giovedì 21 agosto 2025

Quando il mercato domina, il territorio muore - Del territorio, della sua suburbanizzazione e della sua difesa - Miguel Amoròs

 





Da quando la Rivoluzione Industriale ha portato alla progressiva urbanizzazione della società, si può affermare che la storia sociale è la storia del processo di urbanizzazione. Nelle fasi finali di questo processo, la caratteristica più distintiva della società odierna è l'enorme aumento delle aree urbane e periurbane. Oggi, più della metà della popolazione mondiale vive in agglomerati urbani. Questa percentuale raggiunge il 74% in Europa e l'84% negli Stati Uniti. La crescita è continua, persistente e accelerata, quindi è ragionevole supporre che, tra qualche decennio, il 5 o 6% del territorio concentrerà quasi l'intera popolazione del pianeta, mentre il resto, svuotato, continuerà a orbitare attorno alle zone abitate, mantenendo con loro un rapporto di totale dipendenza. È quel che Henri Lefebvre definì negli anni '70 come "società urbana", ovvero una società completamente urbanizzata. La città industriale, eminentemente borghese, orientata al mercato interno, perde i suoi confini e si disperde sul territorio, trasformandosi in un sistema informe di agglomerati urbani collegati da autostrade e treni metropolitani, connessi tramite internet ai flussi transnazionali di capitale. Questo tipo d’insediamento, in cui lo spazio pubblico diventa un semplice spazio di circolazione e lo spazio decisionale si virtualizza, è oggi l'unità spaziale significativa che rivendica  l'intero territorio per estendersi. Non si tratta di una città in declino, ma di un fenomeno completamente nuovo. Negli Stati Uniti è stata chiamata "area metropolitana". Il boom residenziale che l’ha resa possibile è stato facilitato dalla motorizzazione privata. L'automobile utilitaria ha innescato un processo di suburbanizzazione delle periferie che si è verificato in modo esplosivo in Europa a partire dagli ultimi anni '50 e in America più di dieci anni prima. Negli anni '80, con l'avvio dell'informatizzazione e lo sviluppo delle attività aeroportuali, si può già parlare chiaramente di metropolitanizzazione. Si tratta di una realtà inedita, prodotta dalla transizione dalla città-fabbrica, con la sua morfologia diffusa ma definita, alla metropoli finanziaria, iperespansiva, ormai confusa nello spazio, o, che è lo stesso, dalla città dei produttori al non-luogo dei passanti e dei consumatori.

L'era delle città è finita, ha affermato con enfasi Françoise Choay. Il tipico oblio del suddetto metropolitano impone un eterno presente: le metropoli odierne emergono dalla tabula rasa del passato, non dalla storia. Con l'accumularsi delle conurbazioni metropolitane, si è completata la transizione da un'economia industriale urbana a base nazionale a un'economia di servizi metropolitana e internazionalizzata. La primitiva opposizione tra città e campagna è stata risolta a favore delle metropoli, che Saskia Sassen chiama impropriamente "città globali", poiché, pur essendo globali, non sono più città: la città è scomparsa e la campagna ha cessato di essere una realtà differenziata, sia a causa dell'industrializzazione delle mansioni, sia per la mentalità urbana e lo stile di vita standardizzato dei suoi residenti sparsi. Non esiste più veramente una campagna: la campagna è ormai un fatto urbano o succedaneo dell'urbano. Negli anni '60 è stato coniato il concetto di urban field. Finalmente, le regioni metropolitane, omogenee, trasparenti, indistinguibili le une dalle altre, non sono altro che la traduzione spaziale del postfordismo e della globalizzazione, o, per dirla in altro modo, corrispondono allo spazio più appropriato per la riproduzione del capitale nella sua fase globalizzata. Costituiscono la concretizzazione denazionalizzata della società capitalista globale. Grazie alle infrastrutture di trasporto – grazie soprattutto agli aeroporti e al calo del costo dei container – e successivamente, grazie alla digitalizzazione, lo spazio del capitale si modifica radicalmente e si adatta, disintegrando i livelli locali e nazionali, vestigia della precedente fase capitalista, fino ad acquisire le necessarie dimensioni globali e l'immagine distintiva, il logo o "marchio", ovvero la pseudo-identità. Contribuiscono altri processi complementari: motorizzazione privata, clusterizzazione, gentrificazione, musealizzazione, turisticizzazione, litoralizzazione, esclusione sociale, ecc. Oggi più che mai lo spazio urbano non appartiene a chi lo abita, ma a chi specula con esso – la stessa classe di sempre rappresentata dai costruttori immobiliari, dai proprietari dei terreni e dei fondi d’investimento – e lo plasma secondo i propri interessi.

Poiché la povertà e il mal vivere non sono stati sradicati; anzi, i salari sono stagnanti, la precarietà, il lavoro spazzatura e la disuguaglianza si sono diffusi, la conflittualità non è scomparsa, ma è stata deviata in diverse maniere. Il confronto forzato, quando si verifica, non arriva mai a generalizzarsi, sia nello spazio che nel tempo, né tanto meno ad approfondirsi. I metodi classici della lotta di classe e i concetti ideologici che la giustificavano, un tempo funzionali alla città manifatturiera, diventano inefficaci in un quadro spaziale espressamente progettato per favorire comportamenti conformisti e sottomessi: quello della metropoli-impresa. La difficoltà di comunicazione diretta dovuta alla distanza, l'entropia sociale e i complessi meccanismi di contenimento tecnologico-poliziesco favoriscono la rassegnazione, mentre la ripetizione egoistica dei vecchi schemi naufraga inevitabilmente nell'impotenza. La demagogia non serve più nemmeno ai demagoghi. Quando l'economia, grazie alle innovazioni tecniche, abbraccia la totalità dell'attività umana, i suoi valori tendono a diventare universali, condizionando tutti i comportamenti in direzione del mercato. Agli effetti della delocalizzazione industriale, della deregolamentazione e della razzializzazione del mercato del lavoro, del turismo e della comunicazione unilaterale, del sindacalismo e dell'associazionismo sovvenzionati, ecc., si somma un senso di sradicamento, solitudine e mancanza di amore, un ripiegamento sulla sfera privata e sui consumi quotidiani, un presentismo amnesico, un cieco seguire le mode, una sottomissione volontaria all'ordine costituito e, infine, una proliferazione di comportamenti nevrotici e psicopatologici, che rendono gli individui vulnerabili e, di conseguenza, timorosi e facilmente manipolabili. Come conseguenza di questo "nuovo tipo di cittadinanza", gli antagonismi sono più difficili da formulare e ancora più difficili da assimilare, ma ciò non impedisce la loro manifestazione laddove i controlli sistemici falliscono e la strada riappare come luogo d’incontro, si supera l'isolamento e i professionisti della rappresentanza fittizia falliscono.

La concentrazione metropolitana squilibra profondamente il territorio circostante, spopolandolo, assorbendone tutte le risorse e scaricandovi i rifiuti, inquinandolo e degradandolo. La porzione urbana consuma tre quarti dell'energia disponibile e il 20% dell'acqua, produce due miliardi e mezzo di tonnellate di rifiuti l’anno ed è responsabile di oltre il 70% delle emissioni di gas serra. L'impatto ambientale – l'"impronta" urbana – è formidabile e apre un nuovo terreno di lotta che chiamiamo difesa del territorio. Per comprendere meglio la nozione di difesa, sarebbe utile spiegare innanzitutto il concetto di territorio. In linea di principio, il territorio è più del semplice spazio concreto in cui s’insedia una popolazione, quindi non equivale, ad esempio, a paesaggio, appezzamento di terreno, ambiente naturale o dominio rurale: l'area urbanizzata è solo uno dei suoi elementi costitutivi. Non è uno spazio geografico, ma sociale, con le sue tradizioni, la sua cultura e la sua storia. E oggi, lo spazio mercantile. È una vera e propria costruzione socio-storica frutto dell'azione umana nel tempo, più o meno simbiotica con l'ambiente. E proprio quando la simbiosi tra le sue componenti si rompe, sorgono aspri conflitti e scontri. Ricordiamo le rivolte rurali, le guerre contadine e le rivoluzioni. Il superamento della contraddizione campagna-città causata dall'industrializzazione fu possibile convertendo il territorio in luogo dell'economia e, di conseguenza, adattando la prima alle esigenze della seconda, il che oggi significa suburbanizzazione. Così, la campagna fu svuotata e contemporaneamente parcellizzata, regolamentata e specializzata; ridisegnata con piani e articolata attraverso reti stradali che la resero più accessibile, sfruttabile e urbanizzabile. Nel suo nuovo aspetto, la campagna rifletteva il nuovo ordine socio-politico emanato dalle metropoli. In quest'ordine, i principali sconfitti continuarono a essere le classi salariate urbane, relegate nei sobborghi dormitorio, come quelli che il mondo anglosassone chiama commuters. Grazie all'alta tecnologia, le risorse territoriali hanno acquisito un'importanza crescente nella riproduzione del capitale, man mano che si è fatta chiara la consapevolezza che la produzione industriale, in particolare quella energetica, dipendeva da esse. Nella fase estrattivista del capitalismo, tali risorse hanno conferito ai territori non urbani lo status di "strategici", poiché da essi dipendeva la crescita economica. Ciò ha trasformato qualsiasi protesta in queste aree in un problema di Stato, da risolvere con metodi repressivi. Di conseguenza, la difesa del territorio, e la lotta anti-sviluppo in generale, hanno finito per occupare il centro della questione sociale. Il paradosso è che la maggior parte delle forze di difesa del territorio sono più urbane che rurali. Per certi versi, per certi aspetti, la difesa del territorio non urbano è una lotta urbana.

L'anti-sviluppo è evidentemente de urbanizzante e decentralizzatore. Pretende di riequilibrare e riabilitare il territorio per integrarne nuovamente le parti su basi di reciprocità. I primi autori a sollevare la questione del decentramento della città industriale e della sua fusione con la natura e la campagna, molto prima dell'esplosione urbana, furono gli anarchici Reclus e Kropotkin. Entrambi fecero appello a un "senso della natura" alla guida della costruzione di una nuova società senza classi. Il ritorno alla natura consisterebbe in una dispersione urbana a bassa intensità di tutte le attività monopolizzate dalla città, in modo da verificare una compenetrazione reciprocamente vantaggiosa. Creando una rete di piccole industrie, mulini, cascate, strade e fattorie agricole collettivizzate attorno alle città recuperate sotto il regime comunista libertario, il risultato sarebbe una regione urbano-rurale integrata, estranea all'economia capitalista, poiché sarebbe priva di un centro di governo e sarebbe governata da principi di uguaglianza, solidarietà e giustizia. Questa idea fu ripresa e sviluppata, in parte o integralmente, da vari autori critici nei confronti delle nuove realtà suburbane: Geddes, Mumford, Bookchin, Hall, Oyón, Harvey.... Dai tempi di Reclus e del principio delle trincee, le cose si sono complicate. Il problema principale di una simile trasformazione sociale è che le aree metropolitane sono progettate esclusivamente per la riproduzione di capitali, con i luoghi di produzione, lavoro, alloggi, forniture e svago lontani tra loro, le loro arterie stradali affollate, i loro turisti, la loro atmosfera inquinata, le loro piattaforme digitali, ecc., rendendole inutilizzabili per scopi di socializzazione. In queste condizioni, l'autogestione non sarebbe altro che l'autogestione popolare del capitale. Per realizzare un progetto territoriale emancipatore su larga scala, non capitalista, e quindi per creare un quadro spaziale appropriato, queste aree dovranno prima essere smantellate. La futura insostenibilità e l'attuale potenziale esplosivo delle metropoli contribuiranno a questo compito, ma tenderanno a provocare una dispersione caotica che dovrà essere superata. Chiaramente, la trasformazione rivoluzionaria della società dipenderà dalla formazione di un soggetto politico collettivo capace di organizzarsi e di confrontarsi con l'ordine attuale e con lo Stato. Non si tratta di trovare una formula e di farla attuare silenziosamente da una manciata di volontari laboriosi, in modo che l'esempio si diffonda, nel peggiore dei casi, sotto l'ombrello dell'attività politica convenzionale. Si tratta di mobilitare e auto-organizzare un settore significativo della popolazione, e di far convergere le proprie lotte fino a superare le barriere capitaliste. Le strategie per il cambiamento devono iniziare da lì.

