mercoledì 18 maggio 2022

L’onere realistico - Agustín GARCĺA CALVO - APOFTEGMI SUL MARXISMO

 



Tradotto dallo spagnolo in francese da Manuel Martinez. Presentato da Andrés Bredlow e Anselm Jappe Crisis & Critique, “Al cuore dell'oscurità”, 2022, 192 pagg. Traduzione in italiano di Sergio Ghirardi Sauvageon.

 

In un'intervista del 2010 condotta da Isidro López, Agustín García Calvo ha dichiarato: “Durante gli anni del mio piacevole esilio a Parigi, dal 1969 al 1976, pubblicai con Ruedo Ibérico Apoftegmi contro il marxismo in cui si denunciavano le credenze propagate dal Partito Comunista e da altri che, molto presto, mi avevano infastidito e contro le quali bisognava lottare. In seguito ho avuto il piacere di appoggiarmi di tanto in tanto sulle scoperte dello stesso Marx, come la vendita della forza lavoro, un'idea che ho cercato di sviluppare per altre vie”. Nel maggio 1970, prima della fine del primo anno di esilio di Agustín, la casa editrice Ruedo Ibérico pubblicò, in modo molto discreto e senza indicarne l'autore, un opuscolo intitolato Apoftegmi sul marxismo in occasione della commemorazione della nascita di Karl Marx. L'intenzione che ha guidato Agustín non era quella di fare una critica dell'opera di Marx, ricca di contributi, e quindi di partecipare, per il semplice fatto di effettuarla, al rafforzamento dell'Ordine costituito, ma di rivelare come la sua divulgazione sotto forma di marxismo era degenerata in un credo, un sistema di dogmi "inerte e reazionario". Proprio per questo, dialogando "sul marxismo finito a far parte dell'ideologia dominante", le edizioni di Ruedo Ibérico hanno deciso di pubblicare nuovamente gli Apoftegmi nel numero 55-57 della loro rivista, Cuadernos, corrispondente al periodo di gennaio-giugno 1977 e dedicato a Bakunin, Marx, in margine della polemica. In questo scritto, Agustín ha voluto dedicarsi all'"oscuro lavoro di uccidere ciò che è morto", vittima dei "germi letali dell'ideologia e della dottrina", parlando dei "pesi morti del marxismo", del suo onere, e non della sua forza sovversiva e liberatrice, in particolare quella che era alla base dei suoi sviluppi di concetti come Lavoro, Denaro e Capitale. È curioso che García Calvo non sia mai stato catalogato come marxista, quando, per molto meno, alcuni hanno cercato di integrarlo nel pensiero dominante come post-strutturalista, attribuendogli un'affiliazione con autori come Nietzsche, di cui ha sempre negato l'influenza, e affibbiandogli somiglianze con Deleuze e Foucault. A prima vista, per comprendere il legame tra Agustín e Marx, sarebbe opportuno fare appello al suo trattamento critico della nozione di Realtà, parola che, in quanto idea – rappresentazione al servizio del Potere – è sempre scritta da lui con una lettera maiuscola. Il termine “Realtà” è specifico, prodotto della nostra cultura in un determinato momento storico; fu un'invenzione accademica medievale, costruita dal latino res (cosa), per designare un quadro situato tra il regno di Dio e l'ignoto, ciò che non si conosce, che gli Antichi chiamavano talvolta natura. In linea di principio si riferiva ad attività quali il Commercio, la Giustizia o le Arti. È vano cercare un termine simile nell'antichità. La realtà è stata stabilita dall'apice dell'autorità terrena con l'aiuto dell'autorità scolastica. Per influsso di astrazioni come Uno, Niente o Tutto, si sono obbligate le cose, gli esseri viventi e inerti, “a essere o credere di essere, ciascuna di loro, una, niente o tutte”. Sotto la determinazione dalle idee, le persone e gli oggetti potevano ormai credersi Realtà, una Realtà determinata dalle "ingiunzioni dall'alto" siano esse chiamate Regime, Chiesa, Stato o Capitale –, accettate dai mortali come atto di fede. È a smascherare questo inganno, questa falsificazione, che Agustín dedicherà tutti i suoi sforzi. Il suo tenace e filologico desiderio di seguire la via eraclitea, cioè quella del pensiero pre-filosofico, complicava il suo linguaggio e rendeva difficile la comprensione, ma lo stesso si poteva dire della via hegeliana seguita da Marx. In definitiva, la Realtà non era “tutto ciò che c'è”, e ancor meno il ricettacolo della verità residente al di fuori di essa. Così come si presentava a noi, era semplicemente la concretizzazione materiale delle ideologie del Dominio o, come direbbe Marx, del Capitale stesso. In definitiva era una relazione sociale mediata da astrazioni e sostenuta dalla fede in esse. Agustín ha trovato nel Capitale di Marx un metodo originale per comprendere ciò che chiamava Realtà, per svelarne le contraddizioni e distruggerle. Con esso si annullava l'antitesi tra soggetto e oggetto; la persona – il lavoratore – era semplicemente una cosa, con tutte le sue caratteristiche economiche. La realtà era solo Economia. Al suo interno il Denaro, "nome comune di tutte le cose", divorando letteralmente la forza lavoro, si convertiva in Capitale, Denaro "reso umano", "erede di tutti i tratti di soggettività che gli hanno ceduto i lavoratori". Leggendo questi brevi commenti, comprendiamo la gioia suscitata, decisamente post festum, nella scuola della "critica del valore" all'ascolto del suono di queste "poche note della dialettica marxiana", in un'opera ben anteriore alle riflessioni di Postone. Agustín ha attaccato il grande punto debole del marxismo, il suo materialismo. Il concetto di Materia è idealistico quanto il concetto di Spirito attorno al quale Hegel ha centrato il suo sistema, e doveva essere combattuto come erede della Religione. In verità, l'idea non è venuta da Marx, ma da Engels, adottata con