sabato 2 novembre 2024

BREVE NOTA SULLA TURISTIZZAZIONE COMPULSIVA di Miquel Amorós

 






 

La turistizzazione o turistificazione è il processo di trasformazione incontrollata dei luoghi costieri, rurali o urbani attraverso il loro collegamento al turismo di massa. Il lavoratore della società produttivista cerca la sua identità e il significato della vita non nel lavoro o negli hobby, ma nel tempo libero industriale, che abbonda nei centri disneyficati delle città. Quella che oggi viene ancora impropriamente chiamata città non è altro che la massima espressione del dominio del capitale sullo spazio abitato in extenso. Sempre più spesso, inoltre, un tale capitale proviene dall’industria del tempo libero, cioè dal turismo. Da questo punto di vista, l’attuale slogan di protesta “La città è in vendita”, significa in termini esatti che gli agglomerati urbani, sottoposti a grandi flussi di visitatori, sono diventati un puro mercato immobiliare, spinto al limite, dove lo spazio è la merce, l’abitazione, un bene, mentre l'abitante è la fastidiosa eccezione. Tali agglomerati, mercificati da ogni parte, sono diventati estremamente nocivi e ostili per il vicinato stanziale, considerato poco redditizio. Si tratta di luoghi da visitare e fotografare, da comprare e vendere, ma non da vivere. Ciò che è redditizio adesso è ciò che non si ferma. La chiave del profitto è la temporalità breve, il movimento, e chi si muove più delle classi medie e operaie del Nord nei loro periodi di svago programmato? Infine, un aumento eccessivo della domanda di alloggi attraverso piattaforme virtuali ha attratto come una calamita investimenti speculativi di ogni tipo (soprattutto da parte di promotori nascosti dietro società temporanee, fondi avvoltoio e denaro nero); di conseguenza, il costo sproporzionato degli alloggi e gli alti prezzi degli affitti soprattutto nei centri storici e nei quartieri un tempo popolari delle conurbazioni dove si accumulano le visite e, soprattutto, l'espulsione della popolazione verso i ghetti periferici, hanno trasformato il problema dell’alloggio nella questione sociale per eccellenza. Per questi motivi il turismo urbano di massa, così legato alla speculazione, è stato messo nel mirino delle proteste di quartiere. Tuttavia, le proposte sottoposte a un’amministrazione produttivista che non ha la volontà di contraddire gli interessi che stanno alla base del mercato turistico e tanto meno di creare un’offerta sufficiente di affitti e di edilizia sociale, hanno il difetto d’ignorare che la valorizzazione compulsiva ed esponenziale del territorio urbano è una caratteristica tipica del capitalismo finanziario contemporaneo. Pertanto, le prospettive della lotta per un’edilizia rispettosa dei metodi capitalisti non sono molto promettenti. La critica dell'industria del turismo su cui s’intende basarsi deve tenere maggiormente conto delle forme particolarmente devastanti del capitalismo nella sua fase tardiva.

 


Il turismo è il fenomeno più caratteristico della predazione culturale e sociale della società capitalista globalizzata e la quarta industria dell’economia mondiale. Questa “industria senza fumo” è quindi un settore strategico di prim’ordine, per cui gli interessi acquisiti sono quasi impossibili da sradicare. Le stesse persone che ner sono vittime dipendono in gran parte da loro. Quando i turisti sbarcano, non si può più tornare indietro. Dagli anni Sessanta del secolo scorso, l’economia spagnola ha seguito un modello di sviluppo sostenuto quasi esclusivamente dall’edilizia a ruota libera e dal turismo di massa, al quale è stato dedicato un ministero. Il cambio di regime non ha portato all’abbandono del modello, anzi il governo “democratico” ne ha incoraggiato l’estensione all’intero Paese. Nonostante siano evidenti, ancora oggi, l'inquinamento, il degrado ambientale, la banalizzazione del territorio, la museificazione dei centri antichi, la distruzione del tessuto sociale dei quartieri e delle città, i lavori di merda, la proliferazione della cultura trash, ecc ormai per la classe dirigente, che lo si esprima per bocca di imprenditori, esperti o politici, il turismo continua a essere la risposta a tutti i problemi, una sorta di salvagente; come durante il regime franchista, è considerato come il “passaporto per lo sviluppo”.

