Controversie sul tecno-feudalesimo, un concetto di moda
Tradotto dal francese di Le
Monde diplomatique di agosto 2025 da Sergio Ghirardi Sauvageon
Un dibattito infuria: i giganti
dell'intelligenza artificiale hanno trasformato i loro utenti in servi e
vassalli condannati, come nel Medioevo, a faticare gratis e a pagare un
affitto? Oppure stanno applicando alla lettera le vecchie ricette del
capitalismo industriale, ma con prodotti artefatti? Per combatterli, dovremo
scegliere tra Don Chisciotte e Karl Marx.
Evgeny Morozov
(Direttore di Syllabus, una piattaforma di selezione e
promozione della conoscenza).
Da Parigi a Madrid, da Roma
a Berlino, uno spettro medievale con una felpa a cappuccio infesta la sinistra
europea: lo spettro del "tecno-feudalesimo". Da un lato, Jean-Luc
Mélenchon chiede la tassazione dei profitti dei nostri nuovi "signori digitali"; dall'altro,
scrive che l'intelligenza artificiale (IA) "non è esterna alla realtà capitalista: fa parte di un tecno-feudalesimo
in cui pochi attori si appropriano della rendita". Profitti o rendita?
Capitalismo o feudalesimo? L'economia di Mélenchon è come il gatto di
Schrödinger che vaga per le strade di Palo Alto; esiste simultaneamente in due
stati: vivo e morto, capitalista e feudale.
Anche la vicepremier spagnola Yolanda Díaz si scaglia
contro il "tecno-feudalesimo del
magnate Elon Musk". I miliardari della tecnologia, avverte, intendono
trasformare "le democrazie in
monarchie al servizio delle grandi imprese". Un leader ecologista
italiano, Angelo Bonelli, accusa lo stesso miliardario di aver instaurato
"un neo-feudalesimo autocratico"
e sollecita il suo Paese a fare una scelta: "Musk o democrazia".
Queste tirate tragico-feudali sono ancora più ridicole
perché si verificano nel mezzo della più oscena orgia capitalista dai tempi
della Golden Age americana di fine XIX secolo. Lo scorso maggio, Donald Trump
ha riportato dal suo tour nel Golfo la promessa d’investimenti giganteschi
nell'economia americana, destinati principalmente alle infrastrutture
d’intelligenza artificiale: l'Arabia Saudita ha annunciato 600 miliardi di
dollari, il Qatar 1,2 trilioni di dollari e gli Emirati Arabi Uniti 1,4 trilioni
di dollari. Questi si aggiungeranno al trilione di dollari promesso dal
Giappone a febbraio. L'anno scorso, quando Sam Altman, fondatore di OpenAI,
dichiarò di voler raccogliere sette trilioni di dollari, si pensò che si
trattasse di una bufala. Ora, questa sembra una palese mancanza di ambizione.
Lo tsunami d’investimenti ha travolto le Big Tech:
Meta, Microsoft, Alphabet e Amazon da sole stanno iniettando, quest'anno, 320
miliardi di dollari nelle infrastrutture d’intelligenza artificiale, rispetto
ai 246 miliardi di dollari del 2024. La startup Thinking Machines Lab ha
raccolto 2 miliardi di dollari senza nemmeno fornire una versione beta. Che età
dell'oro per gli esperti – o piuttosto i truffatori –
dell’intelligenza artificiale! Per assumere degli ingegneri, Meta fa balenare
dei bonus alla firma da 100 milioni di dollari. All'ex responsabile dei modelli
d’intelligenza artificiale di Apple è stato offerto due volte di più.
La frenesia capitalista raggiunge il suo apice con xAI
di Musk: l'azienda, che ha raccolto diciassette miliardi di dollari in soli due
anni di attività, brucia un miliardo il mese. In confronto, gli inizi dei primi
giganti digitali sembrano piuttosto modesti: Tesla ha raccolto sette milioni e
mezzo di dollari, Google un milione, Amazon otto milioni. xAI ha speso
tre/quattro miliardi di dollari per costruire il supercomputer Colossus, in
soli 122 giorni (mentre gli esperti prevedevano due anni).
Freddi come il granito
Nella guerra di tutti contro tutti che la concorrenza
capitalista costituisce, i giganti dell'intelligenza artificiale stanno
stringendo incredibili alleanze. Si firmano assegni ai propri nemici mortali e
si affilano i coltelli non appena voltano le spalle. BlackRock, Microsoft e xAI
hanno messo insieme 30 miliardi di dollari per le infrastrutture d’intelligenza
artificiale (obiettivo: 100 miliardi di dollari). Da parte loro, OpenAI, Oracle
e Soft Bank hanno raccolto 500 miliardi di dollari per il progetto Stargate,
con la benedizione di Trump. Microsoft è uno dei principali investitori di
OpenAI? Non importa se tra le due aziende non scorre buon sangue.
Con una tale quantità di capitali in gioco – e
profitti futuri – nulla è sacro. L'accumulo di dati, le fortezze algoritmiche e
i brevetti stessi proteggono dalla concorrenza tanto quanto un ombrello
protegge dal maltempo durante il monsone: il monopolista di oggi sarà l'esempio
dell'incompetenza di domani. Per questo motivo Wall Street chiede la testa del
signor Tim Cook, colpevole di non aver saputo orientare la strategia di Apple
in tema d’intelligenza artificiale.
La guerra dei prezzi in corso è una testimonianza
delle potenti turbolenze causate da questa lotta. xAI ha tirato per prima,
fissando prezzi inferiori a quelli dei pesi massimi del mercato. Poi la società
cinese DeepSeek, annunciando di aver creato una IA superiore a quella di Open
AI a un costo ridicolmente basso, ha causato il più grande crollo nella storia
del mercato azionario americano: nel giro di poche ore, Nvidia ha visto
evaporare 600 miliardi di dollari di capitalizzazione di borsa, per poi
recuperarli pochi giorni dopo. Ne è seguita una carneficina: tagliando i prezzi
come una comune azienda in liquidazione (-26% per GPT -4.1 prima di uno sconto
suicida dell'80% sul suo modello di punta, o3), OpenAI ha trascinato l'intero
settore in una spirale deflazionistica.
Ecco perché i politici europei ricorrono a metafore
medievali per descrivere il compimento del capitalismo in tutto il suo
splendore: la distruzione creativa portata al parossismo?
La sinistra, però, è ghiotta di un'idea cui si può
riconoscere il fascino della ciarlataneria: l'industria tecnologica starebbe
uccidendo il capitalismo. La critica del tecno-feudalesimo costituisce la sua
nicchia editoriale più redditizia, e le diagnosi apocalittiche si stanno
moltiplicando ancora più velocemente delle startup della Silicon Valley. La
saggista McKenzie Wark ha lanciato l'allarme nel 2019: il capitale non ha forse
finito per fare un’indigestione di economia dell'informazione? I nostri nuovi
signori, che lei chiama "vettorialisti" poiché non dirigono più la
produzione, ma i vettori dell'informazione, fanno del più piccolo smartphone un
"sandwich minerale" pieno dei nostri dati[1].