Il movimento operaio del passato ci ha fornito esempi pratici di autorganizzazione per la lotta sociale: corporazioni, cooperative, sindacati unici, consigli operai, comitati di quartiere... Si trattava per lo più di forme associative urbane, episodiche nella durata, artificiali, basate sull'adesione volontaria e sulla permanenza di interessi di classe. Il villaggio, d'altra parte, ci offre una forma di convivenza auto-organizzata, senza tempo, organica, fondata su legami di vicinato e radici territoriali: la comunità di villaggio. Si tratta più di uno stile di vita comunitario legato alla terra che di un rapporto contrattuale basato su alleanze e accordi. Il villaggio comunitario è la più antica forma di organizzazione sociale. In Europa, emerse nel nono secolo, governato da un organo amministrativo e giudiziario attraverso il quale tutti gli abitanti del villaggio prendevano decisioni – l'assemblea comunale – e sostenuta dalla gestione collettiva dei beni comunali e dalla raccolta in campi aperti. Questo sistema ricevette nomi diversi a seconda della località: consiglio (concilium) o cabildo aperto nella penisola iberica, finage in Francia, Gemeindeversammlung in area tedesca, contado in Italia, ecc. Era uno strumento di democrazia diretta e di totale partecipazione: come si legge nel documento fondatore di un concilio leonese: "Noi tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, alti e bassi, tutti insieme, che siamo abitanti, villici e infanti...". L'autogoverno è esistito anche in grandi centri e città, dando origine a comuni e municipalità statutarie. La sovranità popolare era regolata dalla consuetudine (diritto consuetudinario) che implicava un complesso sistema di relazioni, con infinite varianti derivanti dalle vicissitudini locali. Il declino delle assemblee consiliari fu direttamente correlato allo sviluppo dello Stato, alle divisioni interne e all'uso diffuso del diritto civile basato sul diritto romano. La ricerca di una società senza Stato s’ispirerà al sistema comunale, sua eredità sconosciuta. L'efficacia economica dei beni comuni residuali è stata recentemente studiata dalla studiosa Elinor Ostrom, che ha attentamente ignorato gli sforzi obbligatori e le implicazioni politiche del loro ripristino, gestione e usufrutto. La riorganizzazione sociale del territorio in margine al capitalismo è soprattutto politica e, in quanto tale, sarà comunitaria e frutto di una lunga lotta, o non sarà.

La difesa del territorio è l'attuale paradigma della lotta anticapitalista, ereditata dalla passata lotta di classe. Avviene sia all'interno sia all'esterno della metropoli, mostrando tre aspetti interrelati tra loro, l’urbano, il rurale e l’ecologico, ognuno con le sue sfaccettature negatrici e creative, i suoi momenti violenti o pacifici e i suoi rispettivi livelli, locale e globale. Comprende quindi diverse questioni che attualmente emergono in relazione all'edilizia abitativa, ai trasporti, all'immigrazione, alle abitudini patriarcali, al prezzo dell'energia, alla problematica del parcheggio nei quartieri storici, alla perdita di terreni coltivabili, alla dipendenza alimentare, allo spopolamento rurale e alla distruzione del paesaggio. La sfida attraverso l'azione capace di abbandonare il capitalismo è la confluenza di tutte le lotte in una sola. Ciò sarà impossibile senza una rinascita della società civile al di fuori dello Stato e contro la tecnologia colonialista del capitale. La resistenza richiede radicamento nel territorio, spazi propri, connessioni e progetti. Mi riferisco a infrastrutture alternative, tessuto sociale autonomo, esempi pratici di autosufficienza, tentativi autogestiti... Pertanto, il lato guerriero e demolitore della difesa corre parallelo a quello costruttivo e organizzativo. La negazione richiede il suo opposto, e viceversa. La creatività deve essere accompagnata dall'attacco.

Miguel Amorós, 5 agosto 2025.

Materiali per la discussione



Cuando el mercado domina,

el territorio muere

Del territorio, su suburbialización y su defensa

Desde que la revolución industrial provocó la urbanización progresiva de la sociedad, se puede decir que la historia social es la historia del proceso urbanizador. En la recta final del proceso, la característica más distinguible de la sociedad actual es el enorme incremento de las áreas urbanas y periurbanas. Hoy en día, más de la mitad de la población mundial vive en aglomeraciones urbanas. En Europa alcanza el 74%, y el 84% en los Estados Unidos. El crecimiento es continuo, persistente y acelerado, por lo que cabe suponer que, en pocas décadas, el 5 o 6% del territorio concentre a casi toda la población del planeta, mientras que el resto, vaciado, quedará orbitando alrededor de las aglomeraciones y manteniendo con ellas una relación de total dependencia. Es lo que Henri Lefebvre definió en los pasados setenta como “sociedad urbana”, es decir, sociedad completamente urbanizada. La ciudad industrial, eminentemente burguesa, volcada al mercado interior, pierde sus límites y se dispersa por el territorio para transformarse en un sistema informe de conurbaciones enlazadas por autopistas y trenes metropolitanos, conectado por internet a los flujos transnacionales de capital. Tal clase de asentamiento, donde el espacio público se convierte en simple espacio circulatorio y el espacio de la decisión se virtualiza, es ahora la unidad espacial significativa que reclama todo el territorio para desparramarse. No se trata de una ciudad deteriorada, sino de un hecho completamente nuevo. En Estados Unidos lo llamaron “área metropolitana.” El "boom" residencial que lo hizo posible fue facilitado por la motorización privada. El automóvil utilitario desencadenó un proceso de suburbanización de las afueras que se dio de manera explosiva en Europa a partir de los años cincuenta del siglo pasado, y en América, más de diez años antes. En los años ochenta, con los inicios de la informatización y del desarrollo empresarial aeroportuario, ya podemos hablar claramente de metropolitanización. Es una realidad inédita producida por el paso de la ciudad fabril, de morfología difusa pero clara, a la metrópolis financiera hiperexpansiva, ya desdibujada en el espacio, o lo que es lo mismo, de la ciudad de los productores al no-lugar de transeúntes y los consumidores.

La era de las ciudades ha terminado, afirmó rotundamente Françoise Choay. La desmemoria típica del súbdito metropolitano impone un eterno presente: las actuales metrópolis surgen de la tabula rasa con el pasado, no de la historia. Con el amontonamiento de conurbaciones metropolitanas se ha completado la transición de una economía industrial urbana, de base nacional, a una economía de servicios metropolitana, internacionalizada. La primitiva oposición ciudad-campo se ha resuelto en favor de las metrópolis, a las que impropiamente Saskia Sassen llama “ciudades globales” puesto que si bien son globales, ya no son ciudades: la ciudad se ha desvanecido y el campo ha dejado de ser una realidad diferenciada, tanto por la industrialización de las tareas, como por la mentalidad urbana y el estilo de vida estándar de su escaso vecindario. Realmente no hay campo: el campo es ya un hecho urbano o subsidiario de lo urbano. En los sesenta se acuñó el concepto de urban field. En fin, las regiones metropolitanas, homogéneas, transparentes, indistinguibles unas de otras, no son más que la traducción espacial del posfordismo y la globalización, o dicho de otro modo, se corresponden con el espacio más adecuado para la reproducción del capital en su fase mundializada. Constituyen la concreción desnacionalizada de la sociedad capitalista global. Gracias a las infraestructuras del transporte -gracias sobre todo a los aeropuertos y al abaratamiento de los contenedores- y posteriormente, gracias a la digitalización, el espacio del capital se modifica radicalmente y adapta desintegrando los niveles locales y nacionales, vestigios de la fase capitalista anterior, hasta adquirir las dimensiones mundiales necesarias y la imagen diferencial, el logo o la "marca", es decir, la seudo-identidad. Otros procesos complementarios contribuyen: motorización privada, clusterización, gentrificación, museificación, turistización, litoralización, exclusión social, etc. Hoy más que nunca, el espacio urbano no es de quien lo habita, sino de quien especula con él, la clase de siempre representada por los promotores inmobiliarios, los propietarios de suelo y los fondos de inversión, y es esta quien lo modela en función de su interés.

Dado que la pobreza y el malvivir no se han erradicado; bien al contrario, los salarios se han estancado, la precariedad, el empleo basura y la desigualdad se han extendido, la conflictividad no ha desaparecido, pero ha sido abducida de diferentes maneras. La forzosa confrontación, cuando llega a producirse, jamás llega a generalizarse, tanto en el espacio como en el tiempo, y ni mucho menos profundizarse. Los métodos clásicos de la lucha de clases y los conceptos ideológicos que la justificaban, antaño funcionales en la ciudad manufacturera, se vuelven ineficaces en un marco espacial delineado expresamente para fomentar conductas conformistas y sumisas, el de la metrópolis-empresa. La difícil comunicación directa debido a las distancias, la entropía social y los complejos mecanismos de contención tecnológico-policiales favorecen la resignación, mientras la repetición interesada de los viejos esquemas naufraga inevitablemente en la impotencia. La demagogia no sirve ya ni a los demagogos. Cuando la economía, gracias a las innovaciones técnicas abraza la totalidad de la actividad humana, sus valores tienden a universalizarse condicionando a todos los comportamientos en la dirección del mercado. A los efectos de la deslocalización industrial, de la desregulación y racialización del mercado laboral, del turismo y la comunicación unilateral, del sindicalismo y asociacionismo subvencionados, etc., se suma un sentimiento de desarraigo, soledad y desamor, una la retirada en lo privado y el consumo cotidiano, un presentismo amnésico, un seguidismo ciego de las modas, una sumisión voluntaria al orden establecido, y, por último, una proliferación de conductas neuróticas y sicopatológicas, todo lo cual vuelve a los individuos vulnerables, y en consecuencia, asustadizos y fácilmente manipulables. De resultas de este “nuevo tipo de ciudadanía”, los antagonismos son más difíciles de formular y más aún de asimilar, pero no impide su manifestación allá donde fallan los controles sistémicos, reaparece la calle como lugar de encuentro, se supera el aislamiento y fracasan los profesionales de la representación espuria.

