honor oficial de ser una de las regiones
europeas con mayor depredación territorial. Sin embargo, la defensa del
territorio partía de conflictos locales aislados y autolimitados, y adolecía de
una escasez de medios y gente preocupante. Las grandes movilizaciones del 2000
contra el Plan Hidrológico Nacional y el Trasvase de aguas del Ebro fueron
trascendentales y propiciaron una voluntad de unidad de acción, pero solamente
en las plataformas vecinales tipo “Salvem”, los grupos ecologistas
descafeinados y las entidades “cívicas” que recogían firmas contra las
agresiones medioambientales. En las reuniones de Figueres (2003) y Montserrat
(2008) quedó plasmado un pliego de propuestas que no cuestionaba el régimen
capitalista ni las instituciones estatistas que lo favorecían, sino solo sus
excesos. Simplemente anteponía “las declaraciones internacionales de
sostenibilidad” al crecimiento desregularizado, algo que podía concretarse en
otros “modelos” capitalistas de energía renovable, urbanismo compacto,
movilidad pública y desarrollo territorial respetuoso con el medio. Todo el lote
quedó definido posteriormente como “nueva cultura del territorio.” La
estrategia novicultural a seguir era bien sencilla: las plataformas y los
grupos se postulaban como interlocutores estables de las administraciones, de
cara a fijar, mediante “mecanismos que posibiliten la participación ciudadana”,
una legislación ambiental con sus observatorios, juzgados, fiscalías, tasas y
sanciones. No ponían en tela de juicio la función de la burocracia
administrativa, subsidiaria de intereses económicos espurios, ni dudaban de la
legitimidad de los partidos políticos, de los que esperaban servirse para
planear en el Parlamento medidas proteccionistas y presentar proposiciones no
de ley. Con toda probabilidad los militantes de partido influenciaban a las
plataformas, puesto que todas las reivindicaciones de aquellas figuraban en sus
programas ambientalistas. Su supuesto apartidismo era solo una táctica
encaminada a presentar como interés general lo que únicamente eran intereses
electorales camuflados.
El movimiento ambientalista catalán celebró como un éxito la declaración de emergencia
climática por parte de la Generalitat y su apuesta por la descarbonización de
la economía (2019), sin detenerse a pensar que ese modelo energético “cien por
cien renovable” por el que se apostaba no era más que el lavado verde de cara
del capitalismo de siempre. La construcción de grandes infraestructuras,
macroplantas eólicas y centrales fotovoltaicas perpetuaba el modelo
extractivista y especulativo de explotación territorial. El penúltimo intento
de articular las docenas de conflictos ambientales (SOSNatura.cat, 2021) no
halló mejor metodología que la de presionar a la administración y los partidos
para así poder “reorientar el modelo” catalán, más turístico que productivo,
hacia la sostenibilidad. La misma táctica de siempre. Por enésima vez se rogó
por una “participación efectiva de la ciudadanía a través de debates abiertos y
consultas populares vinculantes.” Finalmente, se osó pedir a la Generalitat el
cumplimiento de las directivas europeas, la moratoria de los grandes proyectos
inútiles y la restauración del Departament pujolista del Medi Ambient, disuelto
en 2010, “una herramienta clave para construir el futuro país que queremos”
(Ecologistas en Acción). Decididamente, las críticas anti-desarrollistas yacían
enterradas en el cementerio de la moderación y el buenismo dialogante. No
obstante, el combate ecológico era demasiado importante como para dejarlo en
las manos de sus sepultureros. A los verdaderos defensores del territorio
correspondía sacarlo del atolladero del colaboracionismo cómplice. ¿Dónde
estaban?
Fue muy oportuna la aparición en enero
de este año de “Revoltes de la Terra” tras dos años de reuniones y encuentros,
batallando por una alternativa comunitarista, definida como una “hiedra de
vínculos exterior a la lógica productivista.” Justo era de esperar un análisis
panorámico del momento crítico en el que nos encontramos y un programa
contundente de movilizaciones, pero nuestro gozo en un pozo. El lenguaje
empleado en su manifiesto era retórico a más no poder, lleno de vaguedades y
lugares comunes del posmodernismo, muy por debajo del ecologismo más elemental.
Para empezar esa “tierra que se rebela” que deseaba “promover un despliegue de
posibilidades” y “edificar una trama de pasiones, soberanías y métodos”, no se
definía como coordinadora, ni como plataforma, ni como grupo impulsor: era más
bien “un entramado de lazos”, “un conjunto de recursos logísticos, operativos y
relacionales”, “un abanico de herramientas replicables en cualquier lugar.” Era
pues un pelotón de gente buenrollista de orígenes diversos con pocas ideas en
común y ninguna perspectiva a medio plazo, por lo que no era de extrañar que
presumieran de “diversidad estratégica”, aunque mejor hubieran debido alardear
de cautela, tibieza y manga ancha si iban a inspirarse en el trabajo comedido
de plataformas blandas del estilo SOS Territori y “Salvem.” Pero donde las
alarmas se disparaban era cuando declaraban buscar el refuerzo de “entidades
como Ecologistas en Acción” y “seguir los impulsos” de sospechosos montajes
como Extinción Rebelión o los “Soulevements de la Terre”, tan cuestionados por
los libertarios. Nos explicamos.
