domenica 18 aprile 2021

Digressione sulla secessione

 



Per scoraggiamento, nella maggior parte dei casi, ci si può dire che sarebbe finalmente più utile sottrarsi al gioco sociale anziché cercare vanamente di sovvertirne l’ordine, ma nessuna secessione è possibile al di fuori di quella che per calcolo o ragione, l’ordine sociale tollera. Il che non vuol dire che la secessione individuale sarebbe, per principio, inutile o non avrebbe altro interesse se non soddisfare una scelta personale, come, per esempio, fuggire la città piovra. Collegata ad altre forme di secessione, offensive, collettive, acquista senso, ma solo a questa condizione. Senza altra prospettiva che l’evasione verso un altro mondo vivibile ma limitato, essa non rileva che dell’esperienza personale.


Se il soggetto ha il suo interesse, è perché il tema della secessione come forma desiderante di “deterritorializzazione”, per dirla alla Deleuze, è oggi presentata sempre più come una sorta di panacea o di nec plus ultra del “pensiero contro”. Contro le forme di vita riconosciute come definitivamente alienate, per essere più precisi. Pensiero che, preso così da chi s’identifica con esso da indirizzo a indirizzo alle giovani generazioni, irriga – con la prospettiva di Agamben della destituzione o quella dell’esodo cara a Paolo Virno – una forma di discorso del metodo che agisce soggettivamente e che dovrebbe costruire del “comune” altrove che nello spazio del capitale. Non si cercherà qui di dimostrare, talmente l’evidenza ci sembra accecante, che il capitale è dappertutto, ma di dedicarci a una genealogia di questa tentazione che ha a che vedere, come dice Rancière, con lo scarto “orfano di un mondo simbolico e vissuto cui appoggiarsi” (En quel temps vivons-nous?).

In verità e perché le cose siano chiare, l’esperienza secessionista è già stata tentata e più spesso di quel che si crede, senza che l’ordine del capitale sia cambiato di una virgola. Precisiamo: si tratta dell’esperienza della fuga, del ripiego, individualmente o collettivamente fondato sull’idea del campo da ricostruire, della base da rifare, del territorio finalmente purificato da ogni catastrofe di civiltà. Degli anarchici dell’inizio del XX° secolo vi hanno creduto con ostinazione. Fino a rompersi la schiena, i denti e vedere le “affinità” che li collegavano disfarsi. Le “comunità” del dopo 68 hanno ricominciato nell’euforia più in voga a quel tempo di cambiare la “loro” vita non potendo trasformare il mondo. Senza un miglior successo oppure marginalmente componendo con le leggi di mercato, fino a partecipare talvolta alla sua rimodelizzazione “etica”.

Non ignoro che una lunga memoria può portare a intese eccessive, soprattutto quando il fallimento è il loro punto comune. E niente collega davvero l’aspirazione secessionista attuale alle esperienze evocate in precedenza. Né lo stato del mondo, né le condizioni reali di esistenza, né la corda sensibile che le collegava. Una tale aspirazione procede da altri desideri, più terra-terra. Si tratta, con la ritirata, di sfuggire al movimento infinito del capitale, maelström che sconvolge in permanenza quel che faceva la temporalità delle nostre vite – queste vite che il rapporto con gli altri e la percezione cognitiva di un mondo destinato a smantellarsi infinitamente disfa metodicamente fin nell’intimo. Quel che presiede, in molti casi e a un certo livello di coscienza, a questo processo di ritirata attiva, è spesso una maniera di credere che non si potrà sfuggire al sistema – uscire dal capitalismo – se non attraverso lo scarto, uno scarto capace di fare pluralità e basato sull’idea che la fuga non sarebbe soltanto la nostra ultima libertà, ma la nostra ultima capacità di agire. Più che all’esteriore dell’anarchia e ai “comunitari” degli anni settanta questo revival della ritirata rinvia piuttosto all’approccio di Landauer. Una ritirata vissuta come aspirazione a ricominciare qualcosa creando in seno all’ordine spaziotemporale esistente, un altro modo spaziale e temporale di abitare un mondo sensibile e comune, un piccolo mondo suscettibile di gettare le basi di un mondo più largo, di un mondo per tutti. È l’idea di tracciare il proprio solco, di fare esperienza, di rifondare del vivibile, del vivente, dell’invidiabile e del trasmissibile.