La concentración metropolitana desequilibra profundamente el territorio circundante, puesto que lo despuebla, a la par que absorbe todos sus recursos y deposita en él sus residuos, contaminándolo y degradándolo. La porción urbana consume las tres cuartas partes de la energía disponible y el 20% de agua, produce al año dos mil quinientos millones de toneladas de basura y es responsable de más del 70% de las emisiones de gases de efecto invernadero. El impacto ambiental -la “huella” urbana- es formidable y abre un nuevo escenario de lucha al que denominamos defensa del territorio. Para mejor entender la noción de defensa convendría explicar antes el concepto de territorio. En principio, territorio es algo más que el espacio concreto donde se asienta una población, por lo que no equivale por ejemplo a paisaje, solar, medio natural o dominio rural: la parte urbanizada es solo uno de los elementos constitutivos. No es espacio geográfico, sino espacio social, con tradición propia, cultura e historia. Y hoy en día, espacio mercantil. Realmente es una construcción socio-histórica resultado de la acción humana a lo largo del tiempo más o menos simbiótica con el medio. Y precisamente, cuando la simbiosis entre sus componentes se rompe, se originan fuertes disputas y enfrentamientos. Recordemos los levantamientos rurales, las guerras campesinas y las revoluciones. La superación de la contradicción campo-ciudad causada por la industrialización fue resuelta con la conversión del territorio en territorio de la economía, y en consecuencia, con la adaptación del primero a las exigencias de la segunda, que hoy significa suburbanización. Así pues, el campo se fue vaciando a la vez que parcelando, reglamentando y especializando; rediseñado con planes y articulado mediante redes viarias que lo volvían más accesible, explotable y urbanizable. En su nuevo aspecto, el campo reflejaba el nuevo orden socio-político emanado de las metrópolis. En tal orden los principales perdedores seguían siendo las clases urbanas asalariadas, relegadas a las periferias-dormitorio, en calidad de lo que el mundo anglosajón denomina commuters. Gracias a la alta tecnología, los recursos territoriales han ido adquiriendo una importancia cada vez mayor en la reproducción del capital a medida en que se ha tenido plenamente conciencia de que la producción industrial -sobre todo energética- dependía de aquellos. En la fase extractivista del capitalismo, tales recursos conferían a un territorio no urbano la categoría de “estratégico”, puesto que el crecimiento económico dependía de ellos, lo que convertía toda protesta en esos ámbitos en un problema de Estado, a resolver con métodos represivos. Por consiguiente, la defensa del territorio, y la lucha antidesarrollista en general, terminó ocupando el centro de la cuestión social. La paradoja es que los efectivos mayores de la defensa de la tierra son más urbanos que rurales. De alguna forma, bajo ciertos aspectos, la defensa del territorio no urbano es una lucha urbana.

El antidesarrollismo es evidentemente desurbanizador y descentralizador. Pretende reequilibrar y rehabilitar el territorio para volver de nuevo a integrar sus partes sobre bases de reciprocidad. Los primeros autores que plantearon el tema de la desconcentración de la ciudad industrial y la fusión con la naturaleza y el campo, muy anteriores a la explosión urbana, fueron los anarquistas Reclus y Kropotkin. Ambos apelaron a un “sentimiento de la naturaleza” que guiase la construcción de una nueva sociedad sin clases. La vuelta a la naturaleza consistiría en una dispersión urbana de baja intensidad de todas las actividades acaparadas por la urbe, de forma que se diera una interpenetración ventajosa para todas las partes. Al conformarse, alrededor de las ciudades recuperadas en régimen comunista libertario, una red de pequeñas industrias, molinos, saltos de agua, caminos y explotaciones agrícolas colectivizadas, el resultado sería una región integrada urbano-rural ajena a la economía capitalista, puesto que carecería de centro dirigente y estaría regida por principios de igualdad, solidaridad y justicia. La idea fue recogida y desarrollada, parcial o totalmente, por distintos autores críticos con las nuevas realidades suburbanas: Geddes, Mumford, Bookchin, Hall, Oyón, Harvey... Desde la época de Reclus y el príncipe de las trincheras, las cosas se han complicado. El problema principal para una transformación social de ese tipo consiste en que las áreas metropolitanas están concebidas exclusivamente para la reproducción de capitales, con los lugares de producción, trabajo, vivienda, abastecimiento y ocio alejados unos de otros, sus vías arteriales repletas, sus turistas, su atmósfera contaminada, sus plataformas digitales, etc., algo que las hace inaprovechables para menesteres socializadores. En esas condiciones, la autogestión no sería entonces más que la autogestión popular del capital. Para llevar a cabo un proyecto territorial emancipador de envergadura, no capitalista, y así pues, para crear un marco espacial apropiado, habrá primero que desmantelar dichas áreas. La inviabilidad futura y el presente potencial explosivo de las metrópolis ayudará en la tarea, pero tenderá a provocar una dispersión caótica que habrá que superar. Evidentemente, la transformación revolucionaria de la sociedad dependerá de la formación de un sujeto político colectivo capaz de organizarse y enfrentarse con el orden vigente y hacer frente al Estado. No es cuestión de encontrar una fórmula y que la practiquen tranquilamente un puñado de esforzados voluntarios con el fin de que el ejemplo cunda, a lo peor, bajo el paraguas de una actividad política convencional. Se trata de que un sector importante de la población se movilice y auto-organice, y de que sus luchas confluyan hasta abrirse camino entre las barreras capitalistas. Las estrategias de cambio deberán partir de ahí.

El pasado movimiento obrero nos proporcionó ejemplos prácticos de auto-organización para la lucha social: gremios, cooperativas, sindicatos únicos, consejos obreros, comités de barriada...  Eran formas asociativas mayoritariamente urbanas, de duración episódica, artificiales, basadas en la adhesión voluntaria y la permanencia del interés de clase. La aldea, en cambio, nos ofrece una forma auto-organizativa para la convivencia, intemporal, orgánica, fundada en los lazos vecinales y las raíces territoriales: la comunidad aldeana. Es más un estilo de vida en común ligado a la tierra, que una relación contractual basada en la alianza y el acuerdo. La aldea comunitaria es la forma más antigua de organización social. En Europa surgió en el siglo IX, gobernada por un órgano administrativo y judicial a través del cual todos los aldeanos tomaban decisiones -la asamblea comunal- y sustentada por la gestión colectiva de bienes comunales y la recolección en campos abiertos. Tal régimen recibió distintos nombres según el lugar: concejo -concilium- o cabildo abierto en la Península Ibérica, finage en Francia, Gemeindeversammlung en el área alemana, contado en Italia, etc. Era un instrumento de democracia directa y de participación total: tal como reza el documento constitutivo de un concejo leonés: “Nosotros todos, varones y mujeres, jóvenes y viejos, máximo y mínimos, todos conjuntamente, que somos habitantes, villanos e infanzones...” La auto-gobernanza también se dio en pueblos grandes y ciudades, dando lugar a comunas y municipios forales. La soberanía popular se regulaba por la costumbre -por el derecho consuetudinario- lo cual implicaba un complejo sistema de relaciones, con infinitas variantes derivadas de las vicisitudes locales. La decadencia de las asambleas concejiles estuvo emparentada directamente con el desarrollo del Estado, las divisiones internas y la generalización del derecho civil basado en el romano. La búsqueda de una sociedad sin Estado tendrá mucho que inspirarse en el régimen comunal, su patrimonio desconocido. La eficacia económica de los bienes comunes residuales fue estudiada recientemente por la académica Elinor Ostrom, que tuvo buen cuidado en ignorar los esfuerzos preceptivos y las implicaciones políticas de la reimplantación, gestión y usufructo de los mismos. La reorganización social del territorio al margen del capitalismo es sobre todo política y como tal, será comunitaria y fruto de una larga lucha o no será.

La defensa del territorio es el paradigma actual del combate anticapitalista heredero de la pasada lucha de clases. Ocurre tanto dentro de la metrópolis como fuera, mostrando tres aspectos relacionados entre sí, el urbano, el rural y el ecológico, cada uno con sus facetas negadora y creadora, sus momentos violentos o pacíficos, y sus respectivos niveles, local y global. Abarca pues cuestiones diversas que ahora mismo se presentan en torno a la vivienda, al transporte, la inmigración, los hábitos patriarcales, al precio de la energía, la parquetematización de los barrios históricos, la pérdida de superficie cultivable, la dependencia alimentaria, la despoblación de los campos o la destrucción del paisaje. El reto para la acción en pos de la salida del capitalismo es la confluencia de todas las luchas en una. Eso será imposible sin una resurgencia de la sociedad civil al margen del Estado y en contra la tecnología colonialista del capital. La resistencia necesita raíces en el territorio, espacios propios, conexiones, obras. Me refiero a infraestructuras alternativas, tejido social autónomo, ejemplos prácticos de autosuficiencia, tanteos autogestionarios... Así pues, el lado guerrero y desmantelador de la defensa corre paralelo al lado constructivo y organizador. La negación requiere su contrario, y viceversa. El hecho creativo ha de acompañarse con el ataque.

Miguel Amorós, 5 de agosto de 2025.

Materiales para discusión

 


 

  

lunedì 11 agosto 2025

La tecnologia digitale ci sta riportando al Medioevo? Evgeny Morozov

 



Controversie sul tecno-feudalesimo, un concetto di moda


Tradotto dal francese di Le Monde diplomatique di agosto 2025 da Sergio Ghirardi Sauvageon

 

Un dibattito infuria: i giganti dell'intelligenza artificiale hanno trasformato i loro utenti in servi e vassalli condannati, come nel Medioevo, a faticare gratis e a pagare un affitto? Oppure stanno applicando alla lettera le vecchie ricette del capitalismo industriale, ma con prodotti artefatti? Per combatterli, dovremo scegliere tra Don Chisciotte e Karl Marx.

Evgeny Morozov

(Direttore di Syllabus, una piattaforma di selezione e promozione della conoscenza).

 

Da Parigi a Madrid, da Roma a Berlino, uno spettro medievale con una felpa a cappuccio infesta la sinistra europea: lo spettro del "tecno-feudalesimo". Da un lato, Jean-Luc Mélenchon chiede la tassazione dei profitti dei nostri nuovi "signori digitali"; dall'altro, scrive che l'intelligenza artificiale (IA) "non è esterna alla realtà capitalista: fa parte di un tecno-feudalesimo in cui pochi attori si appropriano della rendita". Profitti o rendita? Capitalismo o feudalesimo? L'economia di Mélenchon è come il gatto di Schrödinger che vaga per le strade di Palo Alto; esiste simultaneamente in due stati: vivo e morto, capitalista e feudale.