Dopo l’impunità dei successivi tsunami immobiliari, appare che l’obiettivo dichiarato di ogni amministrazione, indipendentemente dal suo colore politico o ecologico, consiste nel porre il Paese, la comunità autonoma o il comune, come “leader di destinazione”, esprimendo al massimo una fonte di reddito per pochi sempre più importante. Da più di sessant'anni, cioè dal momento del decollo, non ce n'è mai stato altro. Rispetto alla tradizionale attività agricola, commerciale o industriale, in via di sparizione, l'attività turistica rappresenta il modo più veloce per ottenere enormi profitti con un investimento minimo. Di fronte ad ogni crisi globale – nel 1973, 1992, 2008, 2020 – si riafferma la mentalità dello sviluppo e la specializzazione turistica, ormai con le dovute considerazioni prive di sostenibilità, avanza a passi da gigante nell’Europa meridionale e in particolare nella penisola iberica. Alla fine del secolo, le nuove leggi fondiarie e la riforma della Legge sui litorali tradussero la nuova normativa del tutto edificabile, mentre i voli low cost rendevano i viaggi accessibili a tutte le tasche. Alla fine del percorso legislativo, tutto era suscettibile di essere catturato da promotori speculativi e convertito in merce turistica: tutto diventava turismo. Il turismo ha trasformato la scena sociale in un proprio spazio, dando origine a una forma di gentrificazione più cannibalistica.

 

La differenziazione tra aree d’invio e di accoglienza dei turisti è dovuta a una divisione internazionale dell’attività economica: finanza, tecnologia e mobilità da un lato, evasione e intrattenimento industrializzato dall'altro. Tra gli strati sociali modesti – dipendenti pubblici, impiegati, operai, studenti, pensionati – si espande uno stile di vita iperconsumistico dedito allo spostamento ossessivo, negli altri, convertiti in “destinazioni”, la de-capitalizzazione delle attività tradizionali costringe all’immersione nel mercato del lavoro volatile e mal retribuito creato dall’ondata barbarica invasiva. Ogni volta che il turismo s’impone in un territorio, sia esso urbano o rurale, l’economia, la politica e le abitudini che vi prevalevano fino ad allora vengono destrutturate, lasciandolo immerso in un’industria globale che le vecchie élite non controllano più. Inizia una situazione di dipendenza economica che tende all'assoluto, mentre si accelera il trasferimento sub culturale di comportamenti importati, più efficace quanto più questi sono mediocri e febbrili. In questo senso possiamo dire che il turismo di massa è allo stesso tempo degradante e neocolonialista. Lasciamo da parte la storia della turistizzazione del Mediterraneo, dal primitivo impulso alberghiero degli anni '60 del secolo scorso e la costruzione di isolati residenziali negli anni '80 – epoca dell'ascesa postfordista delle classi medie europee – passando attraverso le diverse modalità con cui la crescita del settore ha portato all'accelerazione della fine degli anni '90 dovuta al modello low cost – momento di radicale “democratizzazione” dell'attività: turismo rurale, verde, cittadino, crocieristico, religioso, congressuale, dell'ubriachezza, gastronomico, sportivo, ecc. Ci concentreremo sull’ultima fase della turistizzazione, quella più nociva, ovvero il turismo urbano.

 

