domenica 10 marzo 2024

I nuovi cliché dell'ordine costituito

 



Pubblicato il 28 febbraio 2024

 

I luoghi comuni presenti nel discorso dell’élite dominante, elevati a categoria di cliché da una pletora di portavoce e panegiristi, riflettono una doppia evoluzione contraddittoria: da un lato, la completa integrazione di ogni attività umana nell’economia globale; dall'altro, il ritorno dello Stato come strumento complementare di detta integrazione.

Come dice la sensibilità burocratica odierna, senza Stato non c’è mercato, soprattutto dopo il crollo del 2008 e la pandemia. È indiscutibile che i mercati governano e dettano legge, soprattutto quelli finanziari, ma, in verità, sono gli Stati a gestire le disfunzioni di questo tipo di governo. Vivono per l'economia. Lo stile di vita moderno, industriale e consumistico sarebbe altrimenti impossibile, senza un apparato amministrativo e coercitivo che riparasse i fallimenti della macchina capitalista e attutisse i conflitti suscitati. Lo Stato, cioè l’organizzazione della società basata sul dominio e sul monopolio della violenza, sulla combinazione perversa tra violenza e potere, gioca un certo ruolo nella nuova ristrutturazione capitalista in corso. Il quale, in bocca ai difensori populisti dell’ordine costituito, fa nascere il grande cliché dello Stato paternalista come risposta a tutti i problemi dei cittadini, da quelli ambientali a quelli sociali. “Lo Stato è tutto”, dicono: da esso dipendono la sicurezza, il benessere, il facile arricchimento, il divertimento. Per il partito dell'ordine è infatti una forma indispensabile di organizzazione sociale.

L’illusione di un possibile interesse comune tra lo Stato e i suoi sudditi, o l’assunzione di uno spazio inesistente in cui conciliare mezzi coercitivi statali e pratiche democratiche orizzontali, sono essenziali affinché i governati agiscano secondo determinati orientamenti in tempi di crisi – non ci sono altre possibilità – a favore delle misure restrittive imposte, lasciando la discussione e l’analisi a specialisti stipendiati. Non sono però lontani i tempi in cui lo Stato era considerato patrimonio politico delle classi privilegiate, cioè il potere organizzato della classe dominante sulle masse dominate. Il cosiddetto welfare state era semplicemente la forma statale del capitalismo nazionale, un prodotto fallito della lotta di classe, del dominio politico borghese tipico di una fase pre-globalizzazione ormai scomparsa. Ignorare questa verità significa mascherare l’esistenza di detta classe, cosa che fanno solitamente i politici, e anche i “verdi”, poiché sono stati cooptati dall’ordine e, data la facilità con cui assimilano i comportamenti borghesi nella vita quotidiana, anche loro credono di appartenervi di fatto. In breve, la volontà popolare non potrà mai esprimersi attraverso lo Stato, come potere separato, ma piuttosto ai margini. Il compito delle istituzioni statali non è rappresentarlo, ma sostituirlo. Lo Stato è tanto più forte perché questa volontà non trova forme organizzative adeguate per formularsi. Al contrario, la sua inutilità è chiaramente visibile quando la società civile sa come auto-organizzarsi.

Uno dei luoghi comuni più diffusi tra i leader è quello di essere “sulla soglia di una crisi”. L’inquinamento, i salvataggi bancari, il picco del petrolio, il riscaldamento globale, l’esclusione e, naturalmente, le guerre, mettono in luce i molteplici volti dei problemi dell’economia mondializzata, sia sotto forma di cambiamento climatico che come problema finanziario, bassa fertilità del suolo, carenza di energia o contrazione dell’offerta alimentare. I leader sono diventati catastrofisti e hanno adottato il linguaggio dei progressisti post-stalinisti, dei populisti di sinistra e degli ecologisti da salotto, tutti keynesiani furiosi e, come tali, convinti sostenitori dello Stato. Tuttavia, la crisi è inerente al capitalismo, poiché il suo normale funzionamento consiste nel sovvertire le relazioni sociali su cui si basava in precedenza. Le crisi sono i motori della globalizzazione, necessari alla crescita economica: sono la sua condizione di esistenza. La crisi attuale, soglia di una recessione in tutti i sensi, ci introduce in uno scenario di scarsità di materie prime, predominio vorace della finanza e volatilità dei prezzi che avrà conseguenze inquietanti sulle masse amministrate. In queste circostanze, il dominio riconosce il degrado sociale e ambientale come un fatto totale e cerca di mantenersi e trarne benefici. La catastrofe è oggi la condizione principale dello sviluppo capitalista e la forza trainante del suo programma di attività estrattive, il “Nuovo Patto Verde”, la cui ciliegina sulla torta è la “transizione energetica”. Il capitalismo “verde” è quella fuga in avanti che i settori industriale, finanziario, delle comunicazioni e della politica che lo rappresentano chiamano solitamente “progresso”.