In seguito a ciò, gli uccelli del malaugurio si sono
riversati sugli scaffali delle librerie in formazione serrata. Nel 2020, Cédric
Durand ha fornito la dissezione più dettagliata di questi sintomi feudali in
"Tecno-feudalesimo". I
piani di salvataggio adottati dopo la crisi del 2008 hanno alimentato il gioco
dell'espropriazione e del parassitismo. La sua diagnosi? Le risorse immateriali
(dati, algoritmi) concentrate in punti strategici della catena del valore hanno
causato l'emergere di una nuova forma di rendita, che consente ai giganti della
tecnologia di monopolizzare il plusvalore senza dover produrre altro[2].
L'ultimo contributo al genere, Capital's Grave di Jodi Dean[3], pubblicato quest'anno, spiega come i principi stessi
del sistema economico siano diventati cannibali. Investimenti, concorrenza e
progresso prosperano ormai grazie all'accaparramento, alla predazione e alla
distruzione. In questo nuovo feudalesimo, non vendiamo più semplicemente la
nostra forza lavoro; paghiamo per il privilegio di essere sfruttati.
La voce più forte del folklore tecno-feudale non è
altri che l'ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis. Il suo gospel è
freddo come il granito: il capitalismo è morto nel 2008; non ce ne siamo resi
conto perché eravamo affascinati dagli schermi.
Wark tasta il polso, Durand vede le metastasi del
sistema moltiplicarsi, Dean coglie il capitalismo mentre si scava la fossa e
Varoufakis fornisce il certificato di morte[4]. No, questo sistema non sta morendo, né sta
cambiando: è stato assassinato dalla sua stessa progenie, il "cloudcapital", dove cloud (nuvola) designa l'infrastruttura
digitale in cui avvengono l'archiviazione e l'elaborazione dei dati.
La teoria di Varoufakis brilla per chiarezza. Nel
capitalismo, spiega, le aziende competono in mercati agili, fluidi e
decentralizzati per trarre profitto dai beni che producono. Più questi beni
diventano efficienti, maggiori sono i profitti – e, restando il resto
immutato, maggiori sono i benefici per la società. Ecco perché siamo tutti
dotati di gadget meno cari ma più sofisticati.
Orbene, l'economia digitale avrebbe infranto questi
pilastri che sono i mercati e i profitti. Il profitto (frutto della concorrenza
e della produzione) sarebbe stato sostituito dalla rendita (frutto del
controllo). I capitalisti fabbricavano prodotti; i signori digitali si
accontentano di monetizzare le risorse online che controllano. Le piattaforme,
Amazon, eBay, Alibaba, ma anche Facebook e Google Market-place, concentrano
"il potere di connettere acquirenti
e venditori, cioè l'esatto opposto di ciò che un mercato dovrebbe essere:
decentralizzato". Questi sono i "feudi del cloud", zone di commercio digitalizzato
centralizzate dove l'estorsione feudale ha sostituito la concorrenza
mercantile.
I "cloudalisti",
neologismo coniato da Varoufakis per i signori della tecnologia, hanno ridotto
i buoni vecchi capitalisti allo status di "vassalli" costretti a
mendicare per accedere alle piattaforme. Addio alla brutale violenza del
feudalesimo; benvenuti nel “terrore
tecnologico asettico”. Ora, rimuovere un link dal motore di ricerca di
Google può "puramente e semplicemente far sparire [qualsiasi
azienda] dal mondo di Internet". I lavoratori digitali, questi
"proletari del cloud", corrono come criceti su ruote ottimizzate
grazie ad algoritmi. Ogni loro mossa è "guidata e accelerata dal capitale digitale". Infine e
soprattutto, mentre i capitalisti tradizionali potevano spremere solo i propri
dipendenti, i “cloudalisti” hanno
inventato lo "sfruttamento
universale": diventati tutti "servi
del cloud", ariamo gratuitamente i campi digitali di Mark Zuckerberg.
Un elemento centrale della tesi di Varoufakis è che i
nostri nuovi padroni non destinano i loro prodotti alla vendita. I risultati di
ricerca sono gratuiti, così come le risposte di Alexa (l'assistente personale
di Amazon), e i social network non fanno pagare i loro utenti. Questi servizi
hanno lo scopo di "catturare e alterare la nostra attenzione". Anche
quando le aziende li fatturano (ad esempio, l'abbonamento a ChatGPT) o
commercializzano prodotti (Alexa), "non
li vendono come merci, ma come mezzi per accedere al nostro focolare e, quindi,
a una maggiore attenzione da parte nostra”. Questo potere sui cervelli
umani consente loro di ricavare una rendita dai capitalisti tradizionali, che
devono invece vendere sempre delle merci.
L'ex ministro delle Finanze ripercorre dunque le
trasformazioni del sistema: in passato, il capitale aveva due ruoli; costruiva
fabbriche e macchinari e, soprattutto, inventava sotterfugi per estorcere
sempre più valore ai lavoratori, come si strizza uno straccio.
Tuttavia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il sistema
ha sviluppato due metodi molto più astuti. I manager, innanzitutto: armati di
cronometri e taccuini, questi esperti in rendimento hanno trasformato l’insieme
dei luoghi di lavoro, delle officine, le fabbriche, fino alle sale riunioni di
Wall Street, in catene di montaggio. Nel frattempo, i pubblicitari di Madison
Avenue costruivano il loro impero, raccogliendo l'attenzione degli spettatori
per metterla all'asta. Alchimisti del desiderio, non si limitavano a vendere
prodotti; fabbricavano bisogni e trasformavano le preoccupazioni della classe
media in liste della spesa. Queste due imprese gemelle hanno dato ai grandi
business un potere inedito, quello di controllare i lavoratori dalle 9 alle 17
e sfruttarli come consumatori dalle 17 alle 9 del mattino.
Gli algoritmi della Silicon Valley monitorano la
produttività in modo più efficiente e meno costoso di un esercito di
capisquadra. I motori di raccomandazione battono a man bassa Don Draper[5] senza esigere il suo stipendio né il suo consumo di
whisky. Lavorano 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e modificano costantemente il
nostro comportamento. Oltre a inquadrarci come lavoratori e manipolarci come
consumatori, ci fanno lavorare – gratuitamente – alla nostra stessa
sorveglianza. Ogni ricerca, ogni clic, ogni download
stringe inesorabilmente le nostre catene.
Nasce così la nuova forza estrattiva – "cloudalist", come la chiama
Varoufakis – che trasforma chiunque tocchi uno schermo in un servo digitale e
riduce i piccoli imprenditori a vassalli che devono pagare il dovuto. La
macchina si autoalimenta: accumulo di dati, modifica dei comportamenti,
concentrazione del potere, aumento dell’utile, perfezionamento degli algoritmi.
In questo movimento perpetuo dell’estrazione, si è sia il carburante sia il
prodotto.
Paradosso supremo: il capitalismo si uccide a causa
del suo stesso successo. O, come scrive Varoufakis, "deperisce a causa dello sviluppo dell'attività capitalista".
La sua avidità di sconvolgimento ha dato vita al suo successore feudale.
All'inizio del secolo scorso, un intellettuale socialista come Rudolf
Hilferding vedeva questo sistema aprire la strada al paradiso operaio.
Varoufakis, da parte sua, prevede un esito molto più cupo.
Che cosa pensare di questa teoria provocatoria? A
prima vista, sembra solida, corazzata con quelle appendici intimidatorie che
gli accademici usano per scacciare gli scettici. In questo senso, assomiglia a
quella esposta da Shoshana Zuboff in "L'era
del capitalismo della sorveglianza"[6]. Del resto, entrambi sembrano persuasi di aver
scritto Il Capitale del nostro
secolo.