A excepción de algunas delegaciones territoriales,
Ecologistas en Acción no es la organización de activistas con unos principios
ideológicos radicales que nosotros mismos suscribiríamos. Se trata de un
verdadero lobby; una estructura restringida de profesionales del ecologismo que
viven de las subvenciones, muchas de origen oscuro, como las que provienen de
empresas contaminantes o de oligopolios energéticos a los cuales asesoran. En
la actualidad, en tanto que partidarios de lo que en los despachos del poder se
llama “transición energética” y Nuevo Pacto Verde, son defensores accérrimos de
las eólicas y fotovoltaicas industriales, del coche eléctrico y de la minería
del lítio. Y por lo tanto, grandes aliados de las multinacionales eléctricas y de los grupos automovilísticos, y aún
mejores colaboradores de las consejerías y ministerios. Por otra parte,
Extinción Rebelión, XR, es la sucursal de un movimiento inglés que busca la
repercusión mediática en actos simbólicos, intentando presionar a los gobiernos
para que promulguen medidas respecto a la crisis climática. Son no-violentos
dogmáticos, ombliguistas, sin cultura política; emplean un lenguaje de
márketing, abominan del anarquismo y no intervienen en las luchas locales. En cuanto a los
“Soulevements de la Terre”, SDT, habría mucho que decir, pero no que sea “un
movimiento de acción directa que combina la alegría con la desesperación”, tal
como ha escrito el pensador lumbrera de “Les Revoltes.” Sus iniciadores, ni
alegres ni desesperados, tenían intención de “construir amplias alianzas” con
cualquiera que se prestase y “federar el mayor número posible de militantes y
grupos salidos de horizontes ideológicos diferentes”, pero no eran precisamente
adalides de la acción directa. La conexión entre fans de “la
insurrección que viene”, colectivos variopintos, extincionistas, campesinos de “la Conf” y okupas
se hizo realidad más
que por los relatos festivos de luchas novelescas y sobredimensionadas
victorias como la de la ZAD de Nantes (“Zona de Acondicionamiento Diferido”
rebautizada como “Zona A Defender”), por la frustración y hastío de mucha gente
furiosa con el desastre reinante, poco reflexiva y sin claras posibilidades de
actuar por sí sola. La
brutal represión policial en Saint Soline y la orden de
disolución de los SDT luego revocada hicieron el resto. Las adhesiones del mundillo político, sindical,
televisivo y cultural aportaron el rasgo de indeterminación necesario para que
los generales de los “Soulevements” pudieran figurar ante los medios
de comunicación como representantes del movimiento en defensa del territorio
más radical de Francia. ¿De dónde venían?
Si contamos solo con la retirada del proyecto de
aeropuerto, la lucha en la ZAD de Nôtre Dame des Landes fue una victoria. Si
tenemos en cuenta la erradicación de todo proyecto de convivencia colectivo y
el restablecimiento de las actividades económicas convencionales, podíamos
hablar también de fracaso. Desde el principio, los componentes zadistas tenían
objetivos dispares e incompatibles: la ACIPA era una asociación ciudadanista
pacífica y contemporizadora; COPAIN, una organización de campesinos expropiados
enemiga de la agricultura industrial y práctica en autosuficiencia; luego
estaban la Coordinadora de opositores al proyecto, hecha de entidades políticas y sindicales;
los comités de apoyo exteriores; los ocupantes camaleónicos de la Zad encabezados por el
autodenominado CMDO, señalados como “appelistes” (relacionados con el “Appel”
del “Comité Invisible”), y, acabando, los grupos de la Zad del Este,
anarquistas, primitivistas, gente “Sans Fiche” y en general, antiautoritarios como los de
la red “Radis-co”, que bregaban por la gestión colectiva de una Zona de
Autonomía Definitiva.
La convivencia nunca fue fácil y la horizontalidad siempre brilló por su
ausencia. Las asambleas generales fueron teatro de continuas maniobras,
manipulaciones y broncas. Muchos grupos dejaron de asistir a ellas u
organizaron otras. Al final, se fraguó la “unidad” entre las facciones
ciudadanistas y los apelistas del CMDO para negociar con el Estado, dejando
fuera a los discordantes. La cacareada “victoria” se saldó con la demolición de las
defensas anti-policiales (“chicanes”) y las cabañas del Este, el reparto de
unos cuantos lotes individuales de tierra, la expulsión de los ocupantes
intransigentes y la vuelta al orden. Quienes realmente salieron ganando y, como
vulgarmente se dice, siguen vendiendo la moto, fueron los apelistas, un grupo
autoritario de aspecto informal que actúa como un verdadero partido
conspirativo.