Anche la vicepremier spagnola Yolanda Díaz si scaglia contro il "tecno-feudalesimo del magnate Elon Musk". I miliardari della tecnologia, avverte, intendono trasformare "le democrazie in monarchie al servizio delle grandi imprese". Un leader ecologista italiano, Angelo Bonelli, accusa lo stesso miliardario di aver instaurato "un neo-feudalesimo autocratico" e sollecita il suo Paese a fare una scelta: "Musk o democrazia".

Queste tirate tragico-feudali sono ancora più ridicole perché si verificano nel mezzo della più oscena orgia capitalista dai tempi della Golden Age americana di fine XIX secolo. Lo scorso maggio, Donald Trump ha riportato dal suo tour nel Golfo la promessa d’investimenti giganteschi nell'economia americana, destinati principalmente alle infrastrutture d’intelligenza artificiale: l'Arabia Saudita ha annunciato 600 miliardi di dollari, il Qatar 1,2 trilioni di dollari e gli Emirati Arabi Uniti 1,4 trilioni di dollari. Questi si aggiungeranno al trilione di dollari promesso dal Giappone a febbraio. L'anno scorso, quando Sam Altman, fondatore di OpenAI, dichiarò di voler raccogliere sette trilioni di dollari, si pensò che si trattasse di una bufala. Ora, questa sembra una palese mancanza di ambizione.

Lo tsunami d’investimenti ha travolto le Big Tech: Meta, Microsoft, Alphabet e Amazon da sole stanno iniettando, quest'anno, 320 miliardi di dollari nelle infrastrutture d’intelligenza artificiale, rispetto ai 246 miliardi di dollari del 2024. La startup Thinking Machines Lab ha raccolto 2 miliardi di dollari senza nemmeno fornire una versione beta. Che età dell'oro per gli esperti o piuttosto i truffatori dell’intelligenza artificiale! Per assumere degli ingegneri, Meta fa balenare dei bonus alla firma da 100 milioni di dollari. All'ex responsabile dei modelli d’intelligenza artificiale di Apple è stato offerto due volte di più.

La frenesia capitalista raggiunge il suo apice con xAI di Musk: l'azienda, che ha raccolto diciassette miliardi di dollari in soli due anni di attività, brucia un miliardo il mese. In confronto, gli inizi dei primi giganti digitali sembrano piuttosto modesti: Tesla ha raccolto sette milioni e mezzo di dollari, Google un milione, Amazon otto milioni. xAI ha speso tre/quattro miliardi di dollari per costruire il supercomputer Colossus, in soli 122 giorni (mentre gli esperti prevedevano due anni).

Freddi come il granito

Nella guerra di tutti contro tutti che la concorrenza capitalista costituisce, i giganti dell'intelligenza artificiale stanno stringendo incredibili alleanze. Si firmano assegni ai propri nemici mortali e si affilano i coltelli non appena voltano le spalle. BlackRock, Microsoft e xAI hanno messo insieme 30 miliardi di dollari per le infrastrutture d’intelligenza artificiale (obiettivo: 100 miliardi di dollari). Da parte loro, OpenAI, Oracle e Soft Bank hanno raccolto 500 miliardi di dollari per il progetto Stargate, con la benedizione di Trump. Microsoft è uno dei principali investitori di OpenAI? Non importa se tra le due aziende non scorre buon sangue.

Con una tale quantità di capitali in gioco – e profitti futuri – nulla è sacro. L'accumulo di dati, le fortezze algoritmiche e i brevetti stessi proteggono dalla concorrenza tanto quanto un ombrello protegge dal maltempo durante il monsone: il monopolista di oggi sarà l'esempio dell'incompetenza di domani. Per questo motivo Wall Street chiede la testa del signor Tim Cook, colpevole di non aver saputo orientare la strategia di Apple in tema d’intelligenza artificiale.

La guerra dei prezzi in corso è una testimonianza delle potenti turbolenze causate da questa lotta. xAI ha tirato per prima, fissando prezzi inferiori a quelli dei pesi massimi del mercato. Poi la società cinese DeepSeek, annunciando di aver creato una IA superiore a quella di Open AI a un costo ridicolmente basso, ha causato il più grande crollo nella storia del mercato azionario americano: nel giro di poche ore, Nvidia ha visto evaporare 600 miliardi di dollari di capitalizzazione di borsa, per poi recuperarli pochi giorni dopo. Ne è seguita una carneficina: tagliando i prezzi come una comune azienda in liquidazione (-26% per GPT -4.1 prima di uno sconto suicida dell'80% sul suo modello di punta, o3), OpenAI ha trascinato l'intero settore in una spirale deflazionistica.

Ecco perché i politici europei ricorrono a metafore medievali per descrivere il compimento del capitalismo in tutto il suo splendore: la distruzione creativa portata al parossismo?

La sinistra, però, è ghiotta di un'idea cui si può riconoscere il fascino della ciarlataneria: l'industria tecnologica starebbe uccidendo il capitalismo. La critica del tecno-feudalesimo costituisce la sua nicchia editoriale più redditizia, e le diagnosi apocalittiche si stanno moltiplicando ancora più velocemente delle startup della Silicon Valley. La saggista McKenzie Wark ha lanciato l'allarme nel 2019: il capitale non ha forse finito per fare un’indigestione di economia dell'informazione? I nostri nuovi signori, che lei chiama "vettorialisti" poiché non dirigono più la produzione, ma i vettori dell'informazione, fanno del più piccolo smartphone un "sandwich minerale" pieno dei nostri dati[1].

In seguito a ciò, gli uccelli del malaugurio si sono riversati sugli scaffali delle librerie in formazione serrata. Nel 2020, Cédric Durand ha fornito la dissezione più dettagliata di questi sintomi feudali in "Tecno-feudalesimo". I piani di salvataggio adottati dopo la crisi del 2008 hanno alimentato il gioco dell'espropriazione e del parassitismo. La sua diagnosi? Le risorse immateriali (dati, algoritmi) concentrate in punti strategici della catena del valore hanno causato l'emergere di una nuova forma di rendita, che consente ai giganti della tecnologia di monopolizzare il plusvalore senza dover produrre altro[2].

L'ultimo contributo al genere, Capital's Grave di Jodi Dean[3], pubblicato quest'anno, spiega come i principi stessi del sistema economico siano diventati cannibali. Investimenti, concorrenza e progresso prosperano ormai grazie all'accaparramento, alla predazione e alla distruzione. In questo nuovo feudalesimo, non vendiamo più semplicemente la nostra forza lavoro; paghiamo per il privilegio di essere sfruttati.

La voce più forte del folklore tecno-feudale non è altri che l'ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis. Il suo gospel è freddo come il granito: il capitalismo è morto nel 2008; non ce ne siamo resi conto perché eravamo affascinati dagli schermi.

Wark tasta il polso, Durand vede le metastasi del sistema moltiplicarsi, Dean coglie il capitalismo mentre si scava la fossa e Varoufakis fornisce il certificato di morte[4]. No, questo sistema non sta morendo, né sta cambiando: è stato assassinato dalla sua stessa progenie, il "cloudcapital", dove cloud (nuvola) designa l'infrastruttura digitale in cui avvengono l'archiviazione e l'elaborazione dei dati.

La teoria di Varoufakis brilla per chiarezza. Nel capitalismo, spiega, le aziende competono in mercati agili, fluidi e decentralizzati per trarre profitto dai beni che producono. Più questi beni diventano efficienti, maggiori sono i profitti e, restando il resto immutato, maggiori sono i benefici per la società. Ecco perché siamo tutti dotati di gadget meno cari ma più sofisticati.

Orbene, l'economia digitale avrebbe infranto questi pilastri che sono i mercati e i profitti. Il profitto (frutto della concorrenza e della produzione) sarebbe stato sostituito dalla rendita (frutto del controllo). I capitalisti fabbricavano prodotti; i signori digitali si accontentano di monetizzare le risorse online che controllano. Le piattaforme, Amazon, eBay, Alibaba, ma anche Facebook e Google Market-place, concentrano "il potere di connettere acquirenti e venditori, cioè l'esatto opposto di ciò che un mercato dovrebbe essere: decentralizzato". Questi sono i "feudi del cloud", zone di commercio digitalizzato centralizzate dove l'estorsione feudale ha sostituito la concorrenza mercantile.

I "cloudalisti", neologismo coniato da Varoufakis per i signori della tecnologia, hanno ridotto i buoni vecchi capitalisti allo status di "vassalli" costretti a mendicare per accedere alle piattaforme. Addio alla brutale violenza del feudalesimo; benvenuti nel “terrore tecnologico asettico”. Ora, rimuovere un link dal motore di ricerca di Google può "puramente  e semplicemente far sparire [qualsiasi azienda] dal mondo di Internet". I lavoratori digitali, questi "proletari del cloud", corrono come criceti su ruote ottimizzate grazie ad algoritmi. Ogni loro mossa è "guidata e accelerata dal capitale digitale". Infine e soprattutto, mentre i capitalisti tradizionali potevano spremere solo i propri dipendenti, i “cloudalisti” hanno inventato lo "sfruttamento universale": diventati tutti "servi del cloud", ariamo gratuitamente i campi digitali di Mark Zuckerberg.

Un elemento centrale della tesi di Varoufakis è che i nostri nuovi padroni non destinano i loro prodotti alla vendita. I risultati di ricerca sono gratuiti, così come le risposte di Alexa (l'assistente personale di Amazon), e i social network non fanno pagare i loro utenti. Questi servizi hanno lo scopo di "catturare e alterare la nostra attenzione". Anche quando le aziende li fatturano (ad esempio, l'abbonamento a ChatGPT) o commercializzano prodotti (Alexa), "non li vendono come merci, ma come mezzi per accedere al nostro focolare e, quindi, a una maggiore attenzione da parte nostra”. Questo potere sui cervelli umani consente loro di ricavare una rendita dai capitalisti tradizionali, che devono invece vendere sempre delle merci.

L'ex ministro delle Finanze ripercorre dunque le trasformazioni del sistema: in passato, il capitale aveva due ruoli; costruiva fabbriche e macchinari e, soprattutto, inventava sotterfugi per estorcere sempre più valore ai lavoratori, come si strizza uno straccio.

Tuttavia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il sistema ha sviluppato due metodi molto più astuti. I manager, innanzitutto: armati di cronometri e taccuini, questi esperti in rendimento hanno trasformato l’insieme dei luoghi di lavoro, delle officine, le fabbriche, fino alle sale riunioni di Wall Street, in catene di montaggio. Nel frattempo, i pubblicitari di Madison Avenue costruivano il loro impero, raccogliendo l'attenzione degli spettatori per metterla all'asta. Alchimisti del desiderio, non si limitavano a vendere prodotti; fabbricavano bisogni e trasformavano le preoccupazioni della classe media in liste della spesa. Queste due imprese gemelle hanno dato ai grandi business un potere inedito, quello di controllare i lavoratori dalle 9 alle 17 e sfruttarli come consumatori dalle 17 alle 9 del mattino.

