domenica 20 luglio 2025

Recuperare la città ? di Miguel Amorós

 



Il pensiero libertario è stato incline a visioni futuristiche, poiché considera l'utopia – l'“ideale” – non come qualcosa d’irrealizzabile, ma come qualcosa di non ancora realizzato. Kropotkin ha immaginato la società liberata come frutto di una sorta di fusione delle antiche comunità con la conoscenza scientifica e il lavoro. Secondo la sua prospettiva, per la logica stessa del progresso umano, la società di classe avrebbe condotto senza sforzo all'autogoverno e al comunismo anarchico. I fatti hanno contraddetto l'ottimismo del principe, ma la formula spaziale dell'anarchia da lui proposta ha trovato nella città storica – con il suo alto grado di autosufficienza, integrazione con l'ambiente e indipendenza – gli elementi necessari per la sua costituzione.

La città, come luogo di convivenza, autonomo e delimitato, legato al mercato locale, appare nella storia per mano di Sumeri, Babilonesi, Egizi e Greci, per poi declinare dopo la fine dell'Impero Romano. La città si reinventa nel corso dell'undicesimo secolo; si sviluppa e si gerarchizza in simbiosi con il territorio fino a perdere la sua indipendenza a favore dello Stato ed entrare in crisi con la Rivoluzione Industriale. Quando l'attività economica prevale e sostituisce ogni altra attività, la città storica diventa dislocata e destrutturata. La crescita economica e demografica ne rompe definitivamente l'unità e la riduce a un insieme disordinato e problematico di frammenti separati. La conversazione, la discussione, il discorso eloquente, la politica stessa, disertano la piazza pubblica e, con la scomparsa dell'agorà, la città muore. Identità e senso di appartenenza evaporano. Il regime capitalista industriale ha dato origine a una classe dominante speciale, la borghesia, con un progetto di città industriale espansivo, segregato in classi e suddiviso in zone, dove denaro e privacy sono decisivi. La pianificazione urbana ha incluso l'insieme di tecniche attraverso cui la borghesia ha cercato di risolvere, a proprio vantaggio, i problemi creati dalla mercificazione dello spazio urbano. Tuttavia, la città industriale era più di un modello proposto dal dominio borghese: era l'incarnazione nello spazio del regno della merce. Chi dice merce, dice profitto privato. Quando questo diventa il motore principale dell'attività umana, la città diventa una mera giustapposizione di edifici, strade, “aree industriali” e “quartieri”, senza alcun significato se non quello che gli interessi capitalistici desiderano attribuire loro.

Neppure la città borghese disarticolata ha avuto continuità nell'inevitabile crisi sociale che l’affliggeva, poiché la crescita illimitata ha portato con sé la delocalizzazione dell'industria, lo svuotamento delle campagne e l'internazionalizzazione della classe dirigente. La terziarizzazione dell'economia – e il conseguente sviluppo del settore immobiliare, delle infrastrutture stradali, delle tecnologie di comunicazione e dei meccanismi finanziari – ha determinato un paesaggio urbano qualitativamente diverso, caratterizzato dal suo gigantismo, massificazione e dispersione, con un urbanesimo meno cartesiano, sfociato nei sofisticati metodi di controllo sociale e di disneyficazione tipici dei sistemi totalitari. Con la globalizzazione del mercato dei capitali, il processo decisionale è sfuggito alla borghesia locale ed è finito nelle mani di quadri esecutivi anonimi operanti per conto d’impersonali fondi d’investimento e oscure joint venture d’imprese. Di conseguenza, il processo di disintegrazione urbana promosso dalla borghesia è stato prolungato da un processo di metropolitanizzazione promosso dalle nuove élite itineranti, conferendo agli agglomerati urbani diffusi il ruolo fondamentale nell'economia detenuto un tempo dagli Stati-nazione. La suddetta incarnazione spaziale della merce, in un'epoca in cui tutto era mercificabile, si è materializzata nella suburbanizzazione esponenziale e globale del territorio. Le metropoli rappresentavano la forma più completa di disorganizzazione sociale possibile in un territorio colonizzato dal capitale e plasmato da predatori immobiliari. Dal punto di vista capitalista, proprio questa suprema dislocazione della coesistenza e la conseguente uniformità del vivere male erano ciò che rendeva le metropoli economicamente sostenibili.

Se un tempo la città industriale aveva il suo nemico all’interno il proletariato dei quartieri operai , la metropoli lo ha in periferia, ospitato nei deprimenti condomini delle urbanizzazioni più remote e mal collegate, che non sono più unità di coesistenza di quartiere come lo erano i barrios, e non fanno nemmeno più parte del comune originario. La speculazione ha espulso gli abitanti dai loro habitat originari e ha disfatto i rapporti che li tenevano uniti. Attraverso la gentrificazione, la turistizzazione, l'espansione iper-tecnologica e il greenwashing, centri storici, quartieri costosi e aree ricreative e commerciali formano una sorta di parco a tema uberizzato, zeppo di telecamere e sensori, che si spaccia per l'immagine di una città restaurata e “intelligente”, facilmente consumabile. I servizi pubblici si deteriorano invariabilmente, l'inquinamento diventa cronico, l'anomia si diffonde e, nel frattempo, veicoli privati, seconde case, grandi magazzini e il business delle piattaforme prosperano. La metropoli non appartiene più ai suoi abitanti in clausura; non funziona per facilitare la vita dei suoi residenti, anche se agiscono solo come utenti o consumatori; è fatta per i visitatori, o più specificamente, per i “flussi” di turisti e investitori. Piuttosto, il problema è il quartiere, in quanto suscettibile di convertirsi in soggetto politico non appena ricompone una vita comunitaria. Il diritto alla città rivendicato da Lefebvre è determinato dai livelli di reddito e dalla capacità di spesa.