Como los apelistas piensan exclusivamente en términos de
eficacia y control, jamás en términos de autonomía, no tienen un discurso
anti-capitalista demasiado concreto, solo planteamientos generales e ideas
vagas, somos el 99%, la catástrofe está al caer y cosas así, pero es tan radicaloide que
para quienes van de buena fe resulta seductor. Lo que denominan “su estrategia”
se basa en fomentar comités locales, acaparar la coordinación, fabricar consensos
descabellados con elementos heterogéneos y realizar compromisos contra-natura,
enmascarando las diferencias insalvables con fraseología, y apartando a los
“puristas” disidentes con violencia si el caso lo requiere. El deseo de
aparecer como interlocutores válidos con el poder establecido les obliga a la
visibilidad, por lo que delante de las cámaras sus miembros se exhiben como en
casa: hay que salir en la foto cueste lo que cueste, la repercusión mediática legitima la representatividad más
que la propia lucha. Entre bastidores, son la estructura vertical, opaca y
manipuladora que maneja los hilos o pretende hacerlo. En 2021 los apelistas
trasladaron a los “Soulevements” el estilo con el que lograron imponerse en la
ZAD. El funcionamiento en red favorecìa el asentamiento y la ocultación de
estados mayores, encargados de repartir las tareas y atribuirse todas las
responsabilidades posibles. Por eso en los SDT no se han celebrado nunca reuniones abiertas ni
asambleas. A lo sumo, alguna consulta en el espacio virtual. La reflexión y el
debate no se consideran necesarios puesto que lo que urge es la acción, y para
eso lo importante es la cantidad de gente que se pueda reunir, venga de donde
venga. En consecuencia, apertura a las tendencias más diversas, desde verdes
apoltronados, sindicatos tradicionales y partidos oficiales, hasta
izquierdistas de distinto pelaje, feministas y libertarios. Institucionales por
un lado, radicales por el otro, y los expertos en alzamientos en el medio. Todo el mundo
puede pertenecer a los SDT cualesquiera que sean sus ideas, sea por horas o con dedicación
exclusiva. Las únicas cuestiones que se discuten son cuestiones técnicas y de
gestión. Las grandes decisiones siempre se toman por adelantado, en total
verticalidad. En los conflictos menores los comités locales son libres de
actuar como les plazca, salvo si el impacto publicitario es suficientemente
grande. Entonces un equipo de dirigentes desembarca para explotarlo. Acto seguido se vampiriza la
lucha: se imponen
reglas estrictas y filtros selectivos que duran hasta que la noticia se enfría
y pierde gancho. El enorme retroceso del pensamiento crítico ligado al
proletariado revolucionario, el olvido de sus asaltos a la sociedad de
clases y la desintegración del medio libertario, han creado las condiciones para que ese tipo
de prácticas se
propaguen sin problemas,
ante el aplauso de “personalidades” neoleninistas que las suscriben con
desfachatez.
Volviendo a los asuntos catalanes, resulta obvio que la
fórmula SDT subyace en las “Revoltes de la Terra”, bien que el lenguaje de su manifiesto siga más a la “french theory” que al
zadismo titiritero. Sin duda, el componente juvenil metropolitano tendrá algo que ver,
aunque no pensamos que actúe como un comité central. No ha realizado su
aprendizaje en la escuela de la ZAD, sino en aquellas apacibles movidas boyscout de inspiración toninegrista.
En fin, las susodichas Revoltes aportan una ambigüedad aún mayor en su
posicionamiento, una estrategia del montón más exagerada y una falta de
criterio total a la hora de juzgar la situación catalana bajo la batuta del
capital. Su beligerancia con las instituciones y los partidos parece nula, por
lo que las acciones que los “Soulevements de la Terre” llaman “dinámicas”, es
decir, los sabotajes y enfrentamientos, no están ni se las espera. Estos rebeldes
de la tierra pasados por agua no son para nada insurreccionalistas, y por lo tanto, no
buscan apuntarse tantos con el sensacionalismo que despiertan las acciones
violentas como las que hubieron en Nôtre Dames des Landes y en Saint Soline,
por lo que probablemente no irán mucho más allá de reivindicar un diálogo con
la administración, directo o más bien indirecto. Ojalá nos equivoquemos. A la hora de la
verdad, si la radicalización de turbulencias tales como el movimiento por la vivienda, el anti-turísmo o el de los gremios campesinos no
lo remedia, su discurso no diferirá del de las plataformas ciudadanas, puro
pragmatismo de bajo nivel en conformidad con los intereses materiales
de las clases medias.