Detto questo, si tratta di un dato duplice assolutamente specifico a quest’epoca. Da una parte, sono gli effetti della postmodernità in materia di decostruzione sistematica degli antichi concetti che fondavano, non più soltanto la speranza nell’idea di emancipazione, ma il desiderio di farla sbocciare. Dall’altra, il trionfo di quel che bisogna pur chiamare un pensiero post heideggeriano della catastrofe definitiva, talmente influente sugli affetti dei combattenti per la libertà e l’uguaglianza che la fine del capitalismo non sarebbe più di attualità – quella del mondo essendo quasi certa. In chiaro, la difesa di Gaia prevarrebbe su tutto il resto e ci si dovrà ormai dedicare corpo e anima a preservare il pianeta per controbilanciare gli effetti distruttori di non si sa chi o che cosa. Perché se il catastrofismo stile collapsologia fa parte del pensiero postmoderno, è precisamente nel fatto che identifica soltanto degli effetti. E che, infine, come dice ancora Rancière, non è che una figura del “nichilismo contemporaneo” che non pensa “la salvezza […] che sullo sfondo della “grossa nube nera” (En quel temps vivons-nous ?). L’ecologia, che ne è alla base, ma una base “mutilata” per parlare come Renaud Garcia, è in qualche sorta venuta a prendere il posto del marxismo. Mentre questo diceva: non cambierete nulla se non cambiate i rapporti di produzione, l’ecologia perpetua reinventandola la superstizione della Grande Causalità: non cambierete nulla se non salvate il Pianeta. Poco importa se nel frattempo la questione dell’uguaglianza è evacuata: il supposto mutuo aiuto tra “resilienti” del terrestre vi porrà rimedio in una forma di comunismo platonico al quale preferiremo sempre quello che il giovane Marx, nei Manoscritti del 1844, definiva l’umanizzazione dei sensi umani.

Fare secessione vuol dunque dire prendere le distanze. Questo movimento può dunque iscriversi in un’iniziativa individuale di sopravvivenza tendente ad attenuare la propria miseria o a calmare le carenze: andare a vedere altrove e tentarvi la fortuna. Quale fortuna? Quella non trascurabile di trovarvi di che sopravvivere o, ancora meglio per chi l’intraprende, di vivere in accordo con quello che raccorda al mondo non necessariamente per cambiarlo, ma per dare un altro senso alla propria vita. È, allora evidentemente questione di un’altra forma di secessione, quella che evoca una certa arte del contrappunto o del controtempo per iscrivere il proprio progetto in una ritirata che corrisponderebbe a un ritorno alle origini più naturali della vita stessa. Altrettanti passi di lato ontologici, di aspirazioni alla simbiosi, di desideri di ridare forma a un mondo disfatto e reso artificiale che se si coniugassero potrebbero rendere conto di una coscienza esigente e scrupolosa colta nel granaio dottrinale dell’emancipazione.

L’iniziativa secessionista si apparenta a un modo di disertare il centro nervoso del sistema per combatterlo in margine, sui suoi bordi, costruendo zone, luoghi che potrebbero, anche provvisoriamente, indebolirne il potere. L’esempio di Notre-Dame-des-Landes resta, per il caso, emblematico dell’ultimo decennio. Gli zadisti hanno raggiunto il loro obiettivo – il ritiro del progetto mortifero dell’aeroporto – ed esemplarmente aperto una chiara prospettiva emancipatrice. Il resto procede di un accomodamento negoziato. Come nel caso di uno sciopero vittorioso dove il solo punto che potrebbe far accedere alla reale emancipazione – l’abolizione del salariato – è sempre lasciato da parte. Non per dimenticanza ma per pragmatismo. Il nemico può retrocedere ma continua a distribuire le carte. Vuol dire che il gioco non vale la candela? Assolutamente no, perché ogni breccia aperta nel muro dell’innominabile porcheria del mondo è una vittoria.