La metropoli soccomberà di fronte alle insormontabili contraddizioni provocate dallo sviluppo economico e dalla guerra contro la natura; la spirale di distruzione in cui si trova immersa la condurrà alla rovina. La rigenerazione sociale dipenderà dall'importanza e dalla determinazione dei soggetti collettivi generati dagli antagonismi esacerbati dalle crisi catastrofiche – blocco dei conti correnti, svalutazione patrimoniale, carenze diffuse, paralisi dei trasporti, penuria di energia, blackout informatici, ecc.. Detto più semplicemente, le trasformazioni sociali radicali saranno subordinate agli esiti di scontri diffusi tra le masse disalienate e il potere costituito. Ci riferiamo a un nuovo tipo di lotta di classe, con radici urbane (la questione dell’edilizia abitativa), rurali (difesa del territorio) e ambientali (sovranità alimentare), marcatamente anticapitalista, antistatale, antirazzista e antipatriarcale. Affronteremo altrove questo tema in modo approfondito. Oggi siamo più interessati a riflettere sulle peculiarità della post-metropoli nel post-capitalismo. Chiaramente, lo smantellamento delle relazioni di mercato e, di conseguenza, lo smontaggio dei sistemi metropolitani, non sarà un compito facile, poiché a ogni momento il capitalismo, sfruttando le difficoltà della lotta per l'uguaglianza, la giustizia e il benessere che potrebbero derivare dalla sopravvivenza delle istituzioni dell'ordine distorto e facendo affidamento sui sistemi tecnologici residui, tenterà di riprodursi o ricomporsi. Il processo di smantellamento in Europa inizierà con una fase caotica in cui i movimenti di ripopolamento e anti industriali volti verso le campagne si alterneranno a movimenti assembleari urbani redistributivi, accompagnati dall'occupazione di case vacanti, dai mercati del baratto e dall'emancipazione delle periferie. Un caos funzionale – che evolve verso l'auto-organizzazione – sarà sempre preferibile a un ordine autoritario di demolizione metropolitana con il pretesto dell'efficienza. Attenzione ai leader travestiti da coordinatori! Il municipalismo rivoluzionario – ovvero la rivitalizzazione dei quartieri e la socializzazione dell'habitat, di terreni, edifici, strade e vie – sarà opera di attive organizzazioni di base, non di apparati, per quanto questi si attribuiscano rappresentatività.

L'abolizione del capitalismo e l'abrogazione implicita di tutte le sue leggi ci conducono a una concezione dell'economia basata sulla sussistenza, all'oikos, ovvero all'economia sostanziale (Polanyi) o morale (Thompson), o, in altre parole, all'economia domestica senza mercato. È l'economia della reciprocità, della gratuità, della cura, del dono, dello scambio senza denaro... Un'economia del potlatch, come proponevano Bataille e i situazionisti; un'economia circolare, come impone il rapporto equilibrato con l'ambiente. Il profitto privato, la tecnologia produttivista, la formazione di capitali e soprattutto la loro accumulazione, sono esclusi per definizione. Ora, s’intende per “economia” un'attività specifica che non monopolizza la vita delle persone né domina il funzionamento delle istituzioni sociali; la vita torna a essere politica, cioè letteralmente cittadina. Si deve chiarire che la ruralizzazione dello spazio liberato dalla de metropolitanizzazione non significa un ritorno al Paleolitico, come postulato dalle scuole primitiviste e anti-civilizzazione, né un ritorno al consiglio contadino medievale, formula conviviale idealizzata da coloro che, come Antonio de Guevara, denigrano la Corte ed elogiano il villaggio. Paradossalmente, la desurbanizzazione dei sistemi con-urbani è piuttosto un ritorno alla città nel senso profondo del termine. Evidentemente, non c'è ritorno possibile al passato, alle città giardino, ai falansteri, ai borghi commerciali o alle città “libere”, ai consigli aperti castigliani o alla polis greca, sebbene l'esempio delle città precapitalistiche e dei comuni agrari tradizionali non sia per niente da escludere. Il dinamismo culturale, l'architettura popolare, le scoperte scientifiche, lo sviluppo del diritto, le pratiche democratiche, ecc. sono contributi storici irrinunciabili. Il movimento della storia rende però impossibile un puro ritorno indietro e ridicolizza le ideologie passatiste. Una società senza capitalismo sarà composta non solo da comunità di villaggio, ma da città libere. È proprio la simbiosi di queste due realtà, ciascuna con i propri ritmi e tempi, che getterà le basi per una società egualitaria, giusta, solidale ed emancipata.

Mumford si meravigliava della natura organica della città storica. Concepita secondo regole proprie, non si sviluppava secondo un piano prestabilito, né obbediva a un ordine regolare, dando origine a forme variegate di diversa origine, intervallate da punti di incontro. I simboli del potere, le cattedrali, i monumenti, le torri e i palazzi erano immersi nella confusione di strade, passaggi e piccole piazze. Sitte ha capito bene questa speciale grammatica dell'abitabilità. Ciò che forniva coesione all'insieme non erano le mura, il fossato o la porta, ma l'agorà, il foro, la piazza, ovvero i luoghi di riunione, dibattito, consenso, patteggiamento e presa collettiva di decisioni. Gli spazi di libertà. La città del futuro dovrà ricreare questi luoghi – ricreare la comunità – in condizioni storiche diverse. Le dimensioni contano. I calcoli di Platone fissavano il numero di abitanti della città perfetta a 5.040 (schiavi, operai o donne non contavano). Erano i membri delle classi superiori che potevano conoscersi tra loro. Per Vitruvio, invece, meno classista, le dimensioni di una città erano adeguate se si poteva esplorarla a piedi. In effetti, il recinto della città dovrà essere precisato su scala umana. Considerata l'enormità delle corone metropolitane, ci attende un lungo lavoro di divisione urbana e di sviluppo autonomo delle varie sezioni. Non dimentichiamo che la città di tutti sarà costruita su macerie, carcasse e carrozzerie. L'origine simbolica della città era un recinto. Di conseguenza, se ne reinventeranno anche i confini che non saranno fissi, però, né avranno bisogno di essere fortificati. La città recuperata non avrà porte, né, ovviamente, urbanisti. Non sarà un mero insediamento, ma un ideale fraterno di vita non virtuale, senza protesi. La sua essenza non risiederà quindi nel sito in cui sorge, nella griglia che la definisce o nel centro di elaborazione dati che la supervisiona, ma nell'insieme dei suoi abitanti, i cittadini. Ovunque ci siano veri cittadini – ovunque ci sia un'agorà – ci sarà una città.

Miguel Amorós. 13 luglio 2025.

 

Riflessioni su un dibattito sulla de-urbanizzazione e la post-metropoli tradotto in italiano da SGS.


¿RECUPERAR LA CIUDAD?



El pensamiento libertario ha sido proclive a las visiones futuristas, ya que considera la utopía -el “ideal”- no como algo irrealizable, sino como algo todavía no realizado. Kropotkin imaginó la sociedad liberada como el fruto de una especie de fusión de las antiguas comunas con el conocimiento científico y el trabajo. De acuerdo con su perspectiva, por la misma lógica del progreso humano, la sociedad de clases desembocaría sin mucho esfuerzo en el auto-gobierno y el comunismo anárquico. Los hechos contradijeron el optimismo del príncipe, pero la fórmula espacial de la anarquía propuesta por él encontró en la ciudad histórica –en su alto grado de suficiencia, integración con el entorno e independencia– los elementos necesarios para constituirse.

