lunedì 28 aprile 2025

LA TERRA CHE SI SOLLEVA PER FINTA diventa spettacolo in Catalogna - Miquel Amorós

 




La teatralizzazione della protesta e la sua successiva banalizzazione sono la caratteristica più comune dei movimenti della società dello spettacolo, nella quale tutte le esperienze vissute svaniscono in una rappresentazione dove l'attivismo si fonde con l'intrattenimento e lo spettatore diventa una comparsa. Il fatto che “la gente” della nostra epoca preferisca l'immagine alla cosa e l'illusione alla verità – cioè lo spettacolo – è dovuto al fatto che questa “gente” è diversa, radicalmente opposta a quella che contava nell'epoca precedente. Teniamo presente che alla perdita di centralità del proletariato industriale nelle lotte sociali ha fatto seguito – nei paesi in cui regnano le condizioni postmoderne di produzione capitalista – un processo di declassamento che ha portato allo sviluppo di quel che si chiama “cittadinanza” e che noi potremmo chiamare classi medie salariate. Queste classi, sedute tra due sedie, la borghese e la popolare, possono arrivare a sentirsi e persino dichiararsi antagoniste della classe dominante, ma non manifestano mai nella pratica tale antagonismo. Il denominatore comune delle manifestazioni mesocratiche come l’anti-globalizzazione, contro la guerra, il 15-M o le Marce della Dignità, è sempre stato la volontà di non sovvertire le regole del gioco del potere. In realtà la rivolta fasulla degli strati sociali intermedi, che smettono di lottare, non risponde a una forma di consapevolezza antitetica, cioè a una nuova coscienza di classe antisistema, ma si sottomette al principio egemonico che regola la vita nella società dei consumi: la moda. Ciò spiega non solo la natura frivola e il potere di seduzione del movimento di cittadinanza, ma anche il suo carattere effimero, pseudo ludico e visibilmente sensazionalistico. Il peggio è che i media sociali hanno rafforzato i pilastri dell'irrealtà, infliggendo un colpo mortale a ciò che restava di comunicazione autonoma e di sentimento comunitario nella società civile. Spostando il grosso della contestazione nello spazio virtuale, dove le immagini e le storie parlano più delle parole, lo spettacolo della rivolta online può tranquillamente sostituire le prosaiche lotte della vita reale.

 

I progressi tecnologici non hanno eliminato la palese contraddizione tra i rapporti di produzione capitalistici e le forze produttive, ma hanno ridotto al minimo l'importanza sociale dei lavoratori dell'industria, delle officine e delle miniere, spingendo la classe operaia verso il settore terziario dell'economia, dove i salari, le condizioni di lavoro e i diritti restano precari. Il declino del proletariato industriale ha portato alla perdita di controllo del mercato del lavoro e, di pari passo a causa della frammentazione della classe in strati con interessi diversi, si è prodotta l'evaporazione della sua coscienza di classe, cioè il suo declassamento. In seguito il proletariato ha smesso di essere il punto di riferimento effettivo delle lotte sociali. In quanto soggetto storico, la classe operaia non poteva mantenersi altro che nel cielo dell’ideologia, come dogma nelle dottrine operaiste delle sette e nella virtualità del web. Tuttavia, la globalizzazione economica, che era soprattutto finanziarizzazione, ha accentuato ulteriormente quella che James O'Connor ha chiamato la seconda contraddizione capitalista, vale a dire il progressivo degrado delle condizioni di produzione che rendono possibile lo sfruttamento della mano d’opera. La crescita illimitata dell'economia si è scontrata con i limiti biofisici della vita sul pianeta, tendendo a renderlo inabitabile. In sintesi, la capitalizzazione del territorio – l’estrattivismo – ha reso il metabolismo tra la società e la natura sempre più distruttivo, scatenando una crisi ecologica generalizzata. La questione sociale ha lasciato il territorio lavorativo per concentrarsi sulla difesa del territorio – che, in ultima analisi, è la difesa della specie – o, per dirla in altro modo, la crisi ambientale è diventata il primo elemento della crisi sociale. La proletarizzazione delle masse salariate, principalmente urbane, e lo spopolamento delle campagne hanno seguito il loro corso, ma ora la condizione di proletario potrebbe essere meglio definita non solo sulla base della vendita della forza lavoro ma anche sulla perdita del potere decisionale riguardo all’habitat e alle condizioni di vita che questo offriva, sempre più povere, dipendenti, artificiali e consumistiche.

 

Il proletariato tradizionale sosteneva lo sviluppo e non prestava la dovuta attenzione ai problemi ambientali che nell’ultimo cinquantennio hanno cominciato a diventare cruciali. La sconfitta del movimento operaio rivoluzionario e il declino della lotta di classe hanno lasciato il posto agli attivisti ecologisti, in particolare al movimento antinucleare. C'erano collettivi come "Alfalfa" che hanno fatto un buon lavoro, ma il danno subito dai valori, dalla memoria delle lotte, dai progetti di trasformazione radicale e, in generale, da tutto il patrimonio storico della vecchia classe operaia, ha lasciato gli ecologisti soli con le loro tecnologie non inquinanti, le loro energie alternative e i loro progetti di raccolta dei rifiuti, senza passato, eredità né progetto d’emancipazione da rivendicare. Nel frattempo, così come i sindacati di concertazione hanno definitivamente eliminato la conflittualità del lavoro agendo da mediatori, i partiti e le organizzazioni politiche verdi hanno cercato di fare lo stesso con le questioni territoriali. Con l'aumentare del numero di attacchi e con lo sviluppo, sostenibile o meno, dell'economia, il parassitismo verde ha potuto lavorare in favore dell’ordine. Se guardiamo alla Catalogna, l'espansione dell'area metropolitana di Barcellona e le politiche di sviluppo della Generalitat (il governo catalano) hanno portato a un sovra sfruttamento di risorse e causato danni irreversibili al territorio catalano. Alla fine del secolo scorso, il paese aveva il dubbio onore ufficiale di essere una delle regioni europee con la maggiore predazione territoriale. Tuttavia, la difesa del territorio si basava su conflitti locali isolati e autolimitati e soffriva di una preoccupante mancanza di risorse e di personale. Le grandi mobilitazioni del 2000 contro il Piano Idrologico Nazionale e il Trasferimento delle acque del fiume Ebro furono epocali e alimentarono una volontà di un'azione unitaria, ma solo nelle piattaforme di quartiere come "Salvem", nei gruppi ambientalisti deboli e in organizzazioni "civiche" raccoglitrici di firme contro gli attacchi ambientali. Negli incontri di Figueres (2003) e Montserrat (2008) fu stilato un elenco di proposte che non mettevano in discussione il regime capitalista o le istituzioni stataliste che lo favoriscono, ma solo i suoi eccessi. Si dava semplicemente priorità alle "dichiarazioni internazionali di sostenibilità" rispetto alla crescita deregolamentata, qualcosa che potrebbe essere realizzato in altri "modelli" capitalistici di energia rinnovabile, pianificazione urbana compatta, mobilità pubblica e sviluppo territoriale rispettoso dell'ambiente. L’intero lotto fu poi definito “nuova cultura del territorio”. La strategia noviculturale da seguire era molto semplice: le piattaforme e i gruppi si ponevano come interlocutori stabili delle amministrazioni, al fine di stabilire, attraverso "meccanismi favorevoli alla partecipazione dei cittadini", una legislazione ambientale con i suoi osservatori, tribunali, procure, tasse e sanzioni. Non si metteva in discussione il ruolo della burocrazia amministrativa, succursale d’interessi economici esterni, né si dubitava della legittimità dei partiti politici, dei quali si sperava servirsi per pianificare misure protezionistiche in Parlamento e presentare proposte non legislative. Con ogni probabilità, gli attivisti di partito hanno influenzato i programmi, poiché tutte le loro rivendicazioni erano incluse nei loro programmi ambientalisti. La loro presunta imparzialità era soltanto una tattica per presentare come interessi generali quelli che erano semplicemente interessi elettorali camuffati.