Lo slogan “il capitalismo del futuro sarà verde o non sarà”, diventato popolare negli anni ’90 insieme allo “sviluppo sostenibile”, è un altro tema nell’aria. Il riscaldamento globale aveva finalmente raggiunto l’alta politica e i mali dello sviluppo non potevano essere negati. Giunta al punto in cui la crescita economica sconvolge l’esistenza di ampi settori della popolazione e mette addirittura in pericolo la sopravvivenza della specie umana, la ricerca del profitto privato si proclama conservatrice e ambientalista. I progetti ambientali, quando scoprono nuovi modi di accumulare capitale, diventano parte dei meccanismi di sviluppo del dominio in una partnership amichevole con l’attività mineraria recentemente riattivata e la totale digitalizzazione dell’economia, della vita e del lavoro. Il suo ruolo è evidente, ad esempio, nella recente invasione delle industriali pseudo-rinnovabili o nello sfruttamento delle risorse naturali di qualsiasi tipo. La connessione dell’apparato ecologico, professionalizzato e gerarchico, con il capitalismo “verde” attraverso i fondi “filantropici” è evidente: il discorso ecologico addomesticato è sempre più un discorso di esperti sulla gestione della penuria e della nocività. In realtà, la burocrazia “verde”, oltre ad essere una potente macchina di raccolta, è la paladina ideologica dell’ambientalismo di Stato e l’agente smobilitante dell’antisviluppo di base. A questo punto non è un segreto che la crisi climatica, la biodiversità, la tradizione contadina o l’inquinamento non contano per chi prende decisioni dall’alto; Ciò che conta davvero è la preservazione del regime capitalista – il mantenimento della civiltà industriale – poiché è l’unico modello di società in grado di aprire le porte alla brama di potere, all’ossessione di arricchirsi e alle esigenze consumistiche di uno stile di vita schiavo della merce e gestito da parassiti come quelli che abbiamo. Se teniamo presente questa priorità, quel che dice l’ambientalismo patentato non ha la minima importanza. Non significa niente, sono solo chiacchiere. Un sacco di cliché.

Dando per scontata l’inevitabilità dei conflitti territoriali, i meccanismi trasversali di partecipazione e dialogo possono essere perfetti trampolini di lancio per il salto verso la politica provinciale e regionale. Con l’intermediazione tra la resistenza agli attacchi al territorio e gli interessi estrattivisti, l’ambientalismo burocratico aspira ad aumentare il proprio peso nell’amministrazione, a partire dal pianterreno. Nemico degli attivisti, sabotatori e occupanti di zone da difendere, si rivolge piuttosto a una clientela di aspiranti consiglieri o deputati quando raccomanda di “generare spazi politici”. La politica è il terreno più adatto all’ambientalismo dell’ordine, “una colossale leva di cambiamento” d’accordo con il luogo comune più aberrante di tutti, maggiore persino dell’ottimismo tecnologico che solitamente l’accompagna. Quando si parla di politica non ci si riferisce all’arte di relazionarsi, deliberare pubblicamente e prendere decisioni comuni vantaggiose per l’intera comunità, lontano da istituzioni che non la rappresentano, ma alla politica parlamentare borghese, le cui regole del gioco favoriscono gli interessi della finanza, nel caso spagnolo nata da un compromesso tra la passata dittatura e l’opposizione moderata. In un momento di assoluto discredito di tale politica, di crisi del sistema dei partiti, di perdita di prestigio della partitocrazia anche presso le classi medie che ne sono state il principale sostegno, quando gli oppositori sono appena distinguibili gli uni dagli altri, i sostenitori del “Nuovo Patto Verde ” tra amministrazioni, multinazionali e organizzazioni politico-sindacali e verdi, interpretano le elezioni come veri e propri “plebisciti climatici”. Senza dubbio, una sorta di segno di approvazione della spettrale evoluzione “sostenibile” dell’economia diretta dagli Stati. Quando si parlava di politica, quella cattiva, che non esiste senza sistemi di potere separato, in realtà si parlava anche dello Stato contemporaneo, burocratico, militare e poliziesco. Una cosa implica l'altra.

