preso da: qui
... e grazie
Nevesck
«Ai primi dell'Aprile 1877, una trentina di persone, venute non si 
sa donde, si riuniva tutte le sere in una casa di San Lupo, villaggio 
perso nelle gole del Beneventano. La notte del 6 Aprile i carabinieri 
che sorvegliavano la casa furono ricevuti a colpi di fucile e due tra 
essi rimasero sul terreno gravemente feriti.
 Dopo queste prime 
avvisaglie la banda, lasciata la casa, si dirige al vicino villaggio di 
Letino preceduta da un orifiamma rosso e nero. Occupa il palazzo del 
Comune e ne caccia il Consiglio Municipale a cui rilascia pel debito 
scarico la seguente dichiarazione: "Noi sottoscritti dichiariamo d'aver 
preso possesso del Municipio, di Letino a mano armata, in nome della 
Rivoluzione Sociale".
E i banditi pongono in calce, l'un dopo l'altro, le proprie firme.
Si portano in piazza, a piedi della croce che vi troneggia, i 
registri del catasto, quelli dello stato civile, e se ne fa una 
fiammata.
I contadini accorrono in folla e ad essi uno degli insorti [*] 
rivolge la parola: "il movimento è generale, il popolo è affrancato, il 
re decaduto, la Repubblica Sociale proclamata". Si applaude. Le donne 
chieggono che si proceda subito alla ripartizione delle terre. "Voi 
avete delle armi, voi siete liberi, fate tra voi le ripartizioni" 
risponde la banda. Il curato Fortini — che è anche Consigliere comunale —
 monta sul piedestallo della croce e dice che gli uomini della banda 
sono venuti a ristabilire sulla terra l'uguaglianza, come vuole il 
vangelo, e che si debbano quindi accogliere come gli apostoli del 
Signore, e gridando: "Viva 
la Rivoluzione Sociale!" si pone a capo del 
drappello e lo guida al prossimo villaggio di Gallo.
A Gallo il parroco Tamburini si fa loro incontro, li accoglie bene e
 li presenta ai suoi parrocchiani con queste semplici parole: "sono 
buona gente! non abbiate paura di essi. Il governo è mutato e si dà il 
fuoco alla cartaccia". La folla, rapita ed entusiasta, riceve i fucili 
della guardia nazionale. I registri della locale agenzia delle imposte 
sono recati in piazza ed arsi tra gli evviva, mentre ai molini si 
tolgono e si distruggono gli odiosi contatori del macinato. L'entusiasmo
 è al colmo. Il parroco abbraccia il capo della banda, le donne piangono
 di gioia: non più imposta! non più affitti! eguali tutti, emancipazione
 generale.
Se non che.... si apprende dopo qualche giorno che le regie truppe 
accorrono. La banda si rifugia nella foresta del Matese e, 
disgraziatamente, il cielo è meno clemente dei contadini. Neve 
dappertutto, il freddo orribilmente intenso, i liberatori muoiono di 
fame.
Sono arrestati in blocco e nell'Agosto del 1878 compaiono dinnanzi alla Corte d'Assise di Capua...
La catastrofe giudiziaria non è meno strana degli incidenti che 
l'hanno indotta: gli avvocati sostengono che si tratta di delitto 
politico coperto dall'amnistia accordata da Umberto I salendo al trono, 
ed i giurati assolvono...».
Fin qui il socialista cristiano Emilio De Laveleye nel suo Socialisme contemporaine
 (Parigi, Felix Alcan Editeur, 1902) laddove parlando dell'Alleanza 
Universale della democrazia e di Bakunin apostolo del nihilismo, 
sintetizza gli episodi e le vicende di quella che i giovani compagni 
ignorano, ed i vecchi ricordano sempre con ammirazione ed affetto: la banda di Benevento, di cui oggi abbiamo voluto nel trentesimo anniversario suscitare pei lettori della Cronaca il simpatico ricordo.