Gli algoritmi della Silicon Valley monitorano la produttività in modo più efficiente e meno costoso di un esercito di capisquadra. I motori di raccomandazione battono a man bassa Don Draper[5] senza esigere il suo stipendio né il suo consumo di whisky. Lavorano 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e modificano costantemente il nostro comportamento. Oltre a inquadrarci come lavoratori e manipolarci come consumatori, ci fanno lavorare – gratuitamente – alla nostra stessa sorveglianza. Ogni ricerca, ogni clic, ogni download stringe inesorabilmente le nostre catene.

Nasce così la nuova forza estrattiva – "cloudalist", come la chiama Varoufakis – che trasforma chiunque tocchi uno schermo in un servo digitale e riduce i piccoli imprenditori a vassalli che devono pagare il dovuto. La macchina si autoalimenta: accumulo di dati, modifica dei comportamenti, concentrazione del potere, aumento dell’utile, perfezionamento degli algoritmi. In questo movimento perpetuo dell’estrazione, si è sia il carburante sia il prodotto.

Paradosso supremo: il capitalismo si uccide a causa del suo stesso successo. O, come scrive Varoufakis, "deperisce a causa dello sviluppo dell'attività capitalista". La sua avidità di sconvolgimento ha dato vita al suo successore feudale. All'inizio del secolo scorso, un intellettuale socialista come Rudolf Hilferding vedeva questo sistema aprire la strada al paradiso operaio. Varoufakis, da parte sua, prevede un esito molto più cupo.

Che cosa pensare di questa teoria provocatoria? A prima vista, sembra solida, corazzata con quelle appendici intimidatorie che gli accademici usano per scacciare gli scettici. In questo senso, assomiglia a quella esposta da Shoshana Zuboff in "L'era del capitalismo della sorveglianza"[6]. Del resto, entrambi sembrano persuasi di aver scritto Il Capitale del nostro secolo.

In effetti, a forza di voler imitare Karl Marx, finiscono per copiare Charles Dickens, un melodramma vittoriano travestito da teoria sociale: la teoria, astratta ma empiricamente fondata, cede il passo all'eloquente descrizione di un sistema disumano, che schiaccia gli utenti, i consumatori e i lavoratori precari. Si possono inserire tutti i concetti e gli schemi che si vogliono, mille storie strappalacrime non costituiranno mai una teoria solida.

Desideroso di rivolgersi a un vasto elettorato, Varoufakis e Zuboff trascurano una serie di noiosi aspetti tecnici: il rapporto tra Stato e capitale, la produzione, le transazioni tra imprese, ad esempio. È quindi più facile per loro concludere che i giganti del teak hanno per vocazione oliare gli ingranaggi del consumo, innanzitutto aiutando le altre imprese a vendere i loro prodotti, sia direttamente (Amazon), sia indirettamente (la pubblicità su Google e Facebook).

Le cifre, tuttavia, raccontano una storia diversa. I giganti della tecnologia digitale aiutano anche queste aziende a produrre. Amazon Web Services, la piattaforma cloud di Jeff Bezos, lavora per due milioni di organizzazioni e, nel 2024, ha superato la soglia dei 100 miliardi di dollari di fatturato. Quando Netflix paga la sua fattura annuale, stimata a un miliardo di dollari, non paga un tributo feudale, ma compra i macchinari digitali indispensabili per il suo funzionamento.

Amazon ha forse costruito i suoi servizi web assorbendo i dati personali trasmessi dal suo esercito di dispositivi equipaggiati di Alexia, come suggerisce Varoufakis? Assolutamente no. L’ha fatto secondo le buone vecchie regole del capitalismo, puntando sulle infrastrutture, in cui ha investito centinaia di miliardi di dollari dal 2014. Oggi, Amazon Web Services genera il 58% del suo reddito operativo, mentre questa branca rappresenta solo il 17% del suo fatturato totale. È così, in realtà, che la multinazionale fa soldi, non prelevando le commissioni di transazione che ossessionano Varoufakis.

Un colosso industriale

PIGRA estrazione di rendita? Al contrario, uno degli investimenti di capitale più aggressivi della storia. Solo nel 2025, Amazon prevede d’investire 100 miliardi di dollari, quasi esclusivamente nelle infrastrutture dell’intelligenza artificiale. Per la sua portata, questo processo è all'antitesi della logica feudale. Nessuno griderebbe al feudalesimo se un'azienda iniettasse somme folli in una mietitrice che permette agli agricoltori di migliorare il raccolto.

Se l'intelligenza artificiale si nutre indubbiamente dello scorrimento ipnotico delle immagini sui social media, non sono le foto di gatti pubblicate da vostro cugino a spingerla, ma dei libri scritti da esseri umani sotto contratto con degli editori. La Silicon Valley appare allora per quello che è: una banda di ladri. Meta ha pompato 82 terabyte di dati dalla biblioteca pirata Library Genesis; per quanto riguarda OpenAI, ha addestrato GPT-3 sul data set "Books2", molto probabilmente costituito a partire dalle risorse più dubbie del web.

Un bel giorno, gli avvocati delle case editrici hanno bussato alla porta. E i cleptomani online hanno allora dovuto tirare fuori il libretto degli assegni. News Corp ha preso 250 milioni di dollari da 0penAi, Wiley ha intascato 44 milioni di dollari, mentre Harvey Collins ha compiuto l’exploit di ottenere 5.000 dollari per ogni titolo rubato. Schiere di altri editori attendono le sentenze dei tribunali, degli autori continuano a scoprire il loro prezioso lavoro sommerso in un miscuglio di metadati. Nel frattempo, i giganti digitali si gargarizzano di un “uso equo”. Meta non ha ancora pagato un centesimo in cambio del considerevole bottino accumulato grazie al software di file sharing Bit Torrent.

Tutto questo era perfettamente prevedibile. Un'intelligenza artificiale trova i suoi veri nutrimenti non nelle infinite chiacchiere dei social network, ma in contenuti di fattura professionale. Ecco perché le aziende tecno digitali – Google in primis – sono state innanzitutto pirati, costretti e forzati a diventare mecenati. Questa è l'essenza del modello capitalista: espropriare a piacimento; negoziare quando qualcuno più forte si presenta con una mazza da baseball; innovare nel campo della giustificazione.

Torniamo all'esempio di Amazon. Certo, i suoi algoritmi manipolano gli utenti; certo, i suoi dipendenti sono spremuti come limoni. Ma, non dispiaccia a Varoises, l'azienda è soprattutto un colosso industriale assai poco virtuale: controlla più di 600 magazzini logistici negli Stati Uniti e circa 185 altri in tutto il mondo. Nel 2024, ha affittato 1,5 milioni di metri quadrati supplementari, prevede di creare 170 nuovi centri di distribuzione e d’investire 15 miliardi di dollari per garantire la superficie dei suoi magazzini. Nel 2026, avrà investito quattro miliardi di dollari e costruito 210 centri di consegna per servire le aree più remote d'America. I signori riscuotevano il loro reddito con meno sforzi...

I venditori che utilizzano i suoi servizi devono effettivamente pagare commissioni significative: generalmente il 15%, esclusi stoccaggio e spedizione. Alcuni affermano addirittura di pagare ad Amazon il 40% dei loro ricavi. Ma che cosa acquistano esattamente? Un accesso a un’infrastruttura che costerebbe loro centinaia di miliardi se dovessero costruirsela: magazzini automatizzati in cui i robot svolgono la maggior parte del lavoro pesante, una flotta di consegna più importante della maggior parte dei servizi postali, una capacità di consegnare una merce nella giornata, che solo dieci anni fa era fantascienza.

Da dove trae Amazon il suo potere? Da investimenti in capitale fisso, da economie di scala, da  effetti di rete? Oppure dall'accumulo di dati, da un'estrazione di rendita di tipo feudale? Nel primo caso, rimarrebbe nell'ambito del capitalismo, poiché genererebbe ricchezza accumulando capitale. Nel secondo, da signore sterile, si limiterebbe a riscuotere un tributo. Ebbene, poiché l'azienda è in grado di investire 100 miliardi di dollari all'anno per offrire un servizio che ha poco a che fare con il saccheggio dei dati degli utenti, la risposta è ovvia.

Varoufakis si descrive come un "marxista errante" con tendenze libertarie. Tuttavia, ha una formazione da economista neoclassico: per lui, gli affari sono più simili a una serie di equazioni che a una battuta di caccia. Da qui, forse, la sua commovente fede nei "mercati decentralizzati" e nel capitalismo tradizionale, dove regnava lo scambio equo e dove la concorrenza garantiva il trionfo del prodotto migliore. La vecchia guardia, quella di "Edison, Ford e Westinghouse", "aveva una sola ossessione: realizzare profitti ottenendo un monopolio di mercato e utilizzando il capitale delle fabbriche e delle catene di produzione". I signori del digitale, al contrario, "investono in ricerca e sviluppo, politica, marketing, indebolimento dei sindacati e formazione di cartelli". Si finirebbe per credere che i capitalisti di un tempo fossero brave persone con a cuore gli interessi dell'umanità.

Condivide questa nostalgia accecante con Zuboff, sebbene quest'ultima abbia una visione diversa dell'età dell'oro del capitalismo: prima della tecnologia digitale, l'economia funzionava a meraviglia grazie a geniali innovazioni in materia di organizzazione del lavoro. Neppure lei riesce a immaginare come le multinazionali americane abbiano potuto prosperare grazie ai contratti con il Pentagono, agli interventi delle agenzie d’intelligence e alla portata mondiale di Wall Street.

Varoufakis lo ribadisce: le aziende tecno digitali non devono "produrre merci più economiche e di migliore qualità" e si dedicano a pratiche predatorie perché si sono liberate dalla disciplina imposta dalla concorrenza. Cosi, il social network Tik Tok non è realmente in concorrenza con Facebook, ma "costituisce un nuovo feudo digitale per i nuovi servi che cercano di migrare verso un'altra esperienza online". Allo stesso modo, Disney Plus "non ha offerto al pubblico film e serie Netflix a un prezzo inferiore o in alta risoluzione, ma film e serie che non sono disponibili su Netflix". Quanto a Walmart, "non abbassa i prezzi di Amazon né offre prodotti migliori usa il suo database per attrarre più utenti nel suo nuovo feudo digitale".

Varoufakis pensa di aver scoperto una profonda verità del capitalismo moderno. Eppure, sta solo descrivendo l'eterno funzionamento di questo sistema. Non esiste certamente una vera concorrenza tra le piattaforme, ma la concorrenza non si è mai basata esclusivamente sulla qualità e sul prezzo dei prodotti[7]. Le imprese hanno sempre cercato di catturare i consumatori, produrre beni esclusivi, costruire reti proprietarie e sfruttare tutti i vantaggi a loro disposizione. L'unica differenza è che oggi questi vantaggi – solitamente temporanei, se non garantiti dagli Stati – assumono una forma digitale anziché fisica. Il libertario Varoufakis non vede che la concorrenza è essa stessa una forma di potere coercitivo. Da buon marxista, ammetterà che i capitalisti esercitano un vincolo sui lavoratori, ma non arriverà ad ammettere che il mercato eserciti un vincolo sui primi – e non sempre per incoraggiarli a produrre meglio e a un prezzo più basso. Marx, da parte sua, lo aveva capito bene: il capitale si dirige dove si presentano le migliori prospettive di profitto e ricorre a volte all'innovazione, a volte alla predazione – una dialettica antica quanto il capitalismo. Questo movimento perpetuo trascina i capitalisti in una guerra di tutti contro tutti da cui non possono sfuggire più di quanto i pesci possano sopravvivere fuori dall'acqua.