Quel che conviene pensare ormai, non è l’opportunità delle secessioni, che sono in parte le nuove forme di resistenza di questi tempi decostruiti, ma le loro articolazioni come sostituti delle antiche strategie di confronto tra possidenti e spossessati rese tutte caduche dallo smantellamento metodico del tessuto produttivo. Se la vita mostra ampiamente che è spesso necessario recidere certi legami per continuare ad avanzare, il momento in cui ci troviamo obbligati a disfarci metodicamente, ma senza indebolirsi, di certe appartenenze paralizzanti, di vecchi riflessi apparentemente identificanti ma inefficienti per apprendere il reale e convincersi dell’enormità del compito che ci incombe per farla finita con questo mondo prima che la faccia finita con noi. Ci vorrà molta audacia, inventività, vagabondaggio e passi perduti per aprire nuovi passaggi nel muro del disprezzo di cui si è circondata la fortezza tecno capitalista.

Più che mai, è giunto il momento della fuga che è un’altra forma di secessione. Sfuggire al peso delle parole, alla forza delle cose, alle menzogne sconcertanti, alla mollezza propagandistica, ai pensieri deboli, alla falsa parola, all’estetizzazione della rabbia. In fondo, quando entra in un processo di emancipazione collettiva, il desiderio di secessione è desiderio di rompere con forme oggettivamente inefficaci – perché viziate – di resistenza, di ripensare lo scontro, di renderlo appassionante, d’inventare nuove connivenze emancipate dai pensieri fissi, d’immaginare, a ogni livello, nuove linee di forza suscettibili di allargare il più possibile, e senza a priori puristi, i perimetri infiniti delle collere sociali. Accogliendole tutte per quel che dicono: il rifiuto delle sozzure della povertà e l’aspirazione a una vita dignitosa.

Esistono caratteristiche comuni alle diverse secessioni collettive di questi ultimi tempi: una stessa pratica dello scarto, un identico rifiuto della separazione tra i mezzi e i fini, un agire insieme nella tessitura delle fraternità riconquistate, il dominio di un tempo di lotta che si sa poter essere lungo, ma anche profittevole, nella sua durata, per fare rifugio, radice, storia, solidarietà. Un po’ come se il vicolo cieco del mondo e l’oblio liquidatore prodotto in massa dai rappresentanti autorizzati e dagli impiegati del sistema avessero avuto l’effetto contrario a quello scontato: aprire una tale breccia nel consenso dominante che ogni secessione che spunta e prende corpo, conferma la certezza che qualunque cosa faccia il Capitale non riuscirà a colonizzare i nostri neuroni.

Lo scarto è il momento in cui il risveglio porta lontano. Verso la secessione generale. Su questo piano, e perché viene da un altrove che nessuno ha visto arrivare, i Gilets jaunes hanno chiaramente dinamitato la pseudo civiltà unificata del nuovo mondo macroniano. La loro secessione ha avuto un duplice effetto: zittire gli spiriti ben fatti della militanza della Teoria e dell’Università e riappropriarsi di tutto quel che mancava loro per rimettere la storia sui binari. D’un colpo solo e senza perdere tempo nel commentare cose insignificanti, si sono occupati dei ronds-points per farne delle piccole ZAD (zone da difendere), si sono costituiti in popolo egualitario che nessun “populismo di sinistra” potrà mai fondare, hanno ritrovato il gusto dell’antagonismo rissoso, della pertinenza tattica, del rifiuto della delega. Per puro istinto, senza tante parole, marciando.

Fare secessione è precisamente questo: riprendere in mano la propria vita e tracciare il proprio cammino. Il pensiero ad angolo retto pena sempre a captare altro che la figura geometrica della sua impotenza. È solo nel marinare i doveri, nel furtivo, nel selvaggio, nell’imprevisto nell’astuzia e nel coraggio che si avrà qualche probabilità di mettere finalmente in difficoltà l’ordine logistico di un mondo e, come diceva Walter Benjamin, di “liberare l’avvenire da quel che oggi lo sfigura”. La lenta diffusione del rigetto rimane tanto misteriosa quanto il momento in cui il rifiuto raggiunge l’intensità necessaria e sufficiente per passare all’azione e scuotere lo stato delle cose. Si chiamava rivoluzione ed era sempre preceduta da secessioni puntuali. Il passato ce lo insegna. Ci fa sempre segno. 

