giovedì 20 maggio 2021

Venere e Crono - Note sul concetto di bellezza nella storia (di Marco Minoletti)

 


La bellezza non è una qualità delle cose stesse: esiste solo nella mente che la contempla; e ogni mente percepisce una bellezza diversa. (David Hume)

 

In un'epoca come la nostra, in cui ogni merce deve essere piazzata sul mercato e rapidamente consumata per poi rinascere più bella e desiderabile (la cosiddetta „catarsi della merce“), il concetto di bellezza ed i superlativi connessi all'aggettivo "bello" sono sottoposti ad una tale usura che si stenta a capire quali possano essere, se esistono, i canoni di riferimento epocali che ci consentono di cogliere l'essenza transitoria del bello.

Per tentare di sbrogliare questa intricata matassa ci sforzeremo di illustrare per sommi capi il percorso di tale concetto nelle epoche che ci hanno preceduto. La bellezza, pur essendo un fatto quasi esclusivamente soggettivo legato al gusto, implica una serie ineludibile di elementi culturali e psicologici che finiscono per condizionare consciamente e inconsciamente il nostro giudizio "personale". Un tempo si pensava che attraverso dei canoni precisi (oggettivi), legati ad un determinato periodo storico, fosse possibile pervenire ad una definizione compatta del concetto di "bello". Oggigiorno quest'impresa ci pare assai ardua, se non impossibile.

Per quanto concerne la tradizione occidentale la bellezza e dunque l'arte, secondo alcuni, è l'antidoto che i greci produssero per contrastare la tragicità della vita. Paradigmatico è il mito greco che narra la nascita della dea della bellezza e dell'amore, Afrodite. Gea, la madre terra, - prima realtà materiale della creazione apparsa improvvisamente dal Caos informe e al di là del tempo e dello spazio - governava il creato assieme al suo sposo Urano. Urano, ossessionato dall'idea che i suoi mostruosi figli potessero privarlo un giorno del dominio dell'universo vide bene di farli sprofondare al centro della terra. Adirata per la sorte destinata ai figli Gea estrasse del ferro dalle proprie viscere, forgiò una falce, radunò i figli e chiese loro di ribellarsi al padre. Solo il più giovane, il titano Crono, ebbe il coraggio di farsi armare la mano dalla madre. Si nascose nelle viscere della Terra e attese l'arrivo del padre che ogni notte discendeva dal cielo per unirsi a Gea nell'oscurità. Crono sorprese il padre e dopo averlo immobilizzato lo evirò. I genitali di Urano caddero nel mare e dalla miscela di alcune gocce di sperma e di spuma delle onde creatasi dalla loro caduta si generò Afrodite, la dea della bellezza, dell'amore, della sensualità, della lussuria. La nascita della bellezza, stando al mito greco, è dunque indissolubilmente legata e connaturata alla tragicità della vita, al dolore, al negativo, al male, cioè ai suoi opposti. Infatti, quando pensiamo alla bellezza ci vengono in mente il bene, l'armonia, il positivo. Il mito, invece, s'incarica di portare alla luce la natura intrinseca dell'idea di bellezza disvelandone la cifra occultata: la compresenza degli opposti (bellezza/bruttezza, gioia/dolore, piacere/sofferenza, bene/male, armonia/disarmonia, simmetria/asimmetria).

Platone, a sua volta gran inventore di miti, pare non tenere in dovuto conto la lezione dei suoi predecessori e si orienta verso la bellezza intelligibile che, com'è risaputo, è priva di forma, colore, sapore. Il filosofo ateniese, negando la dimensione sensoriale, finisce per sacrificare la bellezza sensibile sull'altare del mondo "iperuranico" delle idee, delle astrazioni. Arte e poesia travandosi nella posizione di essere rinviate oltre se stesse, al mondo delle idee, e in ultima analisi all'Uno, finiscono con l'essere conseguentemente e logicamente bandite dalla tirannica Repubblica ideale del filosofo. Quale spazio possono infatti avere in sifatta costellazione colori che imitano l'idea di colore in sé, forme che non rappresentano altro che imitazioni dell'idea di forma, artisti che scatenano tra i giovani passioni invece di governarle e via di questo passo? Nessuno, ovviamente! Secondo la ben nota concezione platonica la realtà (il mondo naturale) non è altro che una copia, un'imitazione (mimèsis) del mondo perfetto delle idee. E l'opera d'arte essendo a sua volta imitazione della natura, si riduce ad essere una sbiadita copia della copia e quindi non è in grado di esprimere la verità se non in grado infimo. Il filosofo, infatti, individua nell'Uno (Plotino lo chiamerà poi Dio) il creatore del mondo delle idee che rappresentano l'essenza della realtà immateriale (immutabile, eterna, universalmente valida) e dunque il Vero. L'artigiano, dal canto suo, forgiando un oggetto materiale, copia dal mondo delle idee. Seguendo questo ragionamento un tavolo, per esempio, non è altro che una copia materiale dell'idea assoluta di tavolo, dell'essenza dell'idea "tavolo". In questa scala discendente, l'artista mimetico viene a trovarsi su un gradino ancora inferiore poiché non solo non è in grado di cogliere il primo riflesso dell'idea "tavolo" (colto invece dall'artigiano che lo fabbrica), ma dipingendo un tavolo finisce per coglierne solo il riflesso del riflesso, la copia della copia, appunto. Ben lontana dal vero è dunque l'arte mimetica, e perciò, a quanto pare, riesce a fabbricare ogni cosa, perché coglie solo una piccola parte di ogni singolo oggetto, e per giunta una mera parvenza. Così diciamo, il pittore ci dipingerà un calzolaio, un falegname e gli altri artigiani, senza intendersi affatto dell'arte di nessun di costoro. (1) La bellezza nella dottrina platonica gioca un ruolo centrale soprattutto per quanto attiene l'idea suprema del bene. Scopo fondamentale dell'esistenza dell'uomo è quello di elevarsi per mezzo dell'anima al mondo perfetto, immutabile ed eterno delle idee. Nel mondo delle idee il posto centrale è occupato dall'idea di bene che si rivela all'uomo tramite la bellezza. Il medium che ci consente di elevarci alla bellezza è l'amore che, non a caso, per il filosofo ateniese è desiderio di bellezza e di bene.

Con Aristotele il concetto di bellezza assume altri contorni. La critica radicale della teoria platonica delle idee da parte del pensatore di Stagira, secondo il quale non vi può essere una separazione netta tra il mondo intelliggibile e quello sensibile, finisce per investire anche l'idea di bellezza. Nella realtà concreta l'idea di bellezza non esiste di per sé. - Come può pensare Platone che essa esista in forma sostanziale? - Qualcuno di noi ha forse mai visto l'idea riflessa di bellezza a passeggio? Per Aristotele l'opera d'arte non è il simulacro di un idea data, bensì creazione da parte di un individuo. Attualizzando il pensiero di Aristotele potremmo dire che nell'opera artistica individuale si fondono forma e materia non tanto come risultanti di un'idea immutabile quanto, invece, di una forma ideale scaturita dalla mente dell'artista che plasma la materia secondo la sua idea. Ma cosa facevano i disprezzati "artisti" mentre i nostri filosofi pensavano? Scolpivano corpi statuari, armonici e proporzionati, incantevoli divinità femminili, costruivano templi ed edifici che sono al contempo belli e rispettosi delle regole introdotte dalla geometria e dalla matematica, dipingevano vasi di terraccotta decorati con ornamenti di rara profondità e complessità espressiva, componevano dei suoni armonici, producevano versi.