Il turismo urbano si è sviluppato in modo preoccupante dalla crisi del 2008, quando il turismo “sole e spiaggia” ha raggiunto il suo apice e il relax delle vacanze ha lasciato il posto a “nuovi prodotti turistici”, soprattutto quelli basati sullo scatto sfrenato di selfie con cui creare un’identità virtuale. Contemporaneamente, i portali digitali debuttano con un turismo “collaborativo”, che presto si rivela come uno schermo per i fondi d’investimento internazionali che si rifugiano nelle aree a tema parco delle metropoli con il loro patrimonio confezionato, la nuova materia prima dell’industria. Quest’ultima fase è segnata dalla digitalizzazione, che facilita molto l’organizzazione individuale del viaggio in tempo reale mentre la permanenza di una folla festante si ripercuote sui social network. In brevissimo tempo si passa da un’economia di servizi vari a una monocultura industriale netta, sfruttata principalmente attraverso piattaforme e applicazioni. La domanda di alloggi esplode e le case in affitto vengono “hotelizzate”, o più chiaramente diventano pensioni. Questa trasformazione del consueto appartamento residenziale in ostello turistico toglie dal mercato una quantità di alloggi di tal entità che gli effetti sul prezzo sono letali. Il modo di vivere è profondamente modificato man mano che le conurbazioni si articolano attorno al turismo di massa e all’accaparramento immobiliare, rendendo lo spazio urbano inaccessibile per la popolazione lavoratrice. Allo stesso tempo, l’“urbanizzazione” o la de-naturalizzazione della città si è diffusa poiché la popolazione nativa è stata espulsa dai quartieri originari. Tuttavia, i primi sintomi di turismo-fobia si sono manifestati solo nel 2017, quando la sovra saturazione dei visitatori nei servizi, nei trasporti e nei luoghi pubblici è diventata più che palpabile e il deterioramento del patrimonio collettivo e lo svuotamento dei quartieri sono diventati irreversibili. Inoltre, il cambiamento climatico, favorendo la destagionalizzazione del turismo – obiettivo della classe politico-imprenditoriale autoctona – ha esteso gli effetti della massificazione ben oltre l’estate. Tuttavia, il grande squilibrio tra domanda e offerta, responsabile di un eccesso senza precedenti di capacità di trasporto turistico, si è verificato quando la pandemia è stata superata. La valanga di stranieri e nazionali ha spinto una parte considerevole dei capitali nel mercato degli affitti, mentre un diritto costituzionale fortemente concordato è rimasto lettera morta. Una nuova tappa della turistizzazione peninsulare lascia alle spalle i vecchi modelli di sviluppo che ipocritamente lottavano per un turismo di “qualità” elitista, manifestandosi invece come dichiarato sostegno della massima suburbanizzazione delle classi popolari.

 

Il turismo è per ora il motore dell'economia spagnola e tutto indica che continuerà a esserlo in futuro. Fattore di maggior peso nella bilancia dei pagamenti, negli investimenti e nell'accumulazione di capitali, ha dietro di sé potenti interessi tentacolari, particolarmente radicati nella finanza e nello Stato. Qualsiasi lotta che proponga una regolamentazione restrittiva del fenomeno turistico, una “decrescita” o un ripopolamento dei centri urbani, deve sapere che si trova di fronte al capitalismo più corsaro, all’amministrazione più sottomessa e allo Stato più incondizionato. Di conseguenza, deve mettere in atto una strategia antistatale e anticapitalista il cui asse è la questione dell’affitto. Ovviamente i contestatori devono appropriarsi del vecchio spazio pubblico e agire a partire da esso. Giocare sul proprio terreno. Tutto il resto sarà fatto di posture e discorsi del tipo “turismo responsabile”, “pianificazione sostenibile dello spazio turistico” o “gestione equilibrata delle risorse per il turismo”.

 

Miquel Amorós, 1 novembre 2024



BREVE APUNTE SOBRE LA TURISTIZACIÓN COMPULSIVA

 