Su actividad no
pasará del típico pacifismo convivencial de amigables excursiones y acampadas,
talleres de sardanas y banquetes populares. Esto es lo que creemos, aunque no nos
gustaría tener razón.
Miquel Amorós
Para la charla en la Jornada Campestre
de Kan Pasqual (Serra de Collserola, Barcelona) el 27 de abril de 2025.
Spectacle de la révolte en
Catalogne
La théâtralisation de la protestation et la
banalisation qui en découle sont les caractéristiques les plus courantes des movidas dans la société du spectacle où
les expériences prétendument vécues sont préalablement mises en circulation
comme rôles à jouer ; où l'activisme se confond avec le divertissement et où le
spectateur fait office de figurant. Le fait que « les gens » de notre temps
préfèrent l'image à la chose, l'illusion à la vérité, et le substitut à
l'authenticité – c'est-à-dire le spectacle – est dû au fait que ces gens sont différents, radicalement opposés à
ceux qui comptaient à l'époque précédente. Gardons à
l'esprit le fait que le prolétariat industriel n’ayant plus une place
primordiale dans les luttes sociales a entrainé– dans les pays où règnent les
conditions postmodernes de la production capitaliste – un processus de déclassement
qui a conduit au développement de
ce qu’on désigne comme « citoyenneté » mais qui représente plus véridiquement les
classes moyennes salariées. Ces classes, assises entre deux chaises, la
bourgeoise et la populaire, peuvent arriver à se sentir et même à se déclarer
antagonistes à la classe dominante, elles ne manifestent jamais un tel
antagonisme dans la pratique. Aujourd'hui, leur comportement est très médiatisé
: ils agissent presque exclusivement pour passer dans la presse et à la
télévision. C'est comme s'il n'y avait pas de vie en dehors des journaux ou de
l'écran. Le
dénominateur commun des manifestations mésocratiques telles que
l'antimondialisation, l'anti-guerre, le 15-M ou les Marches de la Dignité, a
toujours été la volonté de ne pas modifier l'ordre ou subvertir les règles du
jeu du pouvoir. En réalité, la fausse révolte des couches sociales
intermédiaires qui en réalité ne lutteront pas, n'obéit pas à une conscience
antithétique, c'est-à-dire à une nouvelle conscience de classe antisystème,
mais se soumet au principe hégémonique qui régule la vie dans la
société de consommation : la mode. Cela explique non seulement l'aspect frivole
et le pouvoir d'attraction du mouvement
citoyen, mais aussi son caractère éphémère, récréatif et
ostensiblement gadget. Le pire, c'est que les réseaux sociaux ayant renforcé
les fondements de l'irréalité, cela porte un coup fatal à ce qui restait de la
communication autonome et du sens de la communauté dans la société civile. En
déplaçant la majeure partie de la contestation dans l'espace virtuel, où les
images et les récits valent plus que les mots, le spectacle de la révolte en
réseau peut confortablement remplacer les luttes réelles prosaïques.
Les progrès technologiques n'ont pas éliminé la
contradiction flagrante entre les rapports de production capitalistes et les
forces productives, mais ils ont minimisé l'importance sociale des travailleurs
dans l'industrie, les ateliers et les mines, poussant la classe ouvrière dans
le secteur tertiaire de l'économie où les salaires, les conditions de travail
et les droits étaient et demeurent précaires. Le recul du prolétariat
industriel a provoqué la perte de contrôle du marché du travail et, conformément
à la fragmentation en couches d'intérêts différents, sa conscience de classe
s'est évaporée ; le
prolétariat s'est déclassé. Dès
lors, le prolétariat a cessé d'être le référent effectif des luttes sociales.
En tant que sujet historique, la classe ouvrière n’avait plus d’autre demeure
que le ciel de l'idéologie, comme dogme dans les doctrines ouvriéristes des sectes
et dans la virtualité des réseaux. Cependant, la mondialisation économique, qui
était avant tout financiarisation, a encore accentué ce que James O'Connor a
décrit comme la deuxième contradiction capitaliste, à savoir la dégradation
progressive des conditions de production qui avaient rendu efficace
l'exploitation de la main d’œuvre. La croissance illimitée de l'économie s'est
heurtée aux limites biophysiques de la vie sur terre, la rendant inhabitable.