Per quanto potente, la multinazionale Apple stessa risponde anch’essa a un padrone: il capitale mondiale. Per quanto l'azienda imponga, come un guardiano medievale, una tassa dal 15 al 30% sulle app offerte sull'App Store, si sente minacciata dal suo ritardo in tema d’intelligenza artificiale che le vale già gli strali di Wall Street e domani, forse, la fuga di utenti verso altri sistemi operativi come Android e HarmonyOS o Huawei (che ha detronizzato il suo, iOS, in Cina). Sostituendo il suo numero due per placare gli scettici, Apple ha rivelato la triste verità: il controllo autoritario che esercita sugli sviluppatori di applicazioni non è nulla in confronto ai diktat dei mercati di capitali.

Favola

Questo insegnamento sfugge a Varoufakis: se c'è un signore feudale nel dramma in corso, è il capitale stesso. Non era diverso ai tempi di Marx. L'espressione "capitalismo democratico" è un ossimoro, perché, nel capitalismo, solo l'esercito degli analisti di Wall Street decide. Se esigono l'integrazione dell'intelligenza artificiale nei loro smartphone, si può essere certi che Apple acconsentirà.

A suo agio nell'analizzare dei micro mercati, Varoufakis non riesce a comprendere la guerra sistemica che sta dilaniando i capitalisti – e questo era il suo campo d'azione quando era ministro delle finanze in Grecia. Errore fatale, l’albero gli nasconde la foresta: invece di cercare di comprendere la logica del sistema economico nella sua interezza, si concentra su alcune delle sue componenti, proprio come un meccanico incapace di spiegare il funzionamento di un motore.

Il tecno-feudalesimo è una favola che occulta la vera storia: il dominio incontrastato delle tecnologie digitali sta completando un processo iniziato settanta anni fa[8]. Mano nella mano, Wall Street, Silicon Valley, Pentagono e Central Intelligence Agency (CIA) hanno sistematicamente annientato i Paesi non allineati che aspiravano a una vera sovranità tecnologica ed economica. Per un'amara ironia, gli Stati di oggi stanno acquistando quella che alcuni ricercatori chiamano già "sovranità come servizio": non preoccupatevi, Microsoft, Palantir e altri soddisferanno tutte le vostre esigenze, a un prezzo accessibile.

Ecco quel che rende così seducente e pericolosa la teoria del tecno-feudalesimo: si basa su cattivi da cartoni animati ("Bezos!" "Musk!" "Zuckerberg!") e su soluzioni dello stesso genere ("Formiamo cooperative!" "Chiediamo alle banche centrali di emettere valute digitali!" "Consentiamo la portabilità dei dati!"). Essa ci fa credere di combattere contro signori medievali, quando l'avversario è di tutt’altra statura. È ora di chiamare il capitalismo con il suo vero nome. Non lo sconfiggeremo mascherandolo con orpelli medievali.

Evgeny Morozov

(Tradotto in francese dall'inglese da Nicolas Vieillescaze)



[1] McKenzie Wark, Capital is Dead: Is This Something Worse? Verso, Londres, 2019.

[2] Cedric Durand, Techno-féodalisme. Critique de l’économie numérique, La Decouverte, Paris 2020. L’autore prosegue una riflessione cominciata in Le Capital fictif. Comment la finance s’approprie notre avenir, Les prairies ordinaires, Paris 2014.

[3] Jodi Dean, Capital’s Grave: Néofeudalism and the New Class Struggle, Verso, 2025.

[4] Yanis Varoufakis, Technofeudalism : What Killed Capitalism, The Bodley Head, Londres 2023, tradotto in francese nel 2024 alle edizioni Les Liens qui libèrent con il titolo Les nouveaux serfs de l’économie.

[5] Eroe della serie televisiva Mad Men sui pubblicitari americani degli anni sessanta.

[6] Vedi : Shoshana Zuboff, « Un capitalisme de surveillance », Le Monde diplomatique, janvier 2019.

[7] Anwar Shaikh, Capitalism: Competition, Conflict, Crises, Oxford University press, 2016.

[8] Leggere « Une guerre froide 2.0 », Le Monde diplomatique, maggio 2023.


fonte: https://www.monde-diplomatique.fr/2025/08/MOROZOV/68672 




Controverses sur le techno-féodalisme, une notion à la mode

Le numériques nous ramène-t-il au Moyen Âge ?

Un débat fait rage : les géants de l’intelligence artificielle ont-ils changé leurs utilisateurs en serfs et en vassaux condamnés comme au Moyen Age, à trimer gratuitement et à payer la rente ? Ou appliquent-ils à la lettre, mais avec des produits sophistiqués, les vieilles recettes du capitalisme industriel ? Pour les combattre, il faudra choisir entre Don Quichotte et Karl Marx.

Evgeny Morozov (Directeur de Syllabus, une plateforme de sélection et de mise en valeur des connaissances).

De Paris à Madrid et de Rome à Berlin, un spectre médiéval vêtu d’un sweat à capuche hante la gauche européenne, le spectre du « techno-féodalisme ». D’un côté, M. Jean-Luc Melenchon réclame la taxation des profits de nos nouveau « seigneurs du numériques » ; de l’      autre il ecrit que l’intelligence artificielle (IA) « n’est pas extérieure à la réalité capitaliste : elle s’inscrit dans un techno-féodalisme où quelques acteurs captent la rente ». Les profits ou la rente ? Capitalisme ou féodalisme ? L’économie mélenchonienne s’apparente à un chat de Schrödinger errant dans les rues de Palo Alto : elle existe simultanément dans deux états – vivante et morte, capitaliste et féodale.

La vice-première ministre espagnole, Mme. Yolanda Diaz, s’insurge elle aussi contre le « techno-féodalisme du magnat Elon Musk ». Les milliardaires de la tech, prévient-elle, entendent transformer « les démocraties en monarchies à la botte des grandes entreprises ». Un leader écologiste italien, M. Angelo Bonelli, accuse le même milliardaire d’instaurer « un néo féodalisme autocratique » et enjoint à son pays de faire un choix : « Musk ou la démocratie ».

Ces envolées tragico-féodales prêtent d’autant plus à sourire qu’elles surviennent au beau milieu de l’orgie capitaliste la plus obscène depuis l’âge d’or américain à la fin du XIXème siècle. En mai dernier, M. Donald Trump rapportait de sa tournée dans le Golfe la promesse d’investissements pantagruéliques dans l’économie américaine, essentiellement destinés aux infrastructures de l’intelligence artificielle : l’Arabie saoudite a annoncé 600 milliards de dollars, le Qatar, 1200 milliards, les Emirats arabes unis, 1400. Ils s’ajouteront aux 1000 milliards misés par le Japon en février. L’an passé, quand M. Sam Altman, fondateur d’OpenAI, a déclaré vouloir lever 7000 milliards de dollars, on a cru à un canular A present, cela apparaît comme un flagrant manque d’ambition.

Le tsunami d’investissements a englouti la Big Tech : à elle seules, Meta, Microsoft, Alphabet et Amazon injectent 320 milliards de dollars dans les infrastructures d’IA cette année, contre 246 en 2024. La start-up Thinking Machines Lab a levé 2 milliards de dollars sans même fournir une version beta. Quelle époque bénie pour les experts – ou les escrocs – de l’IA ! Pour débaucher des ingénieurs, Meta leur fait miroiter des primes à la signature de 100 millions de dollars. L’ancien responsable d’IA Models chez Apple s’est vu proposer deux fois plus.

La frénésie capitalistique atteint son pic avec xAI, de M. Musk : l’entreprise, qui a récolté 17 milliards de dollars en seulement deux ans d’existence, carbonise 1 milliard par mois. Par comparaison, les débuts des premiers géants du numérique apparaissent bien modestes : Tesla avait levé 7,5 millions de dollars, Google, 1 million, Amazon, 8 millions. xAI a dépensé 3 à 4 milliards de dollars pour bâtir le superordinateur Colossus, en seulement cent vingt-deux jours (alors que les experts prévoyaient deux ans).

Froid comme du granite

Dans la guerre de tous contre tous que constitue la concurrence capitaliste, les mastodontes de l’IA passent entre eux d’invraisemblables alliances. On y signe des chèques à ses ennemis mortels, et l’on aiguise les couteaux sitôt qu’ils tournent le dos. BlackRock, Microsoft et xAI ont mis en commun 30 milliards de dollars destinés aux infrastructures d’IA (objectif : 100 milliards). De leur côté, OpenAI, Oracle et Soft Bank ont réuni 500 milliards pour le projet Stargate, avec la bénédiction de M. Trump. Microsoft est l’un des principaux investisseurs d’OpenAI ? Qu’importe, il y a de l’eau dans le gaz entre les deux entreprises.

Face à l’enjeu d’un tel volume de capitaux – et de profit à venir –, rien n’est sacré. La thésaurisation de données, les forteresses algorithmiques, les brevets eux-mêmes protègent autant de la concurrence qu’un parapluie des intempéries pendant la mousson : le monopoliste d’aujourd’hui sera demain l’exemple type de l’impéritie. Ainsi Wall Street réclame la tête de M. Tim Cook, coupable de n’avoir pas su diriger la stratégie d’Apple en matière d’IA.

La guerre des prix qui fait rage témoigne des puissantes turbulences causées par cette lutte. xAI a dégoupillé la première, en fixant des tarifs inferieurs à ceux des poids lourds du marché. Puis l’entreprise chinoise DeepSeek, en annonçant avoir crée une IA supérieure à celle d’Open AI pour un cout dérisoire, a provoqué la plus forte dégringolade de l’histoire de la Bourse américaine : en l’espace de quelques heures, Nvidia a vu s évaporer 600 milliards de valorisation boursière qu’elle a récupérés quelques jours plus tard. Un carnage s’est ensuivi : en cassant ses prix comme un vulgaire commerce en liquidation (-26% pour GPT -4.1 avant une ristourne suicidaire de 80% sur son modèle vedette, o3), OpenAI a entrainé l’ensemble du secteur dans une spirale déflationniste.

Des lors pourquoi le personnel politique européen recourt-il à des métaphores médiévales pour décrire l’accomplissement du capitalisme dans toute sa splendeur : la destruction creatrice portée à son paroxysme ?

Mais la gauche raffole d’une idée à laquelle on peut reconnaître le charme du charlatanisme : l’industrie de la tech serait en train de tuer le capitalisme. La critique du techno-féodalisme constitue son créneau éditorial le plus porteur et les diagnostics apocalyptiques se multiplient plus vite encore que les start-up de la Silicon Valley. L’essayiste McKenzie Wark a sonné le tocsin dés 2019 : le capital n’a-t-il pas fini par faire une indigestion d’économie de l’information ? Nos nouveaux seigneurs, qu’elle baptise « vectorialistes » parce qu’ils commandent non plus la production mais les vecteurs de l’information, font du moindre smartphone un « sandwich minéral » rempli de nos données[1].