Turistización o turistificación es el proceso de transformación descontrolada de lugares costeros, rurales o urbanos mediante su vinculación al turismo de masas. El asalariado de la sociedad desarrollista busca su identidad y el sentido de la vida no en el trabajo o las aficciones, sino en el ocio industrial, que abunda en los centros disneyficados de las ciudades. Lo que hoy impropiamente se sigue llamando ciudad no es más que la máxima expresión del dominio del capital en el espacio habitado in extenso. Y cada vez con mayor frecuencia, dicho capital proviene de la industria del ocio, es decir, del turismo. El actual eslogan contestatario de “La ciudad está en venta”, bajo esa óptica, significa en términos exactos que las aglomeraciones urbanas sometidas a grandes flujos de visitantes, se han convertido en puro mercado inmobiliario, tensionado al límite, donde el espacio es la mercancía, la vivienda, un activo, y el habitante, la molesta excepción. Tales aglomerados, mercantilizados por todos lados, se han vuelto extremadamente nocivos y hostiles al vecindario fijo, considerado poco rentable. Son lugares para visitar y fotografiar, para comprar y vender, pero no para vivir. Lo rentable ahora es lo que no para quieto. La clave de la ganancia es la temporalidad breve, el movimiento, y ¿quién se mueve más que las clases medias y trabajadoras del Norte en sus periodos de ocio programado? En fin, un excesivo aumento de la demanda de hospedaje a través de plataformas virtuales ha atraído como un imán a inversiones especulativas de todo tipo (especialmente de promotores ocultos tras empresas temporales, de fondos buitre y de dinero negro); como consecuencia, el desmesurado importe de la vivienda y el elevado precio de los alquileres -especialmente en los centros históricos y los barrios antaño populares de las conurbaciones donde se acumulan las visitas- y por encima de todo, la expulsión de la población hacia guetos periféricos, han convertido el problema habitacional en la cuestión social por excelencia. Por esos motivos, el turismo de masas urbano, tan ligado a la especulación, se ha visto colocado en el punto de mira de las protestas vecinales. Sin embargo, las propuestas elevadas a una administración desarrollista sin voluntad de contrariar los intereses que subyacen en el mercado turístico y menos aún, de crear una oferta suficiente de alquiler y vivienda social, pecan de ignorar que la valorización compulsiva y exponencial del suelo urbano es un rasgo típico del capitalismo financiero contemporáneo. Así pues, las perspectivas de la lucha por la vivienda respetuosas con los modos capitalistas son poco halagüeñas. La crítica de la industria turística en la que pretende basarse ha de tener más en cuenta las formas especialmente devastadoras de capitalismo en su fase tardía.

 

El turismo es el fenómeno de depredación cultural y social más característico de la sociedad capitalista globalizada y la cuarta industria de la economía mundial. Esta “industria sin humo” es pues un sector estratégico de primer orden, por lo cual los intereses creados son casi imposibles de erradicar. Los mismos afectados en gran medida dependen de ellos. Cuando desembarcan los turistas, no hay vuelta atrás. Desde los años sesenta del siglo pasado, la economía española ha seguido un modelo desarrollista apoyado casi exclusivamente en la construcción a mansalva y el turismo de masas, al que se consagraba un ministerio. El cambio de régimen no acarreó el abandono del modelo, antes bien el gobierno “democrático” propició su extensión a todo el país. A pesar de resultar evidentes la contaminación, la degradación del medio ambiente, la banalización del territorio, la museificación de los centros antiguos, la destrucción del tejido social de barrios y pueblos, los trabajos de mierda, la proliferación de la cultura basura, etc., a día de hoy, para la clase dirigente, tanto si se expresa por boca de empresarios, de expertos o de políticos, el turismo continúa siendo la respuesta a todos los problemas, una especie de salvavidas, y, como durante el franquismo, es tenido por el “pasaporte al desarrollo”. Tras la impunidad de los sucesivos tsunamis inmobiliarios, aparece el objetivo confeso de toda administración, cualquiera que sea su color político o ecológico, que consiste en posicionar el país, la comunidad autonómica o el municipio, como “destino-líder”, exprimiendo al máximo una fuente de ingresos para pocos cada vez más importante. Desde hace más de sesenta años, o sea, desde la época del despegue, nunca ha sido otro. Frente a la tradicional actividad agraria, comercial o industrial, en vías de desaparición, el negocio turístico se yergue como la manera más rápida de obtener pingües beneficios con una mínima inversión. Ante cada crisis global -en 1973, 1992, 2008, 2020- la mentalidad desarrollista se reafirma y la especialización turística, ahora con las debidas consideraciones vacías a la sostenibilidad, avanza a pasos agigantados en el sur de Europa, y en particular, en la Península Ibérica. Al acabar el siglo, las nuevas leyes del suelo y la reforma de la Ley de Costas traducían la nueva norma del todo edificable, mientras que los vuelos low cost ponían el viaje al alcance de todos los bolsillos. Al final del recorrido legislador, cualquier cosa era susceptible de ser capturada por promotores especuladores y convertida en mercancía turística: todo se volvía turismo. El turismo transformaba el escenario social en espacio suyo, dando lugar a una forma más caníbal de gentrificación.