entusiasmo dalla socialdemocrazia tedesca e da Lenin. Il salto indietro verso il materialismo meccanico e scientistico fu già abilmente criticato da Anton Pannekoek in Lenin come filosofo e da Karl Korsch in Marxismo e filosofia, e non c'è, dunque, molto da aggiungere. L'altra contraddizione segnalata da Agustín derivava dall'aggettivo “storico” che accompagnava il materialismo e la dialettica marxista. Perché, confondendo Storia e Realtà, la narrazione dei fatti accaduti ha finito per convertirsi in un passato morto, oggetto di studio scientifico: l'azione era sostituita dall'Idea dell'azione, e la narrazione dall'ideologia, "visione diffusa e imposta dalla Società in funzione”. La contraddizione stava nel Tempo – tempo lineare, cronologico, ovviamente –, chiamato anche Evoluzione o Progresso. Tuttavia, già Walter Benjamin – cui allude lo stesso Agustín – aveva affrontato l'argomento con maggiore chiarezza, esponendo la dialettica della rivoluzione come una rottura nel continuum storico reificato, quell'improvviso slancio della vita fuori dall'epoca determinato dalle improvvise accelerazioni del tempo durante le rivolte popolari. Un altro autore contemporaneo di Benjamin, Siegfried Kracauer, in Storia – Delle penultime cose, citerà il concetto di "avvenimento emergente", riferendosi all'avvenimento che determina il proprio contesto invece di essere prodotto da esso, consigliando allo storico – al narratore – di “dedicarsi alle molteplici forme di tempo”. Uno dei punti più deboli dell'ideologia marxista era – ed è tuttora – la sua valorizzazione positiva del lavoro e l'esaltazione della condizione operaia, in totale contraddizione con le analisi di Marx. L'operaismo spiegava i limbi in cui erano relegati tanto il disgusto per la fabbrica quanto la critica del consumismo e della vita quotidiana, escluse le ricerche di Henri Lefebvre e dell'Internazionale situazionista che Agustín certamente ignorava. Più incisiva è stata la sua disapprovazione del luogo comune per eccellenza del marxismo – e non solo del marxismo – ovvero la lotta di classe. Sebbene la dinamica capitalista non avesse ancora chiuso con le classi così come esse esistevano all'inizio del secolo, e il proletariato fosse quindi ancora una forza storica da considerare, pur se questo non era vero ovunque, il processo di razionalizzazione che aveva significativamente modificato lo schema delle classi era molto visibile. Stavano affermandosi nuove classi, alimentate dallo sviluppo statale e tecnologico e il proletariato stava perdendo slancio mentre il ruolo dello Stato cresceva. Inoltre, le lotte per la liberazione delle nazioni oppresse, soppiantando la lotta di classe, trascinavano Marx nel letamaio del nazionalismo. In una prospettiva terzomondista contraria all'internazionalismo, gli sfruttati non erano gli stessi ovunque e il Capitale era meno dannoso in alcuni paesi che in altri; una cosa del genere doveva, secondo Agustín, essere contraddetta dagli stessi oppressi, senza mezze misure e senza “moltiplicare i regni delle successive epifanie del Signore”. Agustín insisteva sulla convergenza tra Capitale e Stato che stava dando vita a un nuovo capitalismo – già denunciato da Bruno Rizzi nei confronti della società sovietica e da Friedrich Pollock e Franz Neumann, teorici della Scuola di Francoforte – e quindi a una trasformazione delle classi e della natura dell'oppressione. Il capitalismo di Stato, totalitario o "democratico", che ha sostituito la sua forma liberale, si caratterizzava per un ordinamento burocratico dei mercati e per un controllo statale dei movimenti di capitale, responsabile quindi di una prima smaterializzazione del Denaro, non più basato su alcun valore di riferimento ma sull'autorità dello Stato. Lo Stato diventava più attraente, ammesso che ciò sia possibile, per il marxismo ordinario, ma per Agustín la conquista politica dello Stato non eliminava la contraddizione tra governanti e governati, non eliminava lo sfruttamento, poiché qualsiasi forma di potere costituito – qualsiasi Stato – era una forma di Capitale. Stato e Capitale erano due facce della stessa cosa, quella pubblica e quella privata, impossibili da distruggere separatamente. Oggi, quando entrambi sono entrati nella fase neoliberista, le cose vanno molto peggio, perché il Denaro – il Potere, la Realtà, il Tutto – si basa sul credito e sulla fiducia nella Banca privata, mentre lo Stato resta ai margini, svolgendo le funzioni enormemente sviluppate di esecutore delle sue direttive, di poliziotto e di carceriere. L'enorme rinforzamento dello Stato ha reso quasi puerili le osservazioni perspicaci di Agustín. Visto a distanza, questo sostanzioso opuscolo è oggi un po' inferiore ai fatti, sia per il degrado subito dal marxismo ideologico, sia per la disintegrazione della più grande conquista della civiltà borghese, cioè l'Individuo, immerso nelle categorie – idee o immagini – strutturanti del capitalismo. Le osservazioni finali ci portano a Freud, altro autore elogiato da Agustín che si diverte ad affermare che l'anima è di natura freudiana poiché segue le regole descritte dalla psicoanalisi. Allo stesso modo, l'anima è marxista poiché si comporta secondo le regole dell'economia descritte da Marx. Infine, Agustín, e questa è la cosa più importante, ammette che questi apoftegmi sulle scoperte di Marx e sulle aberrazioni del marxismo funzioneranno solo nella misura in cui sembrano provenire dalla voce anonima dei miserabili della terra, del popolo che non esiste in quanto componente positiva della Realtà, del comune che dice sempre “no”.