 

Freddy GOMEZ, A contretemps, 22marzo 2021

 

Traduzione dal francese di Sergio Ghirardi Sauvageon




Digression sur la sécession

On peut, par découragement le plus souvent, se dire qu’il serait finalement plus utile de se soustraire au jeu social que de chercher vainement à subvertir son ordre, mais nulle sécession n’est possible hors celle que l’ordre social, par calcul ou par raison, tolère. Ce qui ne saurait signifier que la sécession individuelle serait, par principe, inutile ou n’aurait d’autre intérêt que de satisfaire un penchant personnel, comme de fuir la ville-pieuvre par exemple. Conjuguée à d’autres formes, offensives, collectives, de sécessions, elle peut prendre sens, mais à cette seule condition. Sans autre perspective que l’évasion vers un autre monde vivable, mais limité, elle ne relève que de l’expérience personnelle.

Si le sujet à son intérêt, c’est que la thématique de la sécession comme forme désirante de « déterritorialisation », pour parler comme Deleuze, est aujourd’hui présentée, et de plus en plus, comme une sorte de panacée ou de nec plus ultra de la « pensée contre ». Contre les formes de vie admises comme définitivement aliénées, pour être plus précis. Et que, prise ainsi par celles et ceux qui s’y reconnaissent d’adresse en adresse aux jeunes générations, elle irrigue, avec l’agambéenne perspective de la « destitution » ou celle de l’« exode » chère à Paolo Virno, une manière de discours de la méthode subjectivement agissant et censé construire du commun ailleurs que dans l’espace du capital. On ne tentera pas de démontrer ici, tant l’évidence nous semble aveuglante, que le capital est partout, mais de nous livrer à une généalogie de cette tentation qui a à voir, comme le dit Rancière, avec l’écart « orphelin d’un monde symbolique et vécu auquel s’adosser » (En quel temps vivons-nous ?)

À vrai dire, et pour que les choses soient claires, l’expérience sécessionniste a déjà été tentée, et plus souvent qu’on ne le pense, sans que l’ordre du capital n’en eût été changé d’un iota. Précisons : il s’agit de l’expérience de la fuite, du repli, individuellement ou collectivement fondé sur l’idée du camp à reconstruire, de la base à refaire, du territoire enfin purifié de toute catastrophe civilisationnelle. Des anarchistes du début du XXe siècle y ont cru avec obstination. Jusqu’à s’y rompre le dos, les dents et y voir se défaire les « affinités » qui les liaient. Les « communautés » de l’après-68 ont remis ça dans l’ivresse, plus en vogue avec leur temps, de changer « leur » vie à défaut de transformer le monde. Sans plus de succès, ou alors marginalement et en composant avec les lois du marché, jusqu’à participer parfois à sa remodélisation « éthique ».

Je n’ignore pas qu’une longue mémoire peut occasionner des rapprochements excessifs, surtout quand leur point commun est l’échec. Et pas davantage que rien ne corrèle vraiment l’aspiration sécessionniste d’aujourd’hui aux expériences évoquées précédemment. Ni l’état du monde, ni les conditions réelles d’existence, ni la corde sensible qui les reliait. Elle procède d’autres désirs, plus terre à terre. Il s’agit là, par le retrait, d’échapper au mouvement infini du capital, ce maelström qui bouleverse en permanence ce qui faisait la temporalité de nos vies – ces vies qu’il défait méthodiquement jusque dans l’intime, le rapport aux autres et la perception cognitive d’un monde voué à se défaire infiniment. Ce qui préside, dans bien des cas et à un certain niveau de conscience, à cette démarche de retrait actif, c’est souvent une manière de croire qu’on ne pourrait échapper au système – sortir du capitalisme – que par l’écart, un écart capable de faire pluralité et fondé sur l’idée que la fuite serait non seulement notre dernière liberté, mais notre dernière capacité d’agir. Plus qu’aux en-dehors de l’anarchie et aux « communautaires » des seventies, c’est plus sûrement à l’approche landauérienne que renvoie ce revival du retrait vécu comme aspiration à recommencer quelque chose en créant au sein de l’ordre spatio-temporel existant, une autre façon, spatiale et temporelle, d’habiter un monde sensible en commun, un petit monde susceptible de jeter les bases d’un monde plus large, d’un monde pour tous. C’est l’idée de tracer son sillon, de faire expérience, de refonder du vivable, du vivant, de l’enviable et du transmissible.