In effetti, a forza di voler imitare Karl Marx,
finiscono per copiare Charles Dickens, un melodramma vittoriano travestito da
teoria sociale: la teoria, astratta ma empiricamente fondata, cede il passo
all'eloquente descrizione di un sistema disumano, che schiaccia gli utenti, i
consumatori e i lavoratori precari. Si possono inserire tutti i concetti e gli
schemi che si vogliono, mille storie strappalacrime non costituiranno mai una
teoria solida.
Desideroso di rivolgersi a un vasto elettorato,
Varoufakis e Zuboff trascurano una serie di noiosi aspetti tecnici: il rapporto
tra Stato e capitale, la produzione, le transazioni tra imprese, ad esempio. È
quindi più facile per loro concludere che i giganti del teak hanno per
vocazione oliare gli ingranaggi del consumo, innanzitutto aiutando le altre
imprese a vendere i loro prodotti, sia direttamente (Amazon), sia
indirettamente (la pubblicità su Google e Facebook).
Le cifre, tuttavia, raccontano una storia diversa. I
giganti della tecnologia digitale aiutano anche queste aziende a produrre. Amazon Web Services, la
piattaforma cloud di Jeff Bezos,
lavora per due milioni di organizzazioni e, nel 2024, ha superato la soglia dei
100 miliardi di dollari di fatturato. Quando Netflix paga la sua fattura
annuale, stimata a un miliardo di dollari, non paga un tributo feudale, ma
compra i macchinari digitali indispensabili per il suo funzionamento.
Amazon ha forse costruito i suoi servizi web
assorbendo i dati personali trasmessi dal suo esercito di dispositivi
equipaggiati di Alexia, come suggerisce Varoufakis? Assolutamente no. L’ha
fatto secondo le buone vecchie regole del capitalismo, puntando sulle
infrastrutture, in cui ha investito centinaia di miliardi di dollari dal 2014.
Oggi, Amazon Web Services genera il 58% del suo reddito operativo, mentre
questa branca rappresenta solo il 17% del suo fatturato totale. È così, in
realtà, che la multinazionale fa soldi, non prelevando le commissioni di
transazione che ossessionano Varoufakis.
Un colosso industriale
PIGRA estrazione di rendita? Al contrario, uno degli
investimenti di capitale più aggressivi della storia. Solo nel 2025, Amazon
prevede d’investire 100 miliardi di dollari, quasi esclusivamente nelle
infrastrutture dell’intelligenza artificiale. Per la sua portata, questo
processo è all'antitesi della logica feudale. Nessuno griderebbe al feudalesimo
se un'azienda iniettasse somme folli in una mietitrice che permette agli
agricoltori di migliorare il raccolto.
Se l'intelligenza artificiale si nutre indubbiamente
dello scorrimento ipnotico delle immagini sui social media, non sono le foto di
gatti pubblicate da vostro cugino a spingerla, ma dei libri scritti da esseri
umani sotto contratto con degli editori. La Silicon Valley appare allora per
quello che è: una banda di ladri. Meta ha pompato 82 terabyte di dati dalla
biblioteca pirata Library Genesis; per quanto riguarda OpenAI, ha addestrato
GPT-3 sul data set "Books2", molto probabilmente costituito a partire
dalle risorse più dubbie del web.
Un bel giorno, gli avvocati delle case editrici hanno
bussato alla porta. E i cleptomani online hanno allora dovuto tirare fuori il
libretto degli assegni. News Corp ha preso 250 milioni di dollari da 0penAi,
Wiley ha intascato 44 milioni di dollari, mentre Harvey Collins ha compiuto
l’exploit di ottenere 5.000 dollari per ogni titolo rubato. Schiere di altri
editori attendono le sentenze dei tribunali, degli autori continuano a scoprire
il loro prezioso lavoro sommerso in un miscuglio di metadati. Nel frattempo, i
giganti digitali si gargarizzano di un “uso equo”. Meta non ha ancora pagato un
centesimo in cambio del considerevole bottino accumulato grazie al software di
file sharing Bit Torrent.
Tutto questo era perfettamente prevedibile.
Un'intelligenza artificiale trova i suoi veri nutrimenti non nelle infinite
chiacchiere dei social network, ma in contenuti di fattura professionale. Ecco
perché le aziende tecno digitali – Google in primis – sono state innanzitutto
pirati, costretti e forzati a diventare mecenati. Questa è l'essenza del
modello capitalista: espropriare a piacimento; negoziare quando qualcuno più
forte si presenta con una mazza da baseball; innovare nel campo della
giustificazione.
Torniamo all'esempio di Amazon. Certo, i suoi
algoritmi manipolano gli utenti; certo, i suoi dipendenti sono spremuti come
limoni. Ma, non dispiaccia a Varoises, l'azienda è soprattutto un colosso
industriale assai poco virtuale: controlla più di 600 magazzini logistici negli
Stati Uniti e circa 185 altri in tutto il mondo. Nel 2024, ha affittato 1,5
milioni di metri quadrati supplementari, prevede di creare 170 nuovi centri di
distribuzione e d’investire 15 miliardi di dollari per garantire la superficie
dei suoi magazzini. Nel 2026, avrà investito quattro miliardi di dollari e
costruito 210 centri di consegna per servire le aree più remote d'America. I
signori riscuotevano il loro reddito con meno sforzi...
I venditori che utilizzano i suoi servizi devono
effettivamente pagare commissioni significative: generalmente il 15%, esclusi
stoccaggio e spedizione. Alcuni affermano addirittura di pagare ad Amazon il
40% dei loro ricavi. Ma che cosa acquistano esattamente? Un accesso a
un’infrastruttura che costerebbe loro centinaia di miliardi se dovessero
costruirsela: magazzini automatizzati in cui i robot svolgono la maggior parte
del lavoro pesante, una flotta di consegna più importante della maggior parte
dei servizi postali, una capacità di consegnare una merce nella giornata, che
solo dieci anni fa era fantascienza.
Da dove trae Amazon il suo potere? Da investimenti in
capitale fisso, da economie di scala, da
effetti di rete? Oppure dall'accumulo di dati, da un'estrazione di
rendita di tipo feudale? Nel primo caso, rimarrebbe nell'ambito del
capitalismo, poiché genererebbe ricchezza accumulando capitale. Nel secondo, da
signore sterile, si limiterebbe a riscuotere un tributo. Ebbene, poiché
l'azienda è in grado di investire 100 miliardi di dollari all'anno per offrire
un servizio che ha poco a che fare con il saccheggio dei dati degli utenti, la
risposta è ovvia.
Varoufakis si descrive come un "marxista
errante" con tendenze libertarie. Tuttavia, ha una formazione da
economista neoclassico: per lui, gli affari sono più simili a una serie di
equazioni che a una battuta di caccia. Da qui, forse, la sua commovente fede
nei "mercati decentralizzati"
e nel capitalismo tradizionale, dove regnava lo scambio equo e dove la
concorrenza garantiva il trionfo del prodotto migliore. La vecchia guardia,
quella di "Edison, Ford e
Westinghouse", "aveva una
sola ossessione: realizzare profitti ottenendo un monopolio di mercato e
utilizzando il capitale delle fabbriche e delle catene di produzione".