 

Miguel AMORÓS – À contretemps / Recensioni e studi critici / Maggio 2022 – [http://acontretemps.org/spip.php?article918 ]

 


Le fardeau réaliste

Agustín GARCĺA CALVO

APOPHTEGMES SUR LE MARXISME

Traduit de l’espagnol par Manuel Martinez Présenté par Andrés Bredlow et Anselm Jappe Crise & Critique, « Au cœur des ténèbres », 2022, 192 p.

Dans un entretien de 2010 réalisé par Isidro López, Agustín García Calvo déclarait : « Durant les années de mon agréable exil à Paris, de 1969 à 1976, je publiai chez Ruedo Ibérico des apophtegmes contre le marxisme où étaient dénoncées les croyances, propagées par le Parti communiste et par d’autres qui, très tôt, m’avaient dérangé et contre lesquelles il fallait lutter. J’ai pris plaisir ensuite à m’appuyer de temps à autre sur les découvertes de Marx lui-même, comme la vente de la force de travail, une notion que j’ai tenté de développer par d’autres voies ». En mai 1970, avant la fin de la première année d’exil d’Agustín, les éditions Ruedo Ibérico éditaient en effet, très discrètement et sans indication d’auteur, une brochure intitulée Apophtegmes à propos du marxisme à l’occasion de la commémoration de la naissance de Karl Marx. L’intention qui guidait Agustín n’était pas d’effectuer une critique de l’œuvre de Marx, riche en contributions, et de participer ainsi, du simple fait de la faire, au renforcement de l’Ordre établi, mais de dévoiler comment sa vulgarisation sous la forme de marxisme avait dégénéré en un credo, un système de dogmes « inerte et réactionnaire ». C’est précisément pour cela, pour discourir « sur le marxisme qui a fini par faire partie de l’idéologie dominante », que les éditions Ruedo Ibérico décidèrent de publier de nouveau les Apophtegmes dans le numéro 55-57 de leur revue, Cuadernos, correspondant à la période de janvier-juin 1977 et consacré à Bakounine, Marx, en marge de la polémique. Dans cet écrit, Agustín souhaitait se consacrer à l’« obscur labeur de tuer ce qui est mort », victime des « germes létaux de l’idéologie et de la doctrine », en parlant « des poids morts du marxisme », de son fardeau, et non de sa force subversive et libératrice, particulièrement celle qui était sous-jacente dans ses développements de concepts comme Travail, Argent et Capital. Il est curieux que García Calvo n’ait jamais été taxé de marxiste, alors que, pour bien moins, certains ont tenté de l’intégrer à la pensée dominante comme poststructuraliste en lui attribuant une filiation avec des auteurs comme Nietzsche, dont il nia toujours l’influence, et en lui cherchant des similitudes avec Deleuze et Foucault. À première vue, pour comprendre le lien entre Agustín et Marx, il conviendrait de faire appel à son traitement critique de la notion de Réalité, mot qui, en tant qu’idée – représentation au service du Pouvoir – s’écrit toujours chez lui avec une majuscule. Le terme « Réalité » est spécifique, produit de notre culture en un moment historique déterminé ; ce fut une invention savante médiévale, construite à partir du latin res (chose), pour désigner un cadre situé entre le royaume de Dieu et l’inconnu, ce qui ne se sait pas, que les Anciens appelaient parfois natura. En principe, il faisait référence à des activités comme le Commerce, la Justice ou les Arts. C’est en vain que l’on chercherait un semblable vocable dans l’Antiquité. La Réalité fut établie depuis le sommet de l’autorité terrestre avec l’aide de l’autorité scolastique. Par influence des abstractions comme Un, Rien ou Tout, on obligea les choses, les êtres vivants et inertes, « à être ou à croire qu’elles sont, chacune d’entre elles, une, rien ou toutes ». Attrapés dans les idées, les personnes et les objets pouvaient dès lors se croire Réalité, Réalité qui était déterminée par « les injonctions d’en haut » – qu’on les nomme Régime, Église, État ou Capital – et acceptée par les mortels comme un acte de foi. C’est