Il est, cela dit, une double donnée tout à fait spécifique à cette époque. C’est, d’une part, les effets de la postmodernité en matière de déconstruction systématique des anciens concepts qui fondaient, non pas seulement l’espoir dans l’idée d’émancipation, mais le désir de la faire éclore. Et, de l’autre, le triomphe de ce qu’il faut bien appeler une pensée post-heideggérienne de la catastrophe définitive influant de telle manière sur les affects des combattants pour la liberté et l’égalité que, la fin du monde étant presque sûre, celle du capitalisme ne serait plus tellement d’actualité. En clair, la défense de Gaïa l’emporterait objectivement sur tout le reste, et c’est à préserver la planète qu’il faudrait désormais se vouer corps et âme pour contrebalancer les effets destructeurs d’on ne sait qui ni quoi. Car si l’effondrisme version collapsologique participe de la pensée postmoderne, c’est précisément en cela qu’il n’identifie que des effets. Et qu’il n’est, in fine, comme le dit encore Rancière, qu’une figure du « nihilisme contemporain » qui ne pense « le salut […] que sur le fond du “gros nuage noir” » (En quel temps vivons-nous ?). L’écologie, qui est sa base, mais une base « mutilée » pour parler comme Renaud Garcia, est en quelque sorte venue prendre le relais du marxisme. Quand celui-ci disait : vous ne changerez rien à rien si vous ne changez pas les rapports de production, celle-là perpétue, en la réinventant, la superstition de la Grande Causalité : vous ne changerez rien à rien si vous ne sauvez pas la Planète. Qu’au passage, la question de l’égalité file à la trappe, la chose est sans importance : la supposée entraide des « résilients » du terrestre y palliera dans une forme de communisme platonicien auquel nous préférerons toujours celui que le jeune Marx, dans les Manuscrits de 1844, définissait comme l’humanisation des sens humains.

Faire sécession, c’est donc faire écart. Ce mouvement peut s’inscrire dans une démarche individuelle de survie visant à tamiser sa misère ou à calmer ses manques : aller voir ailleurs et y tenter sa chance. Quelle chance ? Celle, non négligeable d’y trouver de quoi survivre ou mieux encore, pour celui qui l’entreprend, de vivre en accord avec ce qui le raccorde au monde, pas forcément pour le changer, mais pour donner un autre sens à sa propre vie. C’est évidemment d’une autre forme de sécession dont il est ici question, celle qui convoque un certain art du contrepoint – ou du contretemps – pour inscrire sa démarche dans un retrait qui serait aussi retour aux sources les plus naturelles de la vie même. Autant de pas de côté ontologiques, d’aspirations à la symbiose, de désirs de redonner forme à un monde défait et artificialisé qui, s’ils se conjuguaient, pourraient attester d’une conscience exigeante et scrupuleuse puisée au grenier doctrinal de l’émancipation.

La démarche sécessionniste s’apparente à une manière de déserter le centre nerveux du système pour le combattre depuis la marge, sur ses bords, en construisant des zones, des lieux qui pourraient, même provisoirement, affaiblir son pouvoir. L’exemple de Notre-Dame-des-Landes reste, pour le cas, emblématique de la dernière décennie. Les zadistes ont atteint leur objectif – le retrait du projet mortifère d’aéroport – et exemplairement ouvert une claire perspective émancipatrice. Le reste procède d’un accommodement négocié. Comme dans le cadre d’une grève victorieuse où le seul point qui permettrait d’accéder à la réelle émancipation – l’abolition du salariat – est toujours laissé de côté. Pas par oubli, mais par pragmatisme. L’ennemi peut reculer, mais il continue de distribuer les cartes. Est-ce à dire que le jeu n’en vaut pas la chandelle ? En aucune façon, car toute brèche ouverte dans le mur de l’innommable saloperie du monde est une victoire.