I signori del digitale, al contrario, "investono
in ricerca e sviluppo, politica, marketing, indebolimento dei sindacati e
formazione di cartelli". Si finirebbe per credere che i capitalisti di
un tempo fossero brave persone con a cuore gli interessi dell'umanità.
Condivide questa nostalgia accecante con Zuboff,
sebbene quest'ultima abbia una visione diversa dell'età dell'oro del
capitalismo: prima della tecnologia digitale, l'economia funzionava a
meraviglia grazie a geniali innovazioni in materia di organizzazione del
lavoro. Neppure lei riesce a immaginare come le multinazionali americane
abbiano potuto prosperare grazie ai contratti con il Pentagono, agli interventi
delle agenzie d’intelligence e alla portata mondiale di Wall Street.
Varoufakis lo ribadisce: le aziende tecno digitali non
devono "produrre merci più
economiche e di migliore qualità" e si dedicano a pratiche predatorie
perché si sono liberate dalla disciplina imposta dalla concorrenza. Cosi, il
social network Tik Tok non è realmente in concorrenza con Facebook, ma "costituisce un nuovo feudo digitale per i
nuovi servi che cercano di migrare verso un'altra esperienza online".
Allo stesso modo, Disney Plus "non
ha offerto al pubblico film e serie Netflix a un prezzo inferiore o in alta
risoluzione, ma film e serie che non sono disponibili su Netflix".
Quanto a Walmart, "non abbassa i
prezzi di Amazon né offre prodotti migliori – usa il suo database per
attrarre più utenti nel suo nuovo feudo digitale".
Varoufakis pensa di aver scoperto una profonda verità
del capitalismo moderno. Eppure, sta solo descrivendo l'eterno funzionamento di
questo sistema. Non esiste certamente una vera concorrenza tra le piattaforme,
ma la concorrenza non si è mai basata esclusivamente sulla qualità e sul prezzo
dei prodotti[7]. Le imprese hanno sempre cercato di catturare i
consumatori, produrre beni esclusivi, costruire reti proprietarie e sfruttare
tutti i vantaggi a loro disposizione. L'unica differenza è che oggi questi
vantaggi – solitamente temporanei, se non garantiti dagli Stati – assumono una
forma digitale anziché fisica. Il libertario Varoufakis non vede che la concorrenza
è essa stessa una forma di potere coercitivo. Da buon marxista, ammetterà che i
capitalisti esercitano un vincolo sui lavoratori, ma non arriverà ad ammettere
che il mercato eserciti un vincolo sui primi – e non sempre per incoraggiarli a
produrre meglio e a un prezzo più basso. Marx, da parte sua, lo aveva capito
bene: il capitale si dirige dove si presentano le migliori prospettive di
profitto e ricorre a volte all'innovazione, a volte alla predazione – una
dialettica antica quanto il capitalismo. Questo movimento perpetuo trascina i
capitalisti in una guerra di tutti contro tutti da cui non possono sfuggire più
di quanto i pesci possano sopravvivere fuori dall'acqua.
Per quanto potente, la multinazionale Apple stessa
risponde anch’essa a un padrone: il capitale mondiale. Per quanto l'azienda
imponga, come un guardiano medievale, una tassa dal 15 al 30% sulle app offerte
sull'App Store, si sente minacciata dal suo ritardo in tema d’intelligenza
artificiale che le vale già gli strali di Wall Street e domani, forse, la fuga
di utenti verso altri sistemi operativi come Android e HarmonyOS o Huawei (che
ha detronizzato il suo, iOS, in Cina). Sostituendo il suo numero due per
placare gli scettici, Apple ha rivelato la triste verità: il controllo
autoritario che esercita sugli sviluppatori di applicazioni non è nulla in
confronto ai diktat dei mercati di capitali.
Favola
Questo insegnamento sfugge a Varoufakis: se c'è un
signore feudale nel dramma in corso, è il capitale stesso. Non era diverso ai
tempi di Marx. L'espressione "capitalismo democratico" è un ossimoro,
perché, nel capitalismo, solo l'esercito degli analisti di Wall Street decide.
Se esigono l'integrazione dell'intelligenza artificiale nei loro smartphone, si
può essere certi che Apple acconsentirà.
A suo agio nell'analizzare dei micro mercati,
Varoufakis non riesce a comprendere la guerra sistemica che sta dilaniando i
capitalisti – e questo era il suo campo d'azione quando era ministro delle
finanze in Grecia. Errore fatale, l’albero gli nasconde la foresta: invece di
cercare di comprendere la logica del sistema economico nella sua interezza, si
concentra su alcune delle sue componenti, proprio come un meccanico incapace di
spiegare il funzionamento di un motore.
Il tecno-feudalesimo è una favola che occulta la vera
storia: il dominio incontrastato delle tecnologie digitali sta completando un
processo iniziato settanta anni fa[8]. Mano nella mano, Wall Street, Silicon Valley,
Pentagono e Central Intelligence Agency (CIA) hanno sistematicamente annientato
i Paesi non allineati che aspiravano a una vera sovranità tecnologica ed
economica. Per un'amara ironia, gli Stati di oggi stanno acquistando quella che
alcuni ricercatori chiamano già "sovranità come servizio": non
preoccupatevi, Microsoft, Palantir e altri soddisferanno tutte le vostre
esigenze, a un prezzo accessibile.
Ecco quel che rende così seducente e pericolosa la
teoria del tecno-feudalesimo: si basa su cattivi da cartoni animati
("Bezos!" "Musk!" "Zuckerberg!") e su soluzioni
dello stesso genere ("Formiamo cooperative!" "Chiediamo alle
banche centrali di emettere valute digitali!" "Consentiamo la
portabilità dei dati!"). Essa ci fa credere di combattere contro signori
medievali, quando l'avversario è di tutt’altra statura. È ora di chiamare il
capitalismo con il suo vero nome. Non lo sconfiggeremo mascherandolo con
orpelli medievali.
Evgeny Morozov
(Tradotto in francese dall'inglese da Nicolas
Vieillescaze)
[1] McKenzie Wark, Capital is Dead: Is This
Something Worse? Verso, Londres, 2019.
[2] Cedric Durand, Techno-féodalisme. Critique de l’économie numérique, La
Decouverte, Paris 2020. L’autore
prosegue una riflessione cominciata in Le Capital fictif. Comment
la finance s’approprie notre avenir, Les prairies ordinaires, Paris 2014.
[3] Jodi Dean, Capital’s Grave: Néofeudalism and
the New Class Struggle, Verso, 2025.
[4] Yanis Varoufakis, Technofeudalism :
What Killed Capitalism, The Bodley Head, Londres 2023, tradotto in francese
nel 2024 alle edizioni Les Liens qui
libèrent con il titolo Les nouveaux
serfs de l’économie.
[5] Eroe della serie televisiva Mad Men sui pubblicitari americani degli anni sessanta.
[6] Vedi :
Shoshana Zuboff, « Un capitalisme de surveillance », Le Monde
diplomatique, janvier 2019.
[7] Anwar Shaikh, Capitalism:
Competition, Conflict, Crises, Oxford University press, 2016.
[8] Leggere
« Une guerre froide 2.0 », Le
Monde diplomatique, maggio 2023.
fonte: https://www.monde-diplomatique.fr/2025/08/MOROZOV/68672
Controverses
sur le techno-féodalisme, une notion à la mode
Le numériques nous ramène-t-il au Moyen Âge ?