à démasquer cette tromperie, cette falsification, qu’Agustín consacrera tous ses efforts. Sa volonté tenace et philologique de suivre la voie héraclitéenne, c’est-à-dire celle de la pensée pré philosophique, compliqua son langage et rendit difficile sa compréhension, mais l’on pouvait en dire tout autant de la voie hégélienne suivie par Marx. Finalement, la Réalité n’était pas « tout ce qu’il y a », et encore moins le réceptacle de la vérité, qui résidait en dehors d’elle. Telle qu’elle se présentait à nous, c’était simplement la concrétisation matérielle des idéologies de la Domination, ou comme le dirait Marx, le Capital lui-même. C’était en fin de compte une relation sociale médiatisée par des abstractions et étayée par la foi en celles-ci. Agustín trouva dans Le Capital de Marx une méthode originale pour comprendre ce qu’il appelait Réalité, pour en dévoiler les contradictions et les détruire. Avec elle, l’antithèse entre sujet et objet se trouvait annulée ; la personne – le travailleur – était simplement une chose, avec tous ses attributs économiques. La Réalité n’était qu’Économie. En son sein, l’Argent, « nom commun de toutes les choses », en dévorant littéralement la force de travail, se convertissait en Capital, l’Argent « rendu humain », qui « hérite de tous les traits de subjectivité que les travailleurs lui ont cédés ». À la lecture de ces brefs commentaires, nous comprenons l’allégresse suscitée très post festum dans l’école de la « critique de la valeur » en écoutant le son de ces « quelques notes de la dialectique marxienne », dans une œuvre bien antérieure aux réflexions de Postone. Agustín attaquait le grand point faible du marxisme, son matérialisme. Le concept de Matière est aussi idéaliste que le concept d’Esprit autour duquel Hegel centra son système, et il devait être combattu comme héritier de la Religion. En vérité, l’idée ne provenait pas de Marx, mais d’Engels, étant adoptée avec enthousiasme par la social-démocratie allemande et par Lénine. Le saut en arrière, vers le matérialisme mécanique et scientiste, fut déjà critiqué adroitement par Anton Pannekoek dans Lénine philosophe et par Karl Korsch dans Marxisme et philosophie, et il n’y a donc pas grand-chose à ajouter. L’autre contradiction signalée par Agustín dérivait de l’appellatif « historique » qui accompagnait le matérialisme et la dialectique marxiste. Car, Histoire et Réalité se confondant, la narration des faits ayant eu lieu finissait par se convertir en un passé mort, objet d’étude scientifique : l’action était remplacée par l’Idée de l’action, et la narration par l’idéologie, « vision répandue et imposée par la Société en vigueur ». La contradiction résidait dans le Temps – temps linéaire, chronologique, bien sûr –, qu’on l’appelle aussi Évolution ou Progrès. Toutefois, Walter Benjamin déjà – auquel Agustín lui-même fait allusion – avait abordé le sujet avec une clarté supérieure, en exposant la dialectique de la révolution comme une rupture du continuum historique réifié, ce saut soudain de la vie hors de l’époque qu’entraînaient les brusques accélérations du temps durant les insurrections populaires. Un autre auteur contemporain de Benjamin, Siegfried Kracauer, dans L’Histoire - Des avant-dernières choses, mentionnera le concept d’« événement émergent », en se référant à l’événement qui détermine son contexte au lieu d’être produit par celui-ci, et il conseillait à l’historien – au narrateur – de « se consacrer aux multiples formes de temps ». Un des points les plus faibles de l’idéologie marxiste était – et est encore – sa valorisation positive du travail et l’exaltation de la condition ouvrière, en totale contradiction avec les analyses de Marx. L’ouvriérisme expliquait les limbes où se trouvaient consignés tout autant le dégoût envers l’usine que la critique de la consommation et de la vie quotidienne, si nous exceptons les recherches