giovedì 22 luglio 2021

DEMOACRAZIA Per una libera produzione generosa e gaudente di una critica radicale del produttivismo

 



Una delle tattiche abituali degli ideologi del dominio ma anche dei servitori volontari della civiltà produttivista consiste nell’identificare la critica radicale del produttivismo con uno stupido rifiuto della produzione dei beni necessari e desiderabili. Lo stesso trucco è stato adottato nei confronti del principio della decrescita economica, ridotto a una mistica decrescita sacrificale e autopunitiva.

Bisogna dire che spesso gli stessi adepti di una critica radicale della società dei consumi intrecciano la corda per farsi impiccare teorizzando effettivamente delle liturgie sacrificali anziché delle destrutturazioni godibili dell’atteggiamento allucinante diffuso nella società produttivista che sogna una crescita senza fine in un mondo finito, delimitato. Per mimetizzare l’assurdità demenziale di questo delirio, la lunga storia dell’alienazione sociale e politica ha educato le masse e i loro capi ideologici a opporre la rinuncia volontaria come sola alternativa alla penuria di qualità imposta dall’abbondanza redditizia di merci inutili o nocive. Di fronte all’imperativo economico onnipresente, i civilizzati s’accontentano d’inscenare una sobrietà rigida imbevuta di pauperismo religioso (cristiano o no, poco importa) anziché la sobrietà gaudente di un abbondante consumo vitale qualitativo, condivisa, scelta e sotto il controllo di un’autogestione generalizzata della vita quotidiana.

La bulimia consumistica e l’anoressia del desiderio sono due eccessi opposti fondatori del produttivismo. Bisognerà curarsi di entrambi opponendo l’abbondanza qualitativa alla spazzatura produttivista che non smette di crescere. Si può credere con Epicuro che la sobrietà sia una qualità dell’abbondanza e un elemento della felicità quando questa abbandona le paludi del consumo e il deserto della rinuncia.

Siamo chiari: criticare il produttivismo non significa entrare in una regressione primitivista. Ciò non ha senso. Il ritorno alle origini non è né possibile né auspicabile. L’evoluzione della specie, come del vivente in generale, è un movimento incessante, inarrestabile perché naturale e intrinseco alla vita. Così come Darwin ci ha insegnato a prendere in considerazione questo mutamento perpetuo come un dato irrinunciabile, un darwinisme asservito alla classe dominante ha trasformato la teoria evoluzionista in un supporto fenomenale del progresso capitalista, accanito sostenitore dell’artificialità economicista di una società umana recentemente acquisita all’industrializzazione. Da allora siamo di fronte all’urgenza di chiarire questo processo morboso, ormai in fase terminale, per eliminare le manipolazioni che hanno condizionato e sviato l’evoluzione della specie.

Perché tra rumori, tempeste e catastrofi, ci si dirige verso l’obiettivo finale nichilista di una vita umana resa definitivamente artificiale e destinata alla sparizione. Il processo auto distruttore della vita organica della specie ha origini recenti se si considera la storia globale dell’umanità, ma è molto antico se si misura con la speranza di vita delle nostre esistenze individuali. È vecchio come il produttivismo che ha iniziato la sua lunga marcia di colonizzazione dell’umano circa settemila anni fa e si prepara a concluderla nel trans umanesimo.

Tuttavia il produttivismo non è una punizione divina né la versione moderna della maledizione celeste che gli attuali bi millenaristi virtuali denunciano come un complotto diabolico dalle mille sfaccettature paranoiche, senza accorgersi del loro ruolo di utili idioti che denunciano un presente immaginario contribuendo a confortare la propaganda di un’onnipotenza eterna del dominio reale. Il produttivismo è il risultato della società dominante e delle oligarchie, plutocrazie, e suprematismi diversi che hanno colonizzato il mondo come un’immensa colonia penale. Allo scopo di rendere caduca ogni ipotesi che un tale sviluppo storico diventi finalmente discutibile ed eventualmente superato, noi siamo educati a identificare il suo inizio con quello della storia umana. Ebbene, l’umanità ha incominciato a intervenire nella natura ben prima che il produttivismo apparisse, con un’intelligenza sensibile e un approccio organico nei confronti della vita totalmente diversi.