Un débat fait rage : les géants de l’intelligence artificielle ont-ils
changé leurs utilisateurs en serfs et en vassaux condamnés comme au Moyen Age,
à trimer gratuitement et à payer la rente ? Ou appliquent-ils à la lettre,
mais avec des produits sophistiqués, les vieilles recettes du capitalisme
industriel ? Pour les combattre, il faudra choisir entre Don Quichotte et
Karl Marx.
Evgeny Morozov (Directeur de Syllabus, une plateforme de sélection et de
mise en valeur des connaissances).
De Paris à Madrid et de Rome à Berlin, un spectre médiéval
vêtu d’un sweat à capuche hante la gauche européenne, le spectre du
« techno-féodalisme ». D’un côté, M. Jean-Luc Melenchon réclame la
taxation des profits de nos nouveau « seigneurs
du numériques » ; de l’ autre
il ecrit que l’intelligence artificielle (IA) « n’est pas extérieure à la réalité capitaliste : elle s’inscrit dans un techno-féodalisme où
quelques acteurs captent la rente ». Les profits ou la rente ?
Capitalisme ou féodalisme ? L’économie mélenchonienne s’apparente à un
chat de Schrödinger errant dans les rues de Palo Alto : elle existe
simultanément dans deux états – vivante et morte, capitaliste et féodale.
La vice-première ministre espagnole, Mme. Yolanda Diaz,
s’insurge elle aussi contre le « techno-féodalisme
du magnat Elon Musk ». Les milliardaires de la tech, prévient-elle,
entendent transformer « les
démocraties en monarchies à la botte des grandes entreprises ». Un
leader écologiste italien, M. Angelo Bonelli, accuse le même milliardaire
d’instaurer « un néo féodalisme
autocratique » et enjoint à son pays de faire un choix : « Musk ou la démocratie ».
Ces envolées tragico-féodales prêtent d’autant plus à
sourire qu’elles surviennent au beau milieu de l’orgie capitaliste la plus
obscène depuis l’âge d’or américain à la fin du XIXème siècle. En mai dernier,
M. Donald Trump rapportait de sa tournée dans le Golfe la promesse
d’investissements pantagruéliques dans l’économie américaine, essentiellement
destinés aux infrastructures de l’intelligence artificielle : l’Arabie saoudite
a annoncé 600 milliards de dollars, le Qatar, 1200 milliards, les Emirats arabes
unis, 1400. Ils s’ajouteront aux 1000 milliards misés par le Japon en février.
L’an passé, quand M. Sam Altman, fondateur d’OpenAI, a déclaré vouloir lever
7000 milliards de dollars, on a cru à un canular A present, cela apparaît comme
un flagrant manque d’ambition.
Le tsunami d’investissements a englouti la Big
Tech : à elle seules, Meta, Microsoft, Alphabet et Amazon injectent 320
milliards de dollars dans les infrastructures d’IA cette année, contre 246 en
2024. La start-up Thinking Machines Lab a levé 2 milliards de dollars sans même
fournir une version beta. Quelle époque bénie pour les experts – ou les escrocs
– de l’IA ! Pour débaucher des ingénieurs, Meta leur fait miroiter des
primes à la signature de 100 millions de dollars. L’ancien responsable d’IA
Models chez Apple s’est vu proposer deux fois plus.
La frénésie capitalistique atteint son pic avec xAI, de
M. Musk : l’entreprise, qui a récolté 17 milliards de dollars en seulement
deux ans d’existence, carbonise 1 milliard par mois. Par comparaison, les
débuts des premiers géants du numérique apparaissent bien modestes : Tesla
avait levé 7,5 millions de dollars, Google, 1 million, Amazon, 8 millions. xAI
a dépensé 3 à 4 milliards de dollars pour bâtir le superordinateur Colossus, en
seulement cent vingt-deux jours (alors que les experts prévoyaient deux ans).
Froid
comme du granite
Dans la guerre de tous contre tous que constitue la
concurrence capitaliste, les mastodontes de l’IA passent entre eux
d’invraisemblables alliances. On y signe des chèques à ses ennemis mortels, et
l’on aiguise les couteaux sitôt qu’ils tournent le dos. BlackRock, Microsoft et
xAI ont mis en commun 30 milliards de dollars destinés aux infrastructures d’IA
(objectif : 100 milliards). De leur côté, OpenAI, Oracle et Soft Bank ont réuni
500 milliards pour le projet Stargate, avec la bénédiction de M. Trump.
Microsoft est l’un des principaux investisseurs d’OpenAI ? Qu’importe, il
y a de l’eau dans le gaz entre les deux entreprises.
Face à l’enjeu d’un tel volume de capitaux – et de profit
à venir –, rien n’est sacré. La thésaurisation de données, les forteresses
algorithmiques, les brevets eux-mêmes protègent autant de la concurrence qu’un
parapluie des intempéries pendant la mousson : le monopoliste
d’aujourd’hui sera demain l’exemple type de l’impéritie. Ainsi Wall Street
réclame la tête de M. Tim Cook, coupable de n’avoir pas su diriger la stratégie
d’Apple en matière d’IA.
La guerre des prix qui fait rage témoigne des puissantes
turbulences causées par cette lutte. xAI a dégoupillé la première, en fixant
des tarifs inferieurs à ceux des poids lourds du marché. Puis l’entreprise
chinoise DeepSeek, en annonçant avoir crée une IA supérieure à celle d’Open AI
pour un cout dérisoire, a provoqué la plus forte dégringolade de l’histoire de
la Bourse américaine : en l’espace de quelques heures, Nvidia a vu
s évaporer 600 milliards de valorisation boursière qu’elle a récupérés
quelques jours plus tard. Un carnage s’est ensuivi : en cassant ses prix
comme un vulgaire commerce en liquidation (-26% pour GPT -4.1 avant une
ristourne suicidaire de 80% sur son modèle vedette, o3), OpenAI a entrainé
l’ensemble du secteur dans une spirale déflationniste.
Des lors pourquoi le personnel politique européen
recourt-il à des métaphores médiévales pour décrire l’accomplissement du
capitalisme dans toute sa splendeur : la destruction creatrice portée à
son paroxysme ?
Mais la gauche raffole d’une idée à laquelle on peut
reconnaître le charme du charlatanisme : l’industrie de la tech serait en
train de tuer le capitalisme. La critique du techno-féodalisme constitue son
créneau éditorial le plus porteur et les diagnostics apocalyptiques se
multiplient plus vite encore que les start-up de la Silicon Valley. L’essayiste
McKenzie Wark a sonné le tocsin dés 2019 : le capital n’a-t-il pas fini
par faire une indigestion d’économie de l’information ? Nos nouveaux
seigneurs, qu’elle baptise « vectorialistes »
parce qu’ils commandent non plus la production mais les vecteurs de
l’information, font du moindre smartphone un « sandwich minéral » rempli de nos données[1].
À partir de là les oiseaux de mauvais augure on fondu en
formation serrée sur les rayonnages des librairies. En 2020, Cedric Durand a
livré dans Techno-féodalisme la
dissection la plus minutieuse de ces symptômes féodaux. Les plans de sauvetage
adoptés à la suite de la crise de 2008 ont dopé le jeu de la dépossession et du
parasitisme. Son diagnostic ? Les actifs intangibles (données,
algorithmes) concentrés en des points stratégiques de la chaine de valeur ont
causé l’apparition d’une nouvelle forme de rente, qui permet aux géants de la
tech d’accaparer la plus-value sans plus avoir à produire[2].