I cliché dell’ambientalismo d’ufficio e del populismo di sinistra segnano un linguaggio politico degradato che mostra chiaramente l’amore per le poltrone. Questo perché il linguaggio della politica liberale serve a occultare l’abbraccio totalitario della merce, non a denunciarlo. Le regole della correttezza politica sanzionano implacabilmente le iniziative contrarie. Si attua la sottomissione agli imperativi economici, non il loro smascheramento, anche se in questi tempi di insicurezza degli approvvigionamenti e di proteste degli agricoltori, i mutamenti sono rallentati, soprattutto in materia energetica. In breve, l’obiettivo di un gergo impoverito e pieno di stereotipi è stordire, non risvegliare. Vendere la moto, non aprire la mente. Ricorrendo a Bakunin diremmo che “il trionfo dell’umanità, la conquista e la realizzazione della piena libertà e del pieno sviluppo materiale, intellettuale e morale di ciascuno, attraverso l’organizzazione assolutamente spontanea e libera della solidarietà economica e sociale, quanto più completa possibile, tra tutti gli esseri umani sulla terra” è, tra le altre cose, una questione di linguaggio. Si tratta ovviamente di identificare e descrivere con essa i falsi alleati e gli autentici nemici della buona causa dell'emancipazione umana, senza dimenticare coloro che agiscono dall'interno dei collettivi anticapitalisti, perché sono i più letali. Se non si vuole che i primi passi verso la libertà siano gli ultimi, ci si dovrà guardare da tutti loro.

  

Miquel Amorós, 25 febbraio 2024



Los nuevos tópicos del orden establecido

Publicado el 28 de febrero de 2024 / Por Miquel Amorós

 

 

Los lugares comunes presentes en el discurso de la elite dominante, elevados a la categoría de tópicos por una pleyade de voceros y panegiristas, reflejan una doble evolución contradictoria: por un lado, la completa integración en la economía mundial de cualquier actividad humana; por el otro, el retorno del Estado como instrumento complementario de dicha integración.

Como dice la sensibilidad burocrática de hoy, sin Estado no hay mercado, sobre todo, tras el crac de 2008 y la pandemia. Es indiscutible que los mercados gobiernan y dictan la ley, sobre todo los financieros, pero, en verdad, los Estados gestionan el disfuncionamiento de tal clase de gobierno. Viven para la economía. El estilo de vida moderno, industrial, consumista, sería imposible de otra manera, sin un aparato administrativo y coercitivo que fuera reparando los fallos de la maquinaria capitalista y amortiguando los conflictos suscitados. El Estado, es decir, la organización de la sociedad basada en el dominio y el monopolio de la violencia, la combinación perversa entre violencia y poder, desempeña un cierto papel en la nueva reestructuración capitalista en marcha. Lo cual en boca de los defensores populistas del orden establecido da lugar al gran tópico del Estado paternalista como respuesta a todos los problemas de los ciudadanos, desde los ambientales a los sociales. “El Estado lo es todo”, dicen: la seguridad, el bienestar, el enriquecimiento fácil, el disfrute, dependen de él. Para el partido del orden es en efecto una forma de organización social indispensable.