 

Il movimento ambientalista catalano ha celebrato come un successo la dichiarazione di emergenza climatica da parte della Generalitat e il suo impegno a decarbonizzare l'economia (2019), senza soffermarsi a considerare che il modello energetico "100% rinnovabile" da essa promosso non era altro che un greenwashing del capitalismo di sempre. La costruzione di grandi infrastrutture, grandi parchi eolici e impianti fotovoltaici  perpetuava il modello estrattivo e speculativo di sfruttamento del territorio. Il penultimo tentativo di articolare le decine di conflitti ambientali (SOSNatura.cat, 2021) non ha trovato metodologia migliore che fare pressione sull'amministrazione e sui partiti politici per una "nuova orientazione del modello catalano", più turistico che produttivo, verso la sostenibilità. La stessa tattica di sempre. Per l'ennesima volta, si è fatto appello a una "partecipazione effettiva dei cittadini attraverso dibattiti aperti e consultazioni popolari vincolanti". Infine, si è osato chiedere alla Generalitat di conformarsi alle direttive europee, la moratoria sui grandi progetti inutili e il ripristino del Dipartimento dell'Ambiente voluto da Pujol, abolito nel 2010, "uno strumento chiave per costruire il futuro Paese che vogliamo" (Ecologistas en Acción). Le critiche anti-sviluppo sono state decisamente sepolte nel cimitero della moderazione e del buonismo dialogante. Ciononostante, la lotta ecologica era troppo importante per lasciarla nelle mani dei suoi seppellitori. Spettava ai veri difensori del territorio salvarlo dal pantano del collaborazionismo complice. Dov'erano?

 

L’apparizione di "Revoltes de la Terra" nel gennaio di quest'anno è stata molto opportuna, dopo due anni d’incontri e riunioni, lottando per un'alternativa comunitarista, definita come "un'edera di legami al di fuori della logica produttivista". Era giusto sperare un'analisi panoramica del momento critico in cui ci troviamo e un vigoroso programma di mobilitazioni, ma la nostra gioia è durata poco. Il linguaggio utilizzato nel loro manifesto era estremamente retorico, pieno di approssimazioni e di luoghi comuni postmoderni, ben al di sotto dell’ecologismo più elementare. Innanzitutto, questa “terra che si ribella” che voleva “promuovere una serie di possibilità” e “costruire una rete di passioni, sovranità e metodi” non si definiva come coordinatrice, né come piattaforma, né come gruppo motore: era piuttosto “una rete di legami”, “un insieme di risorse logistiche, operative e relazionali”, “una gamma di strumenti replicabili ovunque”. Si trattava quindi di un plotone di persone di buon carattere, di diverse origini, con poche idee in comune e nessuna prospettiva a medio termine, per cui non c’era da stupirsi che si vantassero di "diversità strategica", anche se avrebbero dovuto piuttosto vantarsi di cautela, tiepidezza e mano libera se volevano ispirarsi al lavoro misurato di piattaforme blande di stile SOS Territori e "Salvem". Tuttavia, i campanelli d'allarme hanno iniziato a suonare quando hanno dichiarato di cercare rinforzi da "entità come Ecologists in Action" e di "seguire gli impulsi" di schemi sospetti come Extinction Rebellion o "Soulèvements de la Terre", tanto messi in discussione dai libertari. Ci spieghiamo.

 

A parte alcune delegazioni territoriali, Ecologists in Action non è l'organizzazione di attivisti con principi ideologici radicali che noi stessi sottoscriveremmo. Si tratta di una vera lobby; una ristretta struttura di professionisti dell'ecologismo che vivono di sussidi, molti dei quali di origini oscure, come quelli provenienti da aziende inquinanti o da oligopoli energetici di cui sono consulenti. Attualmente, sostenitori di quella che negli uffici del potere si chiama “transizione energetica” e Green New Deal, sono convinti difensori dell'eolico e del fotovoltaico industriale, dell’auto elettrica e dell'estrazione del litio. Per questo sono grandi alleati delle multinazionali elettriche e dei gruppi automobilistici, e pure i migliori collaboratori dei governi regionali e dei ministeri. D’altra parte, Extinction Rebellion, XR, è la succursale di un movimento inglese che cerca la copertura mediatica attraverso atti simbolici, tentando di fare pressione sui governi affinché adottino misure nei confronti della crisi climatica. Sono non violenti, dogmatici, mistici, senza cultura politica; usano un linguaggio da marketing, aborrono l’anarchismo e non intervengono nelle lotte locali. Quanto ai “Soulèvements de la Terre” (SDT), ci sarebbe molto da dire, ma non che si tratti di “un movimento di azione diretta che combina l’allegria con la “disperazione”, come ha scritto il luminare pensatore de “Les Revoltes”. I suoi iniziatori, né allegri né disperati, intendevano “costruire ampie alleanze” con chiunque lo desiderasse e “federare il maggior numero possibile di militanti e gruppi provenienti da diversi orizzonti ideologici”, ma non erano esattamente sostenitori dell'azione diretta. Il legame tra i tifosi de “l’insurrezione che viene”, collettivi variopinti, estinzionisti, contadini della “Conf” e occupanti, si è concretizzato non tanto per i racconti festosi di lotte romanzesche e di vittorie sopravalutate come quella della ZAD di Nantes (“Zona di condizionamento differito” ribattezzata “Zona da difendere”), quanto per la frustrazione e la stanchezza di molta gente infuriata per il disastro regnante, priva di riflessione e senza chiare possibilità di agire autonomamente. La brutale repressione poliziesca a Saint Soline e il successivo ordine revocato di scioglimento dell’SDT hanno fatto il resto. Le adesioni del microcosmo politico, sindacale, televisivo e culturale hanno fornito il necessario grado d’indeterminatezza affinché i generali dei “Sollevamenti” potessero apparire davanti ai media come rappresentanti del movimento più radicale di Francia in difesa del territorio. Da dove vengono?

 

Se contiamo solo il ritiro del progetto aeroportuale, la lotta nella ZAD di Notre Dame des Landes è stata una vittoria. Se consideriamo l’eradicazione di ogni progetto di convivenza collettiva e il ripristino delle attività economiche convenzionali, potremmo anche parlare di fallimento. Fin dall'inizio, le componenti zadiste avevano obiettivi disparati e incompatibili: l'ACIPA era un'associazione di cittadini pacifica e conciliante; COPAIN, un'organizzazione di contadini espropriati, nemica dell’agricoltura industriale e pratica dell’autosufficienza; c’era poi la coordinazione degli oppositori al progetto composta da entità politiche e sindacali; i comitati di supporto esterno; gli occupanti camaleontici della ZAD capeggiati dall’autoproclamato CMDO, detti “Appellisti” (imparentati con “l’Appel” del “Comitato Invisibile”) e infine i gruppi della ZAD Orientale, anarchici, primitivisti “sans Fiche”e in generale antiautoritari come quelli della rete “Radis-co”che si battevano per la gestione collettiva di una Zona di Autonomia Definitiva. La coesistenza non è mai stata facile e l'orizzontalità ha sempre brillato per la sua assenza. Le assemblee generali furono teatro di continue manovre, manipolazioni e conflittualità. Molti gruppi smisero di parteciparvi o ne organizzarono altre. Alla fine, si è creata “l'unità” tra le fazioni di cittadinanza e gli appellisti del CMDO per negoziare con lo Stato, lasciando fuori i dissidenti. La decantata “vittoria” si è saldata con la demolizione delle difese anti-poliziesche (“le chicanes”) e le capanne dell’Este, la distribuzione di alcuni lotti individuali di terreno, l'espulsione degli occupanti intransigenti e il ritorno all'ordine. Chi ha davvero vinto, e che, come si dice volgarmente in spagnolo, continua a vendere la moto, sono gli Appellisti, un gruppo autoritario dall'aspetto informale che si comporta come un vero e proprio partito cospiratore.