 

La diferenciación entre zonas emisoras y zonas receptoras de turistas obedece a una división internacional de la actividad económica: finanzas, tecnología y movilidad por un lado, evasión y entretenimiento industrializado por el otro. En unas se expande en las capas sociales modestas -funcionarios, oficinistas, obreros, estudiantes, jubilados- un estilo de vida hiperconsumista y adicto al desplazamiento obsesivo; en las otras, convertidas en “destinos”, la descapitalización de las actividades tradicionales obliga a la inmersión en el mercado del trabajo volátil y mal pagado creado por la oleada bárbara invasora. Siempre que el turismo se impone en un territorio, urbano o campestre, se desestructura la economía, la política y los hábitos que imperaban hasta entonces en él, quedando este inmerso en una industria global que la viejas élites ya no controlan. Empieza una situación de dependencia económica que tiende a lo absoluto, al tiempo que se acelera el trasvase subcultural de conductas importadas, más efectivo cuando más mediocres y febriles sean aquellas. En ese sentido podemos decir que el turismo de masas es a la vez degradante y neocolonialista. Dejaremos de lado la historia de la turistización del Mediterráneo, desde el primitivo impulso hotelero de los años 60 del siglo pasado y la construcción de bloques residenciales de los 80 -momento del auge posfordista de las clases medias europeas- pasando por las diferentes modalidades que el crecimiento de la industria ha dado lugar por la aceleración de finales de los 90 debida al modelo low cost -momento de la “democratización” radical de la actividad: turismo rural, verde, de adosados, de cruceros, religioso, de congresos, de borrachera, gastronómico, deportivo, etc. Nos centraremos en la última fase de la turistización, la más nociva, a saber, el turismo urbano.

 

El turismo urbano se desarrolla de forma preocupante a partir de la crisis de 2008, cuando el turismo de “sol y playa” ha tocado techo y la relajación vacacional cede plaza a “nuevos productos turísticos”, especialmente los basados en la realización desenfrenada de selfies con los que confeccionar una identidad virtual. Simultáneamente, los portales digitales debutan con un turismo “colaborativo”, que pronto se revela como pantalla de fondos de inversión internacionales refugiándose en las áreas parquetematizadas de las metrópolis con su patrimonio empaquetado, la nueva materia prima de la industria. Esta última fase viene marcada por la digitalización, que facilita enormemente en tiempo real la organización individual del viaje y la estancia de una multitud jaranera afecta a las redes sociales. Se produce en muy poco tiempo el tránsito de una economía de servicios varios a un monocultivo industrial neto explotado principalmente a través de plataformas y aplicaciones. La demanda de alojamiento se dispara y la vivienda de alquiler se “hoteliza”, o más claramente se convierte en hospedería. Esta reconversión del piso residencial de siempre en albergue de turistas sustrae del mercado una cantidad de alojamientos de tal magnitud que los efectos sobre el precio son letales. La forma de habitar se modifica profundamente a medida que las conurbaciones se articulan alrededor del turismo masivo y del acaparamiento inmobiliario, volviéndose el espacio urbano inasequible para la población trabajadora. A su vez, la “urbanalización” o desnaturalización de la urbe se ha ido generalizando a medida que la población autóctona iba siendo expulsada de sus barriadas originales. Aún así, los primeros síntomas de turismofobia no se produjeron hasta 2017, cuando se hacía más que palpable la sobresaturación de visitantes en los servicios, el transporte y los lugares públicos, y se hacía irreversible el deterioro del patrimonio colectivo y el vaciado de los barrios. Además, el cambio climático, al favorecer la desestacionalización del turismo -la meta de la clase político-empresarial nativa- extendía los efectos de la masificación mucho más allá del veraneo. Sin embargo, el gran desajuste entre oferta y demanda responsable de un desbordamiento sin precedentes de la capacidad de carga turística, ocurrió al superarse la pandemia. La avalancha de foráneos y nacionales empujó a una parte considerable de capitales al mercado del alquiler; mientras tanto, un derecho constitucional muy consensuado quedaba en letra muerta. Una nueva etapa en la turistización peninsular deja atrás a los viejos modelos desarrollistas que pugnaban hipócritamente por un turismo “de calidad” elitista, mientras se manifiesta como partidaria declarada de la máxima suburbanización de las clases populares.