In sostanza, pur rifiutando una visione lineare sia della storia che dei concetti che caratterizzano le varie civiltà, la realtà delle cose, e ciò vale per ogni epoca, è sempre più complessa, stratificata, ramificata, discontinua e contraddittoria di quel che possiamo immaginare o ri-costruire tramite le scuole di pensiero che si accavallano e susseguono, possiamo sinteticamente dire che per i greci - vuoi per gli influssi della religione, vuoi per quelli della vita politica - l'ideale della misura pare essere predominante in tutte le manifestazioni della vita e dell'arte. I greci, attraverso le espressioni in cui si manifesta il loro bisogno di misura (la bellezza, il bene, il vero), creano le fondamenta su cui poggerà l'edificio della cultura occidentale. Ma al contempo, come ha fatto notare Nietzsche, accanto alla bellezza "apollinea" che si fonda sull'armonia, intesa come ordine e misura, e che trae probabilmente la sua forza dal tentativo di arginare il Caos da cui è scaturito il mondo, è presente un'altra forma di bellezza, la bellezza "dionisiaca". Essa rappresenta il lato oscuro, folle, pericoloso, instabile, eccessivo, enigmatico, terribile, lacerante della bellezza."Apollineo"e "Dionisiaco" giorno e notte, bene e male, lucentezza e tenebra, dialettica dei contrari, armonia e disarmonia che nel loro titanico scontro si rafforzano a vicenda dominando la natura ellenica. Già in Grecia, dunque, le cose non paiono seguire un'ordine così lineare, armonico e solare, anche se di fatto non sarà dalla tradizione "dionisiaca", ma dall'ibrido Platone che prenderanno le mosse le due concezioni principali della bellezza elaborate nei secoli successivi: la bellezza come armonia e proporzione delle parti e la bellezza ideale, splendente, distinta dall'oggetto sensibile che la esprime. Per Platone, ricordiamolo, il corpo è la prigione dell'anima e quindi, come si intuisce leggendo la Repubblica, o si studia la filosofia e si perviene ad una visione intellettuale della bellezza e si governano gli uomini e le città, oppure non resta che arruolarsi nell'esercito dei guerrieri o fare gli schiavi. Il problema qui è il mondo sensibile! A lasciarci i genitali non sono solo gli dei della mitologia greca per mano dei propri figli, ma anche i Padri della Chiesa che, come nel caso di Origene, decidono di risolvere di propria mano i problemi legati a tale sfera (2). Meno si ha a che fare con i sensi (mondo sensibile), più si ottiene nell'aldilà il mondo delle idee e le sue torsioni: l'Uno, Dio. Nel Medioevo, soprattutto attraverso la Scolastica, influenzata dall'ombra lunga di Platone, il modello sviluppato a partire dai greci raggiunge il suo periodo aureo. Ora non sono più solo i filosofi, tramite l'intelletto, ad essere in grado di pervenire all'essenza della bellezza, della verità, del bene ma, per mezzo della fede, tutti possono accedere al mondo dell'aldilà, al mondo delle idee. Mutatis mutandis, anche nel Medioevo le sensazioni estetiche che si provano in presenza della bellezza sensibile non si risolvono sul piano dell'universo sensibile in sé, ma vengono veicolate in direzione della bellezza intelligibile, la Bellezza assoluta. Ogni forma di bellezza viene così spogliata, deturpata, scannata, spolpata e condannata a recitare il ruolo di controfigura sensibile e spettrale della reale e unica essenza di tutte le cose (e dunque anche di tutte le forme di bellezza): l'Idea, l'Uno, Dio. L'arte medioevale, pur con tutti i suoi grappoli di teorie affascinanti, contraddittorie, innovative e originali resta nel suo complesso un'arte pedagogica votata alla sacralità. Un'arte che al di là dei suoi grandiosi sviluppi intrinseci s'incarica sostanzialmente di mettere in scena, narrandola, la Storia Sacra con il suo corteo di santi, madonne, martiri, bestiari, grifoni, torturatori di Cristo, Cristi torturati, esseri mitologici, creazioni fantastiche. Un'arte che, pur con tutte le sue tensioni, resta fondamentalmente asservita alla volontà del suo principale committente terreno, la chiesa. Gradualmente, e grazie al concorso di numerosi artisti tra i quali spiccano Cimabue e il suo probabile discepolo Giotto, il mondo sensibile comincia ad intrufolarsi nel marmoreo edificio artistico creando delle crepe in cui si insinua il sentire dell'artista. Le figure idealizzate, ammantate di bellezza o bruttezza extrasensoriale, irreale, mitologica cedono a poco a poco il passo a personaggi dai volti e dagli atteggiamenti realistici. Personaggi dotati di sentimenti, emozioni, umanità. L'arte comincia ad intraprendere quel cammino che la porterà a celebrare non soltanto il divino, ma anche l'umano. Il Rinascimento, con tutti gli eccessi e le contraddizioni che accompagnano i periodi rivoluzionari, s'incaricherà di portare a compimento questo rovesciamento di prospettiva, mettendo al centro dell'universo non più Dio ma l'Uomo. L'uomo si libera dall'abbraccio fatale con la divina Provvidenza dando inizio ad un processo di autodeterminazione che lo porterà a divenire il vero soggetto del mondo, della storia, della sua storia. Si apre così un periodo teso non solo alla conquista geografica e scientifica del pianeta ma anche del sé, dei propri limiti e potenzialità come soggetto umano inserito in una scansione temporale terrena non più fondata sulle certezze della fede e sulla speranza nel godimento finale e a-temporale in quella che Agostino ha chiamato la Città di Dio. L'uomo inizia a forgiare se stesso commettendo anche eccessi ed errori imperdonabili. Tra dubbi, errori, fallimenti, ripensamenti, il cammino della coscienza moderna procede anche nel campo artistico. L'arte rinascimentale, una volta abbandonati gli influssi bizantini che avevano caratterizzato il periodo precedente, tende a ricercare un equilibrio tra la sfera soggettiva e quella oggettiva, tra l'interno e l'esterno, tra l'uomo e il mondo circostante. Si assiste ad un originalissimo ritorno all'arte classica interpretata da artisti la cui sensibilità è influenzata sia dalla scienza, che dalla cultura cristiana. All'oppressiva architettura gotica del XII e XIII secolo, che aveva la funzione propedeutica di mettere i devoti che entravano nelle cattedrali nella condizione di sentirsi dei nulla ontologicici di fronte all'immensità del divino, fanno da controcanto la riscoperta di elementi architettonici dell'arte classica più tesa alla ricerca dell'armonia, dell'equilibrio, delle proporzioni che non all'edificazione dell'onnipotenza di Dio. La natura comincia ad essere studiata scientificamente in modo da poter essere rappresentata e imitata in sé e per sé e non più trasfigurata. La concezione della bellezza come imitazione della natura, condannata da Platone, viene riabilitata dal movimento dell'Umanesimo neoplatonico che, nelle sue espressioni simboliche, si focalizza proprio sull'immagine della Venere (Afrodite per i greci). La dea dell'amore e della lussuria è uno dei soggetti più frequentemente raffigurati dagli artisti dell'epoca. Essa viene fissata sulle tele nella duplice veste di Venere Celeste e Venere Terrena. Amor sacro e amor profano (titolo di una celebre opera del Tiziano), alto e basso, spirito e carne, elevazione e sprofondamento, vertigine e abisso sono i poli entro i quali oscillano due distinte manifestazioni di un unico ideale di Bellezza. Ed è proprio con la Venere di Botticelli che, come faceva notare Aby Warburg, la rappresentazione della bellezza fa un passo in avanti in direzione del realismo. I capelli mossi dal vento delle ancelle, le loro vesti, tutto si mette un'altra volta in movimento. Un movimento conoscitivo, dato dallo studio della statuaria greca e romana che allora veniva ri-studiata un'altra volta. Un'uscita definitiva da quella ieraticità delle pose, tutta cristiana e bizantina, che aveva caratterizzato l'arte medievale, e che continuerà invece ad essere il tratto tipico dell'arte orientale ed ortodossa (lo scisma è di questo periodo!). Botticelli è forse il pittore che, meglio di ogni altro, riesce a interpretare e fissare sulla tela, rendendola visibile, la concezione della bellezza intesa come ideale sublime di armonia e proporzione delle parti sviluppata dalla corrente neoplotiniana promossa da Marsilio Ficino. Secondo Ficino l'amore, diffuso nell'universo dalla bontà del Creatore (il quale come aveva già osservato Plotino stesso è pura energia traboccante senza un fine), è anche il mezzo per ricongiungersi a Lui (in Platone la stessa funzione è svolta da Eros che funge da tramite tra il mondo sensibile e quello intelliggibile) e la bellezza rappresenta lo strumento principe di cui Amore dispone per promuovere la volontà di Dio. L'influsso del neoplatonismo sulle arti liberali è senza alcun dubbio un elemento determinante che concorre alla definizione della bellezza nel XV secolo, ma non è certamente l'unico. Altri elementi convergenti sono la scoperta della prospettiva in Italia, il diffondersi della pittura ad olio nelle Fiandre, il favore che gli artisti incontrarono presso le corti dei principi italiani e le più ricche e potenti famiglie della penisola. L'ingresso sulla scena artistica di questi nuovi committenti non solo pone un limite al monopolio della chiesa sull'arte, ma parallelamente favorisce la diffusione della ritrattistica. L'arte diviene un mezzo di promozione della classe borghese e, per contro, la realtà della società politica, culturale e mondana diviene oggetto di indagine per l'artista. Mentre, come abbiamo visto, sono armonia e razionalismo a dominare il mondo artistico rinascimentale, nel barocco sono l'efflorescenza e l'esagerazione, la pompa e il fasto d'influsso spagnolo a dominare tutti i campi. Basti pensare al teatro di Lope de Vega, alla poesia superficiale e manierista di Salvator Rosa e Giovanni Battista Marino, alle sacre rappresentazioni, all'ipertrofica ornamentazione delle facciate delle chiese. Una correzione arriverà soltanto con il „secolo dei lumi“, con l'arte neoclassica, paragonata da Goethe alla superficie dell'acqua che rimane calma e quasi immobile anche quando al di sotto c'è un tumulto di correnti nascoste. L'Occidente, spinto ancora una volta all'imitazione dei greci - soprattutto dalla nascita dell'archeologia come scienza e dagli scavi di Pompei nel 1738 - recupera la proporzione e l'armonia, gli spazi aperti di quieta grandezza dell'arte classica e ne fa la misura della nuova sensibilità, conquistata sulle ceneri degli eccessi barocchi e rococò. Nasce solo ora la vera progettazione urbanistica. Città come San Pietroburgo vengono pianificate da sovrani illuminati sulla base di concetti artistici neoclassici, con l'introduzione dello spazio e dell'apertura, del respiro a misura d'uomo e con l'abbandono dell'angustia delle stradine medioevali. Da ora a tutto il novecento, e magari con poco rispetto verso la storia, le città e le strade d'Europa si rifaranno il maquillage sulla base di concetti di bellezza improntati alla solarità, allo spazio, al viaggio conoscitivo.

 

 

Il declino della bellezza intelligibile

 