Anche limitandosi a homo sapiens, ominide da cui deriviamo in gran parte, si rimonta almeno a duecentomila anni prima del nostro presente. Da allora gli esseri umani o presunti tali non hanno smesso di produrre degli utensili e dei beni per inventarsi una vita piacevole, guidati dalla loro intelligenza sensibile accesa dalla complicità poetica del cuore e del cervello nel corpo individuale e sociale dei mammiferi che siamo. Perché l’umanità è forse semplicemente la sensibilità vitale per un savoir faire armonizzatore che coordina tutti gli altri nella sinfonia del vivente.

Orbene, se accentuare la penuria dei primordi altera i dati della storia, come ce lo ha ben mostrato Sahlins[1], è sicuro che la creazione di utensili sempre più perfezionati e di beni godibili di cui approfittare ha creato le condizioni per un’abbondanza sempre più qualitativa. I primi gruppi di esseri in via di umanizzazione vaganti sulla terra dei tempi primordiali, erano immersi in un’abbondanza naturale fuori controllo che la loro intelligenza sensibile crescente ha imparato a gestire progressivamente. All’inizio, probabilmente, regnava spesso se non dappertutto, un’abbondanza quantitativa e una padronanza qualitativa dell’ambiente vitale assai scarsa ma in costante miglioramento grazie all’attività umana intelligente.

Chiunque oggi ha imparato a chiamare “lavoro” quest’attività creativa, artistica[2] perché prolungamento delle protesi corporali e poetica[3] perché espressione del savoir-faire concreto dell’umanità – Marx incluso che nella sua preziosa critica radicale dell’economia politica, non ha indicato, però, il produttivismo come matrice negativa del Capitale che ha denunciato con tanta precisione. Al contrario, ha contribuito filosoficamente a un amalgama produttivista tra il lavoro e l’attività vitale, cauzionando così l’alienazione produttivista. Questa sacralizzazione del lavoro che in Marx non era che un’interpretazione filosofica discutibile, è diventata, purtroppo, una pratica di sfruttamento catastrofico tra i bolscevichi suoi eredi autoproclamati. Oltre il grande apporto alla comprensione della storia e dei meccanismi della lotta di classe che dobbiamo a Karl Marx, il marxismo ha continuato a teorizzare l’essenziale e il peggio di quel che pretendeva criticare.

Il solo lavoro spontaneo veramente umano è quello del saper vivere, mentre è nella progressiva divisione del lavoro necessario per la vita e nelle specializzazioni che ne derivano seguendo gli schemi gerarchizzanti del produttivismo che si sono innescati tutti i progressi e tutte le alienazioni dell’umano che contrassegnano la storia. Del resto – tanto di cappello a Paul Lafargue che ci ha dato il suo “Diritto alla pigrizia” come una luce emancipatrice nel buio stacanovista che si profilava – chiamare quest’attività vitale complessa “lavoro” è già di per sé un confusionismo, come ci aiuta a capire l’etimologia delle parole, sempre essenziale.

In tutte le lingue, la parola “lavoro” denuncia il lato abbrutente, aggressivo, doloroso, spiacevole imposto dell’attività in questione. Il trepalium, strumento di tortura all’origine in francese e spagnolo della parola lavoro (travail, trabajo), è nato per reprimere le rivolte contro la schiavitù organizzata, lo sfruttamento della forza lavoro altrui, l’accumulazione di beni, lo Stato – tutti segni precursori di un produttivismo vittorioso. Sfruttare l’altro, ridurlo in schiavitù – persino mangiarlo in casi estremi e più rari – e comunque dominarlo sempre con l’astuzia o la violenza di cui lo Stato s’arroga il privilegio legale, erano e sono delle tendenze predatrici di cui l’essere umano è portatore nella sua disumanità strutturale. Fin dall’inizio questa tendenza suprematista era tra le opzioni possibili degli umanoidi.

Perché umano e disumano sono le due componenti preistoriche da cui è scaturita la comunità come un’opera d’arte collettiva da cui fuoriesce l’umano, l’individuo libero, uguale e fraterno per le sorelle quanto per i fratelli; oppure il disumano, l’individuo brutale e prevaricatore che riduce l’umano a un elemento indifferenziato dell’orda. Ebbene, io sono convinto che il “lavoro” originario oscillasse tra queste due tendenze dando vita a società matricentriche acratiche oppure a gruppi patriarcali, gerarchici e suprematisti. Dopotutto i nostri cugini bonobo e scimpanzé, purtroppo in via d’estinzione, ci confermano l’esistenza sul piano animale di questi due modi di funzionamento sociale molto differenti e assolutamente incompatibili.