 

El turismo es por ahora el motor de la economía española y todo indica que lo seguirá siendo en el futuro. Factor de mayor peso en la balanza de pagos, en la inversión y en la acumulación de capitales, tiene detrás poderosos intereses tentaculares, particularmente muy arraigados en las finanzas y el Estado. Cualquier lucha que se plantee una regulación restrictiva del fenómeno turístico, un “decrecimiento” o una repoblación de los centros urbanos, ha de saber que tiene enfrente al capitalismo más corsario, a la administración más sumisa y al Estado más incondicional. Por consiguiente, ha de desplegar una estrategia antiestatal y anticapitalista cuyo eje sea la cuestión del alquiler. Como es obvio, los contestatarios han de apropiarse del antiguo espacio público y actuar desde él. Jugar en su propio terreno. Todo lo demás será pose y palabrería del estilo “turismo responsable”, “planificación sostenible del espacio turístico” o “gestión equilibrada de recursos para el turismo.”

 

Miquel Amorós, 1 de noviembre de 2024.

  

 Petit aperçu sur la touristisation compulsive



La touristisation ou touristification est le processus de transformation incontrôlée de lieux côtiers, ruraux ou urbains lié au tourisme de masse. Le salarié de la société développementiste recherche son identité et le sens de sa vie non pas dans le travail ou dans les hobbies, mais dans des loisirs industriels, qui abondent dans les centres villes disneyfiés. Ce que l'on appelle aujourd'hui encore improprement la ville n'est rien d'autre que l'expression ultime de la domination du capital sur l'espace habité in extenso. Et ce capital provient de plus en plus de l'industrie des loisirs, c'est-à-dire du tourisme. De ce point de vue, le slogan contestataire actuel « La ville est à vendre » souligne précisément le fait que les agglomérations urbaines soumises à d'importants flux de visiteurs sont devenues un pur marché immobilier, tendu à l'extrême, où l'espace est une marchandise, le logement un actif financier, et l'habitant une exception dérangeante. De tels agglomérats, marchandisés dans tous leurs aspects parts, sont devenus extrêmement nocifs et hostiles à l’habitat permanent, jugé non rentable. Ce sont des lieux à visiter et à photographier, à acheter et à vendre, mais pas à vivre. La rentabilité est engendrée aujourd’hui par ce qui ne reste pas immobile. La clé du profit réside dans la temporalité brève, dans le mouvement.  Et qui bouge le plus sinon les classes moyennes et travailleuses du Nord durant leurs séquences de loisirs programmés ? Finalement, l'augmentation excessive de la demande d’hébergements par le biais de plateformes numériques a attiré comme un véritable aimant des investissements spéculatifs de toutes sortes (en particulier ceux de promoteurs occultes dissimulés derrière des sociétés temporaires, de fonds vautour et d'argent sale). Par conséquent, le coût exorbitant du logement et les loyers élevés – notamment dans les centres historiques et les quartiers autrefois populaires des conurbations qui attirent un grand nombre de visiteurs – et par-dessus tout, l'expulsion de la population vers les ghettos périphériques, ont fait du problème du logement la question sociale majeure. C’est pourquoi, le tourisme de masse urbain, si étroitement associé à la spéculation, est devenu la cible des protestations de quartier. Néanmoins, les propositions faites à une administration développementiste peu encline à contrarier les intérêts du marché touristique – et encore moins à créer une offre suffisante de location et de logement social – témoignent d’une ignorance coupable du fait que la valorisation compulsive et exponentielle du foncier urbain caractérise le capitalisme financier contemporain. De ce fait, les perspectives des luttes pour le logement qui respectent les critères capitalistes ne sont pas très réjouissantes. La critique de l'industrie touristique dont elles se réclament doit davantage prendre en compte les formes particulièrement dévastatrices du capitalisme dans son stade avancé.