d’Henri Lefebvre et de l’Internationale situationniste, qu’Agustín ignorait certainement. Plus incisive était sa réprobation du lieu commun par excellence du marxisme – et pas seulement du marxisme –, à savoir la lutte des classes. Bien que la dynamique capitaliste n’en avait pas encore fini avec les classes telles qu’elles existaient au début du siècle, et que le prolétariat constituait donc encore une force historique à considérer, même si cela n’était pas vrai partout, le processus de rationalisation qui avait considérablement modifié le schéma des classes était très visible. De nouvelles classes se développaient, couvées par le développement étatique et technologique, et le prolétariat s’essoufflait tandis que le rôle de l’État grandissait. De plus, les luttes pour la libération des nations opprimées, en déplaçant la lutte des classes, entraînaient Marx dans le fumier du nationalisme. Dans une optique tiers-mondiste contraire à l’internationalisme, les exploités n’étaient pas les mêmes partout et le Capital était moins nocif dans certains pays que dans d’autres ; une telle chose se devait, selon Agustín, d’être contredite par les opprimés eux-mêmes, sans demi-mesures et sans « multiplier les règnes des successives épiphanies du Seigneur ». Agustín insistait sur la convergence du Capital et de l’État, qui était en train de donner lieu à un nouveau capitalisme – déjà dénoncé par Bruno Rizzi en ce qui concerne la société soviétique et par Friedrich Pollock et Franz Neumann, théoriciens de l’École de Francfort – et par conséquent à une transformation des classes et de la nature de l’oppression. Le capitalisme d’État, totalitaire ou « démocratique », qui remplaçait sa forme libérale, se caractérisait par une régulation bureaucratique des marchés et un contrôle étatique des mouvements de capital, ainsi responsable d’une première dématérialisation de l’Argent, qui n’est plus basé sur aucun étalon mais sur l’autorité de l’État. L’État devenait plus attractif, à supposer que cela soit possible, pour le marxisme ordinaire, mais pour Agustín, la conquête politique de l’État ne supprimait pas la contradiction entre gouvernants et gouvernés, n’éliminait pas l’exploitation, puisque n’importe quelle forme de Pouvoir constitué – n’importe quel État – était une forme de Capital. État et Capital étaient deux faces de la même chose, la face publique et la face privée, impossibles à détruire séparément. Aujourd’hui, alors qu’ils sont tous deux entrés dans la phase néolibérale, les choses sont bien pires, car l’Argent – le Pouvoir, la Réalité, le Tout – se fonde sur le crédit et la foi en la Banque privée, alors que l’État reste en marge, accomplissant les fonctions hautement développées d’exécuteur de ses directives, de gendarme et de geôlier. L’énorme renforcement de l’État a rendu presque puériles les observations perspicaces d’Agustín. Vu à distance, ce substantiel opuscule est aujourd’hui un peu en dessous des faits, aussi bien pour ce qui est de la dégradation subie par le marxisme idéologique que de la désintégration de la plus grande réussite de la civilisation bourgeoise, à savoir l’Individu, immergé dans les catégories – idées ou images – structurantes du capitalisme. Les observations finales nous conduisent à Freud, autre auteur dont Agustín fait l’éloge, s’amusant à affirmer que l’âme est de nature freudienne puisqu’elle suit les règles décrites par la psychanalyse. De la même façon, l’âme est marxiste puisqu’elle se comporte selon les règles de l’économie décrites par Marx. Finalement, Agustín, et c’est là le plus important, avoue que ces apophtegmes à propos des découvertes de Marx et des aberrations du marxisme ne fonctionneront que dans la mesure où ils semblent provenir de la voix anonyme des misérables de la terre, du peuple qui n’existe pas en tant que composante positive de la Réalité, du commun qui toujours dit « non ».