La ciudad en tanto que lugar de convivencia, autónomo y delimitado, ligado al mercado local, aparece en la historia de la mano de sumerios, babilonios, egipcios y griegos, y decae tras el fin del imperio romano. Se reinventa a lo largo del siglo XI; se desarrolla y jerarquiza en simbiosis con el territorio hasta perder su independencia en provecho del Estado y entrar en crisis con la revolución industrial. Cuando la actividad económica domina y arrincona a cualquier otra actividad, la ciudad histórica se disloca y desestructura. El crecimiento económico y demográfico quiebra definitivamente su unidad y la reduce a un conjunto desordenado y problemático de fragmentos separados. La conversación, la discusión, el discurso elocuente, la política misma, desertan de la plaza pública, y al desaparecer el ágora, la ciudad muere. La identidad y el sentido de pertenencia se evaporan. El régimen capitalista industrial alumbró una clase dominante especial, la burguesía, con un proyecto de ciudad expansivo, industrial, segregado por clases, zonificado, donde el dinero y la vida privada eran determinantes. El urbanismo fue el conjunto de técnicas mediante las cuales la burguesía trató de resolver en su provecho los problemas que la mercantilización del espacio urbano había creado. No obstante, la ciudad fabril fue más que un modelo de propuesto por el dominio burgués: fue la plasmación en el espacio del reino de la mercancía. Quien dice mercancía dice beneficio privado. Cuando este se convierte en el motor principal de la actividad humana, la ciudad deviene mera yuxtaposición de edificios, calles, “polígonos” y “barriadas”, sin más sentido que el que quiera darle el interés capitalista.

Tampoco la descoyuntada ciudad burguesa tuvo continuidad dentro de la inevitable crisis social que la habitaba, puesto que el crecimiento ilimitado trajo consigo la deslocalización de la industria, el vaciado del campo y la internacionalización de la clase dirigente. La terciarización de la economía -y el subsiguiente desarrollo del sector inmobiliario, de las infraestructuras viarias, de las tecnologías de la comunicación y de los mecanismos financieros- acarreó un escenario urbano cualitativamente diferente, caracterizado por su gigantismo, su masificación y su dispersión,  con un urbanismo menos cartesiano que desembocaba en sofisticados métodos de control social y disneyficación, tan típicos de los sistemas totalitarios. Al globalizarse el mercado de capitales, la decisión escapaba a la burguesía local para ir a parar a manos de anónimos cuadros ejecutivos que operaban en nombre de impersonales fondos de inversión y oscuras uniones temporales de empresas. En consecuencia, el proceso de desintegración urbana orientado por la burguesía será prolongado por un proceso de metropolitanización impulsado por las nuevas élites itinerantes, que otorgaba a las aglomeraciones urbanas extensas el papel fundamental en la economía que otrora tuvieron loa Estados-nación. La plasmación espacial de la mercancía arriba mencionada, en el momento en que todo era mercantilizable, se materializaba en la suburbanización exponencial e integral del territorio. Las metrópolis eran la forma más acabada de desorganización social que cabe en un territorio colonizado por el capital y moldeado por depredadores inmobiliarios. Desde el punto de vista capitalista, precisamente ese desajuste convivencial supremo y la uniformización del malvivir que le acompañaba era lo que las hacía económicamente viables.

Si la ciudad industrial tuvo a su enemigo dentro, el proletariado de los barrios populares, la metrópolis lo tiene en la periferia, albergado en los bloques de pisos deprimentes de las urbanizaciones más alejadas y peor conectadas, que ya no son unidades de convivencia vecinal como eran los barrios, y ni siquiera forman parte del municipio original. La especulación lo expulsó de sus habitáculos originales y destejió las relaciones que lo cohesionaban. Mediante la gentrificación, la turistización, la hipertecnificación y el maquillaje verde, los centros históricos, los distritos caros y las áreas lúdico-comerciales conforman una especie de parque temático uberizado, lleno de cámaras y sensores, que se vende a sí mismo en tanto que imagen de una ciudad restaurada e “inteligente”, fácilmente consumible. Los servicios públicos invariablemente se degradan, la contaminación se cronifica, la anomia se extiende, y mientras tanto, florecen los vehículos privados, las segundas residencias, las grandes superficies y el negocio de las plataformas. La metrópolis ya no pertenece a sus enclaustrados habitantes, no funciona para facilitar la vida de sus vecinos, aunque estos no ejerzan más que como usuarios o consumidores; está hecha para los visitantes, o más concretamente, para los “flujos” de turistas e inversores. El vecindario es más bien el problema, pues es susceptible de convertirse en sujeto político a poco que recomponga una vida comunitaria. El derecho a la ciudad reclamado por Lefebvre queda fijado por el nivel de rentas y la capacidad de gasto.

La metrópolis sucumbirá ante las contradicciones insuperables provocadas por el desarrollismo económico y la guerra contra la naturaleza; la espiral de destrucción en la que halla inmersa la conducirá a la ruina. La regeneración social dependerá de la importancia y determinación de los sujetos colectivos generados por los antagonismos al ser exacerbados por las crisis catastróficas -“corralitos”, desvalorización de activos, desabastecimiento generalizado, parálisis del transporte, penuria energética, apagón informático, etc. Dicho de manera más sencilla, las transformaciones sociales radicales se supeditarán a los resultados de las confrontaciones masivas de las masas desalienadas con el poder establecido. Nos referimos a una lucha de clases de nuevo tipo, con anclajes urbanos (cuestión de la vivienda), rurales (defensa del territorio) y medioambientales (soberanía alimentaria), marcadamente anticapitalista, antiestatal, antirracista y antipatriarcal. En otro lugar trataremos ampliamente el tema. Hoy nos atrae más reflexionar sobre las peculiaridades de la posmetrópolis en el poscapitalismo. Con total evidencia, el desmantelamiento de las relaciones de mercado, y por consiguiente, el desmantelamiento de los sistemas metropolitanos, no será tarea fácil, puesto que en todo momento el capitalismo, explotando las dificultades de la lucha por la igualdad, la justicia y el bienestar que podrían suscitar la subsistencia de instituciones del orden derrocado, y apoyándose en los sistemas tecnológicos residuales, intentará reproducirse o recomponerse. El proceso de desmantelamiento en Europa debutará con una fase caótica en la que movimientos hacia el campo repobladores y anti-industriales se alternarán con movimientos urbanos asamblearios redistributivos, acompañados de la okupación de viviendas vacías, los mercadillos de trueque y la emancipación de las periferias. Un caos que funcione -que evolucione hacia la auto-organización- será siempre mejor que un ordenamiento autoritario de la demolición metropolitana bajo pretexto de eficacia. ¡Cuidado con los dirigentes disfrazados de coordinadores!. El municipalismo revolucionario -léase la revitalización de los barrios y la socialización del hábitat -del suelo, de los edificios, de los caminos y las calles- será cosa de las bases activas, no de los aparatos por más representatividad que se atribuyan.

