lunedì 11 agosto 2025

La tecnologia digitale ci sta riportando al Medioevo? Evgeny Morozov

 



Controversie sul tecno-feudalesimo, un concetto di moda


Tradotto dal francese di Le Monde diplomatique di agosto 2025 da Sergio Ghirardi Sauvageon

 

Un dibattito infuria: i giganti dell'intelligenza artificiale hanno trasformato i loro utenti in servi e vassalli condannati, come nel Medioevo, a faticare gratis e a pagare un affitto? Oppure stanno applicando alla lettera le vecchie ricette del capitalismo industriale, ma con prodotti artefatti? Per combatterli, dovremo scegliere tra Don Chisciotte e Karl Marx.

Evgeny Morozov

(Direttore di Syllabus, una piattaforma di selezione e promozione della conoscenza).

 

Da Parigi a Madrid, da Roma a Berlino, uno spettro medievale con una felpa a cappuccio infesta la sinistra europea: lo spettro del "tecno-feudalesimo". Da un lato, Jean-Luc Mélenchon chiede la tassazione dei profitti dei nostri nuovi "signori digitali"; dall'altro, scrive che l'intelligenza artificiale (IA) "non è esterna alla realtà capitalista: fa parte di un tecno-feudalesimo in cui pochi attori si appropriano della rendita". Profitti o rendita? Capitalismo o feudalesimo? L'economia di Mélenchon è come il gatto di Schrödinger che vaga per le strade di Palo Alto; esiste simultaneamente in due stati: vivo e morto, capitalista e feudale.

Anche la vicepremier spagnola Yolanda Díaz si scaglia contro il "tecno-feudalesimo del magnate Elon Musk". I miliardari della tecnologia, avverte, intendono trasformare "le democrazie in monarchie al servizio delle grandi imprese". Un leader ecologista italiano, Angelo Bonelli, accusa lo stesso miliardario di aver instaurato "un neo-feudalesimo autocratico" e sollecita il suo Paese a fare una scelta: "Musk o democrazia".

Queste tirate tragico-feudali sono ancora più ridicole perché si verificano nel mezzo della più oscena orgia capitalista dai tempi della Golden Age americana di fine XIX secolo. Lo scorso maggio, Donald Trump ha riportato dal suo tour nel Golfo la promessa d’investimenti giganteschi nell'economia americana, destinati principalmente alle infrastrutture d’intelligenza artificiale: l'Arabia Saudita ha annunciato 600 miliardi di dollari, il Qatar 1,2 trilioni di dollari e gli Emirati Arabi Uniti 1,4 trilioni di dollari. Questi si aggiungeranno al trilione di dollari promesso dal Giappone a febbraio. L'anno scorso, quando Sam Altman, fondatore di OpenAI, dichiarò di voler raccogliere sette trilioni di dollari, si pensò che si trattasse di una bufala. Ora, questa sembra una palese mancanza di ambizione.

Lo tsunami d’investimenti ha travolto le Big Tech: Meta, Microsoft, Alphabet e Amazon da sole stanno iniettando, quest'anno, 320 miliardi di dollari nelle infrastrutture d’intelligenza artificiale, rispetto ai 246 miliardi di dollari del 2024. La startup Thinking Machines Lab ha raccolto 2 miliardi di dollari senza nemmeno fornire una versione beta. Che età dell'oro per gli esperti o piuttosto i truffatori dell’intelligenza artificiale! Per assumere degli ingegneri, Meta fa balenare dei bonus alla firma da 100 milioni di dollari. All'ex responsabile dei modelli d’intelligenza artificiale di Apple è stato offerto due volte di più.

La frenesia capitalista raggiunge il suo apice con xAI di Musk: l'azienda, che ha raccolto diciassette miliardi di dollari in soli due anni di attività, brucia un miliardo il mese. In confronto, gli inizi dei primi giganti digitali sembrano piuttosto modesti: Tesla ha raccolto sette milioni e mezzo di dollari, Google un milione, Amazon otto milioni. xAI ha speso tre/quattro miliardi di dollari per costruire il supercomputer Colossus, in soli 122 giorni (mentre gli esperti prevedevano due anni).

