Una claustrofobica e drammatica disavventura di
confinamento quotidiano
L’anno 1 del confinamento
virale a ripetizione, ha marcato l’avvento del nuovo disordine mondiale,
tuttora incapace di mutarsi in ordine totalitario stabile come sogna da tempo.
A tutti noi impedire che ci riesca, aiutati da una coscienza di specie che
impari ad agire collettivamente contro la disumanità sempre più manifesta del
produttivismo dominante, del suo modo di produzione capitalista e di tutte le
patologie che la sua fase terminale comporta e nutre: l’irruzione devastante
del numerico, l’indebolimento del sistema immunitario, le crisi diverse, climatica,
ecologica, pandemica, economica, psicoaffettiva e sociale, tutte legate tra loro.
Questa lettera a un Piero
che mi pare di conoscere e con cui m’identifico in quanto lettore, mi è
sembrata meritevole di essere divulgata in transalpino per l’ampia analisi che
sviluppa e l’abbozzo implicito, ma per me molto importante da incrementare, di
una terza via non soggiacente alla perversa logica binaria dominante che
oscilla tra due ideologie altrettanto mefitiche: complottismo e
anticomplottismo.
Apocalisse o rivoluzione,
ecco un’alternativa che evoca per me una giovinezza passata, ma è soprattutto
un’evidenza del presente che questa lettera rimette in luce. Ve l’ho dunque
tradotta, come mio solito, perché chiunque possa usufruirne come meglio crede,
condividendo o criticando, punto per punto (io stesso dissento leggermente su
pochi punti precisi che qui non rilevo).
Apocalisse o rivoluzione.
Nel frattempo io non smetto di erodere dall’interno le frontiere tra le due
nazioni antropologiche che mi hanno dato i natali, ma non ancora il capodanno
di un mondo nuovo e della fine di un incubo.
Sergio Ghirardi Sauvageon, 25 gennaio 2021
Lettera
a Piero... di qui e di altrove
Venerdì 22 gennaio 2021
Jacques Philipponneau (Data di redazione anteriore 2
maggio 2020)
[Traduzione
dal sito francese La voie du Jaguar].
Piero,
Continuo
con grande ritardo le conversazioni troppo brevi che abbiamo avuto al momento
del vostro passaggio del gennaio scorso, pur notando che questo ritardo ha finalmente
portato qualche chiarimento sulla fine provvisoria dei conflitti sociali in Francia
e anche sulla sorte dell’infelice Siria.
Così,
con l’offensiva turca cominciata l’autunno scorso e il ritorno dell’esercito di
Assad alla sua frontiera nord, con le sue polizie segrete e i suoi aguzzini, si
chiude l’ultimo atto del dramma siriano. Crollano anche tutte le possibilità
d’emancipazione nel Rojava sotto controllo dell’YPG/PKK. Il regime di Damasco finirà
per riprendere il controllo della quasi totalità del paese mentre i Turchi
conserveranno delle briciole alla frontiera, il loro Donbass in un certo senso,
fonte di conflitti che hanno un mutuo interesse a veder durare.
All’immagine
idilliaca diffusa in Occidente (dall’estrema sinistra all’estrema destra;
questo semplice fatto non era già forse di per sé abbastanza sospetto?) delle
milizie del FDS (Forze Democratiche Siriane, essenzialmente curde) portatrici,
a seconda dei casi, del confederalismo democratico di Öcalan, di una coabitazione interetnica armoniosa o di una
laicità tinta di femminismo fotogenico (in Francia se ne è fatto anche un
pessimo film), il ritorno all’alleanza di fatto con Bachar e i Russi ricorda
finalmente le fondamenta storiche del PKK. Esiste, in effetti, la stessa
autonomia tra YPD (Unità di Protezione Popolare) e PKK (Partito Comunista
Curdo) di quella che c’era, durante la guerra del Vietnam, tra i vietcong
sudvietnamiti e il partito comunista del Nord Vietnam.
Tuttavia,
solo gli ingenui occidentali possono lamentarsi di quest’alleanza forzata con
il regime siriano, dimenticando che ancora recentemente si congratulavano per
un’altra alleanza altrettanto mostruosa con la coalizione occidentale e la sua
strategia aerea di bombardamenti a tappeto di sterminio (le rovine di Mossul o
di Racca non hanno nulla da invidiare per desolazione a quelle di Aleppo dovute
ai Russi). In quest’epoca neppure molto lontana, sembrava accettabile, in nome
di un altro realismo, che dei combattenti occidentali di estrema sinistra
collaborassero con le forze speciali dei loro paesi come lo descrive André Hébert nel suo scritto Jusqu’à Raqqa. Avec les
Kurdes contre Daesh.
A sentirli, abbandonati dai loro buoni protettori, sarebbero stati costretti a
gettarsi tra le braccia del diavolo.
In realtà, gli Stati occidentali non hanno mai niente
abbandonato perché non hanno mai sostenuto realmente qualcuno, né la
rivoluzione siriana nascente né le milizie curde. Rifiutando di fornire alle
FDS (Forze Democratiche Siriane) le difese anticarro o antiaeree, uniche capaci
di rovesciare il rapporto di forza, negavano loro ogni autonomia. Li hanno
sempre utilizzati come la soldataglia necessaria ai loro scopi spingendoli
finalmente all’offensiva pagata cara in zona araba fino a Racca. Undicimila
combattenti curdi e alleati sarebbero morti in tutto nella guerra contro Daesh,
fino alla caduta finale di Baghouz il 23 marzo 2019.
La direzione del PKK, fedele alla sua ideologia
militar-nazionalista, non ha mai esitato a inviare i suoi combattenti al
massacro per conservare il suo potere, come durante l’offensiva urbana suicida
del 2015 in Turchia, fulcro della NATO nella regione.
Questo bisogno di guerra permanente per restare in vita ne
spiega il rifiuto iniziale di combattere il regime di Damasco quando era
possibile e probabilmente decisivo. Una Siria liberata dalla tirannia di Bachar
el-Assad era la condizione indispensabile per una vera emancipazione della
regione a maggioranza curda, ma ciò avrebbe comportato, ipso facto, l’indebolimento
del suo potere ideologico-militare esclusivo. La neutralità nei confronti del
regime di Damasco sarà mantenuta, qualunque cosa si dica, per i lunghi anni di
guerra civile, favorita da una stessa matrice militar-leninista, come ci dice
il giornalista Raphael Lebrujah nella sua opera apologetica Comprendre
le Rojava dans la guerre civile: “Molti
pensano che si tratti di marxisti. In realtà, hanno abbandonato il marxismo ma
non il leninismo”. Al limite, sarebbe stato meglio il contrario e forse più conciliabile
con il municipalismo libertario.
Se, nonostante tutto, la situazione nel Rojava era ed è di
gran lunga la più respirabile in quel giardino dei supplizi che è diventata la
Siria, lo si deve certo al coraggio e alle aspirazioni di una base civile e
combattente che applica alla lettera il programma controllato di emancipazione
della burocrazia dirigente messo in atto dai suoi fanatici qadro,
autentici commissari politici. Il confederalismo democratico di Abdullah Öcalan
(il comunalismo di Bookchin rivisto da Zio Apo, quaranta pagine in cui non
figura una sola volta il termine di democrazia diretta) mette in avanti una
certa parte di democrazia partecipativa, ma questa partecipazione resta
ridotta, concretamente, ai soli livelli locali dell’organizzazione piramidale
del Rojava. La quale resta un leninismo conservato nella sua parte essenziale
del centralismo democratico.
A dispetto di tutto, miseria, accerchiamento mortale e
tutela burocratica, come in ogni situazione di guerra di liberazione, vi regna
un clima e uno spazio di libertà incontestabili e sconosciuti nella regione. Vedere,
però, in ciò un modello universale di emancipazione o di democrazia diretta
realizzata, è frutto della cecità più ingenua. Lo stesso giornalista citato
prima mi ha confermato, in una conversazione telefonica fortuita del gennaio
2020, che ovviamente la popolazione approvava il rovesciamento di alleanza
dell’autunno 2019 perché aveva fiducia nei suoi dirigenti (di fronte
all’urgenza e al fatto compiuto è difficile immaginare che possa essere
altrimenti), che effettivamente c’erano state elezioni (a due riprese) solo a
livello locale (ancora una volta non è questione di democrazia diretta) perché
la guerra impediva naturalmente di organizzarne al livello della federazione
dei cantoni (la guerra dura da più di otto anni, bisogna ricordarlo) e che la
democrazia alla base si occupava essenzialmente dei problemi della vita
quotidiana dei quartieri e dei villaggi (i conflitti locali e familiari,
l’approvvigionamento, la gestione stradale, vendere la propria moto – dixit –, ecc.). Si tratta di un’altra
forma dei CDC cubani (i cui rappresentanti sono eletti democraticamente dalla
popolazione ma, bizzarramente, sono tutti favorevoli al regime) che inquadrano la totalità
della vita sociale con le stesse funzioni, in quella Cuba tanto democratica che
provoca ancora l’ammirazione negli ambienti gauchisti in nome del sempiterno
antimperialismo.
Beninteso
è altrettanto facile che ridicolo dare lezioni di strategia post festum e forse non c’era altro sbocco
possibile a quel che accade, ma, quantomeno, restiamo lucidi su quel che si
difende. E poiché l’analogia con la guerra di Spagna ci è stata propinata da
diversi ignoranti, diciamolo: benché la rivoluzione spagnola sia stata
liquidata in meno di un anno dagli stalinisti e dai loro alleati, ciò non
significava, però, un’equivalenza tra il campo repubblicano e i franchisti. Attualmente,
qualunque sia la natura
esatta dell’organizzazione politico-militare del Rojava, vale cento volte
meglio di tutti gli orrori che la circondano.
Gli
Stati occidentali non hanno evidentemente alcun interesse che tali aspirazioni
si sviluppino da nessuna parte e Assad e i suoi alleati ancora meno;
“naturalmente noi non faremo nulla” come aveva dichiarato il ministro
francese degli affari esteri al momento della proclamazione dello Stato
d’assedio in Polonia nel 1981. L’ordine poteva regnare a Varsavia come regna
ora in Siria.
Naturalmente
non faranno nulla, perché delle cause così
universalmente popolari, anche accompagnate d’illusioni diverse, ma aureolate
di un eroismo incontestabile, possono sempre indurre o coltivare delle cattive
idee. La prima preoccupazione permanente quanto essenziale di uno Stato è di
prepararsi ad affrontare la sua stessa popolazione quando il controllo sociale
ordinario viene meno e ogni tentativo di autorganizzazione deve essere
combattuto, falsato, minimizzato o relegato a un esotismo riduttore. Com’era
stato detto tanto bene in altri tempi a proposito di altri conflitti: “Attenti
alla giustizia signorile quando il castello brucia”.
Ne
sapete qualcosa in Italia, dove lo Stato, che non ha niente imparato né
dimenticato durante mezzo secolo, non smette di vendicarsi con le sue leggi eccezionali
e le sue prigioni di alta sicurezza dello spavento provato durante quel
decennio rivoluzionario che si è tentato di ridurre agli anni di piombo.
Attraverso il caso Battisti, la messa in scena nella primavera del 2019 di una
vendetta espiatoria eterna si rivolge piuttosto a futuri oppositori che ai
fantasmi del passato.
Quando
la giustizia italiana ha chiesto poco più tardi alla Francia l’arresto e
l’estradizione di un rifugiato politico condannato a dodici anni e mezzo di
prigione per ipotetici crimini di “devastazione
e saccheggio”
commessi durante le manifestazioni violente contro il G8 a Genova nel 2001 e a
Milano nel 2006, ciò è stato visto qui come l’affermazione che non ci sarebbe
mai più stata prescrizione e che ogni attacco all’ordine stabilito deve essere
ormai assimilato al terrorismo.