Certamente l’attività necessaria alla vita era comunque spesso faticosa, talvolta pericolosa, facile o no, ma era la vita vera, l’insieme degli atti necessari al godimento individuale e collettivo del bere e mangiar bene, riposare al sicuro, fare l’amore, comunicare, imparare, curarsi, giocare e divertirsi godendo. Era la vita organica e non la vita artificiale, la vita orgastica e non la reificazione e l’alienazione oggi diffuse. Se si potesse domandare a un ipotetico individuo organico primitivo quale sia il suo lavoro, sono sicuro che troverebbe difficoltà nel rispondere.

Da un lato l’amore, l’empatia, la comunità umana, dall’altro la comunità bellicosa, guerriera, costruita sull’indifferenza egocentrica verso il proprio simile, verso l’altro genere, i selvaggi, gli stranieri, gli untermenchen. Prima l’indifferenza calcolata, l’assenza di empatia, il risparmio di sé, la ritenzione meccanica dello sfintere che impedisce la dépense emozionale generosa e l’abbandono al piacere reciproco, il carattere fallico[4] che svilisce l’umano dal dono allo scambio redditizio; l’odio arriva dopo perché, come l’amore, implica un’emozione, quindi un’empatia negativa.

I fascismi caratteriali e politici – rovesciamenti patogeni provocati dalla corazza caratteriale in cui la peste emozionale accorda all’indifferenza delle connotazioni aggressive che la paura e le paranoie moltiplicano – erigono sempre delle comunità morbose fondate su un odio comune. La comunità umana vi è crudelmente assente, ma è sempre sbandierata come un’icona sacra sui mostruosi stendardi patriottici di una nazione violentata, fantasmata, posseduta, umiliata e utilizzata dallo Stato e dai suoi boia, soffocata da una retorica nazionalista malata di suprematismo.

Una società del ben vivere organizzerebbe il “lavoro” necessario a creare le condizioni della felicità per il popolo e con il popolo, senza gerarchie strutturali. Tuttavia, dopo 7000 anni di produttivismo, bisognerà inventarla a rovescio del lavoro alienato, cominciando dalla rinascita dell’umano le cui radici si sono rovinate nella lotta di classe e di genere fino ad alienarsi nel consumismo e nella reificazione.

Il produttivismo ha costruito sulla paura della penuria la corsa al privilegio che è il motore centrale dell’economia politica. Tuttavia, la critica del capitalismo e dell’economia politica non possono rovesciare la prospettiva del mondo a rovescio senza mettere in discussione la civiltà produttivista nella sua totalità e senza riportare al centro quella vita organica che il produttivismo ha progressivamente indebolito e quasi abolito. Per questo bisogna aver bene in testa che una democrazia organica sarà ineluttabilmente una demoacrazia, incompatibile con lo Stato, con le gerarchie di potere e con il minimo suprematismo.

Senza alcuna certezza, ma senza alternativa possibile, una tale mutazione radicale sta disegnandosi nell’affiorare di una coscienza di specie che ci ricollega alle nostre radici organiche senza alcuna nostalgia primitivista. Una nuova coscienza emerge in quest’epoca pestifera come superamento possibile di una coscienza di classe sconfitta dal consumismo al punto che i suoi resti malati sono ridotti a elemosinare una riduzione simbolica dell’inquinamento e dello sfruttamento, non la loro abolizione radicale.

Un’abolizione evidentemente ormai altrettanto urgente che necessaria se non sul piano quantitativo assoluto (vista l’enormità della questione demografica) almeno sul piano qualitativo che è il più importante perché riguarda tutti e persino la sopravvivenza della specie. Temo che si pagherà un prezzo altissimo in vite umane prima di rimettersi in sesto, ma non ci sarà altra scelta, questo è sicuro. Anche dipinto di verde, il capitalismo non è riformabile né lo vuole, e il produttivismo che l’ha generato neppure.