Freddi come il granito

Nella guerra di tutti contro tutti che la concorrenza capitalista costituisce, i giganti dell'intelligenza artificiale stanno stringendo incredibili alleanze. Si firmano assegni ai propri nemici mortali e si affilano i coltelli non appena voltano le spalle. BlackRock, Microsoft e xAI hanno messo insieme 30 miliardi di dollari per le infrastrutture d’intelligenza artificiale (obiettivo: 100 miliardi di dollari). Da parte loro, OpenAI, Oracle e Soft Bank hanno raccolto 500 miliardi di dollari per il progetto Stargate, con la benedizione di Trump. Microsoft è uno dei principali investitori di OpenAI? Non importa se tra le due aziende non scorre buon sangue.

Con una tale quantità di capitali in gioco – e profitti futuri – nulla è sacro. L'accumulo di dati, le fortezze algoritmiche e i brevetti stessi proteggono dalla concorrenza tanto quanto un ombrello protegge dal maltempo durante il monsone: il monopolista di oggi sarà l'esempio dell'incompetenza di domani. Per questo motivo Wall Street chiede la testa del signor Tim Cook, colpevole di non aver saputo orientare la strategia di Apple in tema d’intelligenza artificiale.

La guerra dei prezzi in corso è una testimonianza delle potenti turbolenze causate da questa lotta. xAI ha tirato per prima, fissando prezzi inferiori a quelli dei pesi massimi del mercato. Poi la società cinese DeepSeek, annunciando di aver creato una IA superiore a quella di Open AI a un costo ridicolmente basso, ha causato il più grande crollo nella storia del mercato azionario americano: nel giro di poche ore, Nvidia ha visto evaporare 600 miliardi di dollari di capitalizzazione di borsa, per poi recuperarli pochi giorni dopo. Ne è seguita una carneficina: tagliando i prezzi come una comune azienda in liquidazione (-26% per GPT -4.1 prima di uno sconto suicida dell'80% sul suo modello di punta, o3), OpenAI ha trascinato l'intero settore in una spirale deflazionistica.

Ecco perché i politici europei ricorrono a metafore medievali per descrivere il compimento del capitalismo in tutto il suo splendore: la distruzione creativa portata al parossismo?

La sinistra, però, è ghiotta di un'idea cui si può riconoscere il fascino della ciarlataneria: l'industria tecnologica starebbe uccidendo il capitalismo. La critica del tecno-feudalesimo costituisce la sua nicchia editoriale più redditizia, e le diagnosi apocalittiche si stanno moltiplicando ancora più velocemente delle startup della Silicon Valley. La saggista McKenzie Wark ha lanciato l'allarme nel 2019: il capitale non ha forse finito per fare un’indigestione di economia dell'informazione? I nostri nuovi signori, che lei chiama "vettorialisti" poiché non dirigono più la produzione, ma i vettori dell'informazione, fanno del più piccolo smartphone un "sandwich minerale" pieno dei nostri dati[1].

In seguito a ciò, gli uccelli del malaugurio si sono riversati sugli scaffali delle librerie in formazione serrata. Nel 2020, Cédric Durand ha fornito la dissezione più dettagliata di questi sintomi feudali in "Tecno-feudalesimo". I piani di salvataggio adottati dopo la crisi del 2008 hanno alimentato il gioco dell'espropriazione e del parassitismo. La sua diagnosi? Le risorse immateriali (dati, algoritmi) concentrate in punti strategici della catena del valore hanno causato l'emergere di una nuova forma di rendita, che consente ai giganti della tecnologia di monopolizzare il plusvalore senza dover produrre altro[2].

L'ultimo contributo al genere, Capital's Grave di Jodi Dean[3], pubblicato quest'anno, spiega come i principi stessi del sistema economico siano diventati cannibali. Investimenti, concorrenza e progresso prosperano ormai grazie all'accaparramento, alla predazione e alla distruzione. In questo nuovo feudalesimo, non vendiamo più semplicemente la nostra forza lavoro; paghiamo per il privilegio di essere sfruttati.

La voce più forte del folklore tecno-feudale non è altri che l'ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis. Il suo gospel è freddo come il granito: il capitalismo è morto nel 2008; non ce ne siamo resi conto perché eravamo affascinati dagli schermi.

Wark tasta il polso, Durand vede le metastasi del sistema moltiplicarsi, Dean coglie il capitalismo mentre si scava la fossa e Varoufakis fornisce il certificato di morte[4]. No, questo sistema non sta morendo, né sta cambiando: è stato assassinato dalla sua stessa progenie, il "cloudcapital", dove cloud (nuvola) designa l'infrastruttura digitale in cui avvengono l'archiviazione e l'elaborazione dei dati.