En somme, la capitalisation du territoire – l'extractivisme – a rendu les
interactions entre la société et la nature de plus en plus destructives,
déclenchant une crise écologique généralisée. La question sociale est allée
au-delà de la question du travail
pour se concentrer sur la défense du territoire -qui est finalement la défense
de l'espèce-, c'est-à-dire que la crise environnementale est devenue le premier
enjeu de la crise sociale. La prolétarisation des masses salariées, principalement
urbaines, et le dépeuplement des campagnes se sont poursuivis, mais désormais
le statut de prolétaire peut être mieux définie : il n’est plus seulement celui
qui vend sa force de travail, mais aussi celui qui a perdu tout pouvoir de
décision sur son habitat et ses conditions de vie de plus en plus pauvres,
dépendantes, artificielles et consuméristes.
Le prolétariat traditionnel était productiviste et ne prêtait pas l'attention voulue aux problèmes
environnementaux, qui dans les années 1950 commençaient déjà à être pressants.
La défaite du mouvement ouvrier révolutionnaire et la régression de la lutte
des classes ont cédé la place aux combattants écologiques, en particulier au
mouvement antinucléaire. Il y eût des groupes comme « Alfalfa » qui firent du bon travail, mais l'effondrement subi
par les valeurs, par la mémoire des luttes, et, en général, par tout
l'héritage historique de l'ancienne classe ouvrière
ainsi que la menace des projets d’aménagement radicaux ont laissé seuls les
écologistes avec leurs technologies non polluantes, leurs énergies alternatives
et leurs projets de collecte des déchets. Sans passé, héritage ou projet
d'émancipation à revendiquer. Entre-temps, tout comme les syndicats de
concertation ont définitivement minoré l’impact des conflits du travail en
agissant en tant que médiateurs, les partis et organisations politiques verts
ont voulu faire de même avec le problème territorial. Depuis que le nombre
d'agressions s'est multiplié avec le développement – « durable » ou non – de l'économie, le parasitisme vert a
pu œuvrer pour l'ordre. Si l'on s'en tient à la Catalogne, l'expansion de la zone
métropolitaine de Barcelone et les politiques développementalistes de la
Generalitat ont conduit à une surexploitation
des ressources et causé des dommages irréversibles au
territoire catalan. À la fin du siècle dernier, le pays avait le douteux honneur
officiel d'être l'une des régions européennes avec la plus grande prédation
territoriale, malgré
le fait que les « verts » soient très présents dans
les institutions. Cependant, la défense du territoire reposant
sur des conflits locaux isolés et autolimités souffrait d'un manque de moyens
et de popularité. Les grandes mobilisations de 2000 contre le Plan Hydrologique
National et le Transfert des eaux de l'Èbre ont été transcendantes et ont
conduit à une volonté d'unité d'action, mais seulement dans les plates-formes locales du type « Salvem », les groupes environnementaux décaféinés et les entités « civiques » qui
recueillaient les signatures contre les agressions environnementales. Lors des
réunions de Figueres (2003) et de Montserrat (2008), une liste de propositions
a été établie qui loin de remettre en question le régime capitaliste ou les
institutions étatistes qui le favorisaient, s’en prenait seulement à ses excès.
Elle a simplement fait passer les « déclarations internationales de durabilité »
avant la critique de la croissance dérégulée, et ainsi pouvait trouver toute sa
place dans d’autres « modèles » capitalistes d’énergie renouvelable, d'urbanisme compact,
de mobilité publique et de développement territorial respectueux de
l'environnement. L'ensemble du lot a été défini comme « nouvelle culture du territoire ». La stratégie était très simple : les plateformes
et les groupes devaient être des interlocuteurs stables des administrations,
afin d'établir, à travers des « mécanismes qui permettent la participation citoyenne »,
une législation environnementale
avec ses observatoires, ses tribunaux, ses parquets, ses redevances et ses
sanctions. Ils n'ont pas remis en question le rôle de la bureaucratie
administrative, relais d’intérêts économiques fallacieux, ni la légitimité des
partis politiques qu'ils espéraient utiliser pour planifier des mesures
protectionnistes au Parlement et présenter des propositions non législatives.
Selon toute vraisemblance, les militants des partis ont influencé les
plateformes, puisque toutes leurs revendications étaient incluses dans leurs
programmes environnementaux. Leur prétendue impartialité n'était qu'une
tactique visant à présenter comme un intérêt général ce qui n'était
que des intérêts électoraux camouflés.