Ce qu’il convient de penser désormais, ce n’est pas l’opportunité des sécessions, qui sont pour partie les nouvelles formes de résistance de ces temps déconstruits, mais leur articulation comme substituts aux anciennes stratégies d’affrontement entre possédants et dépossédés, rendues toutes caduques par le démantèlement méthodique du tissu productif. Si la vie démontre à foison qu’il est souvent nécessaire de trancher certains liens pour continuer d’avancer, le moment dans lequel nous nous trouvons nous oblige à nous défaire méthodiquement, mais sans faiblir, de certaines appartenances paralysantes, d’anciens réflexes apparemment identifiants, mais sans efficience pour appréhender le réel et se convaincre de l’énormité de la tâche qui nous incombe pour en finir avec ce monde avant qu’il n’en finisse avec nous. Il faudra beaucoup d’audace, d’inventivité, de déambulations et de pas perdus pour ouvrir de nouveaux passages dans le mur de mépris dont s’est entourée la forteresse techno-capitaliste.

Plus que jamais, le temps est venu de l’échappée, qui est une autre forme de la sécession. S’échapper du poids des mots, de la force des choses, des mensonges déconcertants, de la veulerie propagandiste, des pensées faibles, de la fausse parole, de l’esthétisation des colères. Au fond, quand il entre dans une démarche d’émancipation collective, le désir de sécession est désir de se désaffilier des formes objectivement inopérantes – car viciées – de résistance, de repenser l’affrontement, de le rendre passionnant, d’inventer de nouvelles connivences émancipées des pensées fixes, d’imaginer à toutes échelles de nouvelles lignes de force susceptibles d’élargir autant que faire se peut, et sans a priori puristes, le périmètre infini des colères sociales. En les accueillant toutes pour ce qu’elles disent : le refus des souillures de la pauvreté et l’aspiration à une vie décente.

Il existe des caractéristiques communes aux diverses sécessions collectives de ces derniers temps : une même pratique de l’écart, un identique refus de la séparation des moyens et des fins, un agir ensemble dans le tissage des fraternités reconquises, la maîtrise d’un temps de lutte qu’on sait pouvoir être long, mais aussi profitable, dans sa durée, à faire terreau, racine, histoire, solidarité. Un peu comme si l’impasse du monde et l’oubli liquidateur que produisent en masse les fondés de pouvoir et les commis du système, avaient eu l’effet contraire à celui escompté : ouvrir une telle brèche dans le consensus dominant que chaque sécession qui pointe et prend, atteste de la certitude que, quoi qu’il entreprenne, le Capital ne parviendra pas à coloniser nos neurones.

L’écart, c’est ce moment où l’éveil porte loin. Vers la sécession générale. Sur ce plan, et parce que venant d’un ailleurs que personne n’avait vu venir, les Gilets jaunes ont clairement dynamité la pseudo-civilisation unifiée du nouveau monde macronien. Leur sécession eut un double effet : réduire au silence les esprits bien faits de la militance, de la Théorie et de l’Université et se réapproprier tout ce qui leur manquait pour remettre l’histoire sur ses rails. D’un coup, d’un seul et sans perdre de temps à commenter des insignifiances, ils ont occupé des ronds-points pour en faire des petites ZAD, ils se sont constitués en peuple égalitaire qu’aucun « populisme de gauche » ne fondera jamais, ils ont retrouvé le goût de l’antagonisme castagneur, de la pertinence tactique, du refus de la délégation. Par instinct pur, sans grands mots, en marchant.

Faire sécession, c’est précisément cela : reprendre la main sur sa propre vie et tracer son chemin. La pensée à angles droits peine toujours à capter autre chose que la figure géométrique de son impuissance. Ce n’est que dans le buissonnier, le furtif, le sauvage, l’imprévu, la ruse et le courage que l’on aura quelque chance de mettre enfin en difficulté l’ordre logistique d’un monde et, comme le disait Walter Benjamin, de « libérer l’avenir de ce qui aujourd’hui le défigure ». La diffusion lente des refus demeure aussi mystérieuse que le moment où ils atteignent l’intensité nécessaire et suffisante pour qu’ils passent dans les faits et bousculent l’état des choses. On appelait ça une révolution. Elle fut toujours précédée de sécessions ponctuelles. Le passé nous l’apprend. Il nous fait toujours signe.

Freddy GOMEZ, A contretemps, 22mars 2021