La Rivoluzione francese (1789) diede avvio ad un cambiamento epocale non solo dal punto di vista politico e sociale, ma anche estetico. Sotto la lama della ghigliottina finiscono non solo le teste impomatate e le surreali parrucche dei sovrani, dei nobili, dei figli della Rivoluzione e del Terrore, ma anche gli eccessi assunti dal concetto di bellezza nei secoli XVII e XVIII. Alla maniacale e ossessiva ricerca di una bellezza improntata al lusso sfrenato, alla mondanità, alla superficialità dei volti imbellettati, al vuoto assoluto che si cela dietro la teatralità dei gesti, si sostituisce una nuova forma di "bello" più semplice, più sobrio. I pittori cominciano a ritrarre la bellezza genuina di fanciulle e popolane dagli abiti meno suntuosi e dai visi struccati. A poco a poco si afferma un nuovo ideale di bellezza, la bellezza romantica con tutti i suoi tormenti e le sue pene. Un anno dopo l'avvio della Rivoluzione, nell'appartata cittadina di Königsberg, il filosofo tedesco Immanuel Kant completa la stesura dell'ultima parte di un'opera destinata a rivoluzionare il concetto di bellezza, La critica del Giudizio. Strano ometto quel Kant. Nel 1762 nel tentativo di dimostrare l'esistenza di Dio sulla base della ragione (L'unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio) aveva finito per fornire al secolo gli strumenti per dimostrarne l'inesistenza; poi, a poco più di vent'anni di distanza, darà corso ad una nuova rivoluzione copernicana trascinando una volta per tutte la bellezza dal cielo alla terra. Nella parte della Critica del Giudizio dedicata alla "critica del giudizio estetico" Kant si propone di fornire una "critica del gusto" prendendo in esame la nostra capacità di giudizio estetico. Il ragionamento è più o meno questo: se mi metto ad osservare un quadro in un museo si stabilisce una relazione tra una rappresentazione particolare (il contenuto del quadro) e una sorta di piacere o dispiacere che provo nell'osservarlo. Il piacere o dispiacere provato è un sentimento indipendente da altre finalità (rubare il quadro per rivenderlo, poterlo imitare alla perfezione, sfregiarlo, contemplarlo intensamente per darsi arie da intenditore) e si fonda esclusivamente sulla relazione che si stabilisce tra la mia immaginazione e il mio intelletto mentre lo osservo. Ora, il giudizio di gusto concerne oggetti dei sensi ma non per determinarne un concetto per l'intelletto; perché esso non è un giudizio di conoscenza. E quindi, in quanto rappresentazione intuitiva individuale relativa al sentimento di piacere, è un giudizio privato, e perciò la sua validità sarebbe ristretta all'individuo giudicante; l'oggetto è per me oggetto di piacere, e per gli altri individui può non avere questa qualità; - ognuno ha il proprio gusto. (3) Secondo Kant i giudizi di gusto, pur non contribuendo in nessun modo alla conoscenza delle cose, sono comunicabili e fondati su una sorta di "senso comune" estetico. In altre parole; i giudizi di gusto sono dotati non tanto di una universalità oggettiva ma di una universalità "soggettiva" sui generis. La frittata è fatta! Kant, tra una passeggiata e l'altra per le vie di Königsberg, recide il cordone ombelicale che da Platone in poi teneva unito il mondo sensibile a quello sovrasensibile, liberando la bellezza che, sino ad allora, era stata costretta a presentarsi sotto mentite spoglie; quelle del Divino, dell'Assoluto. La bellezza si individualizza, non è più legata alla riproducibilità di un'idea all'infinito; non è più il ponte tra un mondo e l'altro. Ciò vale tanto per il bello dell'arte che per quello della natura. Il bello, artistico o naturale che sia, non è più riconducibile ad un concetto, un oggetto o una sua rappresentazione, ma piace perché piace, e il piacere dipende dal gusto dell'osservatore. Ora, sono i sensi ad impadronirsi del mondo dell'arte e della natura, con buona pace delle idee assolute e delle essenze sovrasensibili. Come ha fatto notare Tzvetan Todorov, con la Rivoluzione francese giunge a piena maturazione il processo di emancipazione dalla tutela religiosa e l'arte impara a celebrare l'uomo e non più solo Dio. (4) Non a caso, osserva Todorov, nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino scritta il 26 agosto del 1789 dai membri dell'Assemblea costituente non si fanno riferimenti a Dio, né alla chiesa. La Nazione diventa l'incarnazione dell'assoluto terreno. Il sacro è così trasferito da Dio all'uomo. (5) Tutto ciò avrà delle ricadute immense non solo sul piano politico, religioso e sociale ma anche sugli sviluppi dell'arte e del "bello". Friedrich Schiller, pur ammirando il tentativo dei rivoluzionari di creare uno stato fondato sulla ragione piuttosto che sulla fede non condivide né il clima di barbarie instauratosi in Francia a partire dal 1792, né la sacralizzazione dello stato. L'assoluto, secondo lui, deve rimanere retaggio dell'esperienza umana e non incarnarsi nello stato e nelle istituzioni. Nel 1795, il Poeta pubblica le Lettere sull'educazione estetica dell'uomo in cui espone le sue idee sull'educazione morale dell'uomo attraverso la bellezza. L'arte educherà l'umanità semplicemente fornendole l'esempio di una attività libera che trova la propria finalità in se stessa, senza essere sottomessa a un principio esterno. Nello stesso tempo, l'arte è incontro di sensibile e intelligibile, materiale e spirituale; e così diventa una "rappresentazione dell'assoluto". Come Dio, la bellezza designa l'assoluto; a contatto con le belle arti l'uomo potrà perfezionarsi. (6) Per un artista un programma di questo genere è come un invito a nozze. Il gruppetto di giovani amici febbricitanti che gravitava intorno a Schiller lo farà proprio, impegnandosi a realizzarlo. L'arte diventa religione, e il bello il suo Dio. Il pennello, i colori, la tela, lo scrittoio, la penna, lo scalpello, il marmo e la pietra si trasformano in strumenti rituali con cui celebrare l'eucarestia del Bello. L'artista, finora non distinto dall'artigiano, diventa l'intermediario tra la Natura e l'Uomo comune, colui che grazie alla sua sensibilità sviluppata (spesso fino ai limiti della nevrosi e della pazzia) crea, spingendosi sempre più in là alla ricerca del Bello e del Vero. Nella musica questo passaggio si vede già con lo status sociale di un Beethoven rispetto ai suoi maestri Mozart e Haydn, ancora legati alla commissione e al lavoro ininterrotto, con o senza ispirazione. Beethoven è invece intelletto romantico, un Napoleone dell'arte, che può permettersi di trattare a pesci in faccia un qualsiasi altro individuo, nobile o meno. Nasce il „maestro“ nel senso di individuo che „apre“ le percezioni della massa grazie al suo sforzo solitario. E da parte della massa comincia l'idolatria. L'arte non solo si libera della religione, ma nasce la religione dell'arte. Inizia il gioco della totalità risolto nell'immanenza dell'infinito nel mondo sensibile, nella natura. L'infinito a cui tendere non è più il mondo dell'iperuranio ma il mondo sublunare, gli abissi, il mondo del sottosuolo. La natura non viene più descritta, bensì direttamente sperimentata. I romantici si dispongono misticamente all'ascolto della natura. Ma l'essenza della natura non si lascia cogliere e sfugge tra le nuvole che avvolgono inquietanti ghiacciai alpini, si dilegua tra le nebbie nella vastità degli oceani, si mimetizza come una cernia nei fondali degli abissi marini. I romantici, nel loro sforzo di penetrare i segreti della natura, liberano dal vaso di Pandora la bellezza dionisiaca che i greci avevano tentato di sottrarre allo sguardo diretto, disperdendo per le contrade dell'Occidente la bellezza del caos, dell'informe, del tenebroso, del demoniaco, del mortuario. La Germania di quegli anni è tutto un proliferare di spiriti inquieti e tormentati, anime melanconiche e lacerate, amanti sofferenti e sull'orlo del precipizio. Mai furono registrati tanti suicidi in Europa che nell'anno in cui uscì I dolori del giovane Werther di Goethe (si ipotizzano almeno duemila suicidi tra i lettori del romanzo, pubblicato nel 1774). Nel campo della pittura è forse Caspar David Friedrich che meglio di ogni altro riesce a fissare lo spirito della bellezza romantica. Nei suoi quadri la natura viene rappresentata in tutta la sua sconfinatezza e potenza. Le forze della natura simboleggiate dai mari inquieti, da scogliere vertiginose, da paesaggi melanconici trasmettono la sensazione dell'infinitezza della natura. L'uomo, dipinto quasi sempre di spalle, si inserisce nella cornice con tutta la sua finitezza di fiero osservatore incantato e quasi stupito dalla rappresentazione dall'immensità delle forze dell'assoluto in movimento.


Il XIX secolo, la storia contemporanea e gli sviluppi del concetto di bellezza saranno segnati non solo dalla rivoluzione francese, ma anche da quella industriale che, a partire dalla metà dell'800, dispiegherà tutta la sua potenza allargando il sistema di produzione industriale dal settore tessile a quello delle macchine utensili, del ferro e dell'acciaio. Il progressivo affermarsi del sistema capitalistico farà emergere nuove forze sociali e nuovi movimenti di idee antagoniste che, in nome della nuova classe generatasi dalla rivoluzione industriale, il proletariato, tenteranno di liquidare l'inumano sistema messo in campo dalla classe borghese e dall'industrializzazione. Le trasformazioni industriali producono degli sconvolgimenti urbanistici senza precedenti nella storia. Masse di contadini abbandonano le campagne e si riversano nelle metropoli dando vita tra sporcizia, condizioni igieniche impensabili e miseria a vere e proprie baraccopoli a ridosso delle fabbriche e delle città. Le metropoli entrano nel caos e gli artisti pure. In reazione alle masse anonime, agli sconvolgimenti innescati dal mondo industriale l'artista disgustato si ritira in se stesso assolutizzando la bellezza al punto da trasformare la sua stessa vita in opera d'arte o di dedicarsi esclusivamente alla ricerca del "bello". Questo tipo di atteggiamento, che si prolungherà fino ai primi decenni del XX secolo, si ritroverà in tutte le espressioni artistiche poi catalogate con i nomi di arte per l'arte, estetismo, decadentismo, dandyismo. L'arte si chiude a riccio in se stessa. Della natura, tanto osannata dai romantici, non resta più traccia se non quella del fiore che finirà per dare origine ad una tendenza, il liberty. La bellezza, di cui i romantici avevano messo in luce anche il lato negativo, finisce col nascondersi e, non a caso, il compito che si assumono i poeti simbolisti è quello di decifrarla e di riportarla alla luce con tutti i mezzi possibili: l'uso di sostanze stupefacenti, la frequentazione dei bordelli e dei bassifondi parigini. L'eccesso diventa la regola che permette all'artista di portare alla luce i simboli celati. Con l'introduzione della fotografia nel mondo dell'arte (1839) - si pensi alle opere del grande fotografo Nadar, il Tiziano della fotografia - e il progressivo dominio della tecnica l'opera d'arte perde la sua "aura", la sua unicità. La bellezza diventa seriale, accessibile a tutti e l'artista reagisce ritraendosi nel mondo della conoscenza, dei sentimenti, delle emozioni delle linee, dei punti. Dopo Picasso non ha più senso parlare di bellezza. L'arte diventa sperimentale, astratta. Nell'arte contemporanea la materia da mezzo si trasforma in fine. Nella pittura informale, per esempio, macchie e sgocciolii vengono a trovarsi al centro del discorso estetico, l'informe assume lo statuto della forma. La bellezza finisce per rivelarsi attraverso le sensazioni che proviamo nell'osservare una colata di colore o un artista che si taglia pezzetti di carne durante una performance.