Questo
terrorismo generico che secondo una formula più pertinente che mai, permette
alla società di non essere più giudicata per quello che è, ma solo con il metro
dei suoi inconcepibili nemici (islamisti, neonazisti, suprematisti bianchi),
deve rimanere in forme variabili come il basso continuo di uno Stato
d’eccezione diventato la nostra condizione ordinaria.
In
Francia c’è il terrorismo islamista “Home Grown” (ma anche in Inghilterra e a
gradi diversi altrove) che serve da musica di fondo securitaria. Prodotto della
società contemporanea più moderna, espressione di una disperazione esistenziale
fondamentale, sotto perfusione di un’eredità coloniale indelebile, è chiamato a
durare perché non c’è ritorno indietro possibile nella costituzione di ghetti
etnico-religiosi nella maggior parte delle città francesi. Siccome non c’è
altra scelta neanche per l’antica potenza coloniale francese se non prendere la
sua parte del nuovo “fardello dell’uomo bianco” nella guerra senza fine contro
il terrorismo (nel Sahel o altrove), l’odio contro le metropoli del vecchio
imperialismo è stato coltivato senza fine prevedibile.
L’irruzione
momentanea di un terrorismo di massa nel 2015 e 2016 ha infine permesso allo
Stato francese di perfezionare l’arsenale repressivo messo in funzione nel 1986
all’occasione di altri attentati. Un terrorismo residuo, individuale e
disperato, il cui carattere “islamico” dipende essenzialmente da una giustificazione
suicida per storpiati della vita, torna ogni sei mesi a ravvivare l’isteria
mediatica e il panico securitario: si è così potuto trattare i Gilet jaunes da
terroristi perché avevano messo in scena, su una rotonda, la decapitazione
simbolica di un Macron di cartone mentre si è appreso, più recentemente, che la
polizia britannica aveva tentato di classificare il movimento esplicitamente
non violento di Extinction Rébellion come un’organizzazione
terrorista.
Lo
stesso genere di leggi esiste dunque anche qui, ma la differenza del rapporto
di forze riduce per il momento la loro applicazione sistematica o rigorosa. La
mobilitazione, soprattutto a Rennes, contro l’arresto e l’estradizione di
Vincenzo Vecchi, coincidente con l’indignazione profonda conseguente alla morte
per intervento della polizia del giovane Steve Maia Caniço a Nantes, è
finita con la sua liberazione provvisoria a novembre e la sospensione della minaccia
di estradizione fino a un nuovo processo. Da un anno, lo Stato francese teme la
piazza ed esita nel devastare ancora di più l’immagine di una polizia detestata
e di una giustizia ubbidiente agli ordini.
Nel
dicembre 2014, dopo la morte di un manifestante ucciso da una granata
offensiva, avevo scritto con René Riesel un testo intitolato “Sopra il vulcano”
(pubblicato da Le Monde nel gennaio 2015 con modifiche
minori non consentite); questo testo sosteneva che si stavano costituendo
(perlomeno in Francia) due partiti storici che si opponevano non su dettagli di
gestione dell’esistente ma sulla totalità di una concezione della vita: “Quando
si scontrano due concezioni della vita così antagoniste, si afferma anche
l’inevitabilità del conflitto centrale dei tempi a venire, quello che opporrà i
fanatici dell’apocalisse programmata a quelli che non si rassegnano all’idea
che la storia umana possa finire nel loro pozzo nero”. Essendo la frangia della
gioventù emarginata, dove si cercava e si affermava quest’altra concezione
della vita, molto minoritaria e sovente confusa, questo testo fu criticato
perché prendeva perlomeno i suoi desideri per la realtà.
Cinque
anni più tardi, questa gioventù minoritaria lo è un poco meno e non è più sola,
giacché la crisi ecologica generalizzata e l’irruzione del movimento dei Gilet
jaunes (fuori controllo di tutte le rappresentazioni integratrici abituali)
hanno fatto esplodere il confinamento ideologico in cui erano rimosse le
questioni imbarazzanti (quale potere, che cosa produrre, quale ripartizione
delle ricchezze, che senso della vita) che hanno fatto letteralmente irruzione
sulla piazza pubblica. La constatazione che lo Stato sociale sparisce e che non
resta che uno Stato repressivo che si traduce in un fenomeno nuovo in Francia,
l'insofferenza crescente verso la polizia (“polizia dappertutto, giustizia da
nessuna parte”), il sentimento d’impoverimento della vita (“Lavora, consuma e
sta zitto”) e il fatto che la questione sociale e la crisi ecologica sono
legate (“Fine del mese, fine del mondo, stessi nemici stessa lotta”), tutto ciò
ha confermato al potere che vive davvero sopra un vulcano e che bisogna al più
presto schiacciare questo movimento, spezzarne la volontà e sradicarne il
ricordo.
La
tecnica di repressione contro il movimento dei Gilet jaunes si è apparentata a
una guerra d’usura, unendo a una violenza ricorrente in piazza, migliaia di
arresti preventivi nel corso di ogni manifestazione, multe sistematiche nei
confronti di una popolazione povera e un migliaio di condanne al carcere,
evitando per quanto possibile i morti e i martiri. La tecnica ha finalmente
portato i suoi frutti e con l’aiuto dello scoramento per uno scontro senza
sbocco, le manifestazioni si sono ridotte dalla primavera 2019: il 16 novembre è
sfilato un decimo dei manifestanti dell’anno prima. A Parigi, la repressione in
questa data di anniversario dell’inizio del movimento fu altrettanto dura. Vae victis.
L’impoverimento
di una parte della popolazione, l’odio conseguente verso Macron e la sua
nomenclatura tecno-finanziaria (rinforzata anche dall’indignazione per una
violenza poliziesca politicamente voluta) non si sono rivelati dei fattori
unificanti abbastanza potenti per suscitare un movimento generalizzato.
La
breccia aperta dall’irruzione di questo movimento che ha riattualizzato la
questione sociale, come si può percepire nella serie di slogan o d’iscrizioni
sulle schiene dei manifestanti, si è dunque rinchiusa progressivamente
l’autunno scorso, nonostante la persistenza di collettivi molto diversi. Alcuni
di loro si sono dunque riuniti a Commercy a metà gennaio, cercando di vedere come
il comunalismo libertario di Bookchin o più generalmente la democrazia diretta
potrebbero costituire le basi organizzative e programmatiche di una lotta di lungo
termine contro il sistema.
Paradossalmente,
l’occultamento di quel che c’era di più potenzialmente minaccioso nel movimento
è arrivato da quello che la parte più classicamente politicizzata dei Gilet
jaunes (semplificando, la componente di sinistra, vuoi gauchista) sperava come
suo salvataggio in extremis: un relè che riunisse la lotta rivendicativa
classica, programmata da mesi, contro la riforma delle pensioni.
Benché
sia stata lunga ma legalitaria, multiforme ma, salvo eccezioni, senza
immaginazione, spesso coraggiosa ma minoritaria, popolare ma contemplata da una
popolazione rimasta largamente passiva, questa lotta non è mai uscita dalla
messa in scena di uno scontro sulla ripartizione della ricchezza sociale in
seno al salariato e di una mediazione statale mai rimessa in discussione. Essa
avrebbe potuto essere vittoriosa soltanto attraverso uno sciopero generale che
tutti i sindacati devono brandire come minaccia evitandolo, nello stesso tempo,
a ogni costo, sotto pena di perdere il controllo sociale loro attribuito dal
sistema.
In
Francia tutti i sindacati rappresentativi ricevono dei fondi di Stato. Nel 2018
la CGT ha ricevuto per esempio 18,9 milioni di euro. Di che pagare tutto il
processo dei Gilet jaunes o alimentare generosamente le casse dello sciopero!
Tuttavia, la grande paura del 68 è ancora in tutte le teste dei burocrati
sindacali, ravvivata dallo schiaffo ancora bruciante dei Gilet jaunes,
cosicché, come in un cattivo film di cui si conosceva il finale, si trattava
per loro di non separarsi da una base radicale, minoritaria ma sempre presente,
evitando nello stesso tempo la generalizzazione del conflitto.
In
queste condizioni, il risultato finale, senza interesse, senza importanza nonostante
la suspense artificiale, era secondario dinanzi alla necessità cardinale di una
riabilitazione dei sindacati come pseudo avversari e di quella dello Stato come
fermo gestore dell’economia.
L’epitaffio
di questi conflitti puramente difensivi fu scritto da Warren Buffet qualche
anno fa, nel 2006: “C’è una guerra di
classe, d’accordo, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la
guerra e stiamo vincendo”.
Il quale aggiungeva dopo la crisi finanziaria del 2008 per eliminare ogni
ambiguità: “E abbiamo vinto”.
Ite missa est.
Ecco una bella conferma, se ce ne fosse ancora
bisogno, che nessuna causa particolare, nessuna categoria sociale legata al
mondo del lavoro può costituire un fattore di unificazione; da un lato perché
all’interno stesso del salariato le differenze estreme di statuto vi si
oppongono e d’altro canto perché una parte crescente della popolazione ne è
esclusa. Quanto a essere una molla per un progetto d’emancipazione, i salariati
potrebbero esserlo soltanto negandosi come ingranaggio dei rapporti sociali
capitalisti e mettendo in questione il prodotto della loro attività. Al di
fuori di una crisi generalizzata abbastanza potente da fare svanire
collettivamente l’incantesimo economico, ciò non potrebbe tradursi che in
secessioni individuali: i disertori dell’ideologia dominante si negano come
lavoratori salariati così come rigettano il prodotto del loro lavoro alienato.
Ciò è venuto a confermare, se ce ne fosse stato bisogno, quel che
affermava già più di mezzo secolo fa la critica più
lucida, cioè che il capitalismo compiuto produce anche il tipo umano di cui ha
bisogno: l’individuo isolato, preoccupato soltanto di non essere espulso dalla
matrice lavoro-consumo che costituisce l’alfa e l’omega della sua esistenza,
impermeabile a ogni questione d’ordine generale, sociale, politico o ecologico.
La società industriale moderna trasforma non solo la totalità dei bisogni in
merce (secondo l’eccellente formula di Davi Kopenawa, un amerindio
yanomami, “i bianchi sono il popolo della merce”), ma riduce l’esistenza a un
rapporto sociale tra macchine mediatizzate da persone, nel senso del teatro greco,
delle maschere. Niente sembra potersi opporre a questo maremoto che conclude la
lunga trasformazione antropologica cominciata tre secoli fa in Inghilterra. Un
sistema sociale che non può riformarsi senza affondare spingerà fino in fondo
l’estremismo dei suoi principi, trincerandosi fino alla morte per difendere i
suoi privilegiati; suscita, però, nello stesso tempo, un negativo suscettibile
di minacciarlo?
L’importante,
infatti, sta nella nuova percezione largamente condivisa di una rovina continua
e accelerata del mondo. In qualche mese, l’anno scorso, in una specie di
tourbillon che mescola l’insolito pittoresco di macellerie saccheggiate da
vegani furiosi alle visioni apocalittiche di un olocausto di canguri o di koala
ridotti in cenere, si sono viste innumerevoli nocività improvvisamente
criticate sulle prime pagine dei mass media: la neve artificiale e gli sport
invernali, il turismo di massa e i trasporti aerei, le navi di crociera e
l’inquinamento al petrolio pesante, Airbnb e la speculazione immobiliare, i
macelli da incubo e l’allevamento industriale, i neonati senza braccia
dell’avvelenamento chimico agricolo, la scomparsa delle api e degli uccelli,
Venezia inondata dal riscaldamento climatico, ecc. Poi dei bravi giornalisti
stupefatti per le loro scoperte recenti che interrogano degli autentici
ricercatori dell’EHESS (École des hautes études en sciences sociales, dove
timbra il cartellino la maggior parte dell’intellighenzia critica)
sull’avvenire del capitalismo, della società industriale o della democrazia
rappresentativa.