À partir de là les oiseaux de mauvais augure on fondu en formation serrée sur les rayonnages des librairies. En 2020, Cedric Durand a livré dans Techno-féodalisme la dissection la plus minutieuse de ces symptômes féodaux. Les plans de sauvetage adoptés à la suite de la crise de 2008 ont dopé le jeu de la dépossession et du parasitisme. Son diagnostic ? Les actifs intangibles (données, algorithmes) concentrés en des points stratégiques de la chaine de valeur ont causé l’apparition d’une nouvelle forme de rente, qui permet aux géants de la tech d’accaparer la plus-value sans plus avoir à produire[2].

La dernière contribution au genre, Capital’s Grave (« Le tombeau du capital »), de Jodi Dean[3], paru cette année, explique comment les principes mêmes du régime économique sont devenus cannibales. Désormais, l’investissement, la concurrence, les progrès se repaissent de la thésaurisation, de la prédation et de la destruction. Dans ce nouveau féodalisme, nous ne vendons plus seulement notre force de travail ; nous payons pour avoir le privilège de nous faire exploiter.

La plus forte voix du folklore techno-féodale n’est autre que l’ancien ministre des finances grec Yanis Varoufakis. Son gospel est froid comme du granite : le capitalisme est mort en 2008 ; nous ne nous en sommes pas rendu compte parce que nous étions captivés par les écrans.

Wark recherche le pouls, Durand voit se multiplier les métastases dans le système, Dean surprend le capitalisme à creuser sa tombe, Varoufakis, lui, nous fournit le certificat de décès[4]. Non, ce système n’est pas à l’agonie, et pas non plus en mutation : il a été assassiné par son propre rejeton, le « cloudcapital »- le cloud (nuage) désignant l’infrastructure numérique ou s’opèrent le stockage et le traitement des données.

La théorie de Varoufakis brille par sa clarté. Dans le capitalisme, explique-t-il, les entreprises se concurrencent sur des marchés agiles, fluides, décentralisés, pour tirer profit des marchandises qu’elles fabriquent. Plus ces dernières s’avèrent efficaces, plus les profits grimpent – et, toutes choses étant égales par ailleurs, plus grands sont les avantages qu’en retire la société. Voilà pourquoi nous sommes tous équipés de gadgets moins chers mais plus sophistiqués.

Or, l’économie numérique aurait brisé ces piliers que sont les marchés et les profits. Le profit (fruit de la concurrence et de la production) y aurait été remplacé par la rente (fruit du contrôle). Les capitalistes fabriquaient des produits ; les seigneurs du numérique se contentent de monétiser les ressources en ligne qu’ils maitrisent. Les plates-formes, Amazon, ebay, Alibaba, mais aussi Facebook et Google Market-place, concentrent « le pouvoir de mettre en relation des acheteurs et des vendeurs – soit l’exact contraire de ce qu’un marché est censé être : décentralisé ». Ce sont les « fiefs du cloud », des zones commerciales numériques centralisées où l’extorsion féodale a remplacé la concurrence marchande.

Les « cloudalists », le néologisme qui désigne sous la plume de Varoufakis les seigneurs de la tech, ont réduit les bons vieux capitalistes au statut de « vassaux » contraints de quémander l’accès aux plates-formes. Adieu, la violence brute du féodalisme ; bienvenue dans la « terreur technologique aseptisée ». A présent, la suppression d'un lien du moteur de recherche Google peut « faire disparaître purement et simplement n'importe quelle entreprise du monde d'internet ». Les travailleurs à la tâche digitale, ces « prolos du cloud » courent comme des hamsters dans des roues optimisées grâce à des algorithmes. Le moindre de leurs mouvements est « guidé et accéléré par le capital numérique ». Enfin et surtout, alors que les capitalistes traditionnels ne pouvaient essorer que leurs employés, les « cloudalistes » ont inventé l'«exploitation universelle » : tous devenus des « serfs du cloud », nous labourons gratuitement les champs numériques de M. Mark Zuckerberg.

Un élément central à la thèse de Varoufakis tient à ce que nos nouveaux seigneurs ne destinent pas leurs produits à la vente. Les résultats de recherche sont gratuits, de même que les réponses d'Alexa (l'assistant personnel d'Amazon), et les réseaux sociaux ne font pas payer leurs utilisateurs. Ces services ont pour vocation à « capter et altérer notre attention ». Même lorsque les entreprises les facturent (l'abonnement à  ChatGPT par exemple) ou qu'elles commercialisent des produits (Alexa), « elles ne les vendent pas en tant que marchandises mais en tant que moyens pour accéder à notre foyer et, ainsi, à plus d'attention de notre part ». Ce pouvoir sur les cerveaux humains leur permet d'extraire une rente sur les capitalistes traditionnels qui, eux, doivent toujours vendre des marchandises.

L'ancien ministre des finances retrace ainsi les transformations du système : jadis, le capital avait deux casquettes, il bâtissait des usines et des machines et, surtout, il inventait des subterfuges pour extorquer toujours plus de valeur aux travailleurs – comme on essore une serpillière.

Mais, après la seconde guerre mondiale, il développe deux moyens beaucoup plus astucieux. Les manageurs en premier lieu : munis de leur chronomètre et de leur bloc-notes, ces experts en rendement ont transformé l'ensemble des lieux de travail, des ateliers, usines aux salles de réunion de Wall Street, en chaînes de montage. Pendant ce temps, les publicitaires de Madison Avenue bâtissaient leur propre empire, en moissonnant l'attention des téléspectateurs pour les mettre en enchères. Alchimistes du désir, ils ne vendaient pas seulement des produits ; ils fabriquaient des besoins et transformaient en listes de courses les inquiétudes de la classe moyenne. Ces entreprises jumelles ont donné aux grandes entreprises un pouvoir inédit, celui de contrôler les travailleurs de 9 à 17 heures et de les exploiter en tant que consommateurs de 17 à 9 heures.

Les algorithmes de la Silicon Valley surveillent la productivité de façon plus efficace et moins coûteuse qu'une armée de contremaîtres. Les moteurs de recommandation battent Don Draper[5] à plates couture sans exiger son salaire ni sa consommation de whisky. Ils travaillent 24h heures sur 24, 7 jours sur 7, et modifient notre comportement en permanence. En plus de nous encadrer comme travailleurs et de nous manipuler comme consommateurs, ils nous font travailler – gratuitement – à notre propre surveillance. Chaque recherche, chaque clic, chaque téléchargement resserre inexorablement nos chaînes.

Ainsi naît la nouvelle force extractive - « cloudalist » comme la surnomme Varoufakis – qui transforme quiconque touche un écran en serf numérique et réduit les petits patrons en vassaux devant acquitter la rente. La machine s'autoalimente : accumulation de données, modification des comportements, concentration de pouvoir, accroissement de la rente, perfectionnement des algorithmes. Dans ce mouvement perpétuel de l'extraction, nous sommes le combustible et le produit.

Paradoxe suprême, le capitalisme se suicide par sa réussite même. Ou, comme l'écrit Varoufakis, il « dépérit en raison du développement de l'activité capitaliste ». Son avidité de disruption a accouché de son successeur féodal. Au début du siècle dernier, un intellectuel socialiste comme  Rudolf Hilferding voyait ce système paver la voie au paradis ouvrier. Varoufakis, pour sa part, envisage une issue bien plus sombre.

Que faire de cette théorie provocatrice ? A première vue, elle paraît à toute épreuve, cuirassée de ces intimidants appendices dont usent les universitaires pour chasser les sceptiques. En cela, elle ressemble à celle qu'expose Shoshana Zuboff dans l'Age du capitalisme de surveillance [6]. Du reste, l'un comme l'autre semble convaincu d'avoir écrit Le Capital de notre siècle.

Or, à trop vouloir imiter Karl Marx, ils finissent par copier Charles Dickens, un mélodrame victorien déguisé en théorie sociale : la théorie, abstraite mais fondée empiriquement, cède la place à la description éloquente d'un système inhumain, qui broie les utilisateurs, les consommateurs, les travailleurs précaires. On pourra y mettre autant de concepts et de schémas que l'on voudra, mille histoires larmoyantes ne feront jamais une théorie solide.

Soucieux de s'adresser à un large électorat, Varoufakis et Zuboff laissent de côté un ensemble d'aspects techniques rébarbatifs : les rapports entre État et capital, la production, les transactions entre entreprises, par exemple. Il leur est donc plus facile de conclure que les géants de la teck ont pour vocation d'huiler les rouages de la consommation, d'abord en aidant les autres entreprises à écouler leurs produits, soit directement (Amazon), soit indirectement (la publicité sur Google et Facebook).

Les chiffres racontent pourtant une autre histoire. Les géants de la tech aident aussi ces sociétés à produire. Amazon Web Services, la plate-forme cloud de M. Jeff  Bezos, travaille pour deux millions d'organisations et a franchi, en 2024, la barre des 100 milliards de dollars de recettes. Lorsque Netflix lui règle sa facture annuelle – estimée à 1 milliard de dollars -, elle ne verse pas un tribut féodal mais achète la machinerie numérique indispensable à son fonctionnement.

Amazon a-t-elle bâti ses services Web en aspirant les données personnelles transmises par son armée d'appareils équipés d'Alexia, comme le suggère Varoufakis ? Pas du tout. Elle l'a fait selon les bonnes vieilles règles du capitalisme, en misant sur les infrastructures, où elle a injecté des centaines de milliards de dollars depuis 2014. Aujourd'hui, Amazon Web Services génère 58% de son résultat d'exploitation, alors que cette branche ne représente que 17% de ses revenus totaux. C'est en vérité grâce à cela que la multinationale gagne de l'argent, non en prélevant les frais de transaction qui obsèdent Varoufakis.

Un colosse industriel

PARESSEUSE extraction de rente ? Au contraire, l’un des déploiements de capitaux les plus agressifs de l’histoire. Sur la seule année 2025, Amazon prévoit d’investir 100 milliards de dollars, presque exclusivement dans les infrastructures de l’IA. Par son ampleur, ce processus se situe aux antipodes de la logique féodale. Nul ne hurlerait au féodalisme si une entreprise injectait des sommes folles dans une moissonneuse permettant aux cultivateurs d’améliorer la récolte.

Si l’IA se nourrit incontestablement de l’hypnotique défilement des images sur les réseaux sociaux, ce ne sont pas les  photos de chat postées par votre cousin qui la propulsent, mais des livres écrits par des êtres humains sous contrat avec des éditeurs. La Silicon Valley apparait alors pour ce qu’elle est : un ramassis de brigands. Meta a pompé 82 téraoctets de données dans la bibliothèque pirate Library Genesis ; quant à OpenAI, elle a entrainé GPT-3 sur le jeu de données « Books2 » très vraisemblablement constitué à partir des fonds les plus douteux du Web.