La dernière contribution au genre, Capital’s Grave (« Le tombeau du capital »), de Jodi Dean[3],
paru cette année, explique comment les principes mêmes du régime économique
sont devenus cannibales. Désormais, l’investissement, la concurrence, les
progrès se repaissent de la thésaurisation, de la prédation et de la
destruction. Dans ce nouveau féodalisme, nous ne vendons plus seulement notre
force de travail ; nous payons pour avoir le privilège de nous faire
exploiter.
La plus forte voix du folklore techno-féodale n’est autre
que l’ancien ministre des finances grec Yanis Varoufakis. Son gospel est froid
comme du granite : le capitalisme est mort en 2008 ; nous ne nous en
sommes pas rendu compte parce que nous étions captivés par les écrans.
Wark recherche le pouls, Durand voit se multiplier les métastases
dans le système, Dean surprend le capitalisme à creuser sa tombe, Varoufakis,
lui, nous fournit le certificat de décès[4].
Non, ce système n’est pas à l’agonie, et pas non plus en mutation : il a
été assassiné par son propre rejeton, le « cloudcapital »- le cloud
(nuage) désignant l’infrastructure numérique ou s’opèrent le stockage et le
traitement des données.
La théorie de Varoufakis brille par sa clarté. Dans le capitalisme,
explique-t-il, les entreprises se concurrencent sur des marchés agiles,
fluides, décentralisés, pour tirer profit des marchandises qu’elles fabriquent.
Plus ces dernières s’avèrent efficaces, plus les profits grimpent – et, toutes
choses étant égales par ailleurs, plus grands sont les avantages qu’en retire
la société. Voilà pourquoi nous sommes tous équipés de gadgets moins chers mais
plus sophistiqués.
Or, l’économie numérique aurait brisé ces piliers que
sont les marchés et les profits. Le profit (fruit de la concurrence et de la
production) y aurait été remplacé par la rente (fruit du contrôle). Les
capitalistes fabriquaient des produits ; les seigneurs du numérique se
contentent de monétiser les ressources en ligne qu’ils maitrisent. Les
plates-formes, Amazon, ebay, Alibaba, mais aussi Facebook et Google
Market-place, concentrent « le
pouvoir de mettre en relation des acheteurs et des vendeurs – soit l’exact
contraire de ce qu’un marché est censé être : décentralisé ». Ce
sont les « fiefs du cloud »,
des zones commerciales numériques centralisées où l’extorsion féodale a
remplacé la concurrence marchande.
Les
« cloudalists », le
néologisme qui désigne sous la plume de Varoufakis les seigneurs de la tech,
ont réduit les bons vieux capitalistes au statut de « vassaux »
contraints de quémander l’accès aux plates-formes. Adieu, la violence brute du
féodalisme ; bienvenue dans
la « terreur technologique aseptisée ». A présent, la
suppression d'un lien du moteur de recherche Google peut « faire
disparaître purement et simplement n'importe quelle entreprise du monde
d'internet ». Les travailleurs à la tâche digitale, ces « prolos
du cloud » courent comme des hamsters dans des roues optimisées grâce à
des algorithmes. Le moindre de leurs mouvements est « guidé et accéléré
par le capital numérique ». Enfin et surtout, alors que les
capitalistes traditionnels ne pouvaient essorer que leurs employés, les « cloudalistes » ont inventé l'«exploitation
universelle » : tous devenus des « serfs du
cloud », nous labourons gratuitement les champs numériques de M. Mark
Zuckerberg.
Un élément central à la thèse de Varoufakis
tient à ce que nos nouveaux seigneurs ne destinent pas leurs produits à la
vente. Les résultats de recherche sont gratuits, de même que les réponses
d'Alexa (l'assistant personnel d'Amazon), et les réseaux sociaux ne font pas
payer leurs utilisateurs. Ces services ont pour vocation à « capter et
altérer notre attention ». Même lorsque les entreprises les facturent
(l'abonnement à ChatGPT par exemple) ou
qu'elles commercialisent des produits (Alexa), « elles ne les vendent
pas en tant que marchandises mais en tant que moyens pour accéder à notre foyer
et, ainsi, à plus d'attention de notre part ». Ce pouvoir sur les
cerveaux humains leur permet d'extraire une rente sur les capitalistes
traditionnels qui, eux, doivent toujours vendre des marchandises.
L'ancien ministre des finances retrace ainsi
les transformations du système : jadis, le capital avait deux casquettes,
il bâtissait des usines et des machines et, surtout, il inventait des
subterfuges pour extorquer toujours plus de valeur aux travailleurs – comme on
essore une serpillière.
Mais, après la seconde guerre mondiale, il développe
deux moyens beaucoup plus astucieux. Les manageurs en premier lieu : munis
de leur chronomètre et de leur bloc-notes, ces experts en rendement ont
transformé l'ensemble des lieux de travail, des ateliers, usines aux salles de
réunion de Wall Street, en chaînes de montage. Pendant ce temps, les
publicitaires de Madison Avenue bâtissaient leur propre empire, en moissonnant
l'attention des téléspectateurs pour les mettre en enchères. Alchimistes du désir,
ils ne vendaient pas seulement des produits ; ils fabriquaient des besoins
et transformaient en listes de courses les inquiétudes de la classe moyenne.
Ces entreprises jumelles ont donné aux grandes entreprises un pouvoir inédit,
celui de contrôler les travailleurs de 9 à 17 heures et de les exploiter en
tant que consommateurs de 17 à 9 heures.
Les algorithmes
de la Silicon Valley surveillent la productivité de façon plus efficace et
moins coûteuse qu'une armée de contremaîtres. Les moteurs de recommandation
battent Don Draper[5]
à plates couture sans exiger son salaire ni sa consommation de whisky. Ils
travaillent 24h heures sur 24, 7 jours sur 7, et modifient notre comportement
en permanence. En plus de nous encadrer comme travailleurs et de nous manipuler
comme consommateurs, ils nous font travailler – gratuitement – à notre propre
surveillance. Chaque recherche, chaque clic, chaque téléchargement resserre
inexorablement nos chaînes.
Ainsi naît la
nouvelle force extractive - « cloudalist »
comme la surnomme Varoufakis – qui transforme quiconque touche un écran en serf
numérique et réduit les petits patrons en vassaux devant acquitter la rente. La
machine s'autoalimente : accumulation de données, modification des
comportements, concentration de pouvoir, accroissement de la rente, perfectionnement
des algorithmes. Dans ce mouvement perpétuel de l'extraction, nous sommes le
combustible et le produit.
Paradoxe suprême,
le capitalisme se suicide par sa réussite même. Ou, comme l'écrit Varoufakis, il
« dépérit en raison du développement de l'activité capitaliste ». Son
avidité de disruption a accouché de son successeur féodal. Au début du siècle
dernier, un intellectuel socialiste comme
Rudolf Hilferding voyait ce système paver la voie au paradis ouvrier. Varoufakis,
pour sa part, envisage une issue bien plus sombre.
Que faire de
cette théorie provocatrice ? A première vue, elle paraît à toute épreuve,
cuirassée de ces intimidants appendices dont usent les universitaires pour
chasser les sceptiques. En cela, elle ressemble à celle qu'expose Shoshana
Zuboff dans l'Age du capitalisme de surveillance [6].