Attraverso
una frivolezza tipicamente francese che ricorda le discussioni da salotto sugli
abusi precedenti a 1789, dove la
questione degli onori dovuti a un cineasta accusato di stupro o a uno scrittore
pedofilo scaccia l’incendio appena spento dell’Australia, prima di cedere il
posto a un virus cinese che inquieta la fabbrica del mondo, una quasi certezza
s’impone progressivamente nelle coscienze: questa società è senza avvenire ed è
ormai troppo tardi per riformarla di fronte alla rapidità del naufragio. Come
segni aneddotici dello spirito del tempo, una serie televisiva francese
preceduta da molte altre anglosassoni e intitolata sobriamente Crollo ha incontrato un grande successo l’anno passato e secondo
un sondaggio dell’autunno scorso (che vale quel che valgono i sondaggi,
beninteso), sessanta per cento dei Francesi pensavano che la società sarebbe
crollata mentre l’ottanta per cento si pronunciava contro l’allevamento
industriale.
Il
che spiega la moda improvvisa in Francia, da due anni, della collapsologia,
espressione più adeguata del sentimento d’impotenza dell’individuo urbano,
privato di ogni potere sulla sua vita.
Non
c’è evidentemente nulla di sorprendente per noi in queste constatazioni e
previsioni catastrofiche, la novità essendo piuttosto l’accettazione
generalizzata, come andasse da sé, della quasi certezza di un disastro
ineluttabile. Alexandre Grothendieck ne
aveva stabilito un perfetto riassunto nel 1972: “Alla fine ci si sarebbe
lasciati andare a una specie di disperazione, di pessimismo nero, se non si
fosse fatto il cambio d’ottica seguente: all’interno del sistema di riferimento
abituale in cui viviamo, all’interno del tipo di civiltà data, chiamiamola
civiltà occidentale o civiltà industriale, non c’è soluzione.
L’interconnessione dei problemi economici, politici, ideologici e scientifici è
tale che non ci sono vie d’uscita possibili”.
Per riassumere
sommariamente quel che è stato già più largamente analizzato, su una scala
globale questa infatuazione per la collapsologia, essenzialmente spettatrice,
riassume la sequenza reattiva abituale della società di fronte a una catastrofe
particolare: la negazione, la minimizzazione, la certezza che la scienza
risolverà il problema, le misure palliative di fronte all’evidenza del disastro
poi la constatazione finale della loro inutilità. La collapsologia s’integra
facilmente nell’ideologia dominante perché salta direttamente alla conclusione
e rinuncia immediatamente, per la maggior parte dei suoi partigiani, alla
possibilità d’intervento sociale nella situazione presente: è troppo tardi, non
c’è niente da sperare da quest’umanità fuorviata, il si salvi chi può dell’individuo,
della famiglia, degli affini s’impone... aspettando di ricostruire
qualcos’altro dopo il crollo... quando la società sarà
stata in qualche modo purificata e scremata di una larga parte della
sua popolazione in sovrappiù, ecc.
La
collapsologia non vede che il collasso finale sistemico che dettaglia con tanta
compiacenza non precederà un’alternativa ma la svilupperà di volta in volta e
simultaneamente alla sua progressione. È difficile immaginare l’umanità attuale
che assiste alla sua sparizione senza reagire. Lo Stato che deve dappertutto
concentrarsi sulle sue funzioni securitarie e sulle misure di controllo
reclamate da popolazioni impaurite non ha evidentemente nulla da temere dalla
collapsologia poiché essa gli riconosce la gestione collettiva del disastro. Attraverso
la paura al tempo delle catastrofi, questo governo spera in una sottomissione
durevole di fronte al terrorismo, nella crisi climatica o attualmente in un
misterioso virus di pipistrello incrociato con il pangolino, passato per il
calderone di una bettola di Wuhan.
Mio caro Piero,
riprendo questa lettera abbandonata da più di due mesi perché il naufragio ha
preso un aspetto grandioso dopo questo siluramento virale inaspettato, lontano
dalla leggerezza dei miei ultimi propositi. Meglio evitare l'abituale “ve
l’avevo detto” giacché tante voci l’avevano annunciato in modi diversi e da tanto
tempo. Si eviterà cosi l’aspetto odioso della vanità premonitrice di fronte
alle immense sofferenze che non fanno che cominciare.
Mettiamo di
lato quello che tutti credono di sapere ora sulla responsabilità sistemica di un
modo di produzione invasivo riguardo all’origine e alla diffusione folgorante
di questo virus o sull’incapacità generale degli Stati nel far fronte ai loro
Frankenstein sfuggiti da una foresta o da un laboratorio: se avete amato i virus
tropicali, adorerete quelli dello scioglimento del permafrost.
Ormai chiunque
su questo pianeta vive o muore all’incrocio d’insondabili misteri. Le
insinuazioni simultanee di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia all’inizio di
Aprile sulla dissimulazione cinese circa l’origine del virus possono benissimo
essere un’esca utile a sdoganarli della loro gestione catastrofica
dell’epidemia. Fanno, però, anche pensare a quelle contrattazioni statali
occulte che hanno bisogno di minacce in codice quando riguardano inconfessabili
pratiche condivise: voi sapete ora che noi sappiamo e che possiamo rendere
pubbliche, se necessario, le vostre manipolazioni maldestre
di virus mortali, quelle stesse che anche noi pratichiamo più discretamente nei
nostri laboratori P4 civili e militari. La sola certezza su tali soggetti e con
tali attori è che la verità non verrà mai a galla.
Era, del resto,
notevolmente difficile in mezzo alla cacofonia spontanea delle diverse
ambizioni mediche e farmaceutiche, o delle più interessate propagande statali,
valutare il rischio reale di questo virus patogeno che sembra andare a nozze
con la buona salute di popolazioni super urbanizzate, immunocompromesse e multi
patologiche del mondo industriale e che uccide essenzialmente dei vecchi in fin
di vita e degli obesi. La produzione d’ignoranza fa rima qui con la
superinformazione contraddittoria, dove non deve restare in fin dei conti che
il messaggio senza replica dello Stato: si è passati così in Francia, da una
settimana all’altra dalla negazione rassicurante più frivola alla minaccia
apocalittica medievale. Questo voltafaccia, a priori davvero inconcepibile di
fronte a esseri umani dotati di un minimo di giudizio autonomo, trova un
terreno favorevole in popolazioni totalmente addomesticate nella loro
sopravvivenza materiale. Tante sono le risorse consacrate al mantenimento e al
prolungamento biomeccanico di esistenze senza contenuto e senza qualità che
ogni idea di una loro possibile interruzione imprevista, fuori di un’immonda
degradazione finale super medicalizzata, ha provocato una psicosi mondiale. E
persino in alcuni nostri amici abitualmente più sensati.
Tutto lo
scandalo, laddove le autorità nella loro impreparazione e nel loro diniego
hanno reso la situazione ingestibile (altri paesi o regioni hanno saputo
controllare a tempo e senza grandi danni questa epidemia), risiedeva nel fatto
che la morte diventava improvvisamente visibile, eccedendo la capacità abituale
di dissimularla e obbligando, a qualunque costo, a far scendere la curva della
sua visibilità occidentale: mentre questa pandemia ha fatto ufficialmente in
quattro mesi 250000 morti, la povertà e la fame hanno ucciso al riparo degli
sguardi 25000 persone al giorno. In certi momenti, mio caro Piero mi chiedo se
non siamo stati l’ultima generazione ad aver visto e avvicinato, perlopiù a
casa, quello che si chiamava la morte e non ancora la fine di un processo vitale in pericolo in seno a una struttura tecno
medica dedicata alla fin di vita.
Tuttavia,
senza speculare oltre sul bilancio di questa pandemia – poiché le proiezioni più fantasiste si scontrano a
partire dai modelli matematici dei geeks epidemiologi che consigliano i
nostri decisionisti in panico oppure da questo o quell’imperativo di storytelling statale –,
quale Stato o anche quale istituzione umana immaginabile potrebbe domare le
conseguenze più o meno gravi dello scatenamento del Moloch tecno industriale
fondamentalmente indifferente al suo rapporto con la vita? Quali misure
tecniche si potrebbero opporre alla dismisura prometeica del mutamento
climatico, della fissione nucleare, delle manipolazioni molecolari della
bioingegneria e presto dell’intelligenza artificiale? I commenti circolano ampiamente
sulle migliori forme di dispotismo adatte a costringere le proprie popolazioni a cose fatte, perché, entrati, dopo Hiroshima, nell’era delle
produzioni che vanno oltre ogni possibilità umana di controllo, non si può fare
niente prima. Quali misure preventive sono efficaci
di fronte a Chernobyl o Fukushima? Come spegnere un continente o lavare l’acqua
del mare, addomesticare un uragano o dissuadere una canicola, senza una
decostruzione razionale della società industriale che renderebbe tutto ciò
possibile?
Quel
che si temeva nel caso presente non era tanto un numero ancora ipotetico di
vittime che in altri tempi sarebbe stato accettato come naturale, quanto la sua
concentrazione nel tempo, saturando delle fabbriche della salute che funzionano
con il metodo industriale dello Just
In Time, polverizzando
le pretese delle società moderne di ridurre la vita a un processo industriale
come un altro. Gli Stati, colti in flagrante delitto d’incompetenza, non
avevano altra scelta che le misure spettacolari di un confinamento
amministrativo generalizzato dall’efficacia discutibile, ma che non poteva
essere accettato altrimenti che con la messa in scena ossessiva di un pericolo
mortale per tutti e per ciascuno. Dovunque ciò è stato imposto, ha funzionato.
In Italia come in Francia ci siamo svegliati un mattino circondati da pecore
paranoiche e infantilizzate.
È vero
che lo Stato francese in rapporto alla sua arroganza storica, ha magnificamente
accumulato impreparazione, diniego, menzogne e disorganizzazione burocratica,
facendo riposare la sua lamentevole impotenza sull’indocilità, molto relativa,
della popolazione. La sua febbrile confusione attuale deriva dal fatto che la
società francese, da quasi quattro anni è in perpetua agitazione e lo Stato teme,
dunque, che gli affari seri riprendano dopo il siparietto di un confinamento
che non ha fretta di levare: si è saputo incidentalmente che nel mese di marzo ha
sottoscritto un ordine importante di granate lacrimogene e di droni di
sorveglianza quando mancava di tutto e persino di maschere per i suoi
piedipiatti. Anche per questo il dibattito consensuale è già lanciato sul
necessario “gran ritorno dello Stato” keynesiano e sociale, ovviamente per la
sinistra disfatta, gli ecologisti statali e il vecchio gauchismo cripto
leninista; dibattito che i veri padroni della società fanno finta di prendere
in considerazione. Hanno, infatti, sempre considerato lo Stato come una loro
proprietà di diritto, anche se di tanto in tanto hanno dovuto lasciarne la
gestione momentanea a una servitù fedele e benintenzionata. Hanno invece, al
contrario, l’intenzione di approfittare del panico per mettere al passo i loro
sudditi ribelli e accelerare “a qualunque costo” la modernizzazione del
capitalismo. Lo stato d’urgenza economica con cui s’inquieta preventivamente la
popolazione si sovrappone già allo stato d’urgenza sanitaria per rimuovere
tutte le questioni poste da qualche anno e installare qualche dispositivo
securitario atto a scoraggiare ogni socializzazione potenzialmente sovversiva.
Le
pagine “idee” della stampa pullulano dunque di appelli, di programmi e di
aspirazioni diverse a un ecologismo di Stato normativo, sanitariamente
responsabile, capace d’imporre senza cedere delle misure più giuste di gestione
della penuria per ridurre i conflitti sociali, ristabilire un minimo di
coesione sociale, in breve riparare l’edificio tremolante persino, secondo
molti, ripiegando sullo Stato-nazione.