Dunque, che cosa ci resta del concetto di bellezza? L'estetica da Baumgartner a Kant è formale, e in quanto tale prefigura l'arte moderna astratta, che privilegia le forme e il senso di armonia o piacere che esse possono dare. D'altro canto l'estetica di Hegel è materiale e rimanda al legame tra l'arte moderna e i suoi contenuti, superando il concetto di bello in quanto tale. Hegel prefigura così l'estetica del brutto (e chi non penserà alla scapigliatura italiana, al gusto dell'orrido, ai romanzi dell'orrore, e alla fascinazione per il deforme, il cimiteriale che dall'epoca romantica ci siamo portati dietro fino alla televisione e ai fumetti?)

La bellezza allora è un concetto o un'esperienza? Vedere il David di Donatello ci dà un'impressione di bellezza quasi oggettiva, impressione dovuta dalle proporzioni armoniche, dalla simmetria, dalla comprensibilità per comparazione. Eppure, davanti ad un quadro che non comprendiamo, o davanti ad una donna o ad un uomo imperfetti, secondo i canoni, quante volte li troviamo belli in un senso del tutto soggettivo, non condiviso dalla maggioranza delle persone? Allora la bellezza è un'esperienza, il cui fascino sta nel mistero. Il mistero resta tale nel tempo, un concetto quando è compreso invecchia. I cosiddetti canoni della bellezza sono solo tentativi della ragione, destinati a modificarsi nel tempo e nei luoghi in base alle differenti culture. Le donnone dei quadri di Rubens oggi fanno rabbrividire lo spettatore medio, ma presto forse anche le nostre modelle anoressiche provocheranno lo stesso effetto. La belllezza ci offre quindi un duplice appiglio: oggettivo in quanto conoscitivo e matematico ma anche esperienziale, fatto di soggettività, di preferenza, di libero arbitrio. Questa dualità è uno dei doni che la Natura ci ha offerto: la libertà di dissentire davanti alla Gioconda e dire: „secondo me non sta ridendo“, di commuoversi davanti ad una statua lignea dei Dogon, di derivare esperienze sublimi da Mondrian o da Ingres. La bellezza è scelta e canone allo stesso momento. Il Tempo ci ha insegnato che la Bellezza assoluta non esiste. Crono è il padre di Venere.

 

NOTE: (1) Platone, La Repubblica, Libro X, Sansoni, Firenze, 1970, p. 352. (2) Come ha fatto notare Michel Onfray, La cura dei piaceri, Ponte alle Grazie, Milano 2009, Origene, forse il più grande teologo del III secolo dopo Cristo, inciampa prima nella lettura di questo versetto di Matteo: "vi sono eunuchi che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli" (Mt XIX, 12), poi in quello di Marco: "Se la tua mano ti scandalizza, tagliala" (Mc IX, 43). (N.d.R.). (3) Kant, Critica del Giudizio, Parte prima, Sezione II, 57, Editori Laterza, Bari 1987, pp. 201, 202. (4) Tzvetan Todorov, La bellezza salverà il Mondo, Garzanti, Milano 2010, p. 214. (5) Ibid., p. 215. (6) Ibid., p. 219.

 

 

 

mercoledì 19 maggio 2021

Assange e i limiti volgari della democrazia totalitaria

 



La storia di Assange è un esempio che non ha bisogno di ulteriori commenti. Quel che gli è capitato è una prova dell’instaurazione ormai manifesta del totalitarismo democratico. Questo concetto che dovrebbe essere un ossimoro circola sempre più, in effetti, come una realtà confermata. È un’evidenza storica in sé, una repressione odiosa che la storia del dominio riproduce sempre identica pur se ogni volta in modo diverso.

Ogni epoca è fatta anche di storie che sembrano piccole ma che in realtà l’accompagnano e la identificano. L’epoca in corso volge ormai alla fine, sorpassata dagli avvenimenti che la spediscono nella spazzatura della storia. Tuttavia, oltre la spazzatura, che cosa resta dei nostri amori?

Scaturito da una volontà collettiva diretta dall’alto e messa in mostra dalla fine della seconda guerra mondiale, lo Stato[1] democratico successivo al ventennio fascista che ha ottenebrato il mondo, ha denunciato ogni affronto all’ideologia liberale come una tara contro i valori dominanti, dissimulando sotto un’apparenza ingannevole di giustizia egualitaria la continuità del dominio produttivista sulla comunità umana oppressa e sottomessa.

La società dello spettacolo diffuso ha dominato il mondo durante il cosiddetto periodo del “boom” coprendosi il volto economicista con la maschera dei diritti dell’uomo, della libertà d’espressione e dei diritti del cittadino, tutti, però, sistematicamente irrisi, quasi quanto i diritti delle donne. Era solo una facciata che oggi scricchiola da ogni lato, ma che ha resistito per un buon mezzo secolo, nonostante i segni ricorrenti della sua fiorente ambiguità e la persistenza di un rifiuto di classe e di genere di fronte al dominio – resistenza che in forme diverse è sopravvissuta alla sconfitta storica del proletariato operaio e non è ancora stata definitivamente sepolta nei cimiteri ideologici dell’antifascismo politicamente corretto.

Opposta in una guerra cosiddetta fredda allo spettacolo concentrato dei sedicenti paesi comunisti, la rappresentazione di una società libera – in realtà liberale, che è tutt’altra cosa – è stata sponsorizzata e messa in circolazione sul mercato ideologico da élites che hanno rifondato su questa uguaglianza formale la loro supremazia reale. La truffa di un parlamentarismo che garantiva gli sfruttatori da ogni rivolta radicale degli sfruttati, ha funzionato per un periodo a pieno regime, approfittando del crollo dei fascismi politici che hanno caratterizzato la prima metà del ventesimo secolo.

La sconfitta militare dei fascismi nazionali[2] è stata la base di un’espansione planetaria del capitalismo liberale che ha segnato lo sviluppo della sua invasione internazionale con i fuochi d’artificio criminali d’Hiroshima e Nagasaki[3].

Come sempre, lo Stato dei vincitori (ancora imbevuto di retorica nazionalista ma già in via di globalizzazione mercantile) ha riaffermato il suo diritto assoluto alla violenza “legittima”, bombardando il mondo altrettanto con la pubblicità della merce che con le foto di una barbarie nazista talmente insopportabile che ha fatto ingoiare quella dei vincitori come una liberazione. Liberazione consumistica di un mondo finalmente affrancato dalla disumanità di un fascismo arcaico che ha prodotto il suo peggior effetto: una morale antifascista che dissimulava la vittoria del fascismo strutturale e caratteriale di ogni Stato-nazione, stupratore maschilista di ogni nazione acratica il cui stesso ricordo è stato cancellato dalla storia da tempo immemorabile.

In realtà, in modi diversi, questo gioco perverso non ha mai preso fine da quando il suprematismo patriarcale ha distrutto le società acratiche a centralità femminile dell’inizio di una storia umana violentata e vinta molti millenni fa. Da allora, una continuità sempre rinnovata del dominio produttivista si nasconde dietro la rottura spettacolare con i totalitarismi più arcaici, perfettamente incarnati, nei nostri tempi moderni, dai fascismi politici di un führer o di un duce. È dunque la sconfitta di questi fascismi, deliranti e caricaturali nella loro mostruosità criminale, che ha permesso al fascismo caratteriale della società liberale di dominare il mondo con un feticismo ormai senza limiti della merce.

Questi capitalisti, americani o no, sbarcati direttamente da Omaha Beach fino ai supermercati europei costruiti alla svelta dal 1945, tra le quinte del piano Marshall, erano gli stessi che trafficavano con Hitler fino al 1944, gli stessi immigrati cristiani senza permesso di soggiorno che, appena sbarcati nel nuovo continente dalla loro Europa natale, hanno sterminato, nell’arco di due secoli, il 90% dei nativi americani per instaurare il loro Far West con Dio stampato sul dollaro, una Colt sempre a portata di mano e qualche coperta al vaiolo per sterminare scientificamente e tranquillamente gli improduttivi e selvatici nativi e altri eventuali ostacoli allo sfruttamento dell’essere umano; tutto questo molto prima che i nazisti applicassero la loro soluzione (per fortuna assai poco finale, ma, purtroppo, tragicamente capace di milioni di vittime) in quei campi di concentramento che il loro cinismo ottuso di conquistadores deliranti ha riesumato copiando modelli anglosassoni preesistenti.

Il fascismo non ha una “razza” né un DNA[4] particolare. È sempre e dovunque, qualunque ne sia l’ideologia, l’unione di bande di frustrati, repressi, incolleriti e assassini di un qualunque patriottismo da castrati, indispensabile per la coesione artificiale di una società patriarcale fondata sull’odio suprematista. Fanatismo mistico che inquina tutti gli altri, il fascismo si nutre in ogni luogo della peste emozionale che il produttivismo diffonde come una pandemia. Lo schiavismo d’origine non ha mai abbandonato il produttivismo, si è semplicemente trasformato in salariato dopo aver assaporato la servitù feudale, mentre i cattivi della storia hanno sempre trovato dei censori per punirli, facendo anch’essi altrettanto male se non peggio in nome del bene.

Delle belve di ogni tipo si sono dedicate al gioco perverso di opprimere una comunità umana solidale incompiuta e sistematicamente violentata dai servitori di qualunque Stato, senza preoccuparsi della sofferenza che diffondevano nel mondo. Perché il business – come il denaro che lo porta – non ha più odore che memoria, più stati d’animo che umanità.

Tuttavia, è soprattutto la memoria dei dominati che ha mostrato dei vuoti senza fondo, sapientemente sfruttati dai dominanti. La speranza di un mondo nuovo è stata un motore formidabile per la continuità del vecchio mondo. Il desiderio che si volatilizza in speranza senza soddisfarsi, senza cioè passare dalla distruzione alla costruzione, è soltanto una frustrazione che si traveste da godimento incompiuto per fare di quel che non riesce a cambiare una restaurazione travestita da superamento. Così ci si dice contenti senza esserlo, oppure rivoluzionari senza innescare il superamento, tradendo la dialettica e facendo girare a vuoto la storia.