Du reste, l'un comme l'autre semble convaincu d'avoir écrit Le Capital
de notre siècle.
Or, à trop
vouloir imiter Karl Marx, ils finissent par copier Charles Dickens, un
mélodrame victorien déguisé en théorie sociale : la théorie, abstraite
mais fondée empiriquement, cède la place à la description éloquente d'un
système inhumain, qui broie les utilisateurs, les consommateurs, les
travailleurs précaires. On pourra y mettre autant de concepts et de schémas que
l'on voudra, mille histoires larmoyantes ne feront jamais une théorie solide.
Soucieux de s'adresser
à un large électorat, Varoufakis et Zuboff laissent de côté un ensemble
d'aspects techniques rébarbatifs : les rapports entre État et capital, la
production, les transactions entre entreprises, par exemple. Il leur est donc
plus facile de conclure que les géants de la teck ont pour vocation d'huiler
les rouages de la consommation, d'abord en aidant les autres entreprises à
écouler leurs produits, soit directement (Amazon), soit indirectement (la
publicité sur Google et Facebook).
Les chiffres
racontent pourtant une autre histoire. Les géants de la tech aident aussi ces
sociétés à produire. Amazon Web Services, la plate-forme cloud de
M. Jeff Bezos, travaille pour deux
millions d'organisations et a franchi, en 2024, la barre des 100 milliards de
dollars de recettes. Lorsque Netflix lui règle sa facture annuelle – estimée à
1 milliard de dollars -, elle ne verse pas un tribut féodal mais achète la
machinerie numérique indispensable à son fonctionnement.
Amazon a-t-elle
bâti ses services Web en aspirant les données personnelles transmises par son
armée d'appareils équipés d'Alexia, comme le suggère Varoufakis ? Pas du
tout. Elle l'a fait selon les bonnes vieilles règles du capitalisme, en misant
sur les infrastructures, où elle a injecté des centaines de milliards de
dollars depuis 2014. Aujourd'hui, Amazon Web Services génère 58% de son
résultat d'exploitation, alors que cette branche ne représente que 17% de ses
revenus totaux. C'est en vérité grâce à cela que la multinationale gagne de
l'argent, non en prélevant les frais de transaction qui obsèdent Varoufakis.
Un
colosse industriel
PARESSEUSE extraction
de rente ? Au contraire, l’un des déploiements de capitaux les plus
agressifs de l’histoire. Sur la seule année 2025, Amazon prévoit d’investir 100
milliards de dollars, presque exclusivement dans les infrastructures de l’IA.
Par son ampleur, ce processus se situe aux antipodes de la logique féodale. Nul
ne hurlerait au féodalisme si une entreprise injectait des sommes folles dans
une moissonneuse permettant aux cultivateurs d’améliorer la récolte.
Si l’IA se nourrit incontestablement de l’hypnotique
défilement des images sur les réseaux sociaux, ce ne sont pas les photos de chat postées par votre cousin qui
la propulsent, mais des livres écrits par des êtres humains sous contrat avec
des éditeurs. La Silicon Valley apparait alors pour ce qu’elle est : un
ramassis de brigands. Meta a pompé 82 téraoctets de données dans la
bibliothèque pirate Library Genesis ; quant à OpenAI, elle a entrainé
GPT-3 sur le jeu de données « Books2 » très vraisemblablement
constitué à partir des fonds les plus douteux du Web.
Un beau jour, les avocats des maisons d'édition ont frappé à
leur porte. Et les cleptomanes connectés ont alors dû sortir le carnet de
chèques. News Corp a soutiré 250 millions de dollars à 0penAi, Wiley a empoché
44 millions, tandis que Harvey Collins a réussi l'exploit d'obtenir 5000
dollars par titre volé. Des cohortes d'autres éditeurs attendent des décisions
de justice, des auteurs ne cessent de découvrir leur précieux travail noyé dans
un ragoût de métadonnées. Pendant ce temps, les géants du numérique se
gargarisent d' « usage équitable ». Méta n'a toujours pas versé
un centime en contrepartie du considérable butin qu'elle a accumulé grâce au
logiciel de partage de fichiers Bit Torrent.
Tout cela était parfaitement prévisible. Une IA trouve ses
vrais nutriments non dans l’infini bavardage des réseaux sociaux, mais dans des
contenus de facture professionnelle. Voilà pourquoi les entreprises de la tech
– Google la première – ont été pirates avant, contraints et forcées, de devenir
mécènes. C’est l’épure du modèle capitaliste : exproprier à tour de
bras ; négocier quand quelqu'un de plus costaud débarque avec une batte de
baseball ; innover dans le domaine de la justification.
Revenons à l'exemple d'Amazon. Certes, ses algorithmes
manipulent les utilisateurs ; certes, ses employés sont pressés comme des
citrons. Mais, n'en déplaise à Varoises, l'entreprise est surtout un colosse
industriel assez peu virtuel : elle contrôle plus de 600 entrepôts
logistiques aux États-Unis et quelque 185 autres dans le monde. En 2024, elle a
loué 1,5 million de mètres carrés supplémentaires, prévoit de créer 170
nouveaux centres de distribution et prévoit d’investir 15 milliards de dollars
pour garantir la surface de ses entrepôts. En 2026, elle aura investi 4
milliards et construit 210 centres de livraison pour pouvoir desservir les
zones les plus reculées d'Amérique. Les seigneurs collectaient la rente avec
moins d'efforts...
Les vendeurs qui recourent à ses services doivent en effet
s'acquitter de frais significatifs : en règle générale, 15%, sans compter
le stockage et l'expédition. Certains disent même verser 40% de leurs recettes
à Amazon. Mais qu'achètent-ils exactement ? Un accès à une infrastructure
qui leur coûterait des centaines de milliards s'ils devaient bâtir la
leur : des entrepôts automatisés où les robots portent l'essentiel des charges
lourdes, une flotte de livraison plus importante que la plupart des services postaux,
une capacité d’acheminer une marchandise dans la journée qui relevait de la
science-fiction il y a encore 10 ans.
D'où Amazon tire-t-elle sa puissance ? Des
investissements en capital fixe, des économies d'échelle, des effets de
réseau ? Ou bien de la thésaurisation de données, d'une extorsion de rente
sur le modèle féodal ? Dans le premier cas, elle resterait dans le cadre
du capitalisme, puisqu'elle dégage des profits en accumulant du capital. Dans
le second, seigneur infécond, elle se contenterait de prélever un tribut. Or,
puisque l'entreprise est capable d’investir 100 milliards de dollars en une
année pour proposer un service qui n'a pas grand-chose à voir avec le pillage
des données utilisateurs, la réponse s'impose d'elle-même.
Varoufakis se définit comme une « marxiste
erratique » avec des penchants libertaires. Mais il a une formation
d'économiste néoclassique : pour lui, les affaires s’apparentent davantage
à une série d'équations qu'à une partie de chasse. D'où, peut-être, son
émouvante foi dans les « marchés
décentralisés » et dans le capitalisme traditionnel, où régnait
l'échange équitable, où la concurrence garantissait le triomphe du meilleur
produit. La vieille garde, celle des « Edison,
Ford et Westinghouse », « n'avait
qu'une obsession : réaliser des profits en obtenant un monopole de marché
et en utilisant le capital des usines et des chaînes de production ».
Les seigneurs du numérique, à l'inverse, « investissent dans la recherche et le développement, la politique, le
marketing, l'affaiblissement des syndicats et la constitution de cartels ».