È troppo
tardi per questo genere d’illusioni perché l’inizio dell’attuazione di un tal
programma comporterebbe presto il crollo di un edificio tanto apertamente
aberrante. Non ne può scaturire, per il momento, che un controllo poliziesco
rinforzato, etichettato come “prevenzione delle catastrofi” insieme a una
questione per gli storici futuri: il XXI secolo securitario è cominciato
l’undici settembre 2001 oppure l’undici marzo 2020 con l’annuncio ufficiale
della pandemia? Oppure anche: il deconfinamento dell’estate 2020 ha segnato il ribaltamento
irrimediabile nella società numerica?
Se il
capitalismo non è potuto nascere storicamente senza la protezione dello Stato,
lo Stato moderno, meno che mai può vivere senza quel capitalismo che con la sua
superiorità incontestabile nella guida delle società industriali, costituisce
il fattore essenziale della sua potenza. La messa tra parentesi, in tempo di
guerra, reale o fantasticata, di certe prerogative del capitalismo liberale non
ha mai costituito il punto principale del suo controllo ma fa parte degli
aggiustamenti della sua simbiosi compiuta con lo Stato. E tutto tornerà come
prima, in peggio, ma meno innocentemente... fino all’inevitabile prossima
crisi.
Nella
mia mail del 19 marzo, “la società contro lo Stato”, abbozzavo lapidariamente
gli aspetti contradditori dello sviluppo della crisi attuale: il rinforzo
securitario comprendente una sottomissione volontaria che salta agli occhi e
l’aumento della perdita di legittimità che colpisce tutti i poteri. Non è in
una lettera così corta e con poca presa di distanza che si può analizzare una
situazione tanto complessa e le sue conseguenze imprevedibili, ma si può
tentare qualche precisazione.
In un
primo tempo le popolazioni impaurite, temendo improvvisamente la morte per non
avere mai pensato alla vita vera, tendono certamente a domandare una protezione
rinforzata al loro Stato nazionale, protezione che quest’ultimo è dappertutto
assolutamente incapace di assicurare di fronte a fenomeni che lo sorpassano,
salvo instaurando uno stato d’urgenza permanente. Questa intensificazione del
controllo sociale già all’opera in tante diverse maniere e prima di tutto tramite
un’accettazione volontaria, procede effettivamente da una strategia dello choc,
ma bisogna guardarsi dal vedervi un’intelligenza statale avida d’instaurare il
suo controllo totale o il Leviatano perpetuamente in agguato che realizza il
suo concetto. Quest’allegoria diventata comune ha difficoltà a raggruppare
realtà tanto diverse quanto gli Stati federali come la Svizzera, la Germania o
gli Stati Uniti, la burocrazia cinese super-centralizzata o il narco Stato
messicano. Come si sa, ognuno di questi gestori dell’Economia gestisce a modo
suo la sottomissione della propria popolazione all’economia politica. Ciò va dalla
delazione di cittadinanza alla sorveglianza elettronica o al terrore puro e
passa anche, più semplicemente, per l’aspra lotta quotidiana per la
sopravvivenza, a Kinshasa o a Bombay. Spesso è una miscela di tutto ciò.
È
evidente che gli arresti amministrativi di quattro miliardi di terrestri hanno
permesso agli Stati di dare un colpo di freno, in caso di necessità, alle loro
contestazioni particolari, di verificare insieme la potenza della loro
propaganda e delle capacità poliziesche, ma soprattutto di misurare il livello
di sottomissione delle loro popolazioni di fronte a ordini arbitrari,
contradditori e infantilizzanti, per prepararli a ogni stato di guerra che il nuovo dispotismo giudicherà necessario.
L’instaurazione
vittoriosa della sorveglianza numerica assoluta è tuttavia un fantasma che
condividono anche i democratici meno instupiditi, i gauchisti e i sostenitori
della società poliziesca; credono tutti ugualmente al dominio totale come a una
specie di fine della storia, proprio quando, da due anni, i popoli più diversi
sono insorti contro dei regimi polizieschi temibili. Finora nessun potere si è
mantenuto esclusivamente grazie alla sua polizia e nessuna polizia ha mai
salvato un potere che aveva perduto il sostegno della sua popolazione.
L’implosione, in qualche mese, nell’autunno del 1989, del regime poliziesco
della RDA, il più efficace conosciuto in Europa, ne è l’illustrazione ed ha
preceduto di qualche mese il crollo dell’URSS, altra costruzione poliziesca di
una certa portata. Napoleone, da conoscitore erede di una rivoluzione,
putschista fondatore dello Stato poliziesco moderno, aveva riassunto il dilemma
di ogni Stato mantenuto con la forza con una formula che ci insegnavano un
tempo nei corsi di storia: “Si può fare tutto con le baionette, salvo sedercisi
sopra”.
Non
credo che la capacità di stoccaggio illimitata degli adepti del metadone e
l’intelligenza artificiale, entrambe necessarie alla sorveglianza totale, rendano
obsolete queste constatazioni storiche. Un potere tende a diventare assoluto
quando si sa illegittimo, fragile e minacciato, ma non può più regnare
durevolmente se non ispira nessuna ragione di ubbidirgli. Si sa che in quel
modello di totalitarismo numerico che è diventata la Cina, il mandato del cielo
riposa esclusivamente sul tasso di crescita dell’economia e che questo fattore
è a sua volta totalmente determinato storicamente.
La
volontà diversamente manifestata in Europa di pervenire allo stesso risultato
per vie più consensuali, una volta passata la stupefazione dello pseudo
pericolo mortale, si urterà con opposizioni diverse, certo minoritarie ma
determinate. La cosa deve dunque essere parzialmente imposta nell’urgenza e con
la forza, ignorando dunque ogni tutela delle popolazioni. Non credo che tutto
ciò, almeno in Francia, sia di natura tale da rinforzare l’adesione al potere.
Al contrario, tutto porta a credere che la scissione tra una parte della
società e lo Stato si accrescerà a cominciare dalle resistenze multiformi che
cominciano qui e là a manifestarsi. Di fronte alla minaccia di una
cristallizzazione dell’opposizione al progetto di tracciamento sanitario
numerico StopCovid, il governo francese deve fare marcia indietro e ritardare i
suoi progetti.
Il
potere, come si sa, è costituito da un fascio d’istituzioni pubbliche o
segrete, di diverse burocrazie e di grandi interessi ufficiali o occulti che
convergono o divergono secondo i momenti. Lo Stato concentra una parte
variabile di tutto ciò senza avere esso stesso un vero centro, ma come ogni
istituzione ha per scopo principale di perpetuarsi. Nelle circostanze attuali
non può assicurare la sua stabilità se non rispondendo al bisogno accresciuto
di protezione di una società erratica, poiché non può assicurare in modo credibile nessun’altra funzione sociale. Non ha creato il
terrorismo islamico e neppure ha “inventato” l’attuale pandemia, come ha
affermato Agamben. Se ne serve, beninteso, ma non ha scelta, è anche il suo
destino ed è trasportato dal torrente che alimenta. In questo momento, nessuno
su questo pianeta può accedere ai mass media, quest’anticamera del potere, se
non insiste sulla domanda di un controllo sociale aggravato, di confinamento
più serrato o di repressione più severa dei dissidenti
sanitari. E come dice giustamente lo stesso Agamben “Come di fronte al
terrorismo si affermava che bisognava sopprimere la libertà per difenderla,
ugualmente ci si dice che bisogna sospendere la vita per proteggerla”.
Gli
Stati non hanno dunque altra scelta di fronte a un’epidemia che smentisce tutte
le loro pretese di assicurare la stabilità, la salute e la sicurezza delle loro
popolazioni, che giocare ai dadi, il più delle volte nel panico, la sorte
dell’economia mondiale. Contabili di tutto diventano anche responsabili di
tutto. La fragilità di uno Stato aumenta in proporzione alla sua potenza
assoluta dal momento che questa è smentita dai fatti, e non è la sorveglianza
numerica di massa che cambierà qualcosa alla questione. Certo si teme che renda
più facile la sparizione dei dissidenti in Cina o ad Algeri, ma questi Stati
non hanno atteso il riconoscimento facciale per praticarlo né la cosa servirà
in caso di dissidenza di massa, come ha mostrato Hong Kong l’anno scorso.
Riconosco
che questa visione è assai marcata dalla situazione in Francia, dove il potere
statale, forse più che altrove, perde di giorno in giorno la poca legittimità
che gli resta dopo anni di conflitti diversi. Il suo fallimento totale nella
gestione di questa crisi e la sua fuga in avanti securitaria sta aggravando
l’aspetto positivo di questa crisi che non fa che
cominciare: la sfiducia generale di fronte alle menzogne incredibili del
governo e alla sua incompetenza criminale, la constatazione dell’impotenza
dello Stato in situazione d’urgenza e l’evidenza che la reattività,
l’iniziativa, il buon senso, la solidarietà sono arrivati dalla società a dispetto di tutte le ostruzioni amministrative delle burocrazie
statali. Un’altra evidenza fondamentale, abitualmente inaccessibile nella
nebbia della superstizione economica, è stata anche sottoposta per due mesi
all’osservazione delle centinaia di milioni di confinati amministrativi: la
soddisfazione dei loro bisogni essenziali ha riposato sull’attività di una
minoranza di loro. Il NHS britannico (National Health Service), certo non un
covo di sovversione critica, ha cifrato in cinque milioni il numero di persone
necessarie per il mantenimento delle funzioni vitali del paese. A che serviva,
dunque, in tempi normali, l’attività frenetica della maggioranza? A quale
utilità se non a quella essenzialmente parassitaria, pletorica e nociva della
forma mercantile di un sistema di produzione, poiché, per miracolo, abbiamo
potuto quasi farne a meno per due mesi? Il capitalismo non sarebbe forse un
incantesimo e lo Stato la finzione di una necessità?
Naturalmente,
come lo notava
Byung-Chul Han, un virus non farà la rivoluzione e non sarà “quello che fermerà
la macchina di cui non si trovava il freno a mano”, ma ha sbattuto in faccia al
mondo qualche evidenza corrosiva. L’assurdità della mondializzazione, le
distruzioni della società industriale, il cinismo del capitalismo, le menzogne,
l’incompetenza e la nocività degli Stati si sono scontrati con il muro del
reale.
Se
tutte le rivolte che si sono viste nel mondo da due anni, per ragioni diverse –
corruzione, impoverimento e autoritarismo – sono tutte fallite, non è soltanto
a causa della repressione, poiché non sono neppure state distrutte, ma perché
la questione centrale di ogni insurrezione – quale società vogliamo? – è
rimasta e rimane ancora ovunque senza risposta positiva di fronte all’immensità
e alla complessità dell’impresa – nessuna entità locale potendo astrarsi dalla
totalità di un mondo unificato.
Questa
pandemia, con le sue conseguenze securitarie ed economiche, la digitalizzazione accelerata delle attività umane, l’impoverimento programmato delle classi medie
e l’aggravarsi di una disoccupazione di massa, è la prima crisi sistemica
assolutamente mondiale ed ha reso comune l’immagine del castello di carte che
minaccia di crollare a ogni istante. La fuga in avanti che essa ha imposto all’insieme
dei poteri economici e politici, lungi dallo stabilizzare qualcosa, favorirà le
condizioni per l’apparizione di nuove crisi altrettanto inedite, ipotesi che
più nessuno si azzarda a escludere. Il problema posto dalla strategia dello
choc è che essa esige degli choc distruttivi sempre più violenti fino alla
risoluzione del dilemma di cui avevamo riparlato prima di tutto questo: Apocalisse
o rivoluzione.