La abolición del capitalismo y la inherente derogación de todas sus leyes nos lleva a un concepto subsistencial de la economía, al oikos, es decir, a la economía sustantiva (Polanyi) o moral (Thompson), o dicho de otro modo, a la economía doméstica sin mercado. Es la economía de la reciprocidad, de la gratuidad, de los cuidados, del don, del intercambio sin dinero... Economía del potlach, como proponían Bataille y los situacionistas; economía circular, como impone la relación equilibrada con el medio ambiente. El beneficio privado, la tecnología productivista, la formación de capitales y sobre todo su acumulación, quedan excluidos por definición. Ahora por economía se entiende una actividad específica que no acapara la vida de las personas ni domina el funcionamiento de las instituciones sociales; la vida vuelve a ser política, o sea, literalmente ciudadana. Conviene aclarar que la ruralización del espacio liberado por la desmetropolitanización no significa la vuelta al paleolítico, como postulan las escuelas primitivistas y anticivilitorias, o el retorno al concejo campesino del Medioevo, fórmula convivencial idealizada por quienes, como Antonio de Guevara, menosprecian la Corte y alaban la aldea. Paradójicamente, la desurbanización de los sistemas conurbados es más bien una vuelta a la ciudad en el sentido profundo del término. Evidentemente, no hay vuelta posible al pasado, a las ciudades-jardín, a los falansterios, a los burgos comerciales o villas “francas”, a los concejos abiertos castellanos o a la polis griega, por más que el ejemplo de las ciudades precapitalistas y los tradicionales municipios agrarios no sea desechable en absoluto. El dinamismo cultural, la arquitectura popular, los descubrimientos científicos, el desarrollo del derecho, las prácticas democráticas, etc., son aportaciones históricas irrenunciables. Pero el movimiento de la historia hace imposible la pura reversión y ridiculiza las ideologías pasadistas. Una sociedad sin capitalismo se estructurará no solo con comunidades aldeanas, sino con ciudades libres. Justamente la simbiosis de estas dos realidades, cada una con su propio ritmo y tiempo, es la que sentará las bases de una sociedad igualitaria, justa, solidaria y emancipada.

A Mumford le maravillaba el carácter orgánico de la ciudad histórica. Gestada según reglas propias, no se desarrollaba según un plan preestablecido, ni obedecía a ordenamiento regular alguno, dando lugar a variadas formas de origen diverso salpicadas por puntos de encuentro. Los signos de poder, las catedrales, monumentos, torres y palacios, quedaban sumergidos en la confusión de calles, pasajes y plazuelas. Sitte captó bien esa especial gramática de la habitabilidad. Lo que proporcionaba cohesión al conjunto no era la muralla, el foso o la puerta, sino el ágora, el foro, la plaza, es decir, los lugares de reunión, debate, consenso, pacto y toma colectiva de decisiones. Los espacios de libertad. La ciudad del futuro deberá recrear dichos lugares -recrear la comunidad- en condiciones históricas diferentes. El tamaño importa. Los cálculos de Platón fijaban en 5.040 el número de habitantes de la ciudad perfecta (los esclavos, trabajadores o mujeres no contaban). Eran los miembros de las clases altas que podían conocerse entre sí. En cambio, para Vitrubio, menos clasista, las dimensiones de una ciudad eran las adecuadas si esta podía recorrerse a pie. En propiedad, el recinto ciudadano deberá precisarse a escala humana. Teniendo en cuenta la enormidad de las coronas metropolitanas, queda por delante un largo trabajo de fraccionamiento urbano y autonomización de las porciones. No olvidemos que la ciudad de todos se edificará sobre escombros, carcasas y carrocerías. El origen simbólico de la ciudad fue un cercado. Consecuentemente, también reinventará sus límites, pero estos no serán fijos, ni necesitarán fortificarse. La ciudad recuperada no tendrá puertas, ni por supuesto, urbanistas. No será un mero asentamiento, sino un ideal fraternal de vida no virtual, sin prótesis. Su esencia no radicará pues en el solar donde se emplace, en la trama que la defina o en el centro de procesamiento de datos que la supervise, sino en el conjunto de sus habitantes, los ciudadanos. Allá donde haya verdaderos ciudadanos -donde haya ágora- habrá ciudad.

Miguel Amorós. 13 de julio de 2025.

Reflexiones en torno a un debate sobre desurbanización y posmetrópolis.

Récupérer la ville ?




La pensée libertaire a eu un penchant pour des visions futuristes, puisqu’elle considère l'utopie – l'« idéal » – non pas comme quelque chose d'inatteignable, mais comme quelque chose d'inachevé. Kropotkine envisageait la société libérée comme le fruit d'une sorte de fusion des communautés anciennes avec le savoir scientifique et le travail. Selon lui, par la logique même du progrès humain, la société de classes mènerait sans effort à l'auto-gouvernance et au communisme anarchique. Les faits contredisaient l'optimisme du prince, mais la formule spatiale de l'anarchie qu'il proposait trouvait dans la ville historique – avec son haut degré d'autosuffisance, d'intégration à l'environnement et d'indépendance – les éléments nécessaires à sa constitution.

La ville, comme lieu de coexistence autonome et délimité, liée au marché local, apparaît dans l'histoire à travers les Sumériens, les Babyloniens, les Égyptiens et les Grecs, pour décliner ensuite après la chute de l'Empire romain. La ville se réinvente au XIe siècle ; elle se développe et se hiérarchise en symbiose avec le territoire jusqu'à perdre son indépendance au profit de l'État et entrer en crise avec la Révolution Industrielle. Lorsque l'activité économique prévaut et remplace toutes les autres activités, la ville historique se disloque et se déstructure. La croissance économique et démographique rompt définitivement son unité et la réduit à un ensemble désordonné et problématique de fragments distincts. La conversation, la discussion, le discours éloquent et la politique elle-même désertent la place publique, et avec la disparition de l'agora, la ville meurt. L'identité et le sentiment d'appartenance s'évaporent. Le régime capitaliste industriel a donné naissance à une classe dominante particulière, la bourgeoisie, avec un projet de ville industriel expansif, ségrégué en classes et divisé en zones, où l'argent et la vie privée sont essentiels. L'urbanisme englobait l'ensemble des techniques par lesquelles la bourgeoisie cherchait à résoudre, à son profit, les problèmes engendrés par la marchandisation de l'espace urbain. Cependant, la ville industrielle était plus qu'un modèle proposé par la domination bourgeoise : elle était l'incarnation spatiale du royaume de la marchandise. La marchandise implique le profit privé. Lorsque celui-ci devient le moteur principal de l'activité humaine, la ville se réduit à une simple juxtaposition de bâtiments, de rues, de « zones industrielles » et de « quartiers », dénuée de tout sens autre que celui que les intérêts capitalistes souhaitent leur attribuer.