Tuttavia, un’intelligenza sensibile che nessun imbroglio può definitivamente soffocare negli esseri umani, finisce sempre per emergere qui o là per denunciare la grottesca nudità dei re, mostrandola a tutti, anche a quelli che coprono sempre il sacro monarca con mutande inesistenti. Quanti Assange ancora sacrificati prima che la storia diventi umana?

Se il maggio 68 è stato un segnale rivoluzionario incompiuto di un altro mondo possibile, la sua sconfitta e l’imperialismo capitalista crescente che ne è seguito hanno preparato le condizioni di un totalitarismo democratico ormai in pieno sviluppo. C’è voluta, nel frattempo, la demolizione del fascismo rosso pseudo sovietico per rieditare, sottoforma di un neoliberalismo planetario altrettanto stupido che omicida, la retorica autoritaria che aveva già recuperato e devitalizzato l’antifascismo di un tempo.

Storicamente, quando l’antifascismo appare da potenziale vincitore in assenza di un’autogestione generalizzata della vita quotidiana riuscita, ciò significa sempre che il dominio fascista reale si esercita altrove. L’autenticità storica della lotta antifascista è in montagna quando il fascismo imperversa. La sua ideologia, invece, non può gestire la comunità senza rinnegarsi perché la comunità umana è acratica per natura e solo un’autogestione generalizzata della vita quotidiana può farla vivere senza devitalizzarla nello spettacolo.

L’umanesimo autoritario e contraddittorio dei rivoluzionari che arrivano al potere, significa sempre il ritorno del Leviatano produttivista e la riuscita del suo fenomenale recupero. È stato questo il ruolo della sinistra dall’invenzione del parlamentarismo che l’ha generata: fare peggio della destra deludendo le speranze dei dominati poiché l’emancipazione promessa dall’alto non arriva mai fino in basso. La sinistra è riuscita dunque nell’exploit masochista di spingere i più sfruttati, ma anche i più ignoranti, i più impauriti e i più cattivi (il che fa un numero considerevole e inquietante) a mostrarsi nostalgici dell’autorità dello Stato, diffidando – sotto l’effetto di una paranoia ossidionale – di ogni segnale d’allarme lanciato, di ogni rivolta che inviti a cambiare rotta quando la tempesta imperversa.

Questo meccanismo è la chiave di lettura di ogni rapporto di potere e l’essenza stessa della strategia visibile di ogni dominio. Machiavelli docet: convincere i dominati che un altro dominio è possibile, molto peggiore e terribilmente pericoloso, in modo che i dominati ringrazino i loro signori e boia per la loro “generosa” protezione. Cosi si fabbrica un dittatore, poco importa il suo genere, ma quasi sempre maschio o quel che ne resta. La rivoluzione digitale se ne occupa.

L’acrazia vuole come condizione la pace e non funziona in tempo di guerra. È così che il fascismo ritorna e la sua guerra incivile s’impone come un déjà-vu sconfortante. Questo è il meccanismo che inquina ogni rivoluzione e per evitare che ciò accada bisogna superare (non solo negare, ma superare con i mezzi e con i fini) l’approccio autoritario della radicalità necessaria per la costituzione di un mondo umano: un nuovo mondo solidale e votato all’amore per la vita organica.

L’amore al tempo della pandemia è entrato dappertutto in questo genere di turbolenza. Stiamo attenti! Il meglio è ancora possibile, ma il peggio è in marcia e potrebbe riprendere il passo dell’oca.

Sergio Ghirardi Sauvageon, 16 maggio 2021



[1] Lo Stato è lo strumento politico del produttivismo mercantile portatore dappertutto della barbara retorica di un nazionalismo predatore passato dalle Città-Stato d’origine allo Stato-nazione e ormai, grazie alla rivoluzione digitale, alla costituzione di uno Stato planetario, mega macchina per l’artificializzazione definitiva di ogni vita organica.

[2] Fascismo tedesco, italiano e giapponese, mentre il Consiglio nazionale della resistenza della Repubblica francese (CNR) ha permesso alla Francia di sedersi al tavolo dei vincitori facendo dimenticare Vichy.

[3] Questo inizio visibile dell’obsolescenza dell’umano è poi proseguita fino a Chernobyl e Fukushima, sintomi planetari maggiori della “pacifica” guerra senza quartiere che l’homo economicus ha dichiarato alla natura e alla vita organica.

[4] Sempre più spesso si fa riferimento al DNA come fosse l’essenza intima della realtà umana di un individuo. Usato a sproposito, un tale riferimento pseudoscientifico mi fa pensare a una formula meccanicista per aggirare l’imbarazzante concetto di “razza” tanto caro alla peste fascista.



Assange et les limites grossières de la démocratie totalitaire

L’histoire d’Assange est un exemple qui n’a pas besoin d’autres commentaires. Ce qui lui est arrivé est une preuve de l’instauration désormais affichée du totalitarisme démocratique. Ce concept qui devrait être un oxymore, circule, en fait, de plus en plus, comme une réalité confirmée. C’est une évidence historique en soi, une répression haineuse que l’histoire de la domination reproduit toujours à l’identique, bien qu’à chaque fois d’une manière différente.

Chaque époque est faite aussi d’histoires qui semblent petites et qui, en fait, l’accompagnent et l’identifient. L’époque en cours touche désormais à sa fin, dépassée par les événements qui l’envoient aux poubelles de l’histoire. Cependant, au-delà des poubelles, que reste-t-il de nos amours ?

Jailli d’une volonté collective dirigée par le haut et affichée depuis la fin de la deuxième guerre mondiale, l’Etat[1] démocratique suivi au « ventennio » fasciste qui a assombri le monde, a dénoncé toute entorse à l’idéologie libérale comme un manque aux valeurs dominants, cachant sous une couverture de justice égalitaire trompeusement affichée la continuité de la domination productiviste sur la communauté humaine opprimée et soumise.

La societé du spectacle diffus a dominé le monde pendant la période des soi-disant « trente glorieuses » couvrant son visage économiste avec le masque des droits de l’homme, de la liberté d’expression et des droits du citoyen, tous pourtant systématiquement bafoués, presque autant que les droits des femmes. C’était juste une façade qu’aujourd’hui grince de tous les côtés, mais elle a tenu bon pendant un demi-siècle, malgré les signes systématiques de son ambigüité fleurissante et la persistance d’une refus de classe et de genre de la domination – résistance qui, en formes différentes, a survécu à la défaite historique du prolétariat ouvrier et n’a pas encore été définitivement enterré dans les cimetières idéologiques de l’antifascisme politiquement correct.

Opposée dans une guerre dite froide au spectacle concentré des soi-disant pays communistes, la représentation d’une société libre – en réalité libérale, ce qui est toute autre chose – a été sponsorisée et mise sur le marché idéologique par des élites qui ont refondé sur cette égalité formelle leur suprématie réelle. L’arnaque d’un parlementarisme qui garantissait les exploiteurs contre toute révolte radicale des exploités, a fonctionné pour un temps à plein régime, profitant de l’écroulement des fascismes politiques qui ont caractérisé la première moitié du vingtième siècle.

La défaite militaire des fascismes nationaux[2] a été la base d’une expansion planétaire du capitalisme libéral qui a marqué l’essor de son invasion internationale par les feux d’artifice meurtriers de Hiroshima et Nagasaki[3].

Comme toujours, l’Etat des vainqueurs (encore embu de rhétorique nationaliste mais déjà en voie de globalisation marchande) a réaffirmé son droit absolu à la violence « légitime » en bombardant le monde autant par la publicité de la marchandise que par les photos d’une barbarie nazie tellement insoutenable qu’elle a fait avaler celle des vainqueurs comme une libération. Une libération consumériste d’un monde finalement libérée de l’inhumanité du fascisme archaïque a mis en branle son pire produit : une morale antifasciste qui cachait la victoire du fascisme structurel et caractériel de chaque Etat-nation, violeur machiste de toute nation acratique dont le souvenir même a été effacé de l’histoire depuis belle lurette.

En fait, de façons différentes, ce jeu pervers ne s’est jamais arrêté depuis que le suprémacisme patriarcal a terrassé les sociétés acratiques à centralité féminine du début d’une histoire humaine violée et vaincue il y a des millénaires. Depuis, une continuité toujours renouvelée de la domination productiviste se cache derrière la rupture spectaculaire avec les totalitarismes les plus archaïques, incarnés si bien, dans nos temps modernes, par les fascismes politiques d’un führer ou d’un duce. C’est donc la défaite de ces fascismes là, délirants et caricaturaux dans leur monstruosité meurtrière, qui a permis au fascisme caractériel de la société libérale de dominer le monde par un fétichisme désormais sans limites de la marchandise.

Ces capitalistes, américains ou pas, débarqués directement de Omaha Beach jusqu’aux supermarchés européens échafaudés à la hâte depuis 1945, dans les coulisses du plan Marshall, étaient les mêmes qui trafiquaient avec Hitler jusqu’en 1944, les mêmes immigrés chrétiens sans papiers qui, à peine débarqués dans les nouveau continent depuis leur Europe d’origine, ont exterminé, en deux siècles de temps, le 90% des natives américains pour instaurer leur Far West avec Dieu imprimé sur le dollar, une Colt toujours à la portée de la main et quelques couvertures à la variole pour exterminer scientifiquement et paisiblement les improductifs « sauvageons » natifs et autres empêcheurs d’exploiter en rond ; tout cela bien avant que les nazis appliquent leur solution (assez peu finale, heureusement, mais énormément meurtrière pour des millions de victimes, hélas) dans les camps que leur cynisme bête de conquistadores délirants a réédités suivant des modèles anglo-saxons préexistants.