La teoria di Varoufakis brilla per chiarezza. Nel capitalismo, spiega, le aziende competono in mercati agili, fluidi e decentralizzati per trarre profitto dai beni che producono. Più questi beni diventano efficienti, maggiori sono i profitti e, restando il resto immutato, maggiori sono i benefici per la società. Ecco perché siamo tutti dotati di gadget meno cari ma più sofisticati.

Orbene, l'economia digitale avrebbe infranto questi pilastri che sono i mercati e i profitti. Il profitto (frutto della concorrenza e della produzione) sarebbe stato sostituito dalla rendita (frutto del controllo). I capitalisti fabbricavano prodotti; i signori digitali si accontentano di monetizzare le risorse online che controllano. Le piattaforme, Amazon, eBay, Alibaba, ma anche Facebook e Google Market-place, concentrano "il potere di connettere acquirenti e venditori, cioè l'esatto opposto di ciò che un mercato dovrebbe essere: decentralizzato". Questi sono i "feudi del cloud", zone di commercio digitalizzato centralizzate dove l'estorsione feudale ha sostituito la concorrenza mercantile.

I "cloudalisti", neologismo coniato da Varoufakis per i signori della tecnologia, hanno ridotto i buoni vecchi capitalisti allo status di "vassalli" costretti a mendicare per accedere alle piattaforme. Addio alla brutale violenza del feudalesimo; benvenuti nel “terrore tecnologico asettico”. Ora, rimuovere un link dal motore di ricerca di Google può "puramente  e semplicemente far sparire [qualsiasi azienda] dal mondo di Internet". I lavoratori digitali, questi "proletari del cloud", corrono come criceti su ruote ottimizzate grazie ad algoritmi. Ogni loro mossa è "guidata e accelerata dal capitale digitale". Infine e soprattutto, mentre i capitalisti tradizionali potevano spremere solo i propri dipendenti, i “cloudalisti” hanno inventato lo "sfruttamento universale": diventati tutti "servi del cloud", ariamo gratuitamente i campi digitali di Mark Zuckerberg.

Un elemento centrale della tesi di Varoufakis è che i nostri nuovi padroni non destinano i loro prodotti alla vendita. I risultati di ricerca sono gratuiti, così come le risposte di Alexa (l'assistente personale di Amazon), e i social network non fanno pagare i loro utenti. Questi servizi hanno lo scopo di "catturare e alterare la nostra attenzione". Anche quando le aziende li fatturano (ad esempio, l'abbonamento a ChatGPT) o commercializzano prodotti (Alexa), "non li vendono come merci, ma come mezzi per accedere al nostro focolare e, quindi, a una maggiore attenzione da parte nostra”. Questo potere sui cervelli umani consente loro di ricavare una rendita dai capitalisti tradizionali, che devono invece vendere sempre delle merci.

L'ex ministro delle Finanze ripercorre dunque le trasformazioni del sistema: in passato, il capitale aveva due ruoli; costruiva fabbriche e macchinari e, soprattutto, inventava sotterfugi per estorcere sempre più valore ai lavoratori, come si strizza uno straccio.

Tuttavia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il sistema ha sviluppato due metodi molto più astuti. I manager, innanzitutto: armati di cronometri e taccuini, questi esperti in rendimento hanno trasformato l’insieme dei luoghi di lavoro, delle officine, le fabbriche, fino alle sale riunioni di Wall Street, in catene di montaggio. Nel frattempo, i pubblicitari di Madison Avenue costruivano il loro impero, raccogliendo l'attenzione degli spettatori per metterla all'asta. Alchimisti del desiderio, non si limitavano a vendere prodotti; fabbricavano bisogni e trasformavano le preoccupazioni della classe media in liste della spesa. Queste due imprese gemelle hanno dato ai grandi business un potere inedito, quello di controllare i lavoratori dalle 9 alle 17 e sfruttarli come consumatori dalle 17 alle 9 del mattino.

Gli algoritmi della Silicon Valley monitorano la produttività in modo più efficiente e meno costoso di un esercito di capisquadra. I motori di raccomandazione battono a man bassa Don Draper[5] senza esigere il suo stipendio né il suo consumo di whisky. Lavorano 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e modificano costantemente il nostro comportamento. Oltre a inquadrarci come lavoratori e manipolarci come consumatori, ci fanno lavorare – gratuitamente – alla nostra stessa sorveglianza. Ogni ricerca, ogni clic, ogni download stringe inesorabilmente le nostre catene.