Bisogna che il viaggio della vita cambi radicalmente rotta. Il che significa ineluttabilmente – più presto sarà, meglio sarà – l’arresto totale delle energie mortifere, la sostituzione delle energie inquinanti con energie gratuite e rinnovabili, l’eliminazione delle cause umane dei rischi pandemici e del riscaldamento climatico. Si deve fermare il produttivismo subito, “a qualunque costo”, come i nostri ridicoli governanti hanno già dovuto fare a dosi omeopatiche di fronte al piccolo covid 19/84, antipasto del banchetto che la natura e la storia si preparano a servirci.

Mentre assistiamo stupiti e increduli a pseudo rivolte di schiavi che vogliono continuare a restarlo in nome di una libertà da servitori volontari e di una delirante negazione della realtà, non si può che ricostituire alla base, in ogni situazione locale che getta il suo sguardo sul planetario, la relazione organica con la natura che il produttivismo ha distrutto. Quest’opzione strategica essenziale di difesa della vita, che la si scelga o meno, comporta l'abbandono immediato dell'industrializzazione capitalista e della crescita economica, riconducendo il savoir-faire tecnico all'utilità collettiva e non più alla redditività individuale.

Lo faremo liberamente per una scelta popolare consapevole o i nostri patetici signori saranno obbligati a farlo (poco, male, pericolosamente, con riluttanza e in modo contradditorio come con la pandemia) da una natura che non si preoccupa di rivendicazioni sindacali o di manifestazioni che chiedono il ripristino idiota della sopravvivenza consumista e mercantile in piena sindemia. Abbiamo la libertà di riconciliarci con l'essere umano organico o di morire come topi rimpinzati di produttivismo. Perché questa è la novità che prefigura la coscienza di specie emergente: la rivoluzione sociale ha una nuova compagna senza stati d’animo, senza ideologie né partiti e impossibile da corrompere la natura. Vinceremo con essa o moriremo contro di essa. Scegli il tuo campo, camarade!
 
 
 

Sergio Ghirardi Sauvageon, 20 luglio 2021



[1] Marshall Sahlins, L'economia dell'età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980

[2] Particolarmente interessante la definizione dell’arte data da Aristotele nell’Etica Nicomachea: “Una disposizione produttiva accompagnata da ragione”.

[3] Dal greco poiein che significa fare.

[4] Vedi W. Reich, Analisi del carattere, Sugar, Milano 1973.




DEMOACRATIE

Pour une libre production généreuse et jouissive d’une critique radicale du productivisme

 

Une des tactiques habituelles des idéologues de la domination mais aussi des serviteurs volontaires de la civilisation productiviste est d’identifier la critique radicale du productivisme avec le refus bête de la production des biens nécessaires et désirables. Le même tour de passe-passe a été fait envers le principe de la décroissance économique, réduit à une mystique décroissance sacrificielle et autopunitive.

Il faut dire que souvent ces mêmes adeptes d’une critique radicale de la société de consommation donnent le bâton pour se faire battre en théorisant effectivement des liturgies sacrificielles à la place des transformations jouissives de l’attitude cauchemardesque répandue dans la société productiviste qui rêve d’une croissance sans fin dans un monde fini, délimité. Pour rendre mimétique l’absurdité démentielle de ce délire, la longue histoire de l’aliénation sociale et politique a éduqué les masses et leurs chefs idéologiques à opposer la renonciation volontaire comme seule alternative à la pénurie de qualité imposée par l’abondance rentable de marchandises inutiles ou nuisibles. Face à l’impératif économique omniprésent, les civilisés se contentent de prétexter une sobriété étriquée imbue de paupérisme religieux (chrétien ou pas, peu importe) plutôt que la sobriété jouissive d’une abondante consommation vitale qualitative, partagée, choisie et maitrisée par l’autogestion généralisée de la vie quotidienne.

La boulimie consumériste et l’anorexie du désir sont deux excès opposés fondateurs du productivisme. Il faudra se soigner des deux en opposant l’abondance qualitative à la poubelle productiviste qui ne cesse de croître. On peut croire avec Epicure que la sobriété est une qualité de l’abondance et un élément du bonheur quand celle-ci abandonne les marécages de la consommation et le désert de la renonciation.