Le fascisme n’a pas une « race » ni un « ADN »[4] particulier. Il est toujours et partout, toutes idéologies confondues, l’union de bandes de frustrés, refoulés, colériques et meurtriers d’un quelconque patriotisme de castrés, indispensable à la cohésion artificielle d’une société patriarcale fondée sur la haine suprématiste. Fanatisme mystique qui pollue tous les autres, le fascisme se nourrit partout de la peste émotionnelle que le productivisme répand comme une pandémie. L’esclavagisme d’origine n’a jamais quitté le productivisme, il s’est simplement transformé en salariat après avoir goûte au servage féodal, alors que les méchants de l’histoire ont toujours trouvé des censeurs pour les châtier, tout en faisant aussi mal sinon pire qu’eux au nom du bien.

Des fauves de toutes origines se donnèrent au jeu pervers d’accabler une communauté humaine solidaire inachevée et systématiquement violée par les serviteurs de chaque Etat, sans se soucier de la souffrance qui répandaient dans le monde. Car le business – comme l’argent qui le porte – n’a pas plus d’odeur que de mémoire, pas plus d’états d’âme que d’humanité.

Cependant, c’est surtout la mémoire des dominés qui a montré des trous béants, savamment exploités par les dominants. L’espoir d’un monde nouveau a été un moteur redoutable de la continuité du vieux monde. Le désir qui se volatilise en espoir sans se satisfaire, c'est-à-dire sans passer de la destruction à la construction, n’est qu’une frustration qui se déguise en jouissance inachevée pour faire de ce qui n’arrive pas à changer une restauration déguisé en dépassement. Ainsi on se dit contents sans l’être ou révolutionnaires sans enclencher le dépassement, en trahissant la dialectique et faisant tourner en rond l’histoire.

Néanmoins, une intelligence sensible qu’aucune manigance ne peut définitivement étouffer chez les humains, finit toujours par émerger ici là et dénoncer la grotesque nudité des rois, la montrant à tous, même à ceux qui ajoutent toujours au monarque sacralisé des culottes inexistantes. Combien encore d’Assange sacrifiés avant que l’histoire devienne humaine ?

Si mai 68 fut une alerte révolutionnaire inachevée d’un autre monde possible, sa défaite et l’impérialisme capitaliste croissant qui a suivi ont préparé les conditions d’un totalitarisme démocratique désormais en plein essor. Il a fallu, entre-temps, la démolition du fascisme rouge pseudo soviétique pour rééditer, sous la forme d’un néolibéralisme planétaire aussi débile que meurtrier, la rhétorique autoritaire qui avait déjà récupéré et dévitalisé l’antifascisme d’antan.

Historiquement, quand l’antifascisme apparaît en potentiel vainqueur sans que l’autogestion généralisée de la vie quotidienne aboutisse, cela signifie toujours que la domination fasciste réelle s’exerce ailleurs. L’authenticité historique de la lutte antifasciste est dans le maquis quand le fascisme sévit. Son idéologie, en revanche, ne peut pas gérer la communauté sans se renier car la communauté humaine est acratique par nature et seule une autogestion généralisée de la vie quotidienne peut la faire vivre sans la dévitaliser dans le spectacle.

L’humanisme autoritaire et contradictoire des révolutionnaires qui arrivent au pouvoir, signifie toujours le retour du Léviathan productiviste et la réussite de sa récupération redoutable. Ceci fut, en fait, le rôle de la gauche depuis l’invention du parlementarisme qui l’a générée : faire pire que la droite en décevant les espoirs des dominés parce que l’émancipation promise d’en haut n’arrive jamais jusqu’en bas. La gauche a réussi ainsi l’exploit masochiste de pousser les plus exploités, mais aussi les plus ignorants, les plus apeurés et les plus méchants (ce qui fait un nombre inquiétant) à s’afficher en nostalgiques de l’autorité de l’Etat, se méfiant – accablés par une paranoïa obsidionale – de tout lanceur d’alerte, de tout révolté qui invite à changer de cap quand la tempête sévit.

Ce mécanisme est la clé de lecture de toute relation de pouvoir et l’essence même de ce qu’est la stratégie visible de toute domination. Machiavel docet : convaincre les dominés qu’une autre domination est possible, bien pire et o combien dangereuse, ainsi que les dominés remercient leurs maîtres/bourreaux pour leur « généreuse » protection. Ainsi on fabrique un dictateur, peu importe son genre, mais presque toujours mâle ou ce qui en reste. La révolution numérique s’y emploie.

L’acratie a pour condition la paix et ne fonctionne pas en temps de guerre. C’est ainsi que le fascisme revient et sa guerre incivile s’impose dans un déjà vu désespérant. Ceci est le mécanisme qui pollue toute révolution et pour éviter une telle issue il faut dépasser (pas simplement nier, dépasser par les méthodes et les fins) l’approche autoritaire de la radicalité nécessaire à la constitution d’un monde humain : un nouveau monde solidaire et voué à l’amour de la vie organique.

L’amour au temps de la pandémie est entré partout dans ce type de turbulence. Prenons garde ! Le mieux est encore possible, mais le pire est en marche et il pourrait reprendre le pas de l’oie.

Sergio Ghirardi Sauvageon, 16 mai 2021



[1] L’Etat est l’instrument politique du productivisme marchand porteur partout de la barbare rhétorique d’un nationalisme prédateur passé des Cités-Etat d’origine à l’Etat-nation et désormais, suite à la révolution numérique, à l’échafaudage d’un Etat planétaire, méga machine pour l’artificialisation définitive de toute vie organique.

[2] Fascisme allemand, italien et japonais, alors que le Conseil national de la résistance de la République française (CNR) a permis à la France de s’assoir à la table des vainqueurs en faisant oublier Vichy.

[3] Ce début visible de l’obsolescence de l’homme a été ensuite poursuivi jusqu’à Tchernobyl et Fukushima, symptômes planétaires majeurs de la « pacifique » guerre sans quartier que l’homo economicus a déclaré à la nature et à la vie organique.

[4] De plus en plus souvent on se réfère à l’ADN comme à l’essence intime de la réalité humaine d’un individu. Utilisée de manière inappropriée, cette reference pseudo-scientifique, me fait penser à une formule mécaniciste contournant le concept embarrassante de « race » si cher à la peste fasciste. 




sabato 8 maggio 2021

LA VITA - Beni comuni e proprietà privata

 



Democrazia radicale

La democrazia radicale è incompatibile con l’economia politica la cui messa in discussione è immediatamente la critica radicale dell’appropriazione privativa. Questa critica non è tanto quella dell’atto spontaneo di appropriarsi di qualcosa per la propria utilità o piacere, quanto del fatto di compierlo danneggiando gli altri, escludendoli dal loro sacrosanto diritto di avere accesso allo stesso bene e alla qualità di vita che esso può soggettivamente secernere. Non è dunque la proprietà che pone problema ma la sua privazione per tutti gli altri. La soluzione del problema è dunque una sola: la creazione di un’abbondanza qualitativa e la sua distribuzione equa per tutti. Questa concreta uguaglianza dei diseguali, tema di cui parla con cognizione di causa Murray Bookchin, si oppone alla diseguaglianza di fatto dei cittadini formalmente uguali nella democrazia fittizia, rappresentativa e parlamentarista, architettata dai dominanti. Una democrazia reale, incompatibile con lo Stato, presuppone, infatti, un’organizzazione orizzontale e acratica di una socialità che Marx definiva precisamente, nel suo tedesco originario, gemeinwesen – comunità umana organica, storicamente la Comune.

Non c’è dubbio che neppure il comunismo autoritario restituisce il potere al popolo. Il punto più debole dell’ideologia comunista, debitrice di Marx ed evoluta in peggio dopo di lui, è la critica della proprietà privata personale sostituita dalla “nazionalizzazione” che dissimula, di fatto, un’appropriazione statale della proprietà parallela e sintonica con la dottrina della violenza legittima di cui lo Stato si pretende il depositario. Lo Stato, non il popolo, è il nuovo proprietario esclusivo, cioè privativo, di cui i burocrati del Partito sono i gestori autoritari che sottomettono e prendono possesso della comunità.

Il fenomeno politico comunista è stato storicamente l’appropriazione spettacolare concentrata da parte di una burocrazia politica della comunità, laddove la democrazia rappresentativa del capitalismo liberale è soltanto la caricatura spettacolare diffusa dell’esigenza di autogestione della vita quotidiana confiscata da una burocrazia economica al servizio dei possidenti arcaici. Tanto la continuità liberale del produttivismo che la sua rivoluzione ideologica sedicente comunista, confermano il diritto di proprietà nella forma dell’appropriazione privativa garante del produttivismo originario. In entrambi i casi, i beni comuni spariscono e di comune resta solo l’etichetta statale, nemica intima della comunità umana. Lo Stato nasce, infatti, storicamente, come alternativa alla comunità umana. Esso contrappone la sua gemeinschaft (comunità artificiale, societas, basata su un’associazione di commercianti e guerrieri che garantiscono la schiavitù e le servitù necessarie al funzionamento del produttivismo) alla gemeinwesen strutturale delle comunità organiche. La gemeinschaft è l’ambito della progressiva artificializzazione della socialità.

Società e socialità

La socialità è la tendenza umana all’aiuto reciproco e alla solidarietà laddove il sociale è il livello raggiunto in concreto da questa tendenza. Meno il sociale realizza la socialità, più l’individualismo dell’economia politica genera la sua società artificiale espellendone tutte le manifestazioni sopravvissute della gemeinwesen come “asociali”, appunto perché organiche – non civilizzate. La società civile è storicamente la socialità artificiale imposta dallo Stato ai suoi sudditi, cioè il controllo autoritario della socialità umana organica. Così, nei tempi moderni, l’Antropocene ha instaurato e diffuso una civiltà alienata e reificata in lotta perentoria contro ogni scintilla di Rinascimento e Illuminismo, movimenti emancipatori recuperati e ridotti a fragili voti di un’umanità in via di archiviazione.

La trappola economicista è fondata su questo stratagemma: una volta instaurata l’appropriazione privativa giustificata come una proprietà personale, nessuna riforma può più rimetterla in discussione radicalmente. L’economia politica è come il nucleare: una volta in marcia solo gli specialisti dell’una come dell’altro possono interrompere il processo in corso, sotto pena di gravi rischi per l’incolumità degli individui coinvolti. Questo ricatto, congiuntamente tecnocratico e politico, rischia oggi di rendere l’artificialità ineluttabile per inquietante e deleteria che sia. Non si può fermare il progresso... verso il baratro.