Passato
il periodo di stupore e il “corona blues” della quarantena amministrativa, le
questioni del giorno dopo, come uscire dall’assurdità
presente e in che consisterebbe una buona vita, sono temi definitivamente non
più riservati a una minoranza, ma passati non meno definitivamente sulla piazza
pubblica. Questo essenzialmente è cambiato negli ultimi tre anni, da quando
avevamo cominciato le nostre serie chiacchierate. Per dirlo in termini
classici, la sconfitta dell’ideologia dominante è davvero cominciata, la deriva
securitaria ne è la prova. La burrasca del reale, come sempre, ha spazzato via
le ipotesi futili d’insurrezioni immediatamente vittoriose, le certezze
concordate di stabilità definitiva del dominio o le fissazioni romantiche su
particolarismi onorevoli, per lasciare il posto all’asprezza eccitante di un
futuro più vasto: che cosa faremo di questo pianeta. Questo ritorno
dell’universale concreto ci fa rammaricare di non avere l’età dei nostri figli
per vedere il seguito, ma avremo almeno la soddisfazione di aver visto la fine
dell’inizio se non l’inizio della fine.
JP, 2 maggio,
anno 1 del confinamento.
Photographie : Alexandre
Grothendieck
2021 Odyssée de l’espèce
Une claustrophobe et dramatique
mésaventure de confinement quotidien
L’année 1 du confinement viral à répétition,
a marqué l’avènement du nouveau désordre mondial, encore incapable de muter en
ordre totalitaire stable comme il rêve depuis longtemps. A nous tous de
l’empêcher, aidés par une conscience d’espèce qui apprenne à agir
collectivement contre l’inhumanité de plus en plus manifeste du productivisme
dominant, de son mode de production capitaliste et de toutes les pathologies
que sa phase terminale comporte et nourrit : l’irruption dévastatrice du
numérique, l’affaiblissement du système immunitaire, les crises diverses, climatique,
écologique, pandémique, économique, psychoaffective et sociale, toutes liées
ensemble.
Cette lettre à un Piero que je
crois connaître et auquel je m’identifie en tant que lecteur, m’est apparue
méritant une diffusion en transalpin par l’analyse approfondie qu’elle
développe et l’ébauche implicite, mais selon moi très important à incrémenter,
d’une troisième voie pas soumise à la perversion de la logique binaire
dominante qui balance entre deux idéologies tout aussi méphitiques :
complotisme et anti complotisme.
Apocalypse ou révolution, voilà
une alternative qui évoque en moi une jeunesse passée, mais qui est surtout une
évidence du présent que cette lettre remet en lumière. Je l’ai donc traduite en
italien, comme d’habitude, afin que chacun puisse en bénéficier comme bon lui
semble, en partageant ou en critiquant, point par point (moi-même je suis en
léger désaccord sur peu de points précis que je ne relève pas ici).
Apocalypse ou révolution.
Entre-temps je n’arrête pas d’éroder de l’intérieur les frontières entre les
deux nations anthropologiques qui m’ont donné naissance, mais pas encore le
Nouvel An d’un monde nouveau et de la fin d’un cauchemar.
Sergio Ghirardi Sauvageon, 25 Janvier 2021
Lettre à Piero… d’ici et d’ailleurs
vendredi 22 janvier
2021, par Jacques
Philipponneau (Date de rédaction antérieure : 2 mai
2020).
Piero,
Je continue avec
beaucoup de retard ces conversations trop brèves que nous avons eues lors de
votre court passage en janvier dernier, quoique ce retard, finalement, ait
apporté quelques éclaircissements sur la fin provisoire des conflits sociaux en
France et aussi sur le sort de la malheureuse Syrie.
Ainsi, avec
l’offensive turque commencée l’automne dernier et le retour de l’armée d’Assad
sur sa frontière nord, avec ses polices secrètes et ses tortionnaires, s’achève
le dernier acte du drame syrien. Et s’effondrent aussi toutes les possibilités
d’émancipation au Rojava sous le contrôle des YPG/PKK. Tôt ou tard le régime de
Damas va reprendre le contrôle de la quasi-totalité du pays et les Turcs
conserver des miettes frontalières, leur Donbass en quelque sorte, source de
conflits qu’ils ont un intérêt mutuel à voir durer.
À l’image idyllique
véhiculée en Occident (de l’extrême gauche à l’extrême droite ; ce simple
fait n’était-il pas en lui-même suffisamment suspect ?) de milices des FDS
(essentiellement kurdes) apportant, au choix, le confédéralisme démocratique
d’Öcalan, une cohabitation interethnique harmonieuse ou une laïcité teintée de
féminisme photogénique (on en a même fait en France un très mauvais film), le
retour à l’alliance de fait avec Bachar et les Russes rappelle finalement les
fondements historiques du PKK. Il y a en effet autant d’autonomie de l’YPD par
rapport au PKK qu’il y en avait pendant la guerre du Viêt Nam entre le Viêt-Cong
sud-vietnamien et le parti communiste du Nord-Viêt Nam.
Seuls les naïfs
occidentaux peuvent se lamenter de cette alliance forcée avec le régime syrien,
oubliant qu’ils se réjouissaient il y a peu d’une autre alliance aussi
monstrueuse avec la coalition occidentale et sa stratégie aérienne de
bombardements massifs d’extermination (les ruines de Mossoul ou de Raqqa
n’ayant rien à envier en désolation à celles d’Alep dues aux Russes). À cette
époque pas si lointaine il semblait acceptable, au nom d’un autre réalisme, à
des combattants volontaires occidentaux d’extrême gauche de collaborer avec les
forces spéciales de leurs pays comme le décrit André Hébert dans son
récit Jusqu’à Raqqa. Avec les Kurdes contre Daesh. À les en croire,
ils seraient abandonnés par leurs bons protecteurs et contraints de se jeter
dans les bras du diable.
Mais les États
occidentaux n’ont rien abandonné car ils n’ont jamais réellement soutenu
quiconque, ni la révolution syrienne naissante ni les milices kurdes. En
refusant de fournir aux FDS les armements antichars ou antiaériens, seuls à
même d’inverser le rapport de force, ils leur interdisaient toute autonomie.
Ils les ont toujours utilisées comme la piétaille soldée nécessaire à leurs propres
buts, en les entraînant finalement dans l’offensive coûteuse en zone arabe
jusqu’à Raqqa. Onze mille combattants kurdes et alliés seraient morts en tout
dans la guerre contre Daesh, jusqu’à la chute finale de Baghouz le 23 mars
2019.
La direction du
PKK, fidèle à son idéologie militaro-nationaliste, n’a jamais hésité à envoyer
ses combattants au massacre pour maintenir son pouvoir, comme lors de
l’offensive urbaine suicidaire de 2015 en Turquie, ou à monnayer avec le sang
de ses combattants cette alliance purement circonstancielle avec la coalition
contre Daesh, qu’elle espérait contre tout réalisme retourner contre la
Turquie, pièce maîtresse de l’Otan dans la région.
C’est ce besoin de
guerre permanente pour se maintenir qui explique son refus initial de combattre
le régime de Damas quand cela était possible, et probablement décisif. Une
Syrie libérée de la tyrannie de Bachar el-Assad était la condition
indispensable pour une véritable émancipation de la région à majorité kurde,
mais cela aurait entraîné ipso facto le délitement de son
pouvoir idéologico-militaire exclusif. Cette neutralité envers le régime de
Damas sera maintenue, quoi qu’on en dise, pendant les longues années de guerre
civile, favorisée par une même matrice militaro-léniniste, comme nous le dit le
journaliste Raphael Lebrujah, dans son ouvrage apologétique Comprendre
le Rojava dans la guerre civile, « beaucoup pensent qu’il s’agit de
marxistes. En réalité, les apoïstes ont abandonné le marxisme mais pas le léninisme ».
À la limite on aurait préféré le contraire et cela aurait peut-être été plus
conciliable avec le municipalisme libertaire.
Si malgré tout au
Rojava la situation était, et est de loin la plus respirable dans ce jardin des
supplices qu’était devenu la Syrie, on le doit bien sûr au courage et aux
aspirations d’une base civile et combattante prenant au mot le programme
contrôlé d’émancipation de la bureaucratie dirigeante, mis en place par ses
fanatiques qadro, ces authentiques commissaires politiques. Le
confédéralisme démocratique d’Abdullah Öcalan (le communalisme de Bookchin revu
par Oncle Apo, quarante pages où ne figure pas une seule fois le terme
démocratie directe) met en avant une certaine composante de
démocratie participative, mais cette participation reste réduite,
concrètement, aux seuls échelons locaux de l’organisation pyramidale du Rojava.
Celle-ci reste un léninisme maintenu dans sa composante essentielle du
centralisme démocratique.
En dépit de tout,
misère, encerclement mortel et tutelle bureaucratique, comme dans toute
situation de guerre de libération, il y règne un air et un espace de liberté
incontestables et inconnus dans la région. Mais y voir un modèle universel
d’émancipation ou de démocratie directe réalisée relève de l’aveuglement le
plus naïf. Ce même journaliste cité plus haut me confirmait, dans une
communication téléphonique fortuite en janvier 2020, que bien entendu la
population approuvait le renversement d’alliance de l’automne 2019 car elle
avait confiance en ses dirigeants (devant l’urgence et le fait accompli, on
voit mal qu’il pourrait en être autrement), que bien sûr il n’y avait eu
d’élections (à deux reprises) qu’au niveau local (encore une fois il n’est pas
question de démocratie directe) car la guerre empêchait naturellement d’en
organiser au niveau de la fédération des cantons (la guerre dure depuis plus de
huit ans faut-il le rappeler) et que la démocratie à la base s’occupait
essentiellement des problèmes de la vie quotidienne des quartiers et des
villages (les conflits locaux et familiaux, le ravitaillement, la gestion de la
voierie, vendre sa moto — dixit —, etc.). Il s’agit d’une
autre forme des CDC cubains (élus démocratiquement par la population mais où
bizarrement il n’y a que des pro-régime) qui maillent la totalité de la vie
sociale avec les mêmes fonctions, dans ce Cuba si démocratique qu’il fait
encore l’admiration dans les milieux gauchistes au nom du sempiternel
anti-impérialisme.
Il est bien entendu
aussi facile que ridicule de donner des leçons de stratégie post festum et
peut-être n’y avait-il aucune autre issue à ce qui advient, mais tout au moins
soyons lucides sur ce que l’on défend. Et puisque l’analogie avec la guerre
d’Espagne nous a été serinée par divers ignorants, allons-y : bien que la
révolution espagnole ait été liquidée en moins d’un an par les staliniens et
leurs alliés, cela ne signifiait pas pour autant une équivalence entre le camp
républicain et les franquistes. Présentement, quelle que soit la nature exacte
de l’organisation politico-militaire du Rojava, elle vaut cent fois mieux que
toutes les horreurs qui l’encerclent.
Les États
occidentaux, et bien moins encore Assad et ses alliés, n’ont évidemment aucun
intérêt à ce que de telles aspirations se développent nulle part et
« naturellement, nous ne ferons rien » comme l’avait proclamé le
ministre français des affaires étrangères au moment de la proclamation de
l’État de siège en Pologne en 1981. L’ordre pouvait régner à Varsovie comme il
règne maintenant en Syrie.
Naturellement ils
ne feront rien, car des causes aussi universellement populaires, mêmes
accompagnées d’illusions diverses, mais auréolées d’un héroïsme incontestable,
peuvent toujours donner ou entretenir de mauvaises idées. La préoccupation
première, permanente autant qu’essentielle, d’un État est de se préparer à
affronter sa propre population quand le contrôle social ordinaire s’effondre,
et toute tentative d’auto-organisation doit être combattue, falsifiée,
minimisée ou reléguée dans un exotisme réducteur. Comme il avait été si bien
dit en d’autres temps à propos d’autres conflits : « Gare à la
justice seigneuriale quand le château brûle. »
Vous en savez
quelque chose en Italie où l’État, qui n’a rien appris ni rien oublié en un
demi-siècle, n’en finit pas de se venger par ses lois d’exception et ses
prisons de haute sécurité de l’effroi subi pendant cette décennie
révolutionnaire, qu’on a tenté de réduire aux années de plomb. Au travers du
cas Battisti, la mise en scène, au printemps 2019, d’une vindicte expiatoire
éternelle s’adresse plus à de futurs opposants qu’aux fantômes du passé.