Le mouvement écologiste catalan a célébré la
déclaration d'urgence climatique par la Generalitat et son engagement en faveur
de la dé carbonisation de l'économie (2019) comme un succès, sans s'arrêter à
penser que le modèle énergétique « cent pour cent renouvelable » pour lequel il
s'était engagé n'était rien d'autre que le greenwashing du capitalisme de
toujours. La construction de grandes infrastructures, de macro-éoliennes et de
centrales photovoltaïques a perpétué le modèle extractiviste et spéculatif d'exploitation
territoriale. L'avant-dernière tentative d'articuler les dizaines de conflits
environnementaux (SOS Natura.cat, 2021) n'a pas trouvé de meilleure méthode que
de faire pression sur l'administration et les partis afin de « réorienter le
modèle catalan », plus touristique que productif, vers la durabilité. Toujours
la même méthode. Pour la énième fois, l’appel à une « participation effective
des citoyens par le biais de débats ouverts et de consultations populaires
contraignantes ». Enfin, ils ont « osé » demander à la Generalitat de
se conformer aux directives européennes, au moratoire sur les grands projets
inutiles et à la restauration du Département pujoliste de l'environnement,
dissous en 2010 : « un outil clé pour construire le futur pays que
nous voulons » (Ecologistas en Accion) puisqu'il a tenté d'adapter le territoire catalan à la
législation environnementale de l'Union européenne. Décidément, les critiques anti-développementalistes
étaient enterrées dans le cimetière de la modération et dans le dialogue défaitiste. Cependant, le combat écologique est trop
important pour être laissé entre les mains de ses fossoyeurs. C'est aux vrais
défenseurs du territoire de le sortir du bourbier du collaborationnisme
complice. Où sont-ils ?
La parution en janvier de cette année de l’appel des « Révoltes de la Terre » est venue à point
nommé après deux ans de rencontres et de luttes, se déclarant en faveur d’une alternative communautaire, définie comme un « lierre de liens en dehors de la logique
productiviste ». Une analyse
panoramique du moment critique dans lequel nous nous trouvons et un programme énergique de
mobilisations étaient à prévoir, mais mes espoirs s’évanouirent à l’instant. Le langage utilisé dans son manifeste était au
plus haut point rhétorique, plein du flou et des banalités du postmodernisme,
bien en deçà de l'environnementalisme le plus élémentaire. Pour commencer,
cette « terre qui se
rebelle » qui voulait « promouvoir un étalage des possibles » et « construire un réseau de passions, de
souverainetés et de méthodes », ne se définissait pas comme une coordination, ni
comme une plateforme, ni comme un groupe moteur : elle était plutôt « un réseau de liens », « un ensemble de ressources logistiques,
opérationnelles et relationnelles », « une gamme d'outils réplicables n'importe où. Il s'agissait donc d'une bande de gens bon enfant,
d'origines
diverses, avec peu d'idées en commun et aucune perspective à moyen terme, il
n'est donc pas surprenant qu'ils se vantent d'une « diversité stratégique »,
alors qu’ils auraient dû être
plus prudents, tièdes et ouverts s'ils voulaient s'inspirer de l’action mesurée
de plates-formes douces telles que SOS Territori et « Salvem ».Mais là où la sonnette d’alarme a retenti, c'est
lorsqu'ils ont déclaré chercher du renfort auprès d’ « entités telles que les Ecologistas en Accion » et
« suivre les impulsions » de montages suspects comme Extinction Rebellion ou
les « Soulèvements de la Terre », tant remis en question par les libertaires
français. Laissez-nous vous expliquer.
À l'exception de quelques groupes territoriaux, Ecologistas en Accion n'est pas une
organisation de militants aux principes idéologiques radicaux auxquels nous
souscririons nous-mêmes. C'est un vrai lobby ; une structure restreinte de
professionnels de l'environnement qui vivent de subventions, souvent d'origine
obscure comme celles qui proviennent d'entreprises polluantes ou d'oligopoles
énergétiques que par ailleurs ils conseillent.
Aujourd'hui, partisans de ce que l'on appelle dans les officines du pouvoir la « transition énergétique » et le Green New Deal, ils sont de
fervents défenseurs de l'éolien
industriel et du photovoltaïque, de la voiture électrique et de l'extraction du
lithium. Et donc, de grands
alliés des multinationales de l'électricité et des groupes automobiles, ou plus
encore des collaborateurs des ministères et des administrations. Par ailleurs,
Extinction Rebellion, XR, est la branche d'un mouvement anglais qui cherche
avant tout l'impact médiatique au travers d’actions symboliques, essayant de
faire pression sur les gouvernements pour qu'ils adoptent des mesures
concernant la crise climatique. Ils sont non-violents, dogmatiques,
nombrilistes, sans culture politique, ils utilisent un langage de marketing, ils abhorrent l'anarchisme et
n'interviennent pas dans les luttes locales. Quant aux « Soulèvements de la Terre », SDT, il y aurait beaucoup à dire, mais
certainement pas qu'il s'agit d’un « mouvement d'action directe qui allie la joie au
désespoir », comme l'a
écrit un grand penseur des « Révoltés de la Terre ». Ses initiateurs, ni
joyeux ni désespérés, avaient l'intention de « construire de larges alliances » avec tous ceux qui s'y prêteraient et de
« fédérer le plus grand
nombre possible de militants et de groupes d'horizons idéologiques
différents », mais ils
n'étaient pas exactement les champions de l'action directe. Si le projet de
rapprochement entre les partisans de « l'insurrection
qui vient », les
collectifs hétéroclites, les extinctionnistes, les paysans de la Conf, les syndicalistes de la CGT et les squatters a pu devenir une réalité cela ne fut pas grâce aux
récits festifs de luttes romanesques ou de victoires exagérées comme celle de
la ZAD de Nantes (« Zone de
Conditionnement Différé » rebaptisée « Zone à Défendre »), mais plutôt en raison de la frustration et de l'ennui de
nombreuses personnes furieuses du désastre régnant, peu réfléchies et sans
possibilités claires d'agir par elles-mêmes. La répression policière brutale à
Sainte-Soline et l'ordre de dissoudre le SDT, abandonné par la
suite, ont fait le reste. Les adhésions du monde politique, syndical,
télévisuel et culturel ont fourni les éléments nécessaires afin que les
généraux des « Soulèvements » puissent apparaître devant les médias comme
les représentants du mouvement de défense du territoire le plus radical de
France. D'où venaient-ils ?