 

Poiché gli Appellisti pensano esclusivamente in termini di efficienza e controllo, mai in termini di autonomia, non tengono un discorso anticapitalista davvero concreto – solo orientamenti generali e idee vaghe: noi siamo il 99%, la catastrofe è imminente e cosi via – ma talmente radicaloide che per quanti sono in buona fede, risulta seducente. Quella che chiamano "la loro strategia" si basa sulla promozione di comitati locali, sul monopolio del coordinamento, sulla fabbrica di consensi forzati con elementi eterogenei e sulla conclusione di compromessi innaturali, mascherando le differenze insormontabili con una fraseologia e rimuovendo con la violenza i "puristi" dissidenti, se il caso lo richiede. Il desiderio di apparire come interlocutori validi del potere costituito li costringe a essere visibili, per cui davanti alle telecamere i loro membri si esibiscono come a casa loro: si deve comparire nella foto a qualunque costo; la copertura mediatica legittima la rappresentatività più della lotta stessa. Dietro le quinte, sono la struttura verticale, opaca e manipolatrice che muove i fili o pretende di farlo. Nel 2021 gli Appellisti hanno trasferito ai “Soulèvements” lo stile con cui erano riusciti a imporsi nella ZAD. Il funzionamento in rete ha facilitato la creazione e l'occultamento di stati maggiori, responsabili della distribuzione dei compiti e dell'attribuzione di tutte le responsabilità possibili. Ecco perché nell'SDT non si sono mai tenute riunioni aperte al pubblico né assemblee. Al massimo qualche consultazione nello spazio virtuale. La riflessione e il dibattito non sono considerati necessari, poiché ciò che è urgente è l'azione e, per questo, ciò che conta è il numero di persone che si possono riunire, indipendentemente dalla loro provenienza. Di conseguenza, apertura alle tendenze più diverse, dai Verdi pigri ai sindacati tradizionali e ai partiti ufficiali, ai gauchisti di ogni tipo, alle femministe e ai libertari. Istituzionali da una parte, radicali dall'altra con gli esperti di rivolte nel mezzo. Chiunque può far parte di SDT, indipendentemente dalle proprie idee, sia part-time sia a tempo pieno. Le uniche questioni discusse sono di natura tecnica e gestionale. Le grandi decisioni sono sempre prese in anticipo, in completa verticalità. Nelle controversie di minore entità, i comitati locali sono liberi di agire come ritengono opportuno, a meno che l'impatto pubblicitario sia sufficientemente grande. Nel qual caso una squadra di leader sbarca per sfruttarlo. Per conseguenza si vampirizza la lotta: s’impongono regole rigide e filtri selettivi che durano finché la notizia non si raffredda e perde d’interesse. L'enorme declino del pensiero critico legato al proletariato rivoluzionario, l’oblio dei suoi attacchi alla società di classe e la disintegrazione dell'ambiente libertario hanno creato le condizioni affinché tali pratiche si diffondano senza problemi, tra gli applausi di "personalità" neo-leniniste che le sottoscrivono sfacciatamente.

 

Tornando alle questioni catalane, è ovvio che la formula SDT è alla base delle “Revoltes de la Terra”, sebbene il linguaggio del suo manifesto sia più in linea con la “teoria alla francese” che con lo zadismo burattinaio. Senza dubbio, la componente giovanile metropolitana avrà un certo coinvolgimento, anche se non pensiamo che agirà come un comitato centrale. Non ha completato il suo apprendistato nella scuola della ZAD, bensì in quei movimenti pacifici da boyscout d’ispirazione toninegrista. Infine, le Rivolte suddette comportano un'ambiguità ancora maggiore nel loro posizionamento, una strategia ancora più esagerata e una totale mancanza di criterio quando si tratta di giudicare la situazione catalana secondo le linee guida del capitale. La loro belligeranza verso le istituzioni e i partiti politici sembra inesistente, per cui le azioni che i “Soulèvements de la Terre” definiscono “dinamiche”, cioè i sabotaggi e gli scontri, non ci sono né si sperano. Questi ribelli della terra inzuppati d’acqua non sono per niente insorti e, pertanto, non cercano di trarre vantaggio dal sensazionalismo suscitato dalle azioni violente come quelle di Notre Dame des Landes e di Saint Soline, per cui probabilmente non andranno molto oltre la rivendicazione di un dialogo diretto o piuttosto indiretto con l'amministrazione. Spero di sbagliare. Al momento della verità, se la radicalizzazione di turbolenze come quelle del movimento per l'edilizia abitativa, del movimento antiturismo o dei sindacati contadini non porranno rimedio a questa situazione, il loro discorso non risulterà diverso da quello delle piattaforme di cittadinanza, puro pragmatismo di basso livello in accordo con gli interessi materiali delle classi medie. Le loro attività non andranno oltre il tipico pacifismo conviviale di amichevoli escursioni e campeggi, balli di sardana[1] e banchetti popolari. Questo è quel che crediamo, anche se non ci piacerebbe aver ragione.

 

Miquel Amorós

 

Per la conferenza tenutasi alla giornata campestre di Kan Pasqual (Serra de Collserola, Barcellona) il 27 aprile 2025.



[1] La sardana non è solo un tipico ballo catalano, ma un simbolo. Nasce nel XIX secolo e s’insinua nella Catalogna in mezzo alla popolazione, coinvolgendo tutti, anche se le sue origini sembrano ancora più antiche (NdT).



 

 

LA TIERRA QUE SE SUBLEVA DE BROMA

Revuelta espectáculo en Cataluña

 

La teatralización de la protesta y su consiguiente trivialización es la característica más común de las movidas en la sociedad del espectáculo, aquella en la que todas las experiencias vividas se desvanecen en una representación. Donde el activismo se funde con el entretenimiento y el espectador ejerce de figurante. El hecho de que “la gente” de nuestra época prefiera la imagen a la cosa, la ilusión a la verdad y el sucedáneo a la autenticidad -o sea, el espectáculo- se debe a que esa “gente” es otra, radicalmente opuesta a la que contaba en la época precedente. Tengamos presente que la pérdida de centralidad del proletariado industrial en las luchas sociales fue seguida -en los países donde reinan las condiciones posmodernas de producción capitalista- por un proceso de desclasamiento que desembocó en el desarrollo de algo que llaman “ciudadanía” y que nosotros podríamos denominar clases medias asalariadas. Dichas clases, sentadas entre dos sillas, la burguesa y la popular, pueden llegar a sentirse e incluso declararse antagónicas con la clase dominante, pero nunca manifiestan en la práctica tal antagonismo. Él común denominador de las demostraciones mesocráticas como las anti-globalización, contra la guerra, el 15-M o las Marchas de la Dignidad, ha sido siempre la voluntad de no alterar el orden ni subvertir las reglas de juego del poder. En realidad, la revuelta fake de los estratos sociales intermedios que pasan de pelear, no obedece a una toma de conciencia antitética, esto es, a una nueva conciencia de clase anti-sistema, sino que se somete al principio hegemónico regulador de la vida en la sociedad de consumo: la moda. Eso explica no solo el aspecto frívolo y el poder de atracción del movimentismo ciudadanista, sino su carácter efímero, seudolúdico y ostensiblemente efectista. Lo peor es que las redes sociales han reforzado los cimientos de la irrealidad, dando un golpe de muerte a lo que quedaba de comunicación autónoma y sentido comunitario en la sociedad civil. Al desplazarse la mayor parte de la contestación hacia el espacio virtual, donde las imágenes y los cuentos valen más que las palabras, el espectáculo de la revuelta-red puede sustituir cómodamente a las prosaicas luchas reales.