Soyons clairs : critiquer le productivisme ne signifie pas rentrer dans une régression primitiviste. Cela n’a pas de sens. Le retour aux origines n’est ni possible ni souhaitable. L’évolution de l’espèce, comme du vivant en général, est un mouvement incessant, inarrêtable car naturel et intrinsèque à la vie. Ainsi que Darwin nous a appris à prendre en considération cette mutation perpétuelle comme une donnée incontournable, un darwinisme asservi à la classe dominante a transformé la théorie de l’évolution en un support phénoménale du progrès capitaliste, souteneur acharné de l’artificialité économiste d’une societé humaine récemment acquise à l’industrialisation. Depuis, nous sommes dans l’urgence de clarifier ce processus morbide, désormais en phase terminale, pour éliminer les manipulations qui ont conditionné et détourné l’évolution de l’espèce.

Car, entre bruits, tempêtes et catastrophes, on se dirige vers l’objectif final, nihiliste d’une vie humaine rendue définitivement artificielle et destinée à la disparition. Le processus autodestructeur de la vie organique de l’espèce a des origines récentes si on considère l’histoire globale de l’humanité, mais il est très ancien si on le mesure avec l’espérance de vie de nôtres existences individuelles. Il est vieux comme le productivisme qui a entamé sa longue marche de colonisation de l’humain il y a environs sept millénaires et s’apprête à l’achever par le transhumanisme.

Néanmoins, le productivisme n’est pas une punition divine ni la version moderne de la malédiction céleste que les bi millénaristes virtuels d’aujourd’hui dénoncent comme un complot diabolique aux mille facettes paranoïaques, sans s’apercevoir de leur rôle d’idiots utiles qui dénoncent un present imaginaire en contribuant à conforter la propagande d’une toute-puissance éternelle de la domination réelle. Le productivisme est le produit de la société dominante et des oligarchies, ploutocraties et suprématismes divers qui ont colonisé le monde comme une immense colonie pénale. Afin de gommer toute hypothèse qu’une telle démarche historique soit finalement rendue discutable et éventuellement dépassée, nous sommes éduqués a identifier son début avec celui de l’histoire humaine. Or, l’humanité a commencé à intervenir dans la nature bien avant que le productivisme soit apparu, avec une intelligence sensible et une approche organique de la vie totalement differentes.

Même en se limitant à homo sapiens, hominide dont nous dérivons en grande partie, on remonte au moins à deux cent mille années avant notre present. Depuis, les humains ou présumés tels n’ont pas arrêté de produire des outils et de biens pour s’inventer une vie agréable, guidés par leur intelligence sensible, allumée par la complicitè poétique du cœur et du cerveau dans le corps individuel et social des mammifères que nous sommes. Car l’humanité est peut-être simplement la sensibilité vitale pour un savoir-faire harmonisateur qui coordonne tous les autres dans la symphonie du vivant.

Or, si accentuer la pénurie des débuts fausse les données de l’histoire, comme nous l’a si bien montré Sahlins[1], c’est certain que la création d’outils de plus en plus perfectionnés et de biens agréables dont profiter a crée les conditions pour une abondance de plus en plus qualitative. Les premiers groupes d’êtres en voie d’humanisation sillonnant la terre des temps primitifs, baignaient dans une abondance naturelle hors contrôle que leur intelligence sensible croissante a appris à maitriser au fur et mesure. Au début, probablement, il régnait souvent, sinon partout, une abondance quantitative et une maitrise qualitative du milieu vital assez relative, mais en constante amélioration grâce à l’activité humaine intelligente.

Aujourd’hui, n’importe qui a appris à appeler « travail » cette activité créative, artistique[2] car prolongation des prothèses corporelles et poétique[3] car expression du savoir-faire concret de l’humanité – Marx inclus qui, dans sa précieuse critique radicale de l’économie politique, n’a pas impliqué, toutefois, le productivisme comme matrice négative du Capital qu’il a dénoncé si précisément. Au contraire, il a contribué philosophiquement à un amalgame productiviste entre le travail et l’activité vitale, cautionnant ainsi l’aliénation productiviste. Cette sacralisation du travail que chez Marx n’était qu’une interprétation philosophique discutable, est devenue, hélas, une pratique d’exploitation catastrophique chez les bolcheviks, ses héritiers autoproclamés. Au delà du grand apport à la compréhension de l’histoire et des mécanismes de la lutte de classes qu’on doit à Karl Marx, le marxisme a continué à théoriser l’essentiel et le pire de ce qu’il prétendait critiquer.