Nasce così la nuova forza estrattiva – "cloudalist", come la chiama Varoufakis – che trasforma chiunque tocchi uno schermo in un servo digitale e riduce i piccoli imprenditori a vassalli che devono pagare il dovuto. La macchina si autoalimenta: accumulo di dati, modifica dei comportamenti, concentrazione del potere, aumento dell’utile, perfezionamento degli algoritmi. In questo movimento perpetuo dell’estrazione, si è sia il carburante sia il prodotto.

Paradosso supremo: il capitalismo si uccide a causa del suo stesso successo. O, come scrive Varoufakis, "deperisce a causa dello sviluppo dell'attività capitalista". La sua avidità di sconvolgimento ha dato vita al suo successore feudale. All'inizio del secolo scorso, un intellettuale socialista come Rudolf Hilferding vedeva questo sistema aprire la strada al paradiso operaio. Varoufakis, da parte sua, prevede un esito molto più cupo.

Che cosa pensare di questa teoria provocatoria? A prima vista, sembra solida, corazzata con quelle appendici intimidatorie che gli accademici usano per scacciare gli scettici. In questo senso, assomiglia a quella esposta da Shoshana Zuboff in "L'era del capitalismo della sorveglianza"[6]. Del resto, entrambi sembrano persuasi di aver scritto Il Capitale del nostro secolo.

In effetti, a forza di voler imitare Karl Marx, finiscono per copiare Charles Dickens, un melodramma vittoriano travestito da teoria sociale: la teoria, astratta ma empiricamente fondata, cede il passo all'eloquente descrizione di un sistema disumano, che schiaccia gli utenti, i consumatori e i lavoratori precari. Si possono inserire tutti i concetti e gli schemi che si vogliono, mille storie strappalacrime non costituiranno mai una teoria solida.

Desideroso di rivolgersi a un vasto elettorato, Varoufakis e Zuboff trascurano una serie di noiosi aspetti tecnici: il rapporto tra Stato e capitale, la produzione, le transazioni tra imprese, ad esempio. È quindi più facile per loro concludere che i giganti del teak hanno per vocazione oliare gli ingranaggi del consumo, innanzitutto aiutando le altre imprese a vendere i loro prodotti, sia direttamente (Amazon), sia indirettamente (la pubblicità su Google e Facebook).

Le cifre, tuttavia, raccontano una storia diversa. I giganti della tecnologia digitale aiutano anche queste aziende a produrre. Amazon Web Services, la piattaforma cloud di Jeff Bezos, lavora per due milioni di organizzazioni e, nel 2024, ha superato la soglia dei 100 miliardi di dollari di fatturato. Quando Netflix paga la sua fattura annuale, stimata a un miliardo di dollari, non paga un tributo feudale, ma compra i macchinari digitali indispensabili per il suo funzionamento.

Amazon ha forse costruito i suoi servizi web assorbendo i dati personali trasmessi dal suo esercito di dispositivi equipaggiati di Alexia, come suggerisce Varoufakis? Assolutamente no. L’ha fatto secondo le buone vecchie regole del capitalismo, puntando sulle infrastrutture, in cui ha investito centinaia di miliardi di dollari dal 2014. Oggi, Amazon Web Services genera il 58% del suo reddito operativo, mentre questa branca rappresenta solo il 17% del suo fatturato totale. È così, in realtà, che la multinazionale fa soldi, non prelevando le commissioni di transazione che ossessionano Varoufakis.

Un colosso industriale

PIGRA estrazione di rendita? Al contrario, uno degli investimenti di capitale più aggressivi della storia. Solo nel 2025, Amazon prevede d’investire 100 miliardi di dollari, quasi esclusivamente nelle infrastrutture dell’intelligenza artificiale. Per la sua portata, questo processo è all'antitesi della logica feudale. Nessuno griderebbe al feudalesimo se un'azienda iniettasse somme folli in una mietitrice che permette agli agricoltori di migliorare il raccolto.