Quand la justice
italienne a demandé peu après à la France l’arrestation et l’extradition d’un
réfugié politique condamné à douze ans et demi de prison pour d’hypothétiques crimes
de « devastazione e saccheggio » commis lors des
manifestations violentes contre le G8 à Gênes en 2001 et à Milan en 2006, cela
a été vu ici comme l’affirmation qu’il n’y aura plus jamais de prescription et
que toute atteinte à l’ordre établi doit être désormais assimilée à du
terrorisme.
Ce terrorisme
générique qui, selon une formulation plus pertinente que jamais, permet à la
société de ne plus être jugée pour ce qu’elle est mais seulement à l’aune de
ses inconcevables ennemis (islamistes, néonazis, suprématistes blancs), doit
rester sous des formes variables comme la basse continue de cet État
d’exception devenu notre ordinaire.
En France c’est le
terrorisme islamique « home grown » (mais aussi en Angleterre
et à des degrés divers ailleurs) qui sert de musique de fond sécuritaire.
Produit de la société contemporaine la plus moderne, expression d’un désespoir
existentiel fondamental, perfusé par un héritage colonial indélébile, il est
appelé à perdurer car il n’y a plus de retour en arrière possible dans la
constitution de ghettos ethnico-religieux dans la plupart des villes
françaises. Comme il n’y a pas d’autres choix non plus pour l’ancienne
puissance coloniale française que de prendre sa part du nouveau « fardeau
de l’homme blanc » dans la guerre sans fin contre le terrorisme (au Sahel
ou ailleurs), la haine contre les métropoles du vieil impérialisme s’en trouve
entretenue sans fin prévisible.
L’irruption
momentanée d’un terrorisme de masse en 2015 et 2016 a enfin permis à l’État
français de perfectionner l’arsenal répressif mis en place dès 1986 à
l’occasion d’autres attentats. Un terrorisme résiduel, individuel et désespéré,
dont le caractère « islamique » tient essentiellement d’une
justification suicidaire pour estropiés de la vie vient tous les six mois
raviver l’hystérie médiatique et l’affolement sécuritaire : on a pu ainsi
traiter les Gilets jaunes de terroristes parce qu’ils avaient mis en scène, sur
un rond-point, la décapitation symbolique d’un Macron en carton et plus
récemment, on apprenait que la police britannique avait tenté de classer le
mouvement explicitement non violent Extinction Rébellion comme organisation
terroriste.
Le même genre de
lois existe donc ici aussi, mais la différence du rapport de forces restreint
pour l’instant leur application systématique ou rigoureuse. La mobilisation, à
Rennes surtout, contre l’arrestation et l’extradition de Vincenzo Vecchi,
coïncidant avec l’indignation profonde due à la mort, par l’intervention de la
police, du jeune Steve Maia Caniço à Nantes, aboutira finalement en novembre à
sa libération provisoire, la menace d’extradition étant suspendue à un nouveau
procès. L’État français depuis un an craint la rue et hésite à dévaster plus
encore l’image d’une police détestée et d’une justice aux ordres.
En décembre 2014,
j’avais écrit avec René Riesel, à l’occasion de la mort d’un manifestant tué
par une grenade offensive, un texte intitulé « Au-dessus du volcan »
(publié dans Le Monde en janvier 2015 avec des modifications
mineures non consenties) ; ce texte soutenait que deux partis historiques
étaient en cours de constitution (tout au moins en France) qui s’opposaient non
pas sur des détails de gestion de ce qui est mais sur la totalité d’une
conception de la vie : « Quand s’affrontent deux conceptions de la
vie si antagoniques, s’affirme aussi l’inéluctabilité du conflit central des
temps à venir, celui qui va opposer les fanatiques de l’apocalypse programmée à
ceux qui ne se résignent pas à l’idée que l’histoire humaine puisse finir dans
leur fosse à lisier. » La frange de la jeunesse en marge, où se cherchait
et s’affirmait cette autre conception de la vie, étant très minoritaire et
souvent confuse, ce texte fut critiqué comme prenant pour le moins ses désirs
pour des réalités.
Cinq ans plus tard,
cette jeunesse minoritaire l’est un peu moins, et plus seule, la crise
écologique généralisée et l’irruption du mouvement des Gilets jaunes (hors de
contrôle de toutes les représentations intégratrices habituelles) ont fait
exploser le confinement idéologique où étaient refoulées les questions qui
fâchent (quel pouvoir, que produire, quelle répartition des richesses, quel
sens de la vie), pour faire irruption au sens strict sur la place publique. La
constatation que l’État social disparaît et qu’il ne reste qu’un État répressif
(ce que traduit un phénomène nouveau en France, la détestation croissante de la
police « Police partout, justice nulle part »), le sentiment
d’appauvrissement de la vie (« Travaille, consomme et ferme ta
gueule ») et que question sociale et crise écologique sont liées
(« Fin du mois, fin du monde, mêmes ennemis, même combat »), tout
cela a confirmé au pouvoir en place qu’il vit bien au-dessus d’un volcan et
qu’il fallait au plus vite écraser ce mouvement, en briser les volontés et en éradiquer
le souvenir.
La technique de
répression contre le mouvement des Gilets jaunes s’est apparentée à une guerre
d’usure alliant à une violence récurrente dans la rue des milliers
d’interpellations préventives à chaque manifestation, des amendes systématiques
visant une population pauvre et un millier de peines de prison, tout en évitant
autant que possible les morts et les martyrs. La technique a finalement porté
ses fruits et, le découragement d’un affrontement sans issue aidant, les
manifestations se sont amenuisées depuis le printemps 2019 : le 16
novembre il y eut dix fois moins de manifestants qu’un an auparavant. À Paris
la répression en cette date anniversaire du début du mouvement fut tout aussi
dure. Vae victis.
L’appauvrissement
d’une partie de la population, la détestation conséquente de Macron et de sa
nomenklatura techno-financière (même renforcée par l’indignation d’une violence
policière politiquement choisie) ne se sont pas révélées des facteurs
d’unification suffisamment puissants pour susciter un mouvement généralisé.
La brèche ouverte
par l’irruption de ce mouvement donnant une nouvelle actualité à la question
sociale, que l’on peut apercevoir dans les recueils de slogans ou
d’inscriptions dans le dos des manifestants, s’est donc fermée progressivement
à l’automne dernier, malgré la persistance de collectifs très divers. Certains
d’entre eux, cherchant comment le communalisme libertaire de Bookchin ou plus
généralement la démocratie directe pourraient constituer les bases organisationnelles
et programmatiques d’une lutte de longue haleine contre le système, se sont
ainsi réunis à Commercy à la mi-janvier.
Paradoxalement,
l’occultation de ce qu’il y avait potentiellement de plus menaçant dans le
mouvement est venue de ce que la partie la plus classiquement politisée des
Gilets jaunes (en gros sa composante de gauche voire gauchiste) espérait comme
son sauvetage in extremis : un relai en rejoignant la lutte
revendicative classique, programmée depuis des mois, contre la réforme des retraites.
Celle-ci, bien que
longue mais légaliste, multiforme mais, sauf exception, sans imagination,
souvent courageuse mais minoritaire, populaire mais contemplée par une
population restée largement passive, n’est jamais sortie de la mise en scène
d’un affrontement sur la répartition de la richesse sociale au sein du salariat
et d’une médiation étatique jamais remise en question. Elle n’aurait pu être
victorieuse que par une grève générale que tous les syndicats doivent à la fois
brandir comme menace et éviter à tout prix sous peine de perdre le contrôle
social qui leur est imparti par le système. En France tous les syndicats
représentatifs reçoivent des fonds de l’État. En 2018 la CGT a reçu par exemple
18,9 millions d’euros. De quoi payer tous les procès de Gilets jaunes ou
alimenter largement les caisses de grève ! Mais la grande peur de 68 est
encore dans toutes les têtes des bureaucrates syndicaux, ravivée par la gifle
encore brûlante des Gilets jaunes et donc, comme dans un mauvais film dont on connaissait
la fin, il s’agissait pour eux de ne pas se couper d’une base radicale,
minoritaire mais toujours présente, tout en évitant la généralisation du
conflit.
Dans ces
conditions, le résultat final, sans intérêt, sans importance malgré le suspense
artificiel, était secondaire devant la nécessité cardinale d’une réhabilitation
des syndicats comme pseudo-adversaires et de celle de l’État comme ferme
gestionnaire de l’économie.
L’épitaphe de
ces conflits purement défensifs fut écrite par Warren Buffet il y a quelques
années déjà, en 2006 : « There’s class warfare, all right, but
it’s my class, the rich class, that’s making war and we are winning. »
Et il ajoutait après la crise financière de 2008 pour
qu’aucune ambiguïté ne subsiste : « And we won. »
Ite missa est.
Voilà bien une
confirmation, si l’on en avait encore besoin, qu’aucune cause particulière,
aucune catégorie sociale liée au monde du travail ne peut constituer un facteur
d’unification, d’une part, parce qu’à l’intérieur même du salariat les
différences extrêmes de statut s’y opposent et, d’autre part, parce qu’une
partie croissante de la population en est exclue. Quant à être un ressort pour
un projet d’émancipation, elle ne pourrait l’être qu’en se niant comme rouage
des rapports sociaux capitalistes et mise en question du produit de son
activité. En dehors d’une crise généralisée suffisamment puissante pour faire
s’évanouir collectivement l’envoûtement économique, cela ne peut se traduire
que par des sécessions individuelles : les déserteurs de l’idéologie
dominante se nient comme travailleurs salariés comme ils rejettent le produit
de leur travail aliéné.
Cela est venu
confirmer, si besoin était, ce qu’affirmait il y a déjà plus d’un demi-siècle
la critique la plus lucide, à savoir que le capitalisme achevé produit aussi le
type d’être humain dont il a besoin : l’individu isolé, seulement
préoccupé de ne pas être rejeté de la matrice travail-consommation qui
constitue l’alpha et l’oméga de son existence, imperméable à toute question
d’ordre général, sociale, politique ou écologique. La société industrielle
moderne transforme non seulement la totalité des besoins en marchandise (selon
l’excellente formule de Davi Kopenawa, un Amérindien yanomami, « les
Blancs sont le peuple de la marchandise »), mais elle réduit l’existence à
un rapport social entre des machines médiatisé par des personnes,
au sens du théâtre grec, des masques. Rien ne semble pouvoir s’opposer à ce raz
de marée, qui achève la longue transformation anthropologique commencée il y a
trois siècles en Angleterre. Un système social qui ne peut se réformer sans se
saborder poussera jusqu’au bout l’extrémisme de ses principes et s’arc-boutera
jusqu’à la mort pour défendre ses privilégiés ; mais suscite-t-il dans le
même temps un négatif susceptible de le menacer ?
Car l’important est
bien sûr là, dans la perception nouvelle et largement partagée d’un délabrement
continu et accéléré du monde. En quelques mois l’an passé, on a vu dans une
espèce de tourbillon critique mêlant l’insolite pittoresque de boucheries
saccagées par des vegans furieux, aux visions d’apocalypse d’un holocauste de
kangourous ou de koalas réduits en cendres, d’innombrables nuisances soudain
critiquées à la une des médias : la neige artificielle et les sports
d’hiver, le tourisme de masse et les transports aériens, les bateaux de
croisière et la pollution au fioul lourd, Airbnb et la spéculation immobilière,
les abattoirs cauchemardesques et l’élevage industriel, les bébés sans bras de
l’empoisonnement chimique agricole, la disparition des abeilles et des oiseaux,
Venise sous les eaux du réchauffement climatique, etc. Et finalement, de braves
journalistes éberlués de leurs découvertes récentes interrogeant d’authentiques
chercheurs de l’EHESS (École des hautes études en sciences sociales où
cachetonne une grande partie de l’intelligentsia critique) sur l’avenir du
capitalisme, de la société industrielle ou de la démocratie représentative.