Le tourisme est le processus le plus caractéristique de la prédation culturelle et sociale de la société capitaliste globalisée, et une des plus grands industries de l'économie mondiale. Ainsi, cette « industrie sans fumée » occupe une place stratégique de premier plan. C'est la raison pour laquelle les intérêts particuliers sont presque impossibles à éradiquer. Dans une large mesure, les personnes concernées en dépendent largement. Lorsque les touristes débarquent, il n'y a pas de retour en arrière possible. Depuis les années 1960, l'économie espagnole a suivi un modèle développementiste axé presque exclusivement sur la construction à tout va et le tourisme de masse, auquel un ministère se consacrait désormais. Le changement de régime n'a pas entrainé l'abandon du modèle ; bien au contraire, le gouvernement « démocratique » a favorisé son expansion à l'ensemble du pays. Malgré l'évidence de la pollution, de la dégradation de l'environnement, de l’uniformisation du territoire, de la muséification des centres villes historiques, de la destruction du tissu social des quartiers et des villages, des boulots de merde, de la prolifération de la culture poubelle, etc., le tourisme reste aujourd’hui la solution à tous les problèmes. Une sorte de bouée de sauvetage pour la classe dirigeante, que ce soit par la voix des entrepreneurs, des experts ou des politiciens. Et, comme sous le franquisme, il est perçu comme le "passeport pour le développement". Derrière l'impunité des tsunamis immobiliers successifs se dégage l'objectif avoué de toute administration. Peu importe sa couleur politique ou écologique, il s’agit de faire du pays, de la communauté autonome ou de la commune une "destination-phare", en tirant le meilleur parti d'une source de revenus de plus en plus importante pour quelques-uns. Il n'en a jamais été autrement, depuis plus de soixante ans, c'est-à-dire depuis le début du décollage économique du pays. Comparée à l’activité agricole, commerciale ou industrielle traditionnelle, en voie de disparition, le business touristique apparaît comme le moyen le plus rapide d'obtenir d'énormes profits avec un minimum d'investissement. Face à chaque crise mondiale – 1973, 1992, 2008, 2020 – la mentalité développementiste se réaffirme et la spécialisation touristique – désormais flanquée de creuses exigences de durabilité – progresse à pas de géant dans le sud de l'Europe, et en particulier dans la péninsule ibérique. À la fin du siècle, les nouvelles lois foncières et la réforme de la loi littorale révélaient les nouvelles normes du tout-à-bâtir, tandis que les vols low-cost rendaient le voyage accessible à tous. Au terme du parcours législatif, tout pouvait être capté par des promoteurs spéculateurs et transformé en marchandise touristique : tout devenait tourisme. Ce dernier a transformé le paysage social en un espace à part entière, donnant lieu à une forme de gentrification plus féroce.

La différenciation entre zones émettrices et zones réceptrices de touristes obéit au partage international de l'activité économique : finances, technologie et mobilité d'un côté, évasion et divertissement industrialisé de l'autre. Dans les premières, un mode de vie hyper-consumériste, additif et compulsif dans les déplacements se propage dans les couches sociales modestes – fonctionnaires, employés de bureau, ouvriers, étudiants, retraités. Dans les deuxièmes, converties en « destinations », la décapitalisation des activités traditionnelles contraint les habitants à se soumettre au marché du travail précaire et mal payé créé par la vague barbare envahissante.  Chaque fois que le tourisme s'installe sur un territoire, qu’il soit urbain ou rural, il désorganise l'économie, la politique et les habitudes qui prévalaient jusque-là, le territoire étant immergé dans une industrie mondialisée que les anciennes élites ne maîtrisent plus. Apparaît alors une situation de dépendance économique qui tend vers l’absolue, qui accélère le transfert sous-culturel de comportements importés, d'autant plus efficace qu'ils sont médiocres et fébriles. En ce sens, on peut affirmer que le tourisme de masse est à la fois dégradant et néocolonialiste. Nous laisserons de côté l'histoire de la touristisation de la Méditerranée, depuis l'impulsion hôtelière primitive des années 1960 et la construction des blocs résidentiels des années 1980 – lors de l'ascension postfordiste des classes moyennes européennes –, en passant par les diverses modalités engendrées par la croissance de l'industrie, accélérée à la fin des années 1990 avec son modèle low-cost et  la "démocratisation" radicale de l'activité : tourisme rural, vert, de proximité, de croisière, religieux, de congrès, de beuverie, gastronomique, sportif, etc. Notre attention se portera sur la dernière étape de la touristisation, la plus néfaste, à savoir le tourisme urbain.