Si l'on ne tient compte que du retrait du projet
d'aéroport, la lutte dans la ZAD de Notre Dame des Landes a été une victoire.
Mais si l'on prend en compte l'éradication de tout
projet de coexistence collective et le rétablissement des activités économiques
conventionnelles, on pourrait aussi parler d'échec. Dès le début, les composantes de la ZAD avaient des objectifs disparates et
incompatibles : l'ACIPA était une association citoyenne pacifique
et d'apaisement ; COPAIN, une organisation de paysans expropriés ennemis de l'agriculture industrielle et
ayant largement aidé à la mise en place
des pratiques dites d'autosuffisance; puis il y avait le Comité de coordination
des opposants au projet, composé d'entités
politiques et syndicales, les comités de soutien extérieurs, les occupants
caméléons de la Zad dirigés par l'autoproclamé CMDO, ( les appelistes ), et, enfin, les groupes de la Zad de l’Est, anarchistes, primitivistes, les Sans Fiche
(nom d’un groupe d’occupants) et en général, antiautoritaires comme ceux du
réseau « Radis-co », qui se sont battus pour la gestion collective
d'une Zone d'Autonomie Définitive. La coexistence n'a jamais été facile et
l'horizontalité a toujours brillé par son absence. Les assemblées générales ont
été le théâtre de manœuvres, de manipulations et de combats continus. De
nombreux groupes ont cessé d'y assister ou en ont organisé d'autres.
Finalement, une « unité »
s'est forgée entre les factions
citoyennes et les partisans du CMDO
pour négocier avec l'État, en laissant de côté les discordants. La « victoire » tant vantée se traduisit par la démolition
des défenses anti-police (« chicanes ») et des cabanes à l'Est, la distribution de quelques
parcelles de terrain individuelles, l'expulsion des occupants intransigeants et
le retour à l'ordre. Ceux qui ont vraiment gagné et, comme on le dit
communément, continuent à vendre la moto, ce sont les appelistes, un groupe
autoritaire à l'apparence informelle qui agit comme un véritable parti
conspirateur.
Comme les appelistes pensent exclusivement en termes d'efficacité
et de contrôle, jamais en termes d'autonomie, ils n'ont pas de discours anticapitaliste très concret,
seulement des approches générales et des idées vagues, nous sommes les
99 %, la catastrophe est sur le point d’advenir, tout le monde est bon et des
choses comme ça, mais c'est tellement radicaliste que pour ceux qui y vont de
bonne foi cela soit séduisant. Ce qu'ils appellent « leur stratégie » repose sur la mise en avant (avant
phagocytage si besoin est) des comités locaux, le monopole de la coordination,
la fabrication de consensus fous avec des éléments hétérogènes, la réalisation
de compromis contre nature masquant les différences insurmontables par la
phraséologie, et repoussant les « puristes » dissidents par la violence si
nécessaire. Le désir d'apparaître comme des interlocuteurs valables avec le
pouvoir établi les amènent sur le devant de la scène, ils doivent donc se
mouvoir avec aisance face aux caméras ; il faut être sur la photo à tout prix,
l'impact médiatique légitime la représentativité plus que la lutte elle-même.
En coulisses, ils constituent la structure verticale, opaque, manipulatrice
où l’on tire les ficelles ou on fait semblant de le faire. En 2021, les appelistes ont
transféré aux « Soulèvements » le style avec lequel ils ont réussi à
s'imposer dans la ZAD. Le fonctionnement en réseau a favorisé la mise en place
et la dissimulation des états-majors, chargés de distribuer les tâches et de
s'attribuer toutes les responsabilités possibles.