 

Los avances tecnológicos no suprimieron la flagrante contradicción entre las relaciones de producción capitalistas y las fuerzas productivas, pero redujeron al mínimo la importancia social de los trabajadores de la industria, los talleres y los tajos, empujando la clase obrera hacia el sector terciario de la economía, donde los salarios, las condiciones de trabajo y los derechos eran precarios. El retroceso del proletariado industrial ocasionó la pérdida de control del mercado laboral, y en consonancia con la fragmentación en capas con distintos intereses, se evaporó su conciencia de clase, es decir, se desclasó. En lo sucesivo, el proletariado dejaba de ser el referente efectivo de los combates sociales. Como sujeto histórico, la clase obrera no podía mantenerse más que en el cielo de la ideología, como dogma en las doctrinas obreristas de las sectas y en la virtualidad de las webs. Sin embargo, la globalización económica, que era sobre todo financiarización, acentuó más si cabe lo que James O'Connor calificó de segunda contradicción capitalista, a saber, la degradación progresiva de las condiciones de producción que hacían posible la explotación de la mano de obra. El crecimiento ilimitado de la economía chocaba con los límites biofísicos de la vida en el planeta volviéndolo inhabitable. Resumiendo, la capitalización del territorio -el extractivismo- volvía cada vez más destructivo el metabolismo entre la sociedad y la naturaleza, desencadenando una crisis ecológica generalizada. La cuestión social se salió del terreno laboral para irse a centrar en la defensa del territorio -que en definitiva es la defensa de la especie-, o dicho de otra manera, la crisis medioambiental se convirtió en el primer punto de la crisis social. La proletarización de las masas asalariadas, principalmente urbanas, y la despoblación del campo seguían su curso, pero ahora la condición de proletario podía definirse mejor basándose no solo en la venta de la fuerza de trabajo, sino en la pérdida del poder de decisión respecto al hábitat y a las condiciones de vida que este proporcionaba, cada vez más pobres, dependientes, artificiales y consumistas.

 

El proletariado tradicional era desarrollista y no prestó la atención debida a los  problemas ambientales, que en los pasados cincuenta empezaron a ser acuciantes. La derrota del movimiento obrero revolucionario y la regresión de la lucha de clases cedieron el protagonismo a los combatientes ecológicos, particularmente al movimiento anti-nuclear. Hubo colectivos como “Alfalfa” que hicieron buena labor, pero el quebranto sufrido por los valores, la memoria de las luchas, los planes de transformación radical y, en general, por todo el patrimonio histórico de la vieja clase obrera, dejó a los ecologistas solos con sus tecnologías no contaminantes, sus energías alternativas y sus proyectos de recogida de residuos, sin pasado, herencia ni proyecto de emancipación que reivindicar. Mientras tanto, igual que los sindicatos de concertación anularon definitivamente la conflictividad laboral ejerciendo de mediadores, los partidos y organizaciones políticas verdes quisieron hacer lo mismo con la problemática territorial. Dado que el número de agresiones se multiplicaron con el desarrollo -“sostenible” o insostenible- de la economía, el parasitismo verde pudo trabajar para el orden. Si nos atenemos a Cataluña, la expansión del área metropolitana de Barcelona y las políticas desarrollistas de la Generalitat habían acarreado una sobre-explotación de recursos y causado daños irreversibles al territorio catalán. A finales del siglo pasado, el país tenía el dudoso honor oficial de ser una de las regiones europeas con mayor depredación territorial. Sin embargo, la defensa del territorio partía de conflictos locales aislados y autolimitados, y adolecía de una escasez de medios y gente preocupante. Las grandes movilizaciones del 2000 contra el Plan Hidrológico Nacional y el Trasvase de aguas del Ebro fueron trascendentales y propiciaron una voluntad de unidad de acción, pero solamente en las plataformas vecinales tipo “Salvem”, los grupos ecologistas descafeinados y las entidades “cívicas” que recogían firmas contra las agresiones medioambientales. En las reuniones de Figueres (2003) y Montserrat (2008) quedó plasmado un pliego de propuestas que no cuestionaba el régimen capitalista ni las instituciones estatistas que lo favorecían, sino solo sus excesos. Simplemente anteponía “las declaraciones internacionales de sostenibilidad” al crecimiento desregularizado, algo que podía concretarse en otros “modelos” capitalistas de energía renovable, urbanismo compacto, movilidad pública y desarrollo territorial respetuoso con el medio. Todo el lote quedó definido posteriormente como “nueva cultura del territorio.” La estrategia novicultural a seguir era bien sencilla: las plataformas y los grupos se postulaban como interlocutores estables de las administraciones, de cara a fijar, mediante “mecanismos que posibiliten la participación ciudadana”, una legislación ambiental con sus observatorios, juzgados, fiscalías, tasas y sanciones. No ponían en tela de juicio la función de la burocracia administrativa, subsidiaria de intereses económicos espurios, ni dudaban de la legitimidad de los partidos políticos, de los que esperaban servirse para planear en el Parlamento medidas proteccionistas y presentar proposiciones no de ley. Con toda probabilidad los militantes de partido influenciaban a las plataformas, puesto que todas las reivindicaciones de aquellas figuraban en sus programas ambientalistas. Su supuesto apartidismo era solo una táctica encaminada a presentar como interés general lo que únicamente eran intereses electorales camuflados.

 

El movimiento ambientalista catalán celebró como un éxito la declaración de emergencia climática por parte de la Generalitat y su apuesta por la descarbonización de la economía (2019), sin detenerse a pensar que ese modelo energético “cien por cien renovable” por el que se apostaba no era más que el lavado verde de cara del capitalismo de siempre. La construcción de grandes infraestructuras, macroplantas eólicas y centrales fotovoltaicas perpetuaba el modelo extractivista y especulativo de explotación territorial. El penúltimo intento de articular las docenas de conflictos ambientales (SOSNatura.cat, 2021) no halló mejor metodología que la de presionar a la administración y los partidos para así poder “reorientar el modelo” catalán, más turístico que productivo, hacia la sostenibilidad. La misma táctica de siempre. Por enésima vez se rogó por una “participación efectiva de la ciudadanía a través de debates abiertos y consultas populares vinculantes.” Finalmente, se osó pedir a la Generalitat el cumplimiento de las directivas europeas, la moratoria de los grandes proyectos inútiles y la restauración del Departament pujolista del Medi Ambient, disuelto en 2010, “una herramienta clave para construir el futuro país que queremos” (Ecologistas en Acción). Decididamente, las críticas anti-desarrollistas yacían enterradas en el cementerio de la moderación y el buenismo dialogante. No obstante, el combate ecológico era demasiado importante como para dejarlo en las manos de sus sepultureros. A los verdaderos defensores del territorio correspondía sacarlo del atolladero del colaboracionismo cómplice. ¿Dónde estaban?

 

Fue muy oportuna la aparición en enero de este año de “Revoltes de la Terra” tras dos años de reuniones y encuentros, batallando por una alternativa comunitarista, definida como una “hiedra de vínculos exterior a la lógica productivista.” Justo era de esperar un análisis panorámico del momento crítico en el que nos encontramos y un programa contundente de movilizaciones, pero nuestro gozo en un pozo. El lenguaje empleado en su manifiesto era retórico a más no poder, lleno de vaguedades y lugares comunes del posmodernismo, muy por debajo del ecologismo más elemental. Para empezar esa “tierra que se rebela” que deseaba “promover un despliegue de posibilidades” y “edificar una trama de pasiones, soberanías y métodos”, no se definía como coordinadora, ni como plataforma, ni como grupo impulsor: era más bien “un entramado de lazos”, “un conjunto de recursos logísticos, operativos y relacionales”, “un abanico de herramientas replicables en cualquier lugar.” Era pues un pelotón de gente buenrollista de orígenes diversos con pocas ideas en común y ninguna perspectiva a medio plazo, por lo que no era de extrañar que presumieran de “diversidad estratégica”, aunque mejor hubieran debido alardear de cautela, tibieza y manga ancha si iban a inspirarse en el trabajo comedido de plataformas blandas del estilo SOS Territori y “Salvem.” Pero donde las alarmas se disparaban era cuando declaraban buscar el refuerzo de “entidades como Ecologistas en Acción” y “seguir los impulsos” de sospechosos montajes como Extinción Rebelión o los “Soulevements de la Terre”, tan cuestionados por los libertarios. Nos explicamos.