La ilusión de un interés común posible entre el Estado y sus súbditos, o la suposición de un espacio inexistente donde se puedan reconciliar los medios coercitivos estatales y las prácticas democráticas horizontales, son fundamentales si se desea que los gobernados actúen según pautas determinadas en tiempos de crisis -no hay otros- a favor de las medidas restrictivas que se le impongan, dejando la discusión y el análisis para los especialistas a sueldo. Sin embargo, no quedan lejos los tiempos en los que se consideraba al Estado como el patrimonio político de las clases privilegiadas, o sea, el poder organizado de la clase dominante sobre las masas dominadas. El llamado estado del bienestar era simplemente la forma estatal propia del capitalismo nacional, un producto fallido de la lucha de clases, la dominación política burguesa típica de una fase preglobalización hoy extinguida. Ignorar esta verdad significa disimular la existencia de dicha clase, algo que habitualmente hacen los políticos, y también los “verdes”, puesto que han sido cooptados por el orden y, dada la facilidad con que asimilan conductas burguesas en la vida diaria, también ellos creen pertenecer de facto a la misma. En fin, la voluntad popular nunca podrá expresarse a través del Estado, en tanto que poder separado, sino al margen. La tarea de las instituciones estatales no es representarla, sino sustituirla. El Estado es tanto más fuerte por cuanto esa voluntad no encuentra modos organizativos adecuados para formularse. A la inversa, su futilidad es bien visible cuando la sociedad civil sabe auto-organizarse.

Uno de los tópicos más extendidos entre los dirigentes es el de estar “en la antesala de una crisis.” La contaminación, los rescates bancarios, el pico del petróleo, el calentamiento global, la exclusión y, cómo no, las guerras, iluminan las múltiples caras de los apuros de la economía-mundo, bien en forma de alteración climática, bien como problema financiero, baja fertilidad de los suelos, desabastecimiento energético o contracción de la oferta de alimentos. Los dirigentes se volvieron catastrofistas y adoptaron el lenguaje de los progresistas postestalinistas, populistas de izquierda y ecologistas de moqueta, todos ellos furibundos keynesianos, y como tales, partidarios a ultranza del Estado. Pero la crisis es inherente al capitalismo, puesto que su funcionamiento normal consiste en subvertir las relaciones sociales en las que previamente se había apoyado. Las crisis son los motores de la mundialización, necesarias para el crecimiento económico: son su condición de existencia. La crisis actual, umbral de una recesión en todos los sentidos, nos introduce en un escenario de escasez de materia prima, predominio voraz de la finanza y volatilidad de precios que tendrá consecuencias perturbadoras en la masa administrada. En esas circunstancias, la dominación reconoce el deterioro social y medioambiental como un hecho total y trata de mantenerse y sacar beneficios a partir de ahí. La catástrofe es ahora la condición principal del desarrollo capitalista y el propulsor de su programa de actividades extractivistas, el  “Nuevo Pacto Verde”, cuya guinda es la “transición energética”. El capitalismo “verde” es esa huida hacia adelante que el entramado industrial, financiero, comunicacional y político que lo representa suele denominar “progreso.”

El eslogan de “el capitalismo del futuro será verde o no será”, que se popularizó en los pasados noventa junto con el del “desarrollo sostenible”, es otro tópico en danza. El calentamiento global había por fin alcanzado la alta política y los males del desarrollismo no se podían negar. Llegados entonces al punto en que el crecimiento económico trastorna la existencia de amplios sectores de población y hasta pone en peligro la supervivencia de la especie humana, la búsqueda del beneficio privado se proclama conservacionista y ambientalista. Los proyectos ecologistas en tanto que descubren nuevas vías a la acumulación de capitales, pasan a formar parte de los mecanismos desarrollistas de la dominación en amistosa sociedad con la minería recién reactivada y la digitalización total de la economía, de la vida y del trabajo. Resulta evidente su papel, por ejemplo, en la reciente invasión de seudo-renovables industriales o en la explotación de recursos naturales de cualquier tipo. La conexión del aparato ecologista, profesionalizado y jerarquizado, con el capitalismo “verde” a través de fondos “filantrópicos” es evidente: el discurso ecológico domesticado es cada vez más un discurso de expertos sobre la gestión de la penuria y la nocividad. En realidad, la burocracia “verde”, aparte de una potente máquina recaudadora, es el adalid ideológico del ecologismo de Estado y el agente desmovilizador del antidesarrollismo de base. A estas alturas no es un secreto que la crisis climática, la biodiversidad, el campesinado tradicional o la polución no importan a quienes toman decisiones desde arriba; lo que realmente importa es la conservación del régimen capitalista -el mantenimiento de la civilización industrial- ya que es el único modelo de sociedad capaz de abrir puertas a las ansias de poder, a la obsesión por enriquecerse y a las exigencias consumistas de un estilo de vida esclavo de la mercancía y administrado por parásitos como el que tenemos. Si tenemos presente esa prioridad, lo que diga el ecologismo patentado no tiene la menor importancia. No significa nada, es pura palabrería. Un montón de tópicos.