Même la ville bourgeoise, disloquée, n'a pas connu de continuité face à l'inévitable crise sociale qui la frappait, la croissance illimitée ayant entraîné la délocalisation de l'industrie, le dépeuplement des campagnes et l'internationalisation de la classe dirigeante. La tertiarisation de l'économie – et le développement consécutif de l'immobilier, des infrastructures routières, des technologies de communication et des mécanismes financiers – a créé un paysage urbain qualitativement différent, caractérisé par son gigantisme, sa massification et sa dispersion, avec un urbanisme moins cartésien qui a donné naissance aux méthodes sophistiquées de contrôle social et de disneyfication typiques des systèmes totalitaires. Avec la mondialisation des marchés financiers, la prise de décision a échappé à la bourgeoisie locale pour tomber entre les mains de dirigeants anonymes agissant pour le compte de fonds d'investissement impersonnels et de joint venture opaques d’entreprises. Par conséquent, le processus de désintégration urbaine promu par la bourgeoisie a été prolongé par un processus de métropolisation promu par les nouvelles élites itinérantes, conférant aux agglomérations urbaines diffuses le rôle fondamental dans l'économie autrefois dévolu aux États-nations. L'incarnation spatiale de la marchandise, évoquée plus haut, à une époque où tout était marchandisable, s'est matérialisée par la suburbanisation exponentielle et globale du territoire. Les métropoles représentaient la forme la plus complète de désorganisation sociale possible sur un territoire colonisé par le capital et façonné par des prédateurs immobiliers. D'un point de vue capitaliste, c'est précisément cette dislocation extrême de la coexistence et la conséquente uniformité du mal vivre qui rendaient les métropoles économiquement durables.

Si la ville industrielle avait autrefois son ennemi intérieur – le prolétariat des quartiers ouvriers –, la métropole l'a désormais à sa périphérie, logé dans les immeubles déprimants des urbanisations les plus reculées et les moins bien desservies. Celles-ci ne sont plus des unités de coexistence de quartier comme l'étaient les barrios, et ne font même plus partie de la municipalité d'origine. La spéculation a chassé les habitants de leurs habitats d'origine et a démantelé les liens qui les unissaient. À travers la gentrification, la touristification, l'expansion hyper technologique et le greenwashing, les centres historiques, les quartiers huppés et les zones récréatives et commerciales forment une sorte de parc d'attractions uberisé, truffé de caméras et de capteurs, se faisant passer pour une ville restaurée et « intelligente », facilement consommable. Les services publics se dégradent invariablement, la pollution devient chronique, l'anomie s'étend et, pendant ce temps, les véhicules particuliers, les résidences secondaires, les grands magasins et le commerce de plateforme prospèrent. La métropole n'appartient plus à ses habitants cloîtrés ; elle ne fonctionne pas pour faciliter la vie de ses habitants, même s'ils ne sont que de simples usagers ou consommateurs ; elle est faite pour les visiteurs, ou plus précisément, pour les « flux » de touristes et d'investisseurs. Le problème, c'est plutôt le quartier, susceptible de devenir une entité politique dès lors qu'il rétablit une vie communautaire. Le droit à la ville revendiqué par Lefebvre est déterminé par les niveaux de revenus et le pouvoir d'achat.

La métropole succombera aux contradictions insurmontables créées par le développement économique et la guerre contre la nature ; la spirale de destruction dans laquelle elle est plongée la mènera à sa ruine. La régénération sociale dépendra de l'importance et de la détermination des sujets collectifs générés par les antagonismes exacerbés par des crises catastrophiques : gel des comptes bancaires, dévaluation des actifs, pénuries généralisées, paralysie des transports, pénuries d'énergie, pannes informatiques, etc. En termes plus simples, les transformations sociales radicales seront subordonnées aux résultats d'affrontements généralisés entre les masses dissidentes et le pouvoir établi. Nous faisons référence à un nouveau type de lutte des classes, aux racines urbaines (la question du logement), rurales (la défense du territoire) et environnementales (la souveraineté alimentaire), résolument anticapitaliste, antiétatique, antiraciste et anti patriarcale. Nous aborderons ce sujet en profondeur ailleurs. Aujourd'hui, nous nous intéressons davantage aux particularités de la post-métropole dans le post-capitalisme. Il est clair que le démantèlement des relations de marché et, par conséquent, le démantèlement des systèmes métropolitains ne sera pas une tâche facile, car à tout moment le capitalisme, exploitant les difficultés de la lutte pour l’égalité, la justice et le bien-être qui pourraient surgir de la survie des institutions de l’ordre déformé et s’appuyant sur des systèmes technologiques résiduels, tentera de se reproduire ou de se recomposer. Le processus de démantèlement en Europe débutera par une phase chaotique où les mouvements de repeuplement et anti-industriels dirigés vers les campagnes alterneront avec des mouvements re-distributeurs d'assemblées urbaines, accompagnés d'occupations de logements vacants, de marchés de troc et d'émancipation des banlieues. Un chaos fonctionnel – évoluant vers l'auto-organisation – sera toujours préférable à un ordre autoritaire de démolition métropolitaine sous couvert d'efficacité. Gare aux dirigeants déguisés en coordinateurs ! Le municipalisme révolutionnaire – c'est-à-dire la revitalisation des quartiers et la socialisation des habitats, des terres, des bâtiments, des rues et des avenues – sera l'œuvre d'organisations populaires actives, et non d'appareils, aussi représentatifs qu’ils prétendent l’être.