On en viendrait à croire que les capitalistes d’antan étaient de braves gens
ayant à cœur les intérêts de l'humanité.
Cette nostalgie qui l'aveugle, il la partage avec Zuboff,
même si cette dernière conçoit autrement l'âge d'or du capitalisme : avant
le numérique, l'économie fonctionnait à merveille grâce à de géniales
innovations en matière d'organisation du travail. Elle non plus ne peut
imaginer que les multinationales américaines aient pu prospérer à la faveur de
contrats avec le Pentagone, aux interventions des agences de renseignement et à
l'envergure mondiale de Wall Street.
Varoufakis le martèle : les entreprises de la Tech
n'ont pas à « produire des
marchandises moins chères et de meilleure qualité » et s'adonnent à
des pratiques prédatrices car elles se sont affranchies de la discipline
qu'imposait la concurrence. Ainsi, le réseau social Tik Tok n'est pas vraiment
en concurrence avec Facebook, mais « constitue
un nouveau fief numérique destiné à de nouveaux serfs cherchant à migrer vers
une autre expérience en ligne ». De la même façon, Disney Plus « n'a pas proposé au public les films et
séries Netflix à un prix inférieur ou dans une résolution meilleure, mais des
films et des séries qui ne sont pas disponibles sur Netflix ». Quant à
Walmart, elle « ne pratique pas des prix inférieurs à ceux d'Amazon et ne
propose pas non plus de meilleurs produits – elle utilise sa base de données
pour attirer plus d'utilisateurs dans son nouveau fief numérique ».
Varoufakis pense avoir découvert là une profonde vérité du
capitalisme moderne. Or, il ne fait que décrire l'éternel fonctionnement de ce
système. Il n'existe certes pas de véritable compétition entre les
plates-formes, mais la concurrence n'a jamais reposé exclusivement sur la
qualité et le prix des produits[7]. Les
entreprises ont toujours tenté de rendre les consommateurs captifs, de
fabriquer des biens exclusifs, de bâtir des réseaux propriétaires et de mettre
à profit tous les avantages dont elles disposaient. La seule différence est
qu'aujourd'hui, ces avantages – en général temporaires, sauf s'ils sont
garantis par les Etats – revêtent une forme numérique plutôt que physique. Le
libertaire Varoufakis ne voit pas que la
concurrence est elle-même une forme de pouvoir coercitif. En bon marxiste, il
admettra que les capitalistes exercent une contrainte sur les travailleurs,
mais n'ira pas jusqu'à concéder que le marché exerce une contrainte sur les
premiers – et pas toujours pour les inciter à produire mieux et moins cher.
Marx, lui, l'avait bien compris : le capital se dirige là où se présentent
les meilleures perspectives de profit et recourt tantôt à l'innovation, tantôt
à la prédation – dialectique aussi vieille que le capitalisme. Ce mouvement
perpétuel entraîne les capitalistes dans une guerre de tous contre tous dont
ils ne peuvent pas plus sortir que les poissons ne peuvent survivre hors de
l'eau.
Si puissante soit-elle, la multinationale Apple répond
elle-même à un maître : le capital mondial. L'entreprise a beau prélever,
en garde-barrière du Moyen Age, 15 à 30% sur les applications proposées sur
l'App Store, elle se sent menacée par son retard en matière d'intelligence
artificielle qui lui vaut déjà les foudres de Wall Street et demain, peut-être,
la fuite d'utilisateurs au profit d'autres systèmes d'exploitation comme
Android et HarmonyOS, de Huawei (qui a détrôné le sien, iOS, en Chine). En remplaçant
son numéro 2 pour apaiser les sceptiques, Apple a révélé la triste
vérité : le contrôle autoritaire qu'elle exerce sur les développeurs
d'applications n'est rien face aux diktats des marchés de capitaux.
Conte de fées
Cet enseignement échappe à Varoufakis : s'il existe un
seigneur féodal dans le drame qui se déroule, c'est le capital lui-même. Il
n'en allait pas autrement à l'époque de Marx. L'expression « capitalisme
démocratique » tient de l'oxymore, car, dans le capitalisme, seule l'armée
des analystes de Wall Street décide. S'ils exigent l'intégration de l'IA dans
son smartphone, on peut être sûr qu’Apple s'exécutera.
A son aise pour disséquer des micromarchés, Varoufakis ne
peut appréhender la guerre systémique qui déchire les capitalistes – or c'était
là son terrain de jeu quand il était ministre des finances de la Grèce. Erreur
fatale, l'arbre lui cache la forêt : au lieu de chercher à comprendre la logique
du régime économique dans sa totalité, il se concentre sur certaines de ses
composantes, comme un mécanicien serait incapable d'expliquer le fonctionnement
d'un moteur.
Le techno-féodalisme est un conte de fées qui occulte la
véritable histoire : la domination sans partage des Big Tech parachève un
processus commencé il y a 70 ans[8]. Main dans
la main, Wall Street, la Silicon Valley, le Pentagone et la Central
Intelligence Agency (CIA) ont systématiquement brisé les pays non alignés qui
aspiraient à une authentique souveraineté technologique et économique. Par une
amère ironie du sort, les Etats actuels achètent ce que certains chercheurs
appellent déjà la « souveraineté comme service » : pas
d'inquiétude, Microsoft, Palantir et les autres sauront répondre à tous vos
besoins, pour un prix abordable.
Voilà
ce qui rend si séduisante – et si dangereuse – la théorie du
techno-féodalisme : elle repose sur des méchants de dessin animé (« Bezos ! »
« Musk ! » « Zuckerberg ! » et des solutions
de même genre (« Formons des coopératives ! », « demandons
aux banque centrales d'émettre des devises numériques ! »,
« autorisons la portabilité des données ! ». Elle nous laisse à
croire que nous combattons des seigneurs médiévaux alors que l'adversaire est
d'une tout autre stature. Il est temps d'appeler le capitalisme par son vrai
nom. On ne le vaincra pas en l'affublant d'oripeaux du Moyen Age.
Evgeny
Morozov
(Traduit
de l’anglais par Nicolas Vieillescaze)
[1] McKenzie Wark, Capital
is Dead: Is This Something Worse? Verso,
Londres, 2019.
[2] Cedric Durand, Techno-féodalisme.
Critique de l’économie numérique, La Decouverte, Paris 2020. L’auteur
poursuit une réflexion entamée dans Le
Capital fictif. Comment la finance s’approprie notre avenir, Les prairies
ordinaires, Paris 2014.
[3] Jodi Dean, Capital’s
Grave: Néofeudalism and the New Class Struggle, Verso, 2025.
[4] Yanis Varoufakis, Technofeudalism :
What Killed Capitalism, The Bodley Head, Londres 2023, traduit en 2024 aux
éditions Les Liens qui libèrent sous le titre Les nouveaux serfs de l’économie.
[5] Héros de la série
télévisée Mad Men sur les publicitaires américaines des années 1960.
[6] Lire Shoshana Zuboff,
« Un capitalisme de surveillance », Le Monde diplomatique, janvier
2019.
[7] Anwar Shaikh, Capitalism:
Competition, Conflict, Crises, Oxford University press, 2016.
[8] Lire « Une guerre froide 2.0 », Le Monde diplomatique, mai 2023.
fonte: https://www.monde-diplomatique.fr/2025/08/MOROZOV/68672