Per uscire dalla trappola, l’umanità è dunque costretta a una delicata transizione contro la quale il Leviatano usa il metodo descritto nel Gattopardo di Tommasi di Lampedusa: “Che tutto muti affinché nulla cambi dell’essenziale” – vale a dire il processo feticistico di valorizzazione economica della merce in tutte le sue manifestazioni, dalle cose alla forza lavoro (compresa l’energia consumistica), merce tra le merci.

Meglio delle rivoluzioni sociali incompiute, troppo spesso inquinate da un estremismo che ne impedisce la radicalità, le pandemie hanno oggettivamente innescato un inizio di transizione verso una società più egualitaria, obbligando il potere a ridurre o interrompere temporaneamente la sua logica privativa e il suo sfruttamento cinico della forza lavoro. È verificato storicamente[1] che ogni epidemia pestifera ha diminuito incredibilmente le disuguaglianze aprendo un varco alla decisione collettiva della loro sparizione. Il fenomeno si è registrato puntualmente, prima che l’economia politica ristabilisse il dominio dopo ogni crisi epidemica. Tuttavia, nessuna riforma agraria (la proprietà della terra è l’appropriazione privativa che favorisce tutte le altre fino alla schiavitù), molto spesso storicamente accompagnata da una grande violenza dopo ogni crisi pandemica, ha mai fatto regredire radicalmente e definitivamente le disuguaglianze[2].

Tutte le pandemie della storia hanno drasticamente ridotto le disuguaglianze come un effetto meccanico cui è mancata una coscienza umana capace di spingere il processo fino al superamento dell’economia politica nella sintesi dialettica di una società organica totalmente nuova. Il Leviatano produttivista ha sempre saputo riprendere in mano le redini del sociale indebolito dalla pandemia di turno, ristabilendo sempre lo sfruttamento d’origine sui beni comuni e sul lavoro umano. Cosi è stato fino a ieri (quando la popolazione mondiale era ancora di un miliardo e trecentomila individui nel 1830) in conseguenza di un tasso di mortalità pandemica giunto talvolta fino al 50% della popolazione. Oggi, invece, una crescita demografica forsennata, arrivata ormai oltre i sette miliardi di persone, ha reso caduco il rapporto tra il numero di vittime della peste e l’aumento del costo della forza-lavoro.

L’abbondanza sovra numeraria dei potenziali lavoratori sopravvissuti al virus riduce il rischio meccanico di una diminuzione automatica delle disuguaglianze economiche. Tuttavia, il rischio nuovo di una fine della specie sposta il cursore della coscienza umana che determina i comportamenti verso una coscienza di specie obbligata a confrontarsi con l’insieme di artificializzazioni omicide operate da un Antropocene fuori controllo.

Diventa dunque urgente accompagnare la pur necessaria letteratura poetica e sociologica anticapitalista oltre i lamenti e gli esorcismi politici, con un progetto di transizione concreto che non permetta il recupero da parte dell’economia politica dell’insurrezione inevitabile. La questione ormai non è se ci sarà una rivoluzione sociale, ma chi ne sarà il soggetto durante il delicato e inevitabile periodo di transizione. Passaggio necessario per gettare le basi di un nuovo mondo umano e solidale perché le sue radici sono, purtroppo, impiantate in una storia ampiamente manipolata dai vincitori diversi che l’hanno scritta e diffusa. Tanto più oggi con la facilità e l’abbondanza becera del virtuale.

Tutte le ideologie rivoluzionarie (cioè le peggiori nemiche della teoria/prassi rivoluzionaria da produrre collettivamente come un primo risultato concreto dell’autogestione generalizzata della vita quotidiana) hanno installato il loro potere controrivoluzionario secondo i metodi totalitari con cui i Bolscevichi al potere hanno osannato il sedicente socialismo sovietico come un antipasto della società comunista, mentre si trattava dell’ennesima restaurazione omicida dell’economia politica. L’ironia della storia vuole che il sottotitolo di tutte le opere maggiori marxiane dal 1857 fino al Capitale (diventato la Bibbia dell’ideologia comunista, ma usato perversamente al meglio dai capitalisti liberali più svegli) sia: Per la critica dell’economia politica.

Una critica assai poco comunista, finita a fucilate contro il popolo e una repressione feroce a Cronstadt e nella Machnovcina ucraina, che ha internato i rivoluzionari, i disubbidienti e tutti i recalcitranti in Siberia, dietro il muro di Berlino, in Cina, in Cambogia eccetera, mentre la forma volgarmente liberale di una peste produttivista plurimillenaria continuava la sua opera mafiosa nel resto capitalista del mondo cosiddetto libero, libero soltanto di sottomettersi volontariamente al lavoro forzato di un salariato diffuso quanto il feticismo della merce.

Il mondo post Covid 19/84

Non credo assolutamente che una continuità con il passato sia possibile. L’ennesima pandemia prodotta dall’incrociarsi del progresso produttivista con la sua alienazione in maniera finalmente visibile (visibilità che mancava ai molti episodi precedenti d’invasioni virali micidiali) implica la presa di coscienza umana che un altro mondo possibile è ormai necessario. Se l’uomo non si decide a rispettare la natura di cui fa parte, ne pagherà il prezzo definitivo perché la natura non si vendica, ma continua il suo corso. Nessun vaccino ci riporterà al mondo di prima. Nel migliore dei casi (e non evoco i peggiori possibili) obbligherà a bucarsi ripetutamente come eroinomani, non per anestetizzarsi in paradisi artificiali, ma per potere uscire e continuare a consumare in purgatori consumistici che assomiglieranno sempre di più a un artificiale inferno planetario.

La pubblicità della merce, merci-cose e merci umane ormai equiparabili in un mondo virtuale che le accomuna, è più invadente che mai, virus o non virus, ma sempre più ridicola, patetica, stupida, insopportabile. Non si rendono ancora ben conto, i sacerdoti della merce, che il loro è ormai un discorso inaudibile che rischia di produrre se non una coscienza radicale delle reazioni patologiche sempre più irrazionali e violente come tutti gli oscurantismi religiosi hanno sempre prodotto e continuano a farlo. I suicidi e gli omicidi sono e saranno conseguenza del confinamento della vita in una sopravvivenza ormai chiaramente claustrofobica ma che era già insopportabile prima che lo diventasse visibilmente con la lente d’ingrandimento del Covid 19/84.

Il loro mito della sicurezza che usano per addomesticare le orde di servitori volontari terrorizzati che li seguono, alimenta in realtà sempre di più la violenza diffusa al quotidiano. La distruzione dell’umano, dell’altro come simile ridotto a portatore potenziale della peste, potenziale terrorista, vuoi un nemico di genere, di “razza” o di nazionalità, corrobora la peste emozionale che il produttivismo veicola fin dalle origini, quando l’irruzione della morale sessuale patriarcale ha introdotto il dominio, lo stupro e il furto nelle società a centralità femminile acratica, disfacendola[3].

Siamo al redde rationem, non più socialismo o barbarie ma umano organico o disumano artificiale, transumanista.

E qui mi fermo, per ora, ma non per smettere. Per cominciare insieme.

 

Sergio Ghirardi Sauvageon, 6 maggio 2021



[1] Walter Scheidel, Une histoire des inégalités – de l’age de pierre au XXI siècle, Actes Sud, Arles 2021.

[2] Walter Scheidel, op. cit.

[3] B. Malinowski, La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale, Feltrinelli, Milano 1968; B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, Newton Compton, Roma 1973; W. Reich, L’irruzione della morale sessuale coercitiva, Sugar, Milano 1972; Marija Gimbutas, « The Three Waves of Kurgan People into Old Europe, 4500-2500 BC », Archives suisses d’anthropologie générale, 1979, vol. 43, n° 2, pp. 113-137.

 

LA VIE – Biens communs et propriété privée

 

Démocratie radicale

La démocratie radicale est incompatible avec l’économie politique dont la mise en discussion est immédiatement la critique radicale de l’appropriation privative. Cette critique ce n’est pas tant celle de l’acte spontané de s’approprier quelque chose pour sa propre utilité ou son plaisir , mais plutôt le fait de le faire en nuisant aux autres, en les excluant de leur droit sacro-saint d’avoir accès au même bien et à la qualité de vie que celui-ci peut sécréter subjectivement. Ce n’est donc pas la propriété qui pose problème mais sa privation pour tous les autres. Il n’y a donc qu’une seule solution au problème : la création d’une abondance qualitative et sa distribution équitable pour tous. Cette concrete egalité des inégaux, thème dont Murray Bookchin parle en connaissance de cause, s’oppose à l’inégalité factuelle des citoyens formellement égaux de la démocratie fictive, représentative et parlementariste, échafaudée par les dominants. Une démocratie réelle, incompatible avec l’Etat, présuppose, en fait, une organisation horizontale et acratique d’une socialité que Marx définissait précisément, dans son allemand d’origine, gemeinwesen – communauté humaine organique, historiquement la Commune.

Il n’y a pas de doute que le communisme autoritaire non plus ne restitue le pouvoir au peuple. Le point le plus faible de l’idéologie communiste, redevable à Marx et évoluée en pire après lui, est la critique de la propriété privée personnelle remplacée par la « nationalisation » qui dissimule, en fait, une appropriation étatique de la propriété parallèle et en syntonie avec la doctrine de la violence légitime dont l’Etat se prétend le dépositaire. L’Etat, et non pas le peuple, est le nouveau propriétaire exclusif, c'est-à-dire privatif, dont les bureaucrates du Parti sont les gérants autoritaires qui soumettent et prennent possession de la communauté.