 

Miguel AMORÓS – À contretemps / Recensions et études critiques / mai 2022 – [http://acontretemps.org/spip.php?article918]

 

  


EL LASTRE REALISTA

 

Comentarios inspirados en la lectura del folleto de Agustín García Calvo, Apotegmes sur le marxisme, editado por Crise & Critique, Albi (Francia), febrero de 2022.

 

 En una entrevista de 2010 realizada por Isidro López, Agustín García Calvo declaraba: “En los años de mi amable destierro en París, desde 1969 a 1976, publiqué en Ruedo Ibérico unos apotegmas contra el marxismo en los que se denuncian las creencias divulgadas por el Partido Comunista y otros, que me habían molestado desde muy pronto y contra las que había que luchar. Y, sin embargo, luego me he complacido en apoyarme de vez en cuando en descubrimientos del propio Marx, como la venta de la fuerza de trabajo, una noción que he tratado de desarrollar por otros caminos.” Efectivamente, en mayo de 1970, cuando todavía Agustín no cumplía el año de exilio, la editorial Ruedo Ibérico editaba muy discretamente y sin indicación de autor un folleto titulado Apotegmas a propósito del marxismo con motivo de la conmemoración del nacimiento de Carlos Marx. La intención que guiaba a Agustín no era la de llevar a cabo una crítica de la obra de Marx, rica en aportaciones, y contribuir por el mero hecho de hacerla al refuerzo del Orden establecido, sino de desvelar cómo su vulgarización bajo la forma de marxismo había degenerado en un credo, un sistema de dogmas “inerte y reaccionario”. Precisamente por eso, para discurrir “sobre el marxismo que ha pasado a formar parte de la ideología dominante” Ruedo Ibérico decidió publicar de nuevo los Apotegmas en su Cuaderno nº 55-57, correspondiente a enero-junio de 1977 y dedicado a Bakunin, Marx, al margen de la polémica. En el folleto, Agustín pretendía dedicarse a “la oscura labor de matar lo que está muerto”, víctima de “los gérmenes letales de la ideología y la doctrina”, hablando “de los pesos muertos del marxismo”, de su lastre, no de su fuerza subversiva y liberadora, especialmente la que subyacía en sus desarrollos de conceptos como Trabajo, Dinero y Capital. Resulta curioso que nunca le tacharan de marxista, cuando por mucho menos lo han tratado de integrar en el pensamiento dominante como post estructuralista, atribuyéndole padrinos como Nietzsche, cuya influencia siempre negó, y buscándole similitudes con Deleuze y Foucault. En principio, para entender la conexión de Agustín con Marx, convendría recurrir a su tratamiento crítico de la noción de Realidad, palabra que, en tanto que idea -representación al servicio del Poder- siempre escribe con mayúscula.