 

A excepción de algunas delegaciones territoriales, Ecologistas en Acción no es la organización de activistas con unos principios ideológicos radicales que nosotros mismos suscribiríamos. Se trata de un verdadero lobby; una estructura restringida de profesionales del ecologismo que viven de las subvenciones, muchas de origen oscuro, como las que provienen de empresas contaminantes o de oligopolios energéticos a los cuales asesoran. En la actualidad, en tanto que partidarios de lo que en los despachos del poder se llama “transición energética” y Nuevo Pacto Verde, son defensores accérrimos de las eólicas y fotovoltaicas industriales, del coche eléctrico y de la minería del lítio. Y por lo tanto, grandes aliados de las multinacionales eléctricas y de los grupos automovilísticos, y aún mejores colaboradores de las consejerías y ministerios. Por otra parte, Extinción Rebelión, XR, es la sucursal de un movimiento inglés que busca la repercusión mediática en actos simbólicos, intentando presionar a los gobiernos para que promulguen medidas respecto a la crisis climática. Son no-violentos dogmáticos, ombliguistas, sin cultura política; emplean un lenguaje de márketing, abominan del anarquismo y no intervienen en las luchas locales. En cuanto a los “Soulevements de la Terre”, SDT, habría mucho que decir, pero no que sea “un movimiento de acción directa que combina la alegría con la desesperación”, tal como ha escrito el pensador lumbrera de “Les Revoltes.” Sus iniciadores, ni alegres ni desesperados, tenían intención de “construir amplias alianzas” con cualquiera que se prestase y “federar el mayor número posible de militantes y grupos salidos de horizontes ideológicos diferentes”, pero no eran precisamente adalides de la acción directa. La conexión entre fans de “la insurrección que viene”, colectivos variopintos, extincionistas, campesinos de “la Conf” y okupas se hizo realidad más que por los relatos festivos de luchas novelescas y sobredimensionadas victorias como la de la ZAD de Nantes (“Zona de Acondicionamiento Diferido” rebautizada como “Zona A Defender”), por la frustración y hastío de mucha gente furiosa con el desastre reinante, poco reflexiva y sin claras posibilidades de actuar por sí sola. La brutal represión policial en Saint Soline y la orden de disolución de los SDT luego revocada hicieron el resto. Las adhesiones del mundillo político, sindical, televisivo y cultural aportaron el rasgo de indeterminación necesario para que los generales de los Soulevements” pudieran figurar ante los medios de comunicación como representantes del movimiento en defensa del territorio más radical de Francia. ¿De dónde venían?

 

Si contamos solo con la retirada del proyecto de aeropuerto, la lucha en la ZAD de Nôtre Dame des Landes fue una victoria. Si tenemos en cuenta la erradicación de todo proyecto de convivencia colectivo y el restablecimiento de las actividades económicas convencionales, podíamos hablar también de fracaso. Desde el principio, los componentes zadistas tenían objetivos dispares e incompatibles: la ACIPA era una asociación ciudadanista pacífica y contemporizadora; COPAIN, una organización de campesinos expropiados enemiga de la agricultura industrial y práctica en autosuficiencia; luego estaban la Coordinadora de opositores al proyecto, hecha de entidades políticas y sindicales; los comités de apoyo exteriores; los ocupantes camaleónicos de la Zad encabezados por el autodenominado CMDO, señalados como “appelistes” (relacionados con el “Appel” del “Comité Invisible”), y, acabando, los grupos de la Zad del Este, anarquistas, primitivistas, gente “Sans Fiche” y en general, antiautoritarios como los de la red “Radis-co”, que bregaban por la gestión colectiva de una Zona de Autonomía Definitiva. La convivencia nunca fue fácil y la horizontalidad siempre brilló por su ausencia. Las asambleas generales fueron teatro de continuas maniobras, manipulaciones y broncas. Muchos grupos dejaron de asistir a ellas u organizaron otras. Al final, se fraguó la “unidad” entre las facciones ciudadanistas y los apelistas del CMDO para negociar con el Estado, dejando fuera a los discordantes. La cacareada “victoria” se saldó con la demolición de las defensas anti-policiales (“chicanes”) y las cabañas del Este, el reparto de unos cuantos lotes individuales de tierra, la expulsión de los ocupantes intransigentes y la vuelta al orden. Quienes realmente salieron ganando y, como vulgarmente se dice, siguen vendiendo la moto, fueron los apelistas, un grupo autoritario de aspecto informal que actúa como un verdadero partido conspirativo.

 

Como los apelistas piensan exclusivamente en términos de eficacia y control, jamás en términos de autonomía, no tienen un discurso anti-capitalista demasiado concreto, solo planteamientos generales e ideas vagas, somos el 99%, la catástrofe está al caer y cosas así, pero es tan radicaloide que para quienes van de buena fe resulta seductor. Lo que denominan “su estrategia” se basa en fomentar comités locales, acaparar la coordinación, fabricar consensos descabellados con elementos heterogéneos y realizar compromisos contra-natura, enmascarando las diferencias insalvables con fraseología, y apartando a los “puristas” disidentes con violencia si el caso lo requiere. El deseo de aparecer como interlocutores válidos con el poder establecido les obliga a la visibilidad, por lo que delante de las cámaras sus miembros se exhiben como en casa: hay que salir en la foto cueste lo que cueste, la repercusión mediática legitima la representatividad más que la propia lucha. Entre bastidores, son la estructura vertical, opaca y manipuladora que maneja los hilos o pretende hacerlo. En 2021 los apelistas trasladaron a los “Soulevements” el estilo con el que lograron imponerse en la ZAD. El funcionamiento en red favorecìa el asentamiento y la ocultación de estados mayores, encargados de repartir las tareas y atribuirse todas las responsabilidades posibles. Por eso en los SDT no se han celebrado nunca reuniones abiertas ni asambleas. A lo sumo, alguna consulta en el espacio virtual. La reflexión y el debate no se consideran necesarios puesto que lo que urge es la acción, y para eso lo importante es la cantidad de gente que se pueda reunir, venga de donde venga. En consecuencia, apertura a las tendencias más diversas, desde verdes apoltronados, sindicatos tradicionales y partidos oficiales, hasta izquierdistas de distinto pelaje, feministas y libertarios. Institucionales por un lado, radicales por el otro, y los expertos en alzamientos en el medio. Todo el mundo puede pertenecer a los SDT cualesquiera que sean sus ideas, sea por horas o con dedicación exclusiva. Las únicas cuestiones que se discuten son cuestiones técnicas y de gestión. Las grandes decisiones siempre se toman por adelantado, en total verticalidad. En los conflictos menores los comités locales son libres de actuar como les plazca, salvo si el impacto publicitario es suficientemente grande. Entonces un equipo de dirigentes desembarca para explotarlo. Acto seguido se vampiriza la lucha: se imponen reglas estrictas y filtros selectivos que duran hasta que la noticia se enfría y pierde gancho. El enorme retroceso del pensamiento crítico ligado al proletariado revolucionario, el olvido de sus asaltos a la sociedad de clases y la desintegración del medio libertario, han creado las condiciones para que ese tipo de prácticas se propaguen sin problemas, ante el aplauso de “personalidades” neoleninistas que las suscriben con desfachatez.