C'est pourquoi aucune réunion ou assemblée publique
n'a jamais eu lieu dans le SDT. Tout au plus, une consultation dans l'espace
virtuel. La réflexion et le débat ne sont pas considérés comme nécessaires car
ce qui est urgent, c'est l'action, et pour cela l'important est le nombre de
personnes qui peuvent s’agglomérer, d'où qu'elles viennent et par conséquent,
inviter les tendances les plus diverses, des Verts, des syndicats traditionnels
et des partis officiels, jusqu’aux gauchistes de différentes allégeances,
féministes et libertaires. Les institutionnels d'un côté, les radicaux de
l'autre, et les experts des soulèvements au milieu. Tout le monde peut adhérer
au SDT quelles que soient ses idées, que ce soit à temps partiel ou à temps
plein. Les seules questions abordées sont des questions techniques et
de gestion. Les grandes décisions sont toujours prises à l'avance, en toute
verticalité. Dans les conflits mineurs, les comités locaux sont libres d'agir à
leur guise. Mais si l'impact publicitaire est suffisamment prometteur alors une équipe de
dirigeants débarque pour l'exploiter. Le combat est vampirisé : des règles
strictes et des filtres sélectifs sont imposés qui durent jusqu'à ce que les news se refroidissent et perdent leur
accroche. L'énorme recul de la pensée critique lié à l’évanouissement du
prolétariat révolutionnaire, l'oubli de ses assauts contre la société de classe
et la désintégration du milieu libertaire, ont créé les conditions pour que ce
type de pratique se répande sans problème, sous les applaudissements des « personnalités » néo-léninistes qui y souscrivent effrontément.
Pour en revenir aux affaires catalanes, il est évident
que la formule SDT –
les bien nommées « transversalité » ou « nouvelle dynamique de
lutte » – a inspiré les « Revoltes de la Terra » même si le langage de leur manifeste s'écartait
quelque peu du zadisme marionnettiste. Sans aucun doute, la tactique n’y est
pas pour rien. Quoi qu'il en soit, peu importe à quel point “Révoltes” se montre comme un SDT á la
catalane ; il n'a pas la
même capacité d'agir en tant que comité central. Sa volonté de médiation est identique
puisque la médiation – ce « réseau de passions et de
méthodes », cette « gamme d'outils réplicables »
– est le premier pas du contrôle. Mais comme le dit une porte-parole, « nous
devons tenir compte de notre contexte de mobilisation et de ce que les gens
sont capables d'assumer ». Si par gens il entend les plateformes
« Salvem » ou les habitants des lotissements résidentiels, les
apprentis du CMDO savent déjà que ce que ce qu’ils prendront en charge ne sera
pas grand-chose : des actions symboliques, pacifiques et festives. Ainsi, les
Révoltes susmentionnées apportent intentionnellement une
ambiguïté encore plus grande dans leur positionnement que les « Soulèvements » : si
l’opportunisme est similaire, leur stratégie de l’empilement est encore plus
exagérée. De toute évidence, il
s'agit d'une opération de débarquement bien adaptée aux circonstances
catalanes. La belligérance avec les institutions, les syndicats et les partis
semble nulle. Les actions que les SDT appellent « dynamiques », c'est-à-dire le sabotage et les affrontements,
ne sont pas là et ne sont pas attendues. Ces insipides Révoltes de la terre ne sont en rien insurrectionalistes, pas plus
que les écologistes locaux ou les syndicalistes agraires qui les approchent
avec quelques tracteurs, et, par conséquent ils ne
chercheront pas à marquer autant de points qu’avec le sensationnalisme suscité
par des actions violentes comme celles qui ont eu lieu à Notre Dame des Landes
et à Saint Soline. Ils n'iront probablement pas beaucoup
plus loin que d'exiger un
dialogue avec l'administration. J'espère que nous nous trompons. En fin de
compte, si la radicalisation de turbulences telles que le mouvement pour le
logement, la protestation contre le tourisme ou les actions des assemblées
paysannes n'y remédie pas, leur discours ne différera pas de celui des
plates-formes citoyennes : pur pragmatisme de bas étage conforme aux intérêts
matériels des classes moyennes urbaines, des exploitations agricoles familiales
ou des entrepreneurs touristiques locaux. Leur activité ne dépassera pas le
pacifisme convivial typique des mascarades de protestation, des déjeuners
populaires et des camps de loisirs animés par des ateliers de contes et de
sardanes, fumure qui suffira à ce qu'ils appellent la « première germination ».
C'est ce que nous croyons, même si nous n'aimerions pas avoir raison.
Miquel Amorós
Pour la conférence à la Jornada Campestre de Kan Pasqual (Serra de
Collserola, Barcelone) le 27 avril 2025.