Le tourisme urbain se développe de façon préoccupante à partir de la crise de 2008. À ce moment-là, le tourisme « soleil et plage » trouve ses limites et la détente estivale cède la place à de « nouveaux produits touristiques », notamment ceux qui se concentrent sur la prise effrénée de selfies pour se créer une identité virtuelle. Parallèlement, les plateformes numériques font leurs apparitions avec le tourisme « collaboratif ». Celui-ci forme bientôt un paravent pour des fonds d'investissement internationaux qui se concentrent dans les zones des métropoles converties en parcs thématisés, avec leur patrimoine emballé, nouvelle matière première de l'industrie. Cette dernière étape est caractérisée par la numérisation, qui facilite considérablement en temps réel l'organisation individuelle du voyage et le séjour d'un grand nombre de bringueurs adeptes des réseaux sociaux. Le passage d'une économie de services variés à une simple mono-activité industrielle principalement exploitée via les plateformes et les applications, se réalise très rapidement. La demande de logement explose et l’immobilier locatif s’"hôtélise", ou plus clairement se transforme en hôtellerie. Cette reconversion de l'appartement résidentiel traditionnel en hébergement touristique retire du marché une quantité de logements si importante que les effets sur les prix sont fatals. La façon d'habiter se transforme profondément à mesure que les conurbations s'organisent autour du tourisme de masse et de l'accaparement immobilier, rendant l'espace urbain inabordable pour la population laborieuse. En retour, l'"urbanalisation" ou dénaturation de la ville se généralise au fur et à mesure que la population autochtone est expulsée de ses quartiers d'origine. Malgré cela, les premiers symptômes de tourisme-phobie ne sont apparus qu'en 2017, lorsque la sursaturation des visiteurs dans les services, les transports et les lieux publics est devenue évidente, et que la détérioration du patrimoine collectif et le dépeuplement des habitants des quartiers sont devenus irréversibles. De plus, le changement climatique favorisant la désaisonnalisation du tourisme – objectif de la classe politico-entrepreneuriale locale – a prolongé les effets de surpopulation bien au-delà de l'été. Cependant, l’énorme écart entre l'offre et la demande, responsable d'un débordement sans précédent de la capacité d'accueil touristique, est survenue après la pandémie. La ruée de touristes étrangers et nationaux a entraîné une quantité considérable de capitaux vers le marché locatif ; en même temps, un droit constitutionnel très consensuel restait lettre morte. La nouvelle étape dans la touristisation péninsulaire abandonne les anciens modèles de développement qui bataillaient hypocritement pour un tourisme élitiste de « qualité » Elle soutient désormais sans ambiguïté une banlieurisation maximale des classes populaires.

Le tourisme est actuellement le moteur de l'économie espagnole et tout indique qu'il le restera à l'avenir. Facteur majeur de la balance des paiements, de l'investissement et de l'accumulation de capitaux, il est soutenu par de forts intérêts tentaculaires, particulièrement ancrés dans la finance et l'État. Toute lutte qui vise une régulation restrictive du phénomène touristique, une « décroissance » ou un repeuplement des centres urbains doit prendre en considération qu'elle fait face au capitalisme le plus flibustier, à l'administration la plus soumise et à l'État le plus inconditionnel. Elle doit par conséquent adopter une stratégie antiétatique et anticapitaliste, en mettant l’accent sur la question des loyers. Les contestataires doivent bien sûr s’emparer de l'ancien espace public et agir à partir de lui. Jouer sur son propre terrain. Tout le reste ne sera que simples postures et baratin du style « tourisme responsable », « planification durable des espaces touristiques » ou « gestion équilibrée des ressources pour le tourisme ».

Miquel Amorós, le 1er novembre 2024