 

Volviendo a los asuntos catalanes, resulta obvio que la fórmula SDT subyace en las “Revoltes de la Terra”, bien que el lenguaje de su manifiesto siga más a la “french theory” que al zadismo titiritero. Sin duda, el componente juvenil metropolitano tendrá algo que ver, aunque no pensamos que actúe como un comité central. No ha realizado su aprendizaje en la escuela de la ZAD, sino en aquellas apacibles movidas boyscout de inspiración toninegrista. En fin, las susodichas Revoltes aportan una ambigüedad aún mayor en su posicionamiento, una estrategia del montón más exagerada y una falta de criterio total a la hora de juzgar la situación catalana bajo la batuta del capital. Su beligerancia con las instituciones y los partidos parece nula, por lo que las acciones que los “Soulevements de la Terre” llaman “dinámicas”, es decir, los sabotajes y enfrentamientos, no están ni se las espera. Estos rebeldes de la tierra pasados por agua no son para nada insurreccionalistas, y por lo tanto, no buscan apuntarse tantos con el sensacionalismo que despiertan las acciones violentas como las que hubieron en Nôtre Dames des Landes y en Saint Soline, por lo que probablemente no irán mucho más allá de reivindicar un diálogo con la administración, directo o más bien indirecto. Ojalá nos equivoquemos. A la hora de la verdad, si la radicalización de turbulencias tales como el movimiento por la vivienda, el anti-turísmo o el de los gremios campesinos no lo remedia, su discurso no diferirá del de las plataformas ciudadanas, puro pragmatismo de bajo nivel en conformidad con los intereses materiales de las clases medias. Su actividad no pasará del típico pacifismo convivencial de amigables excursiones y acampadas, talleres de sardanas y banquetes populares. Esto es lo que creemos, aunque no nos gustaría tener razón.

 

Miquel Amorós

Para la charla en la Jornada Campestre de Kan Pasqual (Serra de Collserola, Barcelona) el 27 de abril de 2025.

 


 LA TERRE QUI SE RÉVOLTE COMME FARCE

Spectacle de la révolte en Catalogne

La théâtralisation de la protestation et la banalisation qui en découle sont les caractéristiques les plus courantes des movidas dans la société du spectacle où les expériences prétendument vécues sont préalablement mises en circulation comme rôles à jouer ; où l'activisme se confond avec le divertissement et où le spectateur fait office de figurant. Le fait que « les gens » de notre temps préfèrent l'image à la chose, l'illusion à la vérité, et le substitut à l'authenticité – c'est-à-dire le spectacle – est dû au fait que ces gens sont différents, radicalement opposés à ceux qui comptaient à l'époque précédente. Gardons à l'esprit le fait que le prolétariat industriel n’ayant plus une place primordiale dans les luttes sociales a entrainé– dans les pays où règnent les conditions postmodernes de la production capitaliste – un processus de déclassement qui a conduit au développement de ce qu’on désigne comme « citoyenneté » mais qui représente plus véridiquement les classes moyennes salariées. Ces classes, assises entre deux chaises, la bourgeoise et la populaire, peuvent arriver à se sentir et même à se déclarer antagonistes à la classe dominante, elles ne manifestent jamais un tel antagonisme dans la pratique. Aujourd'hui, leur comportement est très médiatisé : ils agissent presque exclusivement pour passer dans la presse et à la télévision. C'est comme s'il n'y avait pas de vie en dehors des journaux ou de l'écran. Le dénominateur commun des manifestations mésocratiques telles que l'antimondialisation, l'anti-guerre, le 15-M ou les Marches de la Dignité, a toujours été la volonté de ne pas modifier l'ordre ou subvertir les règles du jeu du pouvoir. En réalité, la fausse révolte des couches sociales intermédiaires qui en réalité ne lutteront pas, n'obéit pas à une conscience antithétique, c'est-à-dire à une nouvelle conscience de classe antisystème, mais se soumet au principe hégémonique qui régule la vie dans la société de consommation : la mode. Cela explique non seulement l'aspect frivole et le pouvoir d'attraction du mouvement citoyen, mais aussi son caractère éphémère, récréatif et ostensiblement gadget. Le pire, c'est que les réseaux sociaux ayant renforcé les fondements de l'irréalité, cela porte un coup fatal à ce qui restait de la communication autonome et du sens de la communauté dans la société civile. En déplaçant la majeure partie de la contestation dans l'espace virtuel, où les images et les récits valent plus que les mots, le spectacle de la révolte en réseau peut confortablement remplacer les luttes réelles prosaïques.

Les progrès technologiques n'ont pas éliminé la contradiction flagrante entre les rapports de production capitalistes et les forces productives, mais ils ont minimisé l'importance sociale des travailleurs dans l'industrie, les ateliers et les mines, poussant la classe ouvrière dans le secteur tertiaire de l'économie où les salaires, les conditions de travail et les droits étaient et demeurent précaires. Le recul du prolétariat industriel a provoqué la perte de contrôle du marché du travail et, conformément à la fragmentation en couches d'intérêts différents, sa conscience de classe s'est évaporée ; le prolétariat s'est déclassé. Dès lors, le prolétariat a cessé d'être le référent effectif des luttes sociales. En tant que sujet historique, la classe ouvrière n’avait plus d’autre demeure que le ciel de l'idéologie, comme dogme dans les doctrines ouvriéristes des sectes et dans la virtualité des réseaux. Cependant, la mondialisation économique, qui était avant tout financiarisation, a encore accentué ce que James O'Connor a décrit comme la deuxième contradiction capitaliste, à savoir la dégradation progressive des conditions de production qui avaient rendu efficace l'exploitation de la main d’œuvre. La croissance illimitée de l'économie s'est heurtée aux limites biophysiques de la vie sur terre, la rendant inhabitable. En somme, la capitalisation du territoire – l'extractivisme – a rendu les interactions entre la société et la nature de plus en plus destructives, déclenchant une crise écologique généralisée. La question sociale est allée au-delà de la question du travail pour se concentrer sur la défense du territoire -qui est finalement la défense de l'espèce-, c'est-à-dire que la crise environnementale est devenue le premier enjeu de la crise sociale. La prolétarisation des masses salariées, principalement urbaines, et le dépeuplement des campagnes se sont poursuivis, mais désormais le statut de prolétaire peut être mieux définie : il n’est plus seulement celui qui vend sa force de travail, mais aussi celui qui a perdu tout pouvoir de décision sur son habitat et ses conditions de vie de plus en plus pauvres, dépendantes, artificielles et consuméristes.

Le prolétariat traditionnel était productiviste et ne prêtait pas l'attention voulue aux problèmes environnementaux, qui dans les années 1950 commençaient déjà à être pressants. La défaite du mouvement ouvrier révolutionnaire et la régression de la lutte des classes ont cédé la place aux combattants écologiques, en particulier au mouvement antinucléaire. Il y eût des groupes comme « Alfalfa » qui firent du bon travail, mais l'effondrement subi par les valeurs, par la mémoire des luttes, et, en général, par tout l'héritage historique de l'ancienne classe ouvrière ainsi que la menace des projets d’aménagement radicaux ont laissé seuls les écologistes avec leurs technologies non polluantes, leurs énergies alternatives et leurs projets de collecte des déchets. Sans passé, héritage ou projet d'émancipation à revendiquer. Entre-temps, tout comme les syndicats de concertation ont définitivement minoré l’impact des conflits du travail en agissant en tant que médiateurs, les partis et organisations politiques verts ont voulu faire de même avec le problème territorial. Depuis que le nombre d'agressions s'est multiplié avec le développement – « durable » ou non – de l'économie, le parasitisme vert a pu œuvrer pour l'ordre. Si l'on s'en tient à la Catalogne, l'expansion de la zone métropolitaine de Barcelone et les politiques développementalistes de la Generalitat ont conduit à une surexploitation des ressources et causé des dommages irréversibles au territoire catalan. À la fin du siècle dernier, le pays avait le douteux honneur officiel d'être l'une des régions européennes avec la plus grande prédation territoriale, malgré le fait que les « verts » soient très présents dans les institutions. Cependant, la défense du territoire reposant sur des conflits locaux isolés et autolimités souffrait d'un manque de moyens et de popularité. Les grandes mobilisations de 2000 contre le Plan Hydrologique National et le Transfert des eaux de l'Èbre ont été transcendantes et ont conduit à une volonté d'unité d'action, mais seulement dans les plates-formes locales du type « Salvem », les groupes environnementaux décaféinés et les  entités « civiques »  qui recueillaient les signatures contre les agressions environnementales. Lors des réunions de Figueres (2003) et de Montserrat (2008), une liste de propositions a été établie qui loin de remettre en question le régime capitaliste ou les institutions étatistes qui le favorisaient, s’en prenait seulement à ses excès. Elle a simplement fait passer les « déclarations internationales de durabilité » avant la critique de la croissance dérégulée, et ainsi pouvait trouver toute sa place dans d’autres « modèles » capitalistes d’énergie renouvelable, d'urbanisme compact, de mobilité publique et de développement territorial respectueux de l'environnement. L'ensemble du lot a été défini comme « nouvelle culture du territoire ». La stratégie était très simple : les plateformes et les groupes devaient être des interlocuteurs stables des administrations, afin d'établir, à travers des « mécanismes qui permettent la participation citoyenne », une législation environnementale avec ses observatoires, ses tribunaux, ses parquets, ses redevances et ses sanctions. Ils n'ont pas remis en question le rôle de la bureaucratie administrative, relais d’intérêts économiques fallacieux, ni la légitimité des partis politiques qu'ils espéraient utiliser pour planifier des mesures protectionnistes au Parlement et présenter des propositions non législatives. Selon toute vraisemblance, les militants des partis ont influencé les plateformes, puisque toutes leurs revendications étaient incluses dans leurs programmes environnementaux. Leur prétendue impartialité n'était qu'une tactique visant à présenter comme un intérêt général ce qui n'était que des intérêts électoraux camouflés.