Le seul travail spontané véritablement humain est celui de savoir vivre, alors que c’est dans la progressive division du travail nécessaire à la vie et dans les spécialisations qui en découlent suivant les schémas hiérarchisant du productivisme que se sont enclenchés tous les progrès et toutes les aliénations de l’humain qui jalonnent l’histoire. D’ailleurs – chapeau à Paul Lafargue qui nous a donné son « Droit à la paresse » comme une lumière émancipatrice dans le noir stakhanoviste qui s’esquissait –, appeler cette activité vitale complexe « travail » est déjà en soi un confusionnisme, comme nous aide à comprendre l’étymologie des mots, toujours essentielle.

Dans toutes les langues le mot « travail » dénonce le côté éreintant, agressif, douloureux, désagréable, imposé de l’activité en question. Le trepalium, instrument de torture à l’origine en français et espagnol du mot travail, est apparu pour mater les révoltes contre l’esclavage organisé,  l’exploitation de la force de travail d’autrui, l’accumulation des biens, l’Etat – tous signes avant coureurs d’un productivisme victorieux. Exploiter l’autre, le réduire en esclavage – même, dans des cas extrêmes et plus rares, le manger – et, de toute façon, le dominer toujours par la ruse ou la violence dont l’Etat s’arroge le privilège légal, étaient et sont des penchants prédateurs dont l’être humain est porteur dans son inhumanité structurelle. Du début, cette tendance suprematiste était parmi les options possibles des humanoïdes.

Car l'humain et l'inhumain sont les deux composantes préhistoriques à partir desquelles la communauté a émergé en tant qu'œuvre d'art collective dont jaillit l’humain, l’individu libre, égal et fraternel pour les sœurs autant que pour les frères ; ou sinon l’inhumain, l’individu brutal et prévaricateur qui réduit l’humain à un élément indifférencié de la horde. Or, je suis convaincu que le « travail » originaire balançait déjà entre ces deux tendances donnant vie à des sociétés matri centriques acratiques ou à des groupes patriarcales, hiérarchiques et suprématistes. Apres tout, nos cousins bonobos et chimpanzés, hélas en voie de disparition, nous confirment bien l’existence sur le plan animal de ces deux fonctionnements sociaux très differents et pas du tout compatibles.

Certes, l’activité nécessaire à la vie était, de toute façon, souvent fatigante, parfois dangereuse, facile ou pas, mais c’était la vraie vie, l’ensemble des actes nécessaires pour la jouissance individuelle et collective de bien manger et boire, se coucher à l’abri, faire l’amour, communiquer, apprendre, se soigner, jouer et s’amuser en jouissant. C’était la vie organique et non pas la survie artificielle, la vie orgastique et non pas la réification et l’aliénation aujourd’hui répandues. Si on pourrait demander à un hypothétique individu organique primitif quel est son travail, il aurait du mal à repondre, j’en suis sur.

D’un côté l’amour, l’empathie, la communauté humaine, de l’autre la communauté belliqueuse, guerrière, bâtie sur l’indifférence egocentrique envers ses semblables, l’autre genre, les sauvages, les étrangers, les untermenchen. D’abord l’indifférence calculée, l’absence d’empathie, l’épargne de soi, la rétention mécanique du sphincter qui interdit la dépense émotionnelle généreuse et l’abandon au plaisir réciproque, le caractère phallique[4] qui fait basculer l’humain du don à l’échange rentable ; la haine vient après car, comme l’amour, elle implique une émotion, donc une empathie négative.

Les fascismes caractériels et politiques – renversements pathogènes provoqués par la carapace caractérielle où la peste émotionnelle octroie à l’indifférence des connotations agressives que la peur et les paranoïas multiplient – échafaudent toujours des communautés morbides fondées sur une haine commune. La communauté humaine y est cruellement absente, mais elle est toujours affichée comme une icône sacrée sur les monstrueux drapeaux patriotiques d’une nation violée, fantasmée, possédée, humiliée et utilisée par l’Etat et ses bourreaux, étouffée par une rhétorique nationaliste malade de suprématisme.