Le phénomène politique communiste a été historiquement l’appropriation spectaculaire concentrée par une bureaucratie politique de la communauté, alors que la démocratie représentative du capitalisme libéral n’est que la caricature spectaculaire diffuse de l’exigence d’autogestion de la vie quotidienne confisquée par une bureaucratie économique aux ordres des possédants archaïques. La continuité libérale du productivisme, autant que sa révolution idéologique soi-disant communiste, confirme le droit de propriété dans la forme de l’appropriation privative garantissant le productivisme d’origine. Dans les deux cas les biens communs disparaissent et reste de commun uniquement l’étiquette étatique, ennemie intime de la communauté humaine. Historiquement, en fait, l’Etat nait comme alternative à la communauté humaine. Il oppose sa gemeinschaft (communauté artificielle, societas, basée sur une association de marchands et de guerriers qui garantissent l’esclavage et les servitudes nécessaires au fonctionnement du productivisme) à la gemeinwesen structurelle des communautés organiques. La gemeinschaft est le lieu de l’artificialisation progressive de la socialité.

Société et socialité

La socialité est la tendance humaine à l’entraide et à la solidarité alors que le social est le niveau pratiquement atteint par cette tendance. Moins le social réalise la socialité, plus l’individualisme de l’économie politique génère sa société artificielle en expulsant toutes les manifestations survivantes de la gemeinwesen comme « asociales », précisément parce qu’elles sont organiques – non civilisées. La société civile est historiquement la socialité artificielle imposée par l’Etat à ses sujets, c'est-à-dire le contrôle autoritaire de la socialité humaine organique. Ainsi, dans les temps modernes, l’Anthropocène a instauré et répandu une civilisation aliénée et réifiée en lutte péremptoire contre toute étincelle de Renaissance et Lumière, mouvements émancipateurs récupérés et réduits à des vœux fragiles d’une humanité en voie de disparition.

Le piège économiste repose sur ce stratagème : une fois établie l’appropriation privative justifiée comme une propriété personnelle, aucune reforme ne peut plus la remettre en question radicalement. L’économie politique est comme le nucléaire : une fois en marche, seuls les spécialistes de l’un comme de l’autre peuvent interrompre le processus en cours, sous peine de risques graves pour la sécurité des personnes concernées. Ce chantage, technocratique et politique en même temps, risque aujourd’hui de rendre l’artificialité inéluctable, peu importe combien elle soit inquiétante et délétère. On arrête pas le progrès… vers l’abîme.

Pour sortir du piège, l’humanité est donc obligée à une délicate transition contre laquelle le Léviathan utilise la méthode décrite dans le Guepard de Tommasi de Lampedusa : « Que tout permute afin que rien de l’essentiel ne change » – c'est-à-dire le processus fétichiste de valorisation économique de la marchandise dans toutes ses manifestations, des choses à la force de travail (l’énergie consumériste incluse), marchandise parmi les marchandises.

Mieux que les révolutions sociales inachevées, trop souvent polluées par un extrémisme qui empêche leur radicalité, les pandémies ont objectivement déclenché un début de transition vers une société plus égalitaire, forçant le pouvoir à réduire ou interrompre temporairement sa logique privative et son exploitation cynique de la force de travail. Il est historiquement vérifié[1] que chaque épidémie pestifère a fortement réduit les inégalités en ouvrant la voie au choix collectif de leur disparition. Le phénomène a été enregistré ponctuellement, avant que l’économie politique retablisse sa domination après chaque crise épidémique. Cependant, aucune reforme agraire (la propriété de la terre est l’appropriation privative qui favorise toutes les autres, jusqu’a l’esclavage), historiquement accompagnée très souvent par une grande violence après chaque crise pandémique, n’a jamais fait régresser radicalement et définitivement les inégalités[2].

Toutes les pandémies de l’histoire ont drastiquement réduit les inégalités comme un effet mécanique dépourvu d’une conscience humaine capable de pousser le processus jusqu’au dépassement de l’économie politique dans la synthèse dialectique d’une société organique totalement nouvelle. Le Léviathan productiviste a toujours su reprendre les rênes de la socialité fragilisée par l’énième pandemie, rétablissant toujours l’exploitation d’origine sur les biens communs et le travail humain. Ce fut le cas jusqu’à hier (quand la population mondiale était encore de 1,3 milliard en 1830) en raison d’un taux de mortalité pandémique touchant parfois le 50% de la population. Maintenant, par contre, une croissance démographique effrénée, désormais au-delà des sept milliards d’individus, rend caduc le rapport entre le nombre de victimes de la peste et l’augmentation du coût de la force de travail.

L’abondance surnuméraire des potentiels travailleurs rescapés au virus réduit le risque mécanique d’une diminution automatique des inégalités économiques. Néanmoins, le risque nouveau d’une disparition de l’espèce déplace le curseur de la conscience humaine qui détermine les comportements vers une conscience d’espèce obligée à se confronter avec l’ensemble d’artificialisations meurtrières mises en branle par un Anthropocène hors-control.

Il devient donc urgent d’accompagner la nécessaire littérature poétique et sociologique anticapitaliste au-delà des lamentations et des exorcismes politiques, par un projet concret de transition qui ne permet pas à l’économie politique de récupérer l’inévitable soulèvement. Car la question n’est plus désormais si il y aura ou pas une révolution sociale, mais qui en sera le sujet pendant la période délicate et inévitable de transition. Passage nécessaire pour jeter les bases d’un nouveau monde humain et solidaire car ses racines sont implantées, hélas, dans une histoire largement manipulée par les differents vainqueurs qui l’ont écrite et répandue. Encore plus aujourd’hui avec la facilité et l’abondance bête du virtuel.

Toutes les idéologies révolutionnaires (c'est-à-dire les pires ennemies de la théorie/pratique révolutionnaire qu’on a à produire collectivement comme un premier résultat concret de l’autogestion généralisée de la vie quotidienne) ont installé leur pouvoir contrerévolutionnaire selon les méthodes totalitaires utilisées par les Bolcheviks au pouvoir afin de saluer le socialisme soi-disant soviétique comme un hors-d’œuvre de la société communiste, alors qu’il s’agissait d’une nouvelle restauration meurtrière de l’économie politique. L’ironie de l’histoire veut que le sous-titre de toutes les œuvres majeures de Marx depuis 1857 jusqu’au Capital (qui devint la Bible de l’idéologie communiste, mais fut utilisé perversement au mieux par les capitalistes libéraux les plus malins) soit : Pour la critique de l’économie politique.

Une critique très peu communiste, en fait, qui s’est terminé par des coups de feu contre le peuple et une répression féroce à Kronstadt et dans la Machnovcina ukrainienne, qui a interné les révolutionnaires, les désobéissants et tous les réfractaires en Sibérie, derrière le mur de Berlin, en Chine, au Cambodge etcetera, tandis que la forme vulgairement libérale d’une peste productiviste vieille de plusieurs milliers d’années, a continué son travail mafieux dans le reste capitaliste du soi-disant monde libre, libre seulement de se soumettre volontairement au travail forcé d’un salariat aussi répandu que le fétichisme de la marchandise.

Le monde post Covid 19/84

Je ne crois pas une seconde que la continuité avec le passé soit possible. La énième pandemie produite par le croisement du progrès productiviste avec son aliénation de manière finalement visible (visibilité qui manquait pendant les nombreux épisodes précédents d’invasions virales meurtrières) implique la conscience humaine qu’un autre monde possible est désormais nécessaire. Si l’homme ne décide pas de respecter la nature à laquelle il appartient, il en paiera le prix final car la nature ne se venge pas mais continue son cours. Aucun vaccin ne nous ramènera au monde d’avant. Dans le meilleur des cas (et je n’évoque pas les pires possibles) il nous obligera à nous shooter à répétition comme des héroïnomanes, non pas afin de nous anesthésier dans des paradis artificiels, mais pour pouvoir sortir et continuer à consommer dans des purgatoires consuméristes de plus en plus semblables à un artificiel enfer planétaire.

La publicité de la marchandise, marchandises-choses et marchandises-humaines désormais comparables dans un monde virtuel qui les unit, est plus intrusive que jamais, avec ou sans le virus, toujours plus ridicule, pathétique, stupide, insupportable. Les prêtres de la marchandise ne se rendent pas encore pleinement compte que leur discours est devenu inaudible et risque de produire, sinon une prise de conscience radicale, des réactions pathologiques de plus en plus irrationnelles et violentes semblables à celles que les obscurantismes religieux ont toujours produit et continuent de le faire. Les suicides et les meurtres sont et seront une conséquence de l’enfermement de la vie dans une survie maintenant clairement claustrophobe, ma déjà insupportable avant qu’elle ne le devienne visiblement à la loupe du Covid 19/84.

Leur mythe de la sécurité qu’ils utilisent pour domestiquer les hordes de serviteurs volontaires terrorisés qui les suivent, alimente, en fait, de plus en plus, la violence diffuse dans le quotidien. La destruction de l’humain, de l’autre comme semblable réduit à un porteur potentiel de la peste, un terroriste potentiel, voire un ennemi de genre, de « race » ou de nationalité, corrobore la peste émotionnelle que le productivisme a véhiculé depuis ses origines, lorsque l’irruption de la morale sexuelle patriarcale a introduit la domination, le viol et le vol dans les sociétés acratiques centrées sur le féminin, en les défaisant[3].

Nous sommes au redde rationem, non plus socialisme ou barbarie, mais humain organique ou inhumain artificiel, transhumaniste.

Et je termine ici, pour le moment, mais pas pour arrêter. Pour commencer ensemble.

 

Sergio Ghirardi Sauvageon, 6 mai 2021

 



[1] Walter Scheidel, Une histoire des inégalités – de l’age de pierre au XXI siècle, Actes Sud, Arles 2021.

[2] Walter Scheidel, op. cit.

[3] B. Malinowski, Mœurs et coutumes des Mélanésiens. Trois essais sur la vie sociale des indigènes trobriandais ː Le crime et la coutume dans les sociétés primitives, Le mythe dans la psychologie primitive et La chasse aux esprits dans les mers du sud » Payot, Paris 1934 ; B. Malinowski, Les Argonautes du Pacifique Occidental, Gallimard, Paris 1963 ; W. Reich, L’irruption de la morale sexuelle, Payot, Paris 1972 ; Marija Gimbutas, « The Three Waves of Kurgan People into Old Europe, 4500-2500 BC », Archives suisses d’anthropologie générale, 1979, vol. 43, n° 2, pp. 113-137.