Le mouvement écologiste catalan a célébré la déclaration d'urgence climatique par la Generalitat et son engagement en faveur de la dé carbonisation de l'économie (2019) comme un succès, sans s'arrêter à penser que le modèle énergétique « cent pour cent renouvelable » pour lequel il s'était engagé n'était rien d'autre que le greenwashing du capitalisme de toujours. La construction de grandes infrastructures, de macro-éoliennes et de centrales photovoltaïques a perpétué le modèle extractiviste et spéculatif d'exploitation territoriale. L'avant-dernière tentative d'articuler les dizaines de conflits environnementaux (SOS Natura.cat, 2021) n'a pas trouvé de meilleure méthode que de faire pression sur l'administration et les partis afin de « réorienter le modèle catalan », plus touristique que productif, vers la durabilité. Toujours la même méthode. Pour la énième fois, l’appel à une « participation effective des citoyens par le biais de débats ouverts et de consultations populaires contraignantes ». Enfin, ils ont « osé » demander à la Generalitat de se conformer aux directives européennes, au moratoire sur les grands projets inutiles et à la restauration du Département pujoliste de l'environnement, dissous en 2010 : « un outil clé pour construire le futur pays que nous voulons » (Ecologistas en Accion) puisqu'il a tenté d'adapter le territoire catalan à la législation environnementale de l'Union européenne. Décidément, les critiques anti-développementalistes étaient enterrées dans le cimetière de la modération et dans le dialogue défaitiste. Cependant, le combat écologique est trop important pour être laissé entre les mains de ses fossoyeurs. C'est aux vrais défenseurs du territoire de le sortir du bourbier du collaborationnisme complice. Où sont-ils ?

La parution en janvier de cette année de l’appel des « Révoltes de la Terre » est venue à point nommé après deux ans de rencontres et de luttes, se déclarant en faveur d’une alternative communautaire, définie comme un « lierre de liens en dehors de la logique productiviste ». Une analyse panoramique du moment critique dans lequel nous nous trouvons et un programme énergique de mobilisations étaient à prévoir, mais mes espoirs s’évanouirent à l’instant. Le langage utilisé dans son manifeste était au plus haut point rhétorique, plein du flou et des banalités du postmodernisme, bien en deçà de l'environnementalisme le plus élémentaire. Pour commencer, cette « terre qui se rebelle » qui voulait « promouvoir un étalage des possibles » et « construire un réseau de passions, de souverainetés et de méthodes », ne se définissait pas comme une coordination, ni comme une plateforme, ni comme un groupe moteur : elle était plutôt « un réseau de liens », « un ensemble de ressources logistiques, opérationnelles et relationnelles », « une gamme d'outils réplicables n'importe où. Il s'agissait donc d'une bande de gens bon enfant, d'origines diverses, avec peu d'idées en commun et aucune perspective à moyen terme, il n'est donc pas surprenant qu'ils se vantent d'une « diversité stratégique », alors qu’ils auraient dû être plus prudents, tièdes et ouverts s'ils voulaient s'inspirer de l’action mesurée de plates-formes douces telles que SOS Territori et « Salvem ».Mais là où la sonnette d’alarme a retenti, c'est lorsqu'ils ont déclaré chercher du renfort auprès d’ « entités telles que les Ecologistas en Accion » et  « suivre les impulsions » de montages suspects comme Extinction Rebellion ou les « Soulèvements de la Terre », tant remis en question par les libertaires français. Laissez-nous vous expliquer.

À l'exception de quelques groupes territoriaux, Ecologistas en Accion n'est pas une organisation de militants aux principes idéologiques radicaux auxquels nous souscririons nous-mêmes. C'est un vrai lobby ; une structure restreinte de professionnels de l'environnement qui vivent de subventions, souvent d'origine obscure comme celles qui proviennent d'entreprises polluantes ou d'oligopoles énergétiques que par ailleurs ils conseillent. Aujourd'hui, partisans de ce que l'on appelle dans les officines du pouvoir la « transition énergétique » et le Green New Deal, ils sont de fervents défenseurs de l'éolien industriel et du photovoltaïque, de la voiture électrique et de l'extraction du lithium. Et donc, de grands alliés des multinationales de l'électricité et des groupes automobiles, ou plus encore des collaborateurs des ministères et des administrations. Par ailleurs, Extinction Rebellion, XR, est la branche d'un mouvement anglais qui cherche avant tout l'impact médiatique au travers d’actions symboliques, essayant de faire pression sur les gouvernements pour qu'ils adoptent des mesures concernant la crise climatique. Ils sont non-violents, dogmatiques, nombrilistes, sans culture politique, ils utilisent un langage de marketing, ils abhorrent l'anarchisme et n'interviennent pas dans les luttes locales. Quant aux « Soulèvements de la Terre », SDT, il y aurait beaucoup à dire, mais certainement pas qu'il s'agit d’un « mouvement d'action directe qui allie la joie au désespoir », comme l'a écrit un grand penseur des « Révoltés de la Terre ». Ses initiateurs, ni joyeux ni désespérés, avaient l'intention de « construire de larges alliances » avec tous ceux qui s'y prêteraient et de « fédérer le plus grand nombre possible de militants et de groupes d'horizons idéologiques différents », mais ils n'étaient pas exactement les champions de l'action directe. Si le projet de rapprochement entre les partisans de « l'insurrection qui vient », les collectifs hétéroclites, les extinctionnistes, les paysans de la Conf, les syndicalistes de la CGT et les squatters a pu devenir une réalité cela ne fut pas grâce aux récits festifs de luttes romanesques ou de victoires exagérées comme celle de la ZAD de Nantes (« Zone de Conditionnement Différé » rebaptisée « Zone à Défendre »), mais plutôt en raison de la frustration et de l'ennui de nombreuses personnes furieuses du désastre régnant, peu réfléchies et sans possibilités claires d'agir par elles-mêmes. La répression policière brutale à Sainte-Soline et l'ordre de dissoudre le SDT, abandonné par la suite, ont fait le reste. Les adhésions du monde politique, syndical, télévisuel et culturel ont fourni les éléments nécessaires afin que les généraux des « Soulèvements » puissent apparaître devant les médias comme les représentants du mouvement de défense du territoire le plus radical de France. D'où venaient-ils ?