Perché a costituire la trentina di persone, piovute non si sa di 
dove, come dice il rugiadoso De Laveleye, che il 6 Aprile 1877 
ritentarono nel Beneventano l'eroica iniziativa che sulla terra di Sapri
 aveva condotto vent'anni avanti i Pisacane, i Nicotera, i Rota, 
l'eroica iniziativa di dare ad un popolo di ombre il pensiero e 
l'animo
 dei vivi, di dare ad uno strupo d'iloti un bagliore di coscienza, di 
verità, di diritto, di speranza e di libertà erano Carlo Cafiero, 
Alvino, Covelli, Errico Malatesta, Sergio Stepniak e cento altri che la 
morte ha falciato poi, e che le persecuzioni, le delusioni, le miserie 
hanno reso superstiti a se stessi, fatta la dovuta parte a coloro che 
sulla breccia rimasero e rimangono, come Errico Malatesta, immutati, 
tenendo il loro posto di battaglia coraggiosamente, gloriosamente.
Era insomma il fior fiore dell'intelligenza e dell'energia 
libertaria germogliato sotto l'alito ardente della parola e dell'esempio
 di Michele Bakunin nel campo irrequieto della grande Internazionale.
Quarantottate! ghignano in coro i piccioletti ladruncoli bastardi 
del socialismo scientifico e palancaiolo; e, nello stesso dispregio per 
le vittime e nella stessa adorazione pel successo: quarantottate! 
gridano nel sarcasmo nietzschiano gli apologisti eunuchi del dominatore e
 del superuomo.
Quarantottate? può essere; ma intanto contro gli arnesi da forca 
dell'antico regime superstite, l'Internazionale ergeva temeraria i 
postulati del nuovo diritto umano ed i suoi vessilli sanguigni.
Quarantottate? evidentemente: ma intanto il nuovo regno, il primo 
regno d'Italia si conchiudeva senza le sintomatiche carneficine 
proletarie, che sono la gloria del secondo e del terzo.
Quarantottate? non v'è il minimo dubbio; ma sotto la ferula 
cantelliana della vecchia destra non s'accucciava — anestetizzato dal 
cloroformio delle conquiste graduali e soprattutto pacifiche; avvilito e
 castrato dalle fervide obiurgazioni modernissime sulla schiavitù degli 
umili, perenne ineluttabile e necessaria — il proletariato della patria 
con cui, allora, vivevamo la vita, il palpito, il pensiero di ogni ora.
Ora siamo grandi e... furbi.
Abbiamo detto un grande addio alle quarantottate ed abbiamo messo giudizio.
Il quarantotto imperversa, è vero, nella reazione: sazia di piombo i
 ventri vuoti, sazia di menzogne i cervelli vergini; rifugia in galera i
 vecchi tronchi da cui non può più spremere né sudore né lavoro né 
quattrini; ci affoga nella strozza la libertà di pensiero e di parola e 
lo statuto; mitraglia per le risaie, per le miniere, per le
 brughiere 
il diritto alla vita, il diritto di associazione, il diritto di 
coalizione... 
Ma è la reazione.
Possiamo essere reazionari noi, e ricorrere al quarantotto 
dell'insurrezione, delle barricate, delle rivolte sguaiate perché le 
classi dominanti tornano al quarantotto del crimenlese, della tortura e 
della forca?
Ohibò! noi siamo, oggi, tutti filosofi.
Noi non comprometteremo coi moti inconsulti della ribellione 
primitiva le libertà consolidate onde sorride benigno dai cieli 
benedetti della terza Italia il regime liberale al nostro ravvedimento 
addomesticato; e se v'è ancora in mezzo a noi qualche semi-selvaggio che
 raccogliendo nel cuore ingenuo e primitivo i dolori e le onte del volgo
 ne temperi una folgore pei simboli dell'onnipotenza borghese, noi gli 
mozzeremo le unghie e le temerità in nome della fatalità darwiniana per 
cui spetta ai forti il dominio per cui sono retaggio ineluttabile degli 
umili la miseria e la vergogna.
Noi pieghiamo il groppone, la coscienza, la viltà, la bandiera, maestri di raccoglimento e di rassegnazione...
E i banditi di Benevento li ricordiamo tutt'al più per la nostra... mortificazione.
[*] Carlo Cafiero
[Cronaca Sovversiva, anno V, n. 14, 6/4/1907]
 

 