 

El término “Realidad” es específico, producto de nuestra cultura en un determinado momento histórico; fue una invención culta medieval, hecha a partir del latín res (cosa), para designar un escenario situado entre el reino de Dios y lo desconocido, lo que no se sabe, aquello a lo que los antiguos a veces llamaban natura. En principio se refería a actividades como el Comercio, la Justicia o las Artes. En vano se buscará un vocablo semejante en la Antigüedad. La Realidad quedó establecida desde la cúspide de la autoridad terrenal con auxilio de la escolástica. Por influjo de abstracciones como Uno, Nada o Todo, se obligó a las cosas, a los seres vivos e inertes,“a ser o a creer que son, cada una de ellas, una, nada o todas”. Atrapadas en las ideas, las personas y los objetos, ya podían creerse Realidad, la cual quedaba determinada por “los dictados de arriba” -llámese Régimen, Iglesia, Estado o Capital- y aceptada por los mortales como acto de fe. Era pues un engaño, una falsificación, a cuyo desenmascaramiento Agustín dedicará todos sus esfuerzos. Su voluntad pertinaz y filológica de andar por la vía heracliteana, es decir, del pensamiento prefilosófico, complicó su lenguaje y dificultó su comprensión, pero otro tanto podía decirse de la vía hegeliana de Marx. En fin, la Realidad no era “todo lo que hay”, ni mucho menos el receptáculo de la verdad, algo que campaba fuera de ella. Tal como se nos presentaba, era simplemente la concreción material de las ideologías de la Dominación, o tal como diría Marx, el mismísimo Capital. Era a fin de cuentas una relación social mediatizada por abstracciones y apuntalada por la fe en ellas.

Agustín halló en El Capital de Marx un método original de entender lo que llamaba Realidad, desvelar sus contradicciones y demolerlas. Con él, la antítesis entre sujeto y objeto quedaba superada; la persona -el trabajador- no era sino la cosa, con todos sus atributos económicos. La Realidad no era más que Economía. En su seno, el Dinero, “nombre común de todas las cosas”, gracias a devorar literalmente la fuerza de trabajo, se convertía en Capital, el Dinero “hecho hombre”, que “hereda todos los rasgos de la subjetividad que los trabajadores le han cedido”. Ante estas breves glosas nos hacemos cargo del jolgorio levantado muy post festum en la escuela de la “crítica del valor” al escuchar el sonido de unas cuantas teclas del “esqueleto de la dialéctica marxista” en una obrita muy anterior a las reflexiones de Postone.

Agustín atacaba el gran punto débil de marxismo, su materialismo. El concepto de Materia es tan idealista como el concepto de Espíritu con el que Hegel centró su sistema y aquella tenía que ser combatida como heredera de la Religión. En verdad, la idea no provenía de Marx, sino de Engels, siendo adoptada con entusiasmo por la socialdemocracia alemana y por Lenin. El salto hacia atrás, hacia el materialismo mecánico y cientista, ya fue criticado certeramente por Anton Pannekoek en Lenin Filósofo y por Karl Korsch en Marxismo y Filosofía, por lo que queda poco por añadir. La siguiente contradicción señalada por Agustín derivaba del apelativo “histórico” que acompañaba al materialismo y a la dialéctica marxista. Pues, al confundirse Historia con Realidad, la narración de los hechos acontecidos acababa convirtiéndose en pasado muerto, objeto de estudio científico: la acción quedaba reemplazada por la Idea de la acción, y la narración por la ideología, “visión vulgar e impuesta por la Sociedad vigente”. La contradicción radicaba en el Tiempo, -tiempo lineal, cronológico, se entiende- llámese también Evolución o Progreso. Sin embargo, ya Walter Benjamín –al que el propio Agustín alude- había tratado el tema con mucha más claridad, al exponer la dialéctica de la revolución como una ruptura del continuum histórico reificado, el salto repentino de la vida fuera de la época que conllevaban las bruscas aceleraciones del tiempo durante las insurrecciones populares. Otro autor coetáneo de Benjamín, Siegfried Krakauer, en L’Histoire des avant-dernières coses mencionaría el concepto de “acontecimiento emergente”, refiriéndose al suceso que determina su contexto en vez de ser producido por él, y aconsejaba al historiador –al narrador- a “consagrarse a las múltiples formas de tiempo.”