Au travers de toute
cette frivolité bien française, rappelant les discussions de salon d’avant 1789
sur les abus, où la question des honneurs dus à un cinéaste accusé
de viol ou à un écrivain pédophile chasse l’incendie à peine éteint de
l’Australie, avant de céder la place à un virus chinois inquiétant l’usine du
monde, une quasi-certitude s’impose progressivement dans les consciences :
cette société n’a plus d’avenir et il est bien trop tard pour la réformer
devant la rapidité du naufrage. Comme signes anecdotiques de l’esprit du temps,
une série TV française, après bien d’autres devancières anglo-saxonnes,
intitulée sobrement Effondrement a rencontré un grand succès
l’an passé et selon un sondage de l’automne dernier (qui vaut ce que valent les
sondages bien entendu), 60 pour cent des Français pensaient que la société
allait s’effondrer et 80 pour cent se prononçaient contre l’élevage industriel.
C’est ce qui
explique la vogue soudaine en France depuis deux ans de la collapsologie,
expression la plus adéquate du sentiment d’impuissance de l’individu urbain,
privé de tout pouvoir sur sa vie.
Il n’y a évidemment
rien de surprenant pour nous dans ces constats et ces prévisions
catastrophiques, la nouveauté étant l’acceptation généralisée, comme allant de
soi, de la quasi-certitude d’un désastre inéluctable. Le résumé en avait été
parfaitement établi en 1972 par Alexandre Grothendieck :
« Finalement, on se serait laissés aller à une sorte de désespoir, de
pessimisme noir, si on n’avait pas fait le changement d’optique suivant :
à l’intérieur du système de référence habituel où nous vivons, à l’intérieur du
type de civilisation donné, appelons-la civilisation occidentale ou
civilisation industrielle, il n’y a pas de solution. L’imbrication des
problèmes économiques, politiques, idéologiques et scientifiques est telle
qu’il n’y a pas d’issues possibles. »
Pour résumer
sommairement ce qui a été déjà plus largement analysé : à une échelle
globale cet engouement essentiellement spectateur pour la
collapsologie résume la séquence réactive habituelle de la société devant une
catastrophe particulière : le déni, la minimisation, l’assurance que la
science résoudra le problème, les mesures palliatives devant l’évidence du
désastre puis le constat final de leur inutilité. La collapsologie s’intègre
facilement dans l’idéologie dominante parce qu’elle saute directement à la
conclusion et renonce d’emblée, pour la plupart de ses partisans, à la
possibilité d’intervention sociale dans la situation présente : il est
trop tard, il n’y a rien à espérer de cette humanité dévoyée, le sauve-qui-peut
individuel, familial ou affinitaire s’impose… en attendant de reconstruire
autre chose après l’effondrement… quand la société aura été en
quelque sorte purifiée et diminuée d’une large partie de sa
population surnuméraire, etc.
Elle ne voit pas
que le collapse final systémique qu’elle détaille si complaisamment ne va pas
précéder une alternative mais la développer au fur et à mesure et simultanément
à sa progression. Il est difficile d’imaginer l’humanité actuelle assister sans
réagir à sa disparition. L’État qui partout doit se concentrer sur ses
fonctions sécuritaires et les mesures de contrôle réclamées par des populations
apeurées n’a évidemment rien à craindre de la collapsologie puisqu’elle lui
reconnaît la gestion collective du désastre. Ce gouvernement par la peur au
temps des catastrophes, espère une soumission durable devant le terrorisme, la
crise climatique ou présentement un mystérieux virus de chauve-souris mâtiné de
pangolin, passé par le chaudron d’un boui-boui de Wuhan.
Mon cher Piero, je
reprends cette lettre abandonnée depuis plus de deux mois car le naufrage a
pris une tournure grandiose après ce torpillage viral inattendu, loin de la
légèreté de mes derniers propos. On s’abstiendra du « je vous l’avais bien
dit » si courant, puisque tant de voix l’avaient clamé de diverses
manières et depuis si longtemps. Et l’on s’évitera ainsi l’odieux de la vanité
prémonitoire devant les immenses souffrances qui ne font que commencer.
Laissons aussi de
côté ce que tout le monde croit savoir maintenant sur la responsabilité
systémique d’un mode de production invasif dans l’origine et la diffusion
fulgurante de ce virus ou sur l’incapacité générale des États à faire face à
leurs Frankenstein, échappés d’une forêt ou d’un laboratoire : si vous
avez aimé les virus tropicaux, vous adorerez ceux de la fonte du permafrost.
Et c’est désormais
tout un chacun sur cette planète qui vit ou meurt au croisement d’insondables
mystères. Les insinuations simultanées des États-Unis, de la Grande-Bretagne et
de la France au début avril sur la dissimulation chinoise quant à l’origine du
virus peuvent très bien être un leurre servant à les dédouaner de leur propre
gestion catastrophique de l’épidémie. Mais elles font aussi penser à ces
marchandages étatiques occultes qui ont besoin de menaces codées quand elles
concernent d’inavouables pratiques partagées : vous savez
maintenant que nous savons, et que nous pouvons rendre publiques s’il
le faut vos manipulations maladroites de virus mortels, celles que
nous-mêmes pratiquons plus discrètement dans nos laboratoires P4 civils et
militaires. La seule certitude sur de tels sujets et avec de tels acteurs c’est
que la vérité ne sera jamais connue.
Il était d’autre
part remarquablement difficile au milieu de la cacophonie spontanée des diverses
ambitions médicales et pharmaceutiques, ou des plus intéressées propagandes
étatiques, de juger du danger réel de ce pathogène qui semble s’épanouir dans
la si bonne santé des populations sur-urbanisées, immunodéprimées et poly
pathologiques du monde industriel et tuer essentiellement des vieillards en
sursis et des obèses. La production d’ignorance ici rime avec la surinformation
contradictoire où ne doit subsister en fin de compte que le message sans
réplique de l’État : on est passé ainsi en France, d’une semaine à
l’autre, du déni sécurisant le plus frivole à la menace apocalyptique
médiévale. Ces volte-face, a priori si inconcevables face à
des humains qui resteraient doués d’un minimum de jugement autonome, trouvent
un terrain favorable dans des populations si domestiquées dans leur survie
matérielle, où tant de ressources sont consacrées au maintien et au
prolongement biomécanique de leurs existences sans contenu et sans qualité, que
toute idée de sa possible interruption imprévue, hors de son immonde
dégradation finale surmédicalisée, a provoqué une psychose mondiale. Et même
chez certains de nos amis habituellement plus sensés.
Tout le scandale,
là où les autorités dans leur impréparation et leur déni ont rendu la situation
ingérable (d’autres pays ou régions ont su maîtriser à temps et sans grands
dommages cette épidémie), résidait dans le fait que la mort devenait soudain
apparente, excédant la capacité habituelle à la dissimuler, et qu’il fallait à
tout prix lisser la courbe de sa visibilité occidentale :
pendant cette pandémie qui en quatre mois a fait officiellement 250 000 morts,
la pauvreté et la faim ont tué, hors des regards, 25 000 personnes par
jour. À certains moments, mon cher Piero, je me demande si nous n’avons pas
été la dernière génération qui avons vu et côtoyé, à la maison la plupart du
temps, ce qu’on appelait la mort et pas encore la fin d’un processus
vital engagé au sein d’une structure technico-médicale dédiée
à la fin de vie.
Mais sans spéculer
plus avant sur le bilan de cette pandémie, puisque les projections les plus
fantaisistes s’affrontent au gré du choix des modèles mathématiques des geeks épidémiologues
qui conseillent nos décideurs paniqués et de tel ou tel impératif de storytelling étatique,
quel État où même quelle institution humaine imaginable pourrait maîtriser les
conséquences plus ou moins graves du déchaînement du Moloch techno-industriel
foncièrement indifférent à son rapport à la vie ? Quelles mesures
techniques peut-on opposer à la démesure prométhéenne du dérèglement
climatique, de la fission nucléaire, des manipulations moléculaires de la
bio-ingénierie et bientôt de l’intelligence artificielle ? Les
commentaires vont bon train sur les meilleures formes de despotisme propres à
contraindre leurs populations après coup, puisque, entrés depuis
Hiroshima dans l’ère des productions dépassant toute possibilité humaine de
contrôle, on ne peut rien avant. Quelles mesures prévisionnelles
valent devant Tchernobyl ou Fukushima ? Comment éteindre un continent ou
laver l’eau de la mer, apprivoiser un ouragan ou dissuader une canicule, sans
une déconstruction rationnelle de la société industrielle qui rendrait possible
tout cela ?
Ce qui était craint
dans le cas présent n’était pas tant un nombre encore hypothétique de victimes,
qu’en d’autres temps on aurait acceptées comme naturelles, que sa concentration
dans le temps, saturant des industries de santé fonctionnant à flux tendu,
pulvérisant les prétentions des sociétés modernes à réduire la vie à un
processus industriel comme un autre. Les États pris en flagrant délit
d’incompétence n’avaient d’autre choix que les mesures spectaculaires d’un
confinement administratif généralisé, à l’efficacité discutable, mais qui ne
pouvait être accepté que par la mise en scène obsédante d’un danger mortel pour
tout un chacun. Et partout où cela a été imposé, cela a fonctionné. En Italie
comme en France nous nous sommes réveillés un matin entouré de moutons
paranoïaques infantilisés.
Il est vrai que
l’État français, eu égard à son arrogance historique, a remarquablement cumulé
impréparation, déni, mensonges et désorganisation bureaucratique, faisant
reposer sa lamentable impuissance sur l’indocilité, toute relative, de sa
population. Sa fébrilité brouillonne actuelle vient de ce que la société
française, depuis bientôt quatre ans, est en perpétuelle agitation et qu’il
craint que les affaires sérieuses reprennent après l’entracte d’un
confinement qu’il n’est donc pas pressé de lever : on a appris incidemment
qu’il avait passé une commande massive, au mois de mars, alors qu’il manquait
de tout et même de masques pour sa flicaille, de grenades lacrymogènes et de
drones de surveillance. C’est aussi pour cela que le débat consensuel est déjà
lancé sur le nécessaire « Grand Retour de l’État », keynésien et
social, il va de soi pour la gauche défaite, les écologistes étatistes et le
vieux gauchisme crypto-léniniste ; débat que les vrais maîtres de la
société font mine de considérer. Car eux ont toujours considéré l’État comme
leur appartenant de droit, même si de temps en temps ils ont dû en laisser la
gestion momentanée à une domesticité fidèle et bien intentionnée. Ils ont, bien
au contraire, l’intention de profiter de la panique pour mettre au pas leurs
sujets frondeurs et accélérer « quoique que cela coûte » la
modernisation du capitalisme. L’état d’urgence économique dont on affole
préventivement la population se superpose déjà à l’état d’urgence sanitaire
pour refouler toutes les questions posées depuis quelques années et installer
des dispositifs sécuritaires propres à décourager toute socialisation potentiellement subversive.
Les pages
« idées » de la presse regorgent donc d’appels, de programmes et
d’aspirations diverses à un écologisme d’État normatif, sanitairement responsable,
capable d’imposer sans faiblir des mesures plus justes de gestion de la pénurie
pour réduire les troubles sociaux, rétablir un minimum de cohésion sociale,
bref réparer l’édifice branlant, quitte pour beaucoup à se replier sur
l’État-nation.
Il est bien trop
tard pour ce genre d’illusions car le début d’une mise en œuvre d’un tel
programme entraînerait vite l’effondrement d’un édifice si ouvertement
aberrant. Il ne peut en sortir pour l’instant qu’un contrôle policier renforcé,
labellisé « prévention des catastrophes » et une question pour les
historiens du futur : le XXIe siècle sécuritaire a-t-il
commencé le 11 septembre 2001 ou bien le 11 mars 2020, à l’annonce officielle
de la pandémie ? Ou bien cette autre, le déconfinement de l’été 2020 a-t-il
marqué le basculement irrémédiable dans la société numérique ?