L'abolition du capitalisme et l'abrogation implicite de toutes ses lois nous conduisent à une conception de l'économie fondée sur la subsistance, l'oikos, c'est-à-dire l'économie substantielle (Polanyi) ou l'économie morale (Thompson), autrement dit l'économie domestique sans marché. C'est l'économie de la réciprocité, de la générosité, du soin, du don, de l'échange sans argent… Une économie du potlatch, telle que proposée par Bataille et les situationnistes ; une économie circulaire, comme l'exige une relation équilibrée avec l'environnement. Le profit privé, la technologie productiviste, la formation du capital, et surtout son accumulation, sont par définition exclus. Désormais, l'« économie » est comprise comme une activité spécifique qui ne monopolise pas la vie des gens ni ne domine le fonctionnement des institutions sociales ; la vie redevient politique, c'est-à-dire littéralement citoyenne. Il faut bien préciser que la ruralisation de l’espace libéré par la démétropolitisation ne signifie pas un retour au paléolithique, comme le postulent les écoles primitivistes et anti-civilisationnelles, ni un retour au conseil paysan médiéval, formule conviviale idéalisée par ceux qui, comme Antonio de Guevara, dénigrent la Cour et font l’éloge du village. Paradoxalement, la désurbanisation des systèmes conurbains constitue plutôt un retour à la ville au sens profond du terme. Il est clair qu'il n'y a pas de retour au passé, aux cités-jardins, aux phalanstères, aux villages commerçants ou aux villes « libres », aux conseils ouverts castillans ou à la polis grecque, même si l'exemple des villes précapitalistes et des communes agraires traditionnelles n'est nullement à exclure. Le dynamisme culturel, l'architecture populaire, les découvertes scientifiques, le développement du droit, les pratiques démocratiques, etc., constituent des apports historiques indispensables. Le mouvement de l'histoire, cependant, rend impossible un simple retour au passé et ridiculise les idéologies passéistes. Une société sans capitalisme sera composée non seulement de communautés villageoises, mais aussi de villes libres. C'est précisément la symbiose de ces deux réalités, chacune avec ses rythmes et ses temps propres, qui posera les bases d'une société égalitaire, juste, solidaire et émancipée.

Mumford s'émerveillait de la nature organique de la ville historique. Conçue selon ses propres règles, elle ne se développait pas selon un plan préétabli, ni n'obéissait à un ordre régulier, donnant naissance à des formes variées d'origines diverses, ponctuées de points de rencontre. Les symboles du pouvoir, les cathédrales, les monuments, les tours et les palais, étaient plongés dans la confusion des rues, des passages et des placettes. Sitte a bien compris cette grammaire particulière de l'habitabilité. Ce qui donnait de la cohésion à l'ensemble n'étaient ni les murs, ni les douves, ni la porte, mais l'agora, le forum, la place, c’est à dire les lieux de rencontre, de débat, de consensus, de marchandage et de prise de décision collective. Les espaces de liberté. La ville du futur devra recréer ces lieux – recréer la communauté – dans des conditions historiques différentes. La taille compte. Les calculs de Platon fixaient le nombre d'habitants de la ville parfaite à 5040 (esclaves, ouvriers et femmes n'étant pas pris en compte). C’étaient les membres des classes supérieures qui pouvaient se reconnaître. Pour Vitruve, en revanche, moins classiste les dimensions d'une ville étaient adaptées si elle pouvait être explorée à pied. En effet, les limites de la ville devront être définies à l'échelle humaine. Compte tenu de l'immensité des couronnes métropolitaines, un long processus de division urbaine et de développement autonome de ses différentes sections nous attend. N'oublions pas que la ville de chacun sera construite sur des décombres, des débris et des carcasses de voitures. L'origine symbolique de la ville était une enceinte. Par conséquent, ses limites seront également réinventées, même si elles ne seront pas fixes et n'auront pas besoin d'être fortifiées. La ville récupérée n'aura ni portes, ni, bien sûr, d'urbanistes. Ce ne sera pas une simple installation, mais un idéal fraternel de vie non virtuelle, sans prothèses. Son essence résidera donc non pas dans le site sur lequel elle se dresse, dans la grille qui la définit, ni dans le centre de données qui la supervise, mais dans l'ensemble de ses habitants, les citoyens. Là où il y a de vrais citoyens – là où il y a une agora – il y aura une ville.

Miguel Amorós. 13 juillet 2025.

Réflexions sur un débat sur la désurbanisation et la post-métropole



mercoledì 2 luglio 2025

Serbia: di fronte alla repressione, blocchi stradali e barricate












In Serbia si sta delineando uno scenario imprevedibile. Da domenica, al movimento studentesco si è aggiunto il resto della popolazione, che ha bloccato l'accesso alle città e alle principali vie di comunicazione. Il regime autoritario di Aleksandar Vučić è stato colto di sorpresa.

Jean-Arnault Dérens

 

 

30 giugno 2025 alle 17:26

"Chi ha bloccato ha perso", ha dichiarato con spavalderia il presidente serbo Aleksandar Vučić sabato 28 giugno. Una manifestazione contro il suo regime aveva appena radunato 140.000 persone nel centro di Belgrado, secondo un istituto indipendente. Dopo sette mesi di proteste, centinaia di dimostrazioni, blocchi stradali e occupazioni, il capo dello Stato poteva pensare che quest'ultimo raduno avesse tutte le caratteristiche di un'ultima resistenza e che fosse giunto per lui il momento di chiudere i giochi.

Peggio per lui. La sera del giorno dopo, il ponte autostradale di Gazela, le principali arterie di Belgrado e tutte le principali vie di accesso alla capitale serba erano bloccate da barricate erette spontaneamente da una folla determinata. Nella notte tra domenica e lunedì, il movimento si è esteso a tutto il Paese, prima che la polizia iniziasse a smantellare queste barricate il mattino, senza incontrare alcuna resistenza.

A Belgrado, i manifestanti mettevano le mani in alto davanti agli agenti di polizia, spesso mascherati, spiegando che la loro azione era "non violenta", mentre sui social-media circolavano appelli per nuove barricate. "Stiamo affrontando una nuova prova di forza, che durerà a lungo", spiega Milica, un‘abitante di Belgrado che ha partecipato a ogni manifestazione dall'inizio del movimento.

In ogni caso, la Serbia è entrata in una nuova fase. Sabato sera, davanti alla folla radunata in piazza Slavija a Belgrado, gli oratori hanno annunciato la fine del movimento studentesco, iniziato dopo il tragico crollo della pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad, che ha causato la morte di sedici persone il 1° novembre 2024. Hanno così passato la fiaccola della protesta all’insieme della cittadinanza, mentre decine di università e scuole superiori erano ancora occupate negli ultimi giorni.

Gli studenti avevano fissato alle autorità un "ultimatum" alle 21:00, sommandole di indire elezioni parlamentari anticipate. Poiché questa richiesta è rimasta inascoltata, hanno aggiunto che il governo era ormai "illegittimo" ai loro occhi. Centinaia di fumogeni verdi sono stati accesi per significare il "semaforo verde" a questo passaggio di consegne. Simbolicamente, i membri dei servizi di sicurezza studenteschi, ben organizzati, hanno deposto i loro gilet gialli, ma sono comunque scoppiati scontri con la polizia.

Scontri improvvisi

Ufficialmente, quest’ultima era stata schierata per impedire qualsiasi contatto tra i manifestanti e i sostenitori del regime. Questi ultimi si erano radunati a meno di un chilometro di distanza, di fronte al Parlamento, dove da marzo è stato allestito nel Parco dei Pionieri il "campo degli studenti che vogliono studiare". Questo campo è sempre stato sotto stretta sorveglianza della polizia, ma nessun incidente degno di nota era stato ancora segnalato.