Uno de los puntos más débiles de la ideología marxista era -y es- su valoración positiva del trabajo y la exaltación de la condición obrera, en contradicción total con los análisis de Marx. El obrerismo explicaba el limbo en el que se tenía tanto al horror de la fábrica, como a la crítica del consumo y de la vida cotidiana, si exceptuamos las indagaciones de Henri Lefebvre y la Internacional Situacionista, que seguramente Agustín ignoraba. Mas incisiva resultaba su reprobación del lugar común por excelencia del marxismo –y no solo del marxismo-, o sea, la lucha de clases. Si bien la dinámica capitalista aún no había acabado con las clases tal como existían a principios de siglo, y, por consiguiente, el proletariado constituía todavía una fuera histórica a considerar, aunque no en todas partes, era muy visible el proceso de racionalización que había modificado considerablemente el esquema clasista. Al calor del desarrollo estatal y tecnológico se desarrollaban nuevas clases, el proletariado perdía fuelle y crecía el papel del Estado. Encima, las luchas por la liberación de las naciones oprimidas, al desplazar la lucha de clases arrastraban a Marx por el estercolero del nacionalismo. Bajo una óptica tercermundista contraria al internacionalismo, los explotados no eran los mismos en todas partes y el Capital resultaba también menos dañino en unos países que en otros, algo que en opinión de Agustín tocaba a los oprimidos contradecir, pero sin conformarse con medias tintas y no “multiplicar los reinos de las sucesivas epifanías del Señor.”

Agustín insistía en la convergencia del Capital y el Estado, que estaba dando lugar a un nuevo capitalismo -ya denunciado por Bruno Rizzi en lo que respecta a la sociedad soviética y por Friedrich Pollock y Franz Neumann, teóricos de la Escuela de Frankfurt- y por lo tanto, a una transformación de las clases y la naturaleza de la opresión. El capitalismo de Estado, totalitario o “democrático”, que venía a sustituir a su forma liberal, se caracterizaba por una regulación burocrática de los mercados y un control estatal de los movimientos de capital. Responsable de una primera desmaterialización del Dinero, ya no basado en un patrón cualquiera, sino en la autoridad del Estado. El Estado se volvía más atractivo si cabe para el marxismo vulgar, pero para Agustín, la conquista política del Estado no suprimía la contradicción entre gobernantes y gobernados, ni eliminaba la explotación, pues cualquier forma de Poder constituido –cualquier Estado- era una forma de Capital. Estado y Capital eran dos caras de lo mismo, la pública y la privada, imposibles de destruir por separado. Hoy, cuando ambos han entrado en la fase neoliberal, las cosas son mucho peores, pues el Dinero –el Poder, la Realidad, el Todo- se fundamenta en el crédito y la fe en la Banca Privada, mientras el Estado queda al margen, cumpliendo las funciones altamente desarrolladas de ejecutor de sus directrices, gendarme y carcelero.

El enorme rearme del Estado ha vuelto casi pueriles las agudas advertencias de Agustín. Visto desde la distancia, este sustancioso opúsculo se queda algo corto, tanto en la degradación experimentada por el marxismo ideológico, como en la desintegración del mayor logro de la civilización burguesa, a saber, el Individuo, inmerso en las categorías -ideas o imágenes- estructurantes del capitalismo. Las observaciones finales nos conducen a Freud, otro autor ponderado por nuestro personaje, quien ironiza al afirmar que el alma es de naturaleza freudiana, puesto que obedece a las pautas descritas por el psicoanálisis. De igual manera, el alma es marxista, puesto que se comporta según las reglas de la economía descritas por Marx. Finalmente, Agustín, y eso es lo más importante, se siente obligado a confiar en que sus apotegmas a propósito de los aciertos de Marx y las aberraciones del marxismo no funcionarán a menos que parezcan salidos de la voz anónima de los miserables de la tierra, del pueblo que no existe como componente positivo de la Realidad, del común que siempre dice “no”. 

 

Miguel Amorós, 11 de mayo de 2022.