Un beau jour, les avocats des maisons d'édition ont frappé à leur porte. Et les cleptomanes connectés ont alors dû sortir le carnet de chèques. News Corp a soutiré 250 millions de dollars à 0penAi, Wiley a empoché 44 millions, tandis que Harvey Collins a réussi l'exploit d'obtenir 5000 dollars par titre volé. Des cohortes d'autres éditeurs attendent des décisions de justice, des auteurs ne cessent de découvrir leur précieux travail noyé dans un ragoût de métadonnées. Pendant ce temps, les géants du numérique se gargarisent d' « usage équitable ». Méta n'a toujours pas versé un centime en contrepartie du considérable butin qu'elle a accumulé grâce au logiciel de partage de fichiers Bit Torrent.

Tout cela était parfaitement prévisible. Une IA trouve ses vrais nutriments non dans l’infini bavardage des réseaux sociaux, mais dans des contenus de facture professionnelle. Voilà pourquoi les entreprises de la tech – Google la première – ont été pirates avant, contraints et forcées, de devenir mécènes. C’est l’épure du modèle capitaliste : exproprier à tour de bras ; négocier quand quelqu'un de plus costaud débarque avec une batte de baseball ; innover dans le domaine de la justification.

Revenons à l'exemple d'Amazon. Certes, ses algorithmes manipulent les utilisateurs ; certes, ses employés sont pressés comme des citrons. Mais, n'en déplaise à Varoises, l'entreprise est surtout un colosse industriel assez peu virtuel : elle contrôle plus de 600 entrepôts logistiques aux États-Unis et quelque 185 autres dans le monde. En 2024, elle a loué 1,5 million de mètres carrés supplémentaires, prévoit de créer 170 nouveaux centres de distribution et prévoit d’investir 15 milliards de dollars pour garantir la surface de ses entrepôts. En 2026, elle aura investi 4 milliards et construit 210 centres de livraison pour pouvoir desservir les zones les plus reculées d'Amérique. Les seigneurs collectaient la rente avec moins d'efforts...

Les vendeurs qui recourent à ses services doivent en effet s'acquitter de frais significatifs : en règle générale, 15%, sans compter le stockage et l'expédition. Certains disent même verser 40% de leurs recettes à Amazon. Mais qu'achètent-ils exactement ? Un accès à une infrastructure qui leur coûterait des centaines de milliards s'ils devaient bâtir la leur : des entrepôts automatisés où les robots portent l'essentiel des charges lourdes, une flotte de livraison plus importante que la plupart des services postaux, une capacité d’acheminer une marchandise dans la journée qui relevait de la science-fiction il y a encore 10 ans.

D'où Amazon tire-t-elle sa puissance ? Des investissements en capital fixe, des économies d'échelle, des effets de réseau ? Ou bien de la thésaurisation de données, d'une extorsion de rente sur le modèle féodal ? Dans le premier cas, elle resterait dans le cadre du capitalisme, puisqu'elle dégage des profits en accumulant du capital. Dans le second, seigneur infécond, elle se contenterait de prélever un tribut. Or, puisque l'entreprise est capable d’investir 100 milliards de dollars en une année pour proposer un service qui n'a pas grand-chose à voir avec le pillage des données utilisateurs, la réponse s'impose d'elle-même.

Varoufakis se définit comme une « marxiste erratique » avec des penchants libertaires. Mais il a une formation d'économiste néoclassique : pour lui, les affaires s’apparentent davantage à une série d'équations qu'à une partie de chasse. D'où, peut-être, son émouvante foi dans les « marchés décentralisés » et dans le capitalisme traditionnel, où régnait l'échange équitable, où la concurrence garantissait le triomphe du meilleur produit. La vieille garde, celle des « Edison, Ford et Westinghouse », « n'avait qu'une obsession : réaliser des profits en obtenant un monopole de marché et en utilisant le capital des usines et des chaînes de production ». Les seigneurs du numérique, à l'inverse, « investissent dans la recherche et le développement, la politique, le marketing, l'affaiblissement des syndicats et la constitution de cartels ». On en viendrait à croire que les capitalistes d’antan étaient de braves gens ayant à cœur les intérêts de l'humanité.

Cette nostalgie qui l'aveugle, il la partage avec Zuboff, même si cette dernière conçoit autrement l'âge d'or du capitalisme : avant le numérique, l'économie fonctionnait à merveille grâce à de géniales innovations en matière d'organisation du travail. Elle non plus ne peut imaginer que les multinationales américaines aient pu prospérer à la faveur de contrats avec le Pentagone, aux interventions des agences de renseignement et à l'envergure mondiale de Wall Street.

Varoufakis le martèle : les entreprises de la Tech n'ont pas à « produire des marchandises moins chères et de meilleure qualité » et s'adonnent à des pratiques prédatrices car elles se sont affranchies de la discipline qu'imposait la concurrence. Ainsi, le réseau social Tik Tok n'est pas vraiment en concurrence avec Facebook, mais « constitue un nouveau fief numérique destiné à de nouveaux serfs cherchant à migrer vers une autre expérience en ligne ». De la même façon, Disney Plus « n'a pas proposé au public les films et séries Netflix à un prix inférieur ou dans une résolution meilleure, mais des films et des séries qui ne sont pas disponibles sur Netflix ». Quant à Walmart, elle « ne pratique pas des prix inférieurs à ceux d'Amazon et ne propose pas non plus de meilleurs produits – elle utilise sa base de données pour attirer plus d'utilisateurs dans son nouveau fief numérique ».

Varoufakis pense avoir découvert là une profonde vérité du capitalisme moderne. Or, il ne fait que décrire l'éternel fonctionnement de ce système. Il n'existe certes pas de véritable compétition entre les plates-formes, mais la concurrence n'a jamais reposé exclusivement sur la qualité et le prix des produits[7]. Les entreprises ont toujours tenté de rendre les consommateurs captifs, de fabriquer des biens exclusifs, de bâtir des réseaux propriétaires et de mettre à profit tous les avantages dont elles disposaient. La seule différence est qu'aujourd'hui, ces avantages – en général temporaires, sauf s'ils sont garantis par les Etats – revêtent une forme numérique plutôt que physique. Le libertaire Varoufakis  ne voit pas que la concurrence est elle-même une forme de pouvoir coercitif. En bon marxiste, il admettra que les capitalistes exercent une contrainte sur les travailleurs, mais n'ira pas jusqu'à concéder que le marché exerce une contrainte sur les premiers – et pas toujours pour les inciter à produire mieux et moins cher. Marx, lui, l'avait bien compris : le capital se dirige là où se présentent les meilleures perspectives de profit et recourt tantôt à l'innovation, tantôt à la prédation – dialectique aussi vieille que le capitalisme. Ce mouvement perpétuel entraîne les capitalistes dans une guerre de tous contre tous dont ils ne peuvent pas plus sortir que les poissons ne peuvent survivre hors de l'eau.

Si puissante soit-elle, la multinationale Apple répond elle-même à un maître : le capital mondial. L'entreprise a beau prélever, en garde-barrière du Moyen Age, 15 à 30% sur les applications proposées sur l'App Store, elle se sent menacée par son retard en matière d'intelligence artificielle qui lui vaut déjà les foudres de Wall Street et demain, peut-être, la fuite d'utilisateurs au profit d'autres systèmes d'exploitation comme Android et HarmonyOS, de Huawei (qui a détrôné le sien, iOS, en Chine). En remplaçant son numéro 2 pour apaiser les sceptiques, Apple a révélé la triste vérité : le contrôle autoritaire qu'elle exerce sur les développeurs d'applications n'est rien face aux diktats des marchés de capitaux.

Conte de fées

Cet enseignement échappe à Varoufakis : s'il existe un seigneur féodal dans le drame qui se déroule, c'est le capital lui-même. Il n'en allait pas autrement à l'époque de Marx. L'expression « capitalisme démocratique » tient de l'oxymore, car, dans le capitalisme, seule l'armée des analystes de Wall Street décide. S'ils exigent l'intégration de l'IA dans son smartphone, on peut être sûr qu’Apple s'exécutera.

A son aise pour disséquer des micromarchés, Varoufakis ne peut appréhender la guerre systémique qui déchire les capitalistes – or c'était là son terrain de jeu quand il était ministre des finances de la Grèce. Erreur fatale, l'arbre lui cache la forêt : au lieu de chercher à comprendre la logique du régime économique dans sa totalité, il se concentre sur certaines de ses composantes, comme un mécanicien serait incapable d'expliquer le fonctionnement d'un moteur.

Le techno-féodalisme est un conte de fées qui occulte la véritable histoire : la domination sans partage des Big Tech parachève un processus commencé il y a 70 ans[8]. Main dans la main, Wall Street, la Silicon Valley, le Pentagone et la Central Intelligence Agency (CIA) ont systématiquement brisé les pays non alignés qui aspiraient à une authentique souveraineté technologique et économique. Par une amère ironie du sort, les Etats actuels achètent ce que certains chercheurs appellent déjà la « souveraineté comme service » : pas d'inquiétude, Microsoft, Palantir et les autres sauront répondre à tous vos besoins, pour un prix abordable.

Voilà ce qui rend si séduisante – et si dangereuse – la théorie du techno-féodalisme : elle repose sur des méchants de dessin animé (« Bezos ! » « Musk ! » « Zuckerberg ! » et des solutions de même genre (« Formons des coopératives ! », « demandons aux banque centrales d'émettre des devises numériques ! », « autorisons la portabilité des données ! ». Elle nous laisse à croire que nous combattons des seigneurs médiévaux alors que l'adversaire est d'une tout autre stature. Il est temps d'appeler le capitalisme par son vrai nom. On ne le vaincra pas en l'affublant d'oripeaux du Moyen Age.

 

Evgeny Morozov

(Traduit de l’anglais par Nicolas Vieillescaze)



[1] McKenzie Wark, Capital is Dead: Is This Something Worse? Verso, Londres, 2019.

[2] Cedric Durand, Techno-féodalisme. Critique de l’économie numérique, La Decouverte, Paris 2020. L’auteur poursuit une réflexion entamée dans Le Capital fictif. Comment la finance s’approprie notre avenir, Les prairies ordinaires, Paris 2014.

[3] Jodi Dean, Capital’s Grave: Néofeudalism and the New Class Struggle, Verso, 2025.

[4] Yanis Varoufakis, Technofeudalism : What Killed Capitalism, The Bodley Head, Londres 2023, traduit en 2024 aux éditions Les Liens qui libèrent sous le titre Les nouveaux serfs de l’économie.

[5] Héros de la série télévisée Mad Men sur les publicitaires américaines des années 1960.

[6] Lire Shoshana Zuboff, « Un capitalisme de surveillance », Le Monde diplomatique, janvier 2019.

[7] Anwar Shaikh, Capitalism: Competition, Conflict, Crises, Oxford University press, 2016.

[8] Lire « Une guerre froide 2.0 », Le Monde diplomatique, mai 2023.

fonte: https://www.monde-diplomatique.fr/2025/08/MOROZOV/68672