Dando por sentado la inevitabilidad de los conflictos territoriales, los mecanismos transversales de participación y diálogo pueden ser trampolines perfectos para el salto a la política provincial y regional. Con la intermediación entre la resistencia a las agresiones al territorio y los intereses extractivistas, el ecologismo burocrático aspira a incrementar su peso en la administración, empezando por la planta baja. Enemigo de los activistas, saboteadores y ocupantes de zonas a defender, se dirige más bien a un público clielentelar de aspirantes a concejales o diputados cuando recomienda “generar espacios políticos.” La política es el terreno más indicado para el ecologismo de orden, “una palanca de cambio colosal” de acuerdo con el tópico más aberrante de todos, mayor aún que el optimismo tecnológico que le suele acompañar. Cuando se habla de política, no se alude al arte de relacionarse, deliberar públicamente y tomar decisiones en común beneficiosas para toda la colectividad, lejos de instituciones que no la representan, sino a la política parlamentaria burguesa, aquella cuyas reglas de juego favorecen a los intereses de las finanzas, en el caso español nacida de un compromiso entre la pasada Dictadura y la oposición moderada. En una época de descrédito absoluto de dicha política, de crisis del sistema de partidos, de desprestigio de la partidocracia incluso entre las clases medias que han sido su principal soporte, cuando los contrincantes son apenas distinguibles unos de otros, los hinchas del “Nuevo Pacto Verde” entre las administraciones, las multinacionales y las organizaciones político-sindicales y verdes, interpretan las elecciones como verdaderos “plebiscitos climáticos.” Sin duda, una especie de señales de aprobación de la fantasmal evolución “sostenible” de la economía orientada por los Estados. Al hablar de política, de la mala, de la que no existe sin los sistemas de poder separado, en realidad se estaba hablando también de Estado contemporáneo, funcionarial, militar y policial. Una cosa supone la otra.

Los tópicos del ecologismo de despacho y del populismo de izquierdas jalonan un lenguaje político degradado que trasluce con claridad el amor a las poltronas. Es así porque el idioma de la política liberal sirve para ocultar el abrazo totalitario de la mercancía, no para desvelarlo. Las reglas de la corrección política sancionan implacablemente las iniciativas en sentido contrario. Se busca la sumisión a los imperativos económicos, no su desenmascaramiento, aunque en estos momentos de inseguridad en el suministro y protestas de los agricultores, los cambios se hayan ralentizado, sobre todo en asuntos energéticos. En resumen, el objetivo de una jerga empobrecida repleta de estereotipos es aturdir, no despertar. Vender la moto, no abrir la mente. Recurriendo a Bakunin diríamos que “el triunfo de la humanidad, la conquista y la realización de la plena libertad y del pleno desarrollo material, intelectual y moral de cada uno, mediante la organización absolutamente espontánea y libre de la solidaridad económica y social, tan completa como sea posible, entre todos los seres humanos de la tierra” es, entre otras cosas, una cuestión de lenguaje. Obviamente se trata de identificar y describir con él a los falsos aliados y a los auténticos enemigos de la buena causa de la emancipación humana, sin olvidar a los que actúan desde dentro de los colectivos anticapitalistas, porque son los más letales. Si no se quiere que los primeros pasos de la libertad sean los últimos habrá que guardarse de todos ellos.

Miquel Amorós, 25 de febrero de 2024