Si l'on ne tient compte que du retrait du projet d'aéroport, la lutte dans la ZAD de Notre Dame des Landes a été une victoire. Mais si l'on prend en compte l'éradication de tout projet de coexistence collective et le rétablissement des activités économiques conventionnelles, on pourrait aussi parler d'échec. Dès le début, les  composantes de la ZAD avaient des objectifs disparates et incompatibles : l'ACIPA était une  association citoyenne pacifique et d'apaisement ; COPAIN, une organisation de paysans expropriés  ennemis de l'agriculture industrielle et ayant largement aidé  à la mise en place des pratiques dites d'autosuffisance; puis il y avait le Comité de coordination des opposants au projet, composé d'entités politiques et syndicales, les comités de soutien extérieurs, les occupants caméléons de la Zad dirigés par l'autoproclamé CMDO, ( les   appelistes ), et, enfin, les groupes de la Zad de l’Est, anarchistes, primitivistes, les Sans Fiche (nom d’un groupe d’occupants) et en général, antiautoritaires comme ceux du réseau « Radis-co », qui se sont battus pour la gestion collective d'une Zone d'Autonomie Définitive. La coexistence n'a jamais été facile et l'horizontalité a toujours brillé par son absence. Les assemblées générales ont été le théâtre de manœuvres, de manipulations et de combats continus. De nombreux groupes ont cessé d'y assister ou en ont organisé d'autres. Finalement, une « unité » s'est forgée entre les factions citoyennes et les partisans du CMDO pour négocier avec l'État, en laissant de côté les discordants. La « victoire » tant vantée se traduisit par la démolition des défenses anti-police (« chicanes ») et des cabanes à l'Est, la distribution de quelques parcelles de terrain individuelles, l'expulsion des occupants intransigeants et le retour à l'ordre. Ceux qui ont vraiment gagné et, comme on le dit communément, continuent à vendre la moto, ce sont les appelistes, un groupe autoritaire à l'apparence informelle qui agit comme un véritable parti conspirateur.

Comme les appelistes pensent exclusivement en termes d'efficacité et de contrôle, jamais en termes d'autonomie, ils n'ont pas de discours anticapitaliste très concret, seulement des approches générales et des idées vagues, nous sommes les 99 %, la catastrophe est sur le point d’advenir, tout le monde est bon et des choses comme ça, mais c'est tellement radicaliste que pour ceux qui y vont de bonne foi cela soit séduisant. Ce qu'ils appellent « leur stratégie » repose sur la mise en avant (avant phagocytage si besoin est) des comités locaux, le monopole de la coordination, la fabrication de consensus fous avec des éléments hétérogènes, la réalisation de compromis contre nature masquant les différences insurmontables par la phraséologie, et repoussant les « puristes » dissidents par la violence si nécessaire. Le désir d'apparaître comme des interlocuteurs valables avec le pouvoir établi les amènent sur le devant de la scène, ils doivent donc se mouvoir avec aisance face aux caméras ; il faut être sur la photo à tout prix, l'impact médiatique légitime la représentativité plus que la lutte elle-même. En coulisses, ils constituent la structure verticale, opaque, manipulatrice où l’on tire les ficelles ou on fait semblant de le faire. En 2021, les appelistes ont transféré aux « Soulèvements » le style avec lequel ils ont réussi à s'imposer dans la ZAD. Le fonctionnement en réseau a favorisé la mise en place et la dissimulation des états-majors, chargés de distribuer les tâches et de s'attribuer toutes les responsabilités possibles.

C'est pourquoi aucune réunion ou assemblée publique n'a jamais eu lieu dans le SDT. Tout au plus, une consultation dans l'espace virtuel. La réflexion et le débat ne sont pas considérés comme nécessaires car ce qui est urgent, c'est l'action, et pour cela l'important est le nombre de personnes qui peuvent s’agglomérer, d'où qu'elles viennent et par conséquent, inviter les tendances les plus diverses, des Verts, des syndicats traditionnels et des partis officiels, jusqu’aux gauchistes de différentes allégeances, féministes et libertaires. Les institutionnels d'un côté, les radicaux de l'autre, et les experts des soulèvements au milieu. Tout le monde peut adhérer au SDT quelles que soient ses idées, que ce soit à temps partiel ou à temps plein. Les seules questions abordées sont des questions techniques et de gestion. Les grandes décisions sont toujours prises à l'avance, en toute verticalité. Dans les conflits mineurs, les comités locaux sont libres d'agir à leur guise. Mais si l'impact publicitaire est suffisamment prometteur alors une équipe de dirigeants débarque pour l'exploiter. Le combat est vampirisé : des règles strictes et des filtres sélectifs sont imposés qui durent jusqu'à ce que les news se refroidissent et perdent leur accroche. L'énorme recul de la pensée critique lié à l’évanouissement du prolétariat révolutionnaire, l'oubli de ses assauts contre la société de classe et la désintégration du milieu libertaire, ont créé les conditions pour que ce type de pratique se répande sans problème, sous les applaudissements des « personnalités » néo-léninistes qui y souscrivent effrontément.

Pour en revenir aux affaires catalanes, il est évident que la formule SDT – les bien nommées « transversalité » ou « nouvelle dynamique de lutte » – a inspiré les « Revoltes de la Terra » même si le langage de leur manifeste s'écartait quelque peu du zadisme marionnettiste. Sans aucun doute, la tactique n’y est pas pour rien. Quoi qu'il en soit, peu importe à quel point “Révoltes” se montre comme un SDT á la catalane ; il n'a pas la même capacité d'agir en tant que comité central. Sa volonté de médiation est identique puisque la médiation ce « réseau de passions et de méthodes », cette « gamme d'outils réplicables » – est le premier pas du contrôle. Mais comme le dit une porte-parole, « nous devons tenir compte de notre contexte de mobilisation et de ce que les gens sont capables d'assumer ». Si par gens il entend les plateformes « Salvem » ou les habitants des lotissements résidentiels, les apprentis du CMDO savent déjà que ce que ce qu’ils prendront en charge ne sera pas grand-chose : des actions symboliques, pacifiques et festives. Ainsi, les Révoltes susmentionnées apportent intentionnellement une ambiguïté encore plus grande dans leur positionnement que les « Soulèvements » : si l’opportunisme est similaire, leur stratégie de l’empilement est encore plus exagérée. De toute évidence, il s'agit d'une opération de débarquement bien adaptée aux circonstances catalanes. La belligérance avec les institutions, les syndicats et les partis semble nulle. Les actions que les SDT appellent « dynamiques », c'est-à-dire le sabotage et les affrontements, ne sont pas là et ne sont pas attendues. Ces insipides Révoltes de la terre ne sont en rien insurrectionalistes, pas plus que les écologistes locaux ou les syndicalistes agraires qui les approchent avec quelques tracteurs, et, par conséquent ils ne chercheront pas à marquer autant de points qu’avec le sensationnalisme suscité par des actions violentes comme celles qui ont eu lieu à Notre Dame des Landes et à Saint Soline. Ils n'iront probablement pas beaucoup plus loin que d'exiger un dialogue avec l'administration. J'espère que nous nous trompons. En fin de compte, si la radicalisation de turbulences telles que le mouvement pour le logement, la protestation contre le tourisme ou les actions des assemblées paysannes n'y remédie pas, leur discours ne différera pas de celui des plates-formes citoyennes : pur pragmatisme de bas étage conforme aux intérêts matériels des classes moyennes urbaines, des exploitations agricoles familiales ou des entrepreneurs touristiques locaux. Leur activité ne dépassera pas le pacifisme convivial typique des mascarades de protestation, des déjeuners populaires et des camps de loisirs animés par des ateliers de contes et de sardanes, fumure qui suffira à ce qu'ils appellent la « première germination ». C'est ce que nous croyons, même si nous n'aimerions pas avoir raison.

Miquel Amorós

Pour la conférence à la Jornada Campestre de Kan Pasqual (Serra de Collserola, Barcelone) le 27 avril 2025.