Si le capitalisme,
historiquement, n’a pu naître sans la protection de l’État, l’État moderne,
moins que jamais, ne peut vivre sans ce capitalisme qui, avec sa supériorité
incontestable dans la conduite des sociétés industrielles, constitue le facteur
incontournable de sa puissance. La mise entre parenthèses en temps de guerre,
réelle ou fantasmée, de certaines prérogatives du capitalisme libéral n’a
jamais constitué les prémices de sa maîtrise mais fait partie des ajustements
de sa symbiose achevée avec l’État. Et tout redeviendra comme avant, en pire,
mais moins innocemment… jusqu’à l’inévitable prochaine crise.
Dans mon mail du 19
mars, « la société contre l’État », j’esquissais lapidairement
les aspects contradictoires du développement de l’actuelle crise : le
renforcement sécuritaire intégrant la soumission volontaire, qui saute aux
yeux, et l’accroissement de la perte de légitimité qui affecte
tous les pouvoirs. Ce n’est pas dans une lettre aussi courte et avec si peu de
recul que l’on peut analyser une situation si complexe et ses conséquences
imprévisibles, mais on peut tenter quelques précisions.
Dans un premier
temps, les populations apeurées, craignant soudainement la mort faute d’avoir
jamais pensé à la vraie vie, vont bien sûr demander une protection renforcée à
leur État national, protection qu’il est partout bien incapable d’assurer
devant des phénomènes qui le dépassent, sauf à instaurer un état d’urgence
permanent. Cette intensification du contrôle social déjà à l’œuvre de si
diverses manières, et d’abord par une acceptation volontaire, procède bien
d’une stratégie du choc, mais il faut se garder d’y voir une
intelligence étatique supra-historique avide d’instaurer son contrôle total ou
le Léviathan perpétuellement aux aguets réalisant son concept. Cette allégorie
devenue commune peine à rassembler des réalités aussi différentes que des États
fédéraux, suisse, allemand ou américain, la bureaucratie chinoise hyper
centralisée ou le narco-État mexicain. Et, comme on sait, chacun de ces
gestionnaires de l’Économie gère à sa manière la soumission de sa population à
celle-ci. Cela va de la délation citoyenne à la surveillance électronique ou à
la terreur pure, et même plus simplement passe par l’âpre lutte quotidienne
pour la survie, à Kinshasa ou Bombay. Et souvent un mix de tout cela.
C’est une évidence
que la mise aux arrêts administratifs de quatre milliards de Terriens a permis
aux États de donner un coup d’arrêt, le cas échéant, à leurs contestations
particulières, de tester à la fois la puissance de leur propagande et leurs
capacités policières, mais surtout de mesurer le degré de soumission de leurs
populations, devant des ordres arbitraires, contradictoires et infantilisants,
pour les préparer à tout état de guerre que le nouveau
despotisme jugera nécessaire.
L’instauration
victorieuse de la surveillance numérique absolue est cependant un fantasme que
partagent également les démocrates déniaisés, les gauchistes et les sectateurs
de la société policière ; ils croient tous également à la domination
totale comme à une sorte de fin de l’histoire alors même que, depuis deux ans,
les peuples les plus divers se sont insurgés contre des régimes policiers
redoutables. Jusqu’à maintenant, aucun pouvoir ne s’est maintenu exclusivement
par sa police et aucune police n’a jamais sauvé un pouvoir ayant perdu le
soutien de sa population. L’implosion, en quelques mois à l’automne 1989, du
régime policier de la RDA, le plus efficace que l’Europe ait connu, en est
l’illustration, et elle a précédé de quelques mois l’effondrement de l’URSS,
autre construction policière d’une certaine envergure. Napoléon, en connaisseur
héritier d’une révolution, putschiste fondateur de l’État policier moderne,
avait résumé le dilemme de tout État maintenu par la force dans cette formule
que l’on nous enseignait jadis en cours d’histoire : « On peut tout
faire avec des baïonnettes, sauf s’asseoir dessus. »
Est-ce que la
capacité de stockage sans limite des métadonnées et l’intelligence artificielle
nécessaires à la surveillance totale rendent obsolètes ces constatations
historiques, je ne le crois pas. Un pouvoir tend à devenir absolu, quand il se
sait illégitime, fragile et menacé, mais il ne peut pas plus régner durablement
s’il n’inspire aucune raison de lui obéir. On sait que, dans ce modèle du
totalitarisme numérique qu’est devenu la Chine, le mandat du ciel repose
exclusivement sur le taux de croissance de l’économie, et que ce facteur est
lui-même totalement déterminé historiquement.
La volonté
manifestée diversement en Europe de parvenir au même résultat par des voies
plus consensuelles va se heurter, la sidération du pseudo-danger mortel passée,
à des oppositions diverses, certes minoritaires, mais déterminées. Cela doit
donc être partiellement imposé dans l’urgence et par la force, en négligeant
par là même tout ménagement des populations. Je ne crois pas, en France en tout
cas, que cela soit de nature à renforcer l’adhésion au pouvoir. Bien au
contraire tout porte à croire que la scission entre une partie de la société et
l’État va s’accroître et d’abord par les résistances multiformes qui commencent
ici et là à se manifester. Devant la menace d’une cristallisation de
l’opposition au projet de traçage sanitaire numérique StopCovid, le
gouvernement français doit louvoyer et retarder ses projets.
Le pouvoir, comme
on sait, est constitué d’un faisceau d’institutions publiques ou secrètes, de
diverses bureaucraties et de grands intérêts officiels ou occultes, qui
convergent ou divergent selon les moments. L’État concentre une partie variable
de tout cela sans qu’il n’ait lui-même un centre véritable, mais comme toute
institution, il a pour but principal celui de se perpétuer. Et dans les
circonstances actuelles il ne peut assurer sa stabilité qu’en répondant au
besoin accru de protection d’une société erratique, puisqu’il ne peut assurer
de manière crédible aucune autre fonction sociale que
celle-ci. Il n’a pas plus créé le terrorisme islamique qu’il n’a « inventé »
la pandémie actuelle, comme l’a affirmé Agamben ; il s’en sert bien
entendu, mais il n’a pas le choix, c’est aussi son destin, il est aussi emporté
par le torrent qu’il alimente. Personne sur cette planète ne peut actuellement
accéder aux médias, ces antichambres du pouvoir, sans surenchérir dans les
demandes de contrôle social aggravé, de confinement plus strict ou de
répression plus sévère des dissidents sanitaires. Et comme le
dit plus justement le même Agamben, « comme face au terrorisme on affirmait
qu’il fallait supprimer la liberté pour la défendre, de même on nous dit qu’il
faut suspendre la vie pour la protéger ».
Les États n’ont
donc pas eu le choix devant une épidémie démentant toutes leurs prétentions à
assurer la stabilité, la santé et la sécurité de leurs populations que de jouer
aux dés, pour la plupart dans la panique, le sort de l’économie mondiale.
Comptables de tout, ils deviennent aussi responsables de tout. La fragilité
d’un État augmente à mesure de sa puissance sans partage dès lors qu’elle est
démentie par les faits, et ce n’est pas la surveillance numérique de masse qui
y changera quelque chose. Certes, on craint qu’elle rende plus facile la
disparition des dissidents en Chine ou à Alger, mais ces États n’ont pas
attendu la reconnaissance faciale pour ce faire et celle-ci ne servira à rien
en cas de dissidence de masse, comme Hongkong l’a montré l’an passé.
Je reconnais que
cette vision est assez marquée par la situation en France, où le pouvoir
étatique, peut-être plus qu’ailleurs, perd de jour en jour le peu de légitimité
qui lui reste après ces années de conflits divers. Sa faillite totale dans la
gestion de cette crise et sa fuite en avant sécuritaire va aggraver
l’aspect positif de cette crise qui ne fait que
commencer : la défiance générale devant les mensonges inouïs du
gouvernement et son incompétence criminelle, la constatation de l’impuissance
de l’État en situation d’urgence et l’évidence que la réactivité, l’initiative,
le bon sens, la solidarité sont venus de la société en dépit de
toutes les obstructions administratives des bureaucraties étatiques. Une autre
évidence fondamentale, habituellement inaccessible dans le brouillard de la
superstition économique, a été aussi soumise pendant deux mois à l’observation
des centaines de millions de confinés administratifs : la
satisfaction de leurs besoins essentiels a reposé sur l’activité d’une minorité
d’entre eux. Le NHS britannique, qui n’est certes pas un nid de subversion
critique, chiffrait à cinq millions le nombre de personnes nécessaires au
maintien des fonctions vitales du pays. Mais à quoi servait donc alors
l’activité frénétique de la majorité en temps normal ? À quelle utilité
sinon celle foncièrement parasitaire, pléthorique et nocive, de la forme
marchande d’un système de production, puisque par miracle on a pu quasiment
s’en passer pendant deux mois. Le capitalisme ne serait-il pas un envoûtement
et l’État la fiction d’une nécessité ?
Naturellement,
comme le remarquait Byung-Chul Han, un virus ne fera pas la révolution et il ne
sera pas « ce qui mettrait à l’arrêt la machine dont on ne trouvait pas le
frein d’urgence », mais il a dressé massivement à la face du monde
quelques évidences corrosives. L’absurdité de la mondialisation, les
destructions de la société industrielle, le cynisme du capitalisme, les
mensonges, l’incompétence et la nocivité des États se sont heurtés au mur du
réel.
Si toutes les
révoltes que l’on a vues de par le monde depuis deux ans, pour des raisons
diverses — corruption, appauvrissement et autoritarisme — ont toutes échoué, ce
n’est pas seulement à cause de la répression, car elles n’ont pas été détruites
non plus, mais parce que la question fondamentale de toute insurrection —
quelle société voulons nous ? — est restée et reste encore partout sans
réponse positive devant l’immensité et la complexité de la tâche, aucune entité
locale ne pouvant s’abstraire de la totalité d’un monde unifié.
Cette pandémie,
avec ses conséquences sécuritaires et économiques, la numérisation accélérée
des activités humaines, l’appauvrissement programmé des classes moyennes et
l’aggravation d’un chômage de masse est la première crise systémique absolument
mondiale, elle a rendu commune cette image du château de cartes menaçant de
s’écrouler à chaque instant. La fuite en avant qu’elle impose à l’ensemble des
pouvoirs économiques et politiques, loin de stabiliser quoi que ce soit, va
favoriser les conditions d’apparition de nouvelles crises tout aussi inédites,
ce que plus personne ne se hasarde à exclure. Le problème posé par la stratégie
du choc c’est qu’elle exige des chocs destructifs de plus en plus violents
jusqu’à la résolution de ce dilemme, Apocalypse ou révolution, dont nous avions
reparlé avant tout ça.
Passé la période de
sidération et le « corona blues » de la quarantaine administrative,
les questions du jour d’après, comment sortir de l’absurdité
présente et ce que devrait être une vie bonne, ne sont définitivement plus
réservées à une minorité, mais sont passées non moins définitivement sur la
place publique. C’est essentiellement ce qui a changé depuis ces trois ans où
nous avions commencé nos bavardages sérieux. Pour le dire en termes classiques,
la déroute de l’idéologie dominante a bien commencé, la dérive sécuritaire en
est la preuve. La bourrasque du réel, comme toujours, a balayé les hypothèses
futiles d’insurrections immédiatement victorieuses, les certitudes convenues de
stabilité définitive de la domination ou les fixations romantiques sur des
particularismes honorables, pour laisser place à l’âpreté excitante d’un futur
plus vaste : qu’allons-nous faire de cette planète. Ce retour de
l’universel concret va nous faire regretter de ne pas avoir l’âge de nos
enfants pour voir la suite, mais au moins nous aurons la satisfaction d’avoir vu
la fin du commencement sinon le commencement de la fin.
JP, le 2 mai, an 1
du confinement.
Photographie : Alexandre
Grothendieck