La natura improvvisa degli scontri alimenta il sospetto che dei provocatori possano aver attaccato la polizia, soprattutto perché il bilancio rimane incompleto e incerto. A tarda sera, il capo della polizia ha tenuto una conferenza stampa per annunciare che "diverse decine di rivoltosi e teppisti" erano stati arrestati, mentre sei agenti di polizia sarebbero rimasti feriti.

Gli studenti, parlando di "numerosi feriti", hanno dichiarato sui social media che "le autorità avevano tutti i mezzi e il tempo necessari per rispondere alle richieste e prevenire l'escalation. Invece, hanno optato per la violenza e la repressione contro i cittadini. Qualsiasi radicalizzazione della situazione è una loro responsabilità”.

 

Dei plenum cittadini coprono

la Serbia con una rete capillare,

attraverso la quale i vicini

s”informano e si mobilitano a vicenda.

 

Anche i sindacati dei giornalisti denunciano diversi casi di violenza e intimidazione, in particolare nei pressi dell'accampamento dei partigiani pro-regime. Domenica, gli studenti hanno segnalato diverse decine di arresti e, nel pomeriggio, si sono formati raduni per esigere il rilascio degli arrestati, prima che questi cortei si aggiungessero ai blocchi stradali che stavano iniziando a formarsi.

Alla rotonda dell'Autokomanda, centro nevralgico del traffico della capitale, l'iniziativa del blocco è venuta dagli zbor del distretto di Voždovac. Gli zborovi (plurale di zbor) sono le assemblee plenarie cittadine che hanno iniziato a formarsi a marzo nei villaggi e nei quartieri delle principali città, reinventando la democrazia diretta riprendendo il nome dalle tradizionali assemblee di villaggio serbe risalenti al periodo del dominio ottomano.

Queste assemblee, dove il tempo di parola è attentamente controllato e tutte le decisioni sono prese per alzata di mano, avevano teso a ridursi in primavera. Tuttavia la loro organizzazione ultra-locale copre la Serbia con una rete capillare, attraverso la quale i vicini s’informano e si mobilitano a vicenda.

A presidiare molti dei posti di blocco ci sono i frequentatori abituali delle manifestazioni, i volontari che hanno accolto gli studenti durante le loro numerose marce attraverso la Serbia o hanno cucinato per le mense delle facoltà occupate, ma anche dei curiosi, ancora esitanti, che scendono in piazza per la prima volta. I più determinati hanno trascorso la notte lì.

Dei dirigenti europei senza voce

Dalla mattina di lunedì 30 giugno, a Belgrado, agenti di polizia mascherati hanno iniziato a smantellare le barricate senza incontrare resistenza. Ma non appena alcune sono state disfatte, altre si riformano. "I cittadini, gli attivisti e gli zborovi ci trasmettono le informazioni tramite le nostre reti e le attività sono coordinate su questa base", spiega Đorđe Miketić dell'iniziativa cittadina Beograd ostaje.

"Consigliamo ai cittadini di mantenere i blocchi in modo permanente, di non lasciare mai poche persone isolate agli incroci, ma di rimanere in gruppi più numerosi. Se interviene la polizia, è consigliabile non disperdersi ma lasciare la zona in gruppo", aggiunge.

 

Il presidente Vučić si congratulava

di essere riuscito a sventare lo spettro

di una "rivoluzione colorata".

 

Lunedì pomeriggio, colonne di auto si sono radunate nel centro di Kragujevac, bloccando completamente questa importante città industriale. Il "passaggio del testimone" dagli studenti ai cittadini implica il passaggio a molteplici forme di disobbedienza civile, e i social-media pullulano di suggerimenti, come l'inondazione delle pubbliche amministrazioni di mail o la moltiplicazione dei prelievi di piccole somme di denaro per intasare le banche.

Nelle ultime settimane, il Presidente Vučić si congratulava di aver represso con successo la minaccia di una "rivoluzione colorata", ma ha dovuto ritrattare questa pretesa, ringraziando lunedì pomeriggio la Russia per la sua "comprensione". Il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha infatti messo in guardia contro il rischio di una simile "rivoluzione colorata". Questo concetto, forgiato dopo la caduta di Milošević nel 2000 e le rivoluzioni in Georgia (2003) e Ucraina (2004), presuppone un forte impegno occidentale in uno scenario di cambio di regime. In realtà, la posizione russa contrasta con il silenzio assordante dei leader europei e delle cancellerie occidentali. Le quali si accontentano da mesi, di lanciare dei ridicoli "appelli alla calma", senza mai pronunciarsi esplicitamente sulle richieste democratiche del movimento.

Se lo scenario dei prossimi giorni resta impossibile da immaginare, il regime ha ancora una via d'uscita relativamente facile: soddisfare la rivendicazione centrale di studenti e cittadini indicendo delle elezioni anticipate. Altrimenti, la Serbia rischia di sprofondare definitivamente nell'ignoto.

 

Jean-Arnault Dérens

 

Serbie : face à la répression,

des barrages et des barricades


Illustration 1

Opposés au gouvernement, des manifestants bloquent une rue de Belgrade (Serbie),

lundi 30 juin 2025. © Photo Oliver Bunic / str / AFP

Un scénario imprévisible est en train de s’écrire en Serbie. Depuis dimanche, le mouvement étudiant a été relayé par le reste de la population, qui a bloqué l’accès aux villes et aux grands axes routiers. Le régime autoritaire d’Aleksandar Vučić est pris de court.

Jean-Arnault Dérens

30 juin 2025 à 17h26

« Les bloqueurs ont perdu », lançait samedi 28 juin, bravache, le président serbe, Aleksandar Vučić. Une manifestation contre son régime venait de rassembler 140 000 personnes dans le centre de Belgrade, selon le décompte d’un institut indépendant. Au bout de sept mois de contestation, de manifestations par centaines, de blocages et d’occupations, le chef de l’État pouvait penser que cet ultime rassemblement avait tout d’un baroud d’honneur, et que le temps était venu pour lui de siffler la fin de la partie.

Mal lui en a pris. Dans la soirée du lendemain, le pont autoroutier de Gazela, les grands axes de Belgrade et toutes les principales voies d’accès à la capitale serbe étaient bloqués par des barricades, spontanément dressées par une foule déterminée. Dans la nuit de dimanche à lundi, le mouvement s’est étendu à tout le pays, avant que la police ne commence à démanteler ces barrages au matin, sans rencontrer la moindre résistance.