Une société du bon vivre organiserait le « travail » nécessaire à créer les conditions du bonheur pour le peuple et par le peuple, sans hiérarchies structurelles. Néanmoins, après 7000 ans de productivisme, il faudra l’inventer à l’envers du travail aliéné, à commencer par la renaissance de l’humain dont les racines se sont abimées dans la lutte de classe et de genre jusqu’à s’aliéner dans la consommation et la réification.

Le productivisme a construit sur la peur de la pénurie la course au privilège qui est le moteur central de l’économie politique. Néanmoins, la critique du capitalisme et de l’économie politique ne peuvent pas renverser la perspective du monde à l’envers sans mettre en discussion la civilisation productiviste dans sa totalité et sans remettre au centre cette vie organique que le productivisme a progressivement affaiblie et presque abolie. Pour cela il faut avoir bien en tète qu’une démocratie organique sera inéluctablement une demoacratie, incompatible avec l’Etat, avec les hiérarchies de pouvoir et le moindre suprématisme.

Sans aucune certitude, mais sans alternative possible, une telle mutation radicale est en train de se dessiner dans l’éclosion d’une conscience d’espèce qui nous relie à nos racines organiques sans aucune nostalgie primitiviste. Une conscience nouvelle émerge dans cette époque pestifère comme le dépassement possible d’une conscience de classe vaincue par le consumérisme au point que ses restes malades sont réduits à quémander une réduction symbolique de la pollution et de l’exploitation, non pas leur abolition radicale.

Une abolition, évidemment, désormais aussi urgente que nécessaire sinon sur le plan quantitatif absolu (vue l’énormité de la question démographique), du moins sur le plan qualitatif qui est le plus important parce qu’il concerne tout le monde jusqu’à la survie même de l’espèce. Je crains qu’on aille payer un prix extrêmement fort en vies humaines avant de se ressaisir, mais on n’aura pas d’autres choix, ça c’est sur. Même peint en vert, le capitalisme n’est pas réformable ni ne le veut et le productivisme qui l’a généré non plus.

Il faut que le voyage de la vie change radicalement de cap. Ce qui signifie inéluctablement – plus c’est tôt, mieux c’est – l’arrêt total des énergies mortifères, la substitution des énergies polluantes par des énergies gratuites et renouvelables, l’élimination des causes humaines des risques pandémiques et du réchauffement climatique. On doit arrêter le productivisme tout suite, « coute que coute », comme nos gouvernants ridicules ont déjà du faire à doses homéopathiques face au petit Covid 19/84, hors d’œuvre du repas que la nature et l’histoire vont nous servir.

Alors qu’on assiste ébahis et interloqués à des pseudo révoltes d’esclaves qui veulent continuer à le rester au nom d’une liberté de serviteurs volontaires et d’un déni de réalité délirant, on ne peut que reconstituer à la base, dans chaque situation locale qui lorgne sur le planétaire, la relation organique avec la nature que le productivisme a détruit. Ce choix stratégique incontournable de défense de la vie, qu’on le choisit ou pas, passe par l’abandon immédiat de l’industrialisme capitaliste et de la croissance économique, ramenant les savoirs faire techniques à l’utilité collective et non plus à la rentabilité individuelle.

On le fera librement par un choix populaire conscient ou nos seigneurs minables y seront obligés (peu, mal, dangereusement, rechignant et de façon contradictoire comme avec la pandemie) par une nature qui ne s’embarrasse pas de revendications syndicales ni de manifestations revendiquant le retour débile de la survie consumériste et marchande en pleine syndémie. A nous la liberté de se réconcilier avec l’humain organique ou de mourir comme des rats gavés de productivisme. Car celle-ci est la nouveauté qui préannonce la conscience d’espèce émergeante : la révolution sociale a une nouvelle camarade sans états d’âme, sans idéologies ni partis et impossible à corrompre – la nature. On gagnera avec elle ou on mourra contre elle. Choisi ton camp, camarade !

Sergio Ghirardi Sauvageon, 20 juillet 2021



[1] Marshall Sahlins, Age de pierre, age d’abondance, Gallimard, Paris 1976.

[2] Particulièrement intéressante la définition de l’art par Aristote dans L’Éthique à Nicomaque : « Une disposition productive accompagnée de raison ».

[3] Du grec poiein qui  signifie faire.

[4] Voir W. Reich, L’Analyse caractérielle, Payot, Paris 1976.