À Belgrade, bloqueurs et bloqueuses se tenaient les mains en l’air devant des policier souvent masqués, en expliquant que leur action était « non violente », tandis que des appels à dresser de nouveaux barrages couraient sur les réseaux sociaux. « Nous sommes partis sur une nouvelle épreuve de force, qui va durer longtemps », explique Milica, une habitante de Belgrade, qui n’a manqué aucun rassemblement depuis le début du mouvement.La Serbie est en tout cas passée à une nouvelle étape. Samedi soir, devant la foule rassemblée place Slavija, à Belgrade, les orateurs et oratrices ont annoncé que le mouvement étudiant, entamé après la chute tragique de l’auvent de la gare de Novi Sad, qui a tué seize personnes le 1er novembre 2024, prenait fin. Ils ont ainsi passé le flambeau de la contestation à l’ensemble des citoyen·nes, alors que des dizaines de facultés et d’écoles supérieures étaient encore occupées ces derniers jours.

Les étudiant·es avaient fixé à 21 heures un « ultimatum » aux autorités, les sommant de convoquer des élections législatives anticipées. Cette revendication n’ayant pas été entendue, ils et elles ont ajouté que le gouvernement était désormais « illégitime » à leurs yeux. Des centaines de fumigènes verts se sont embrasés pour signifier le « feu vert » à ce passage de relais. Symboliquement, les membres des très organisés services d’ordre étudiants ont déposé leurs chasubles jaunes, mais des heurts ont tout de même éclaté avec la police.

Des affrontements soudains

Officiellement, cette dernière avait été déployée pour empêcher tout contact entre les manifestant·es et les partisan·es du régime. Ceux-ci étaient réunis à moins d’un kilomètre de distance, en face du Parlement, où le « camp des étudiants qui veulent étudier » se dresse depuis mars dans le parc des Pionniers. Ce camp a toujours été placé sous bonne garde policière, mais aucun incident notable n’avait encore été signalé.

Le caractère soudain des affrontements alimente le soupçon que des provocateurs ont pu s’en prendre à la police, d’autant que les bilans demeurent partiels et incertains. Tard dans la soirée, le directeur de la police a tenu une conférence de presse pour annoncer que « plusieurs dizaines d’émeutiers et de hooligans » avaient été arrêtés, tandis que six policiers auraient été blessés.

Les étudiants, parlant de « nombreux blessés », ont déclaré sur les réseaux sociaux que « les autorités disposaient de tous les moyens et de tout le temps nécessaires pour répondre aux revendications et prévenir l’escalade. Au lieu de cela, elles ont opté pour la violence et la répression contre les citoyens. Toute radicalisation de la situation relève de leur responsabilité ».

Des plénums citoyens couvrent

la Serbie d’un réseau capillaire,

grâce auquel les voisins s’informent

et se mobilisent les uns les autres.

Les unions professionnelles de journalistes dénoncent également plusieurs cas de violences et d’intimidations, notamment aux abords du camp des partisan·es du régime. Dimanche, les étudiant·es faisaient état de plusieurs dizaines d’arrestations et, dans l’après-midi, des rassemblements se sont formés pour exiger la libération des personnes interpellées, avant que ces cortèges n’aillent grossir les barrages qui commençaient à se former.

Sur le rond-point d’Autokomanda, centre névralgique du trafic routier dans la capitale, l’initiative du blocage revient au zbor de l’arrondissement de Voždovac. Les zborovi (pluriel de zbor) sont les plénums citoyens qui ont commencé à se former au mois de mars dans les villages ou les quartiers des grandes villes, réinventant la démocratie directe en reprenant le nom des assemblées villageoises traditionnelles serbes, du temps de la domination ottomane.

Ces assemblées, où le partage de la parole est soigneusement contrôlé et où toutes les décisions sont prises à main levée, avaient eu tendance à s’étioler au printemps. Mais leur organisation ultra locale couvre la Serbie d’un réseau capillaire, grâce auquel les voisin·es s’informent et se mobilisent les un·es les autres.

Sur beaucoup de barrages, on retrouve les habitué·es des manifestations, les volontaires qui ont accueilli les étudiant·es lors de leurs nombreuses marches à travers la Serbie, ou ont cuisiné pour les cantines des facultés occupées, mais aussi des curieux et curieuses encore hésitant·es qui sortent dans la rue pour la première fois. Les plus déterminé·es y ont passé la nuit.

Des dirigeants européens aphones

Dès le matin, lundi 30 juin, à Belgrade, des policiers masqués ont commencé à démanteler les barrages, sans rencontrer de résistance. Mais à peine certains sont-ils défaits que d’autres se reforment. « Les citoyens, les militants et les zborovi nous transmettent les informations sur nos réseaux, et les activités sont coordonnées sur cette base », explique Đorđe Miketić, de l’initiative citoyenne Beograd ostaje.

« Nous conseillons aux citoyens de maintenir les blocages de manière durable, de ne jamais laisser quelques personnes isolées aux intersections, mais de rester en groupes plus importants. Si la police apparaît, il est conseillé de ne pas se disperser mais de quitter les lieux en groupes », ajoute-t-il.

Le président Vučić se félicitait

d’avoir réussi à juguler le spectre

d’une « révolution de couleur ».

Lundi après-midi, des colonnes de voitures convergeaient vers le centre de Kragujevac, afin de bloquer totalement cette importante ville industrielle. Le « transfert du flambeau » des étudiant·es aux citoyen·nes suppose le passage à de multiples formes de désobéissance civile, et les réseaux sociaux fleurissent de suggestions, comme d’inonder de courriels les administrations publiques ou de multiplier les retraits de petites sommes pour engorger les banques.

Le président Vučić se félicitait ces dernières semaines d’avoir réussi à juguler le spectre d’une « révolution de couleur », mais il a dû revenir sur cette prétention, remerciant lundi après-midi la Russie de sa « compréhension ». Le ministre russe des affaires étrangères, Sergueï Lavrov, a en effet mis en garde contre le risque d’une telle « révolution colorée ».

Ce concept, forgé après la chute de Milošević en 2000 puis les révolutions de Géorgie (2003) et d’Ukraine (2004), suppose un fort engagement occidental dans un scénario de changement de régime. En réalité, la prise de position russe fait contraste avec l’assourdissant silence des responsables européens et des chancelleries occidentales. Celles-ci se contentent, depuis des mois, de lancer de dérisoires « appels au calme », sans jamais se prononcer explicitement sur les exigences démocratiques du mouvement.

Si le scénario des prochains jours demeure impossible à imaginer, le régime conserve une voie de sortie, relativement facile à emprunter : satisfaire la revendication centrale des étudiant·es et des citoyen·nes en convoquant des élections anticipées. À défaut, la Serbie risque pour de bon de basculer dans l’inconnu.

Jean-Arnault Dérens