Se l'intelligenza artificiale si nutre indubbiamente dello scorrimento ipnotico delle immagini sui social media, non sono le foto di gatti pubblicate da vostro cugino a spingerla, ma dei libri scritti da esseri umani sotto contratto con degli editori. La Silicon Valley appare allora per quello che è: una banda di ladri. Meta ha pompato 82 terabyte di dati dalla biblioteca pirata Library Genesis; per quanto riguarda OpenAI, ha addestrato GPT-3 sul data set "Books2", molto probabilmente costituito a partire dalle risorse più dubbie del web.

Un bel giorno, gli avvocati delle case editrici hanno bussato alla porta. E i cleptomani online hanno allora dovuto tirare fuori il libretto degli assegni. News Corp ha preso 250 milioni di dollari da 0penAi, Wiley ha intascato 44 milioni di dollari, mentre Harvey Collins ha compiuto l’exploit di ottenere 5.000 dollari per ogni titolo rubato. Schiere di altri editori attendono le sentenze dei tribunali, degli autori continuano a scoprire il loro prezioso lavoro sommerso in un miscuglio di metadati. Nel frattempo, i giganti digitali si gargarizzano di un “uso equo”. Meta non ha ancora pagato un centesimo in cambio del considerevole bottino accumulato grazie al software di file sharing Bit Torrent.

Tutto questo era perfettamente prevedibile. Un'intelligenza artificiale trova i suoi veri nutrimenti non nelle infinite chiacchiere dei social network, ma in contenuti di fattura professionale. Ecco perché le aziende tecno digitali – Google in primis – sono state innanzitutto pirati, costretti e forzati a diventare mecenati. Questa è l'essenza del modello capitalista: espropriare a piacimento; negoziare quando qualcuno più forte si presenta con una mazza da baseball; innovare nel campo della giustificazione.

Torniamo all'esempio di Amazon. Certo, i suoi algoritmi manipolano gli utenti; certo, i suoi dipendenti sono spremuti come limoni. Ma, non dispiaccia a Varoises, l'azienda è soprattutto un colosso industriale assai poco virtuale: controlla più di 600 magazzini logistici negli Stati Uniti e circa 185 altri in tutto il mondo. Nel 2024, ha affittato 1,5 milioni di metri quadrati supplementari, prevede di creare 170 nuovi centri di distribuzione e d’investire 15 miliardi di dollari per garantire la superficie dei suoi magazzini. Nel 2026, avrà investito quattro miliardi di dollari e costruito 210 centri di consegna per servire le aree più remote d'America. I signori riscuotevano il loro reddito con meno sforzi...

I venditori che utilizzano i suoi servizi devono effettivamente pagare commissioni significative: generalmente il 15%, esclusi stoccaggio e spedizione. Alcuni affermano addirittura di pagare ad Amazon il 40% dei loro ricavi. Ma che cosa acquistano esattamente? Un accesso a un’infrastruttura che costerebbe loro centinaia di miliardi se dovessero costruirsela: magazzini automatizzati in cui i robot svolgono la maggior parte del lavoro pesante, una flotta di consegna più importante della maggior parte dei servizi postali, una capacità di consegnare una merce nella giornata, che solo dieci anni fa era fantascienza.

Da dove trae Amazon il suo potere? Da investimenti in capitale fisso, da economie di scala, da  effetti di rete? Oppure dall'accumulo di dati, da un'estrazione di rendita di tipo feudale? Nel primo caso, rimarrebbe nell'ambito del capitalismo, poiché genererebbe ricchezza accumulando capitale. Nel secondo, da signore sterile, si limiterebbe a riscuotere un tributo. Ebbene, poiché l'azienda è in grado di investire 100 miliardi di dollari all'anno per offrire un servizio che ha poco a che fare con il saccheggio dei dati degli utenti, la risposta è ovvia.

Varoufakis si descrive come un "marxista errante" con tendenze libertarie. Tuttavia, ha una formazione da economista neoclassico: per lui, gli affari sono più simili a una serie di equazioni che a una battuta di caccia. Da qui, forse, la sua commovente fede nei "mercati decentralizzati" e nel capitalismo tradizionale, dove regnava lo scambio equo e dove la concorrenza garantiva il trionfo del prodotto migliore. La vecchia guardia, quella di "Edison, Ford e Westinghouse", "aveva una sola ossessione: realizzare profitti ottenendo un monopolio di mercato e utilizzando il capitale delle fabbriche e delle catene di produzione". I signori del digitale, al contrario, "investono in ricerca e sviluppo, politica, marketing, indebolimento dei sindacati e formazione di cartelli". Si finirebbe per credere che i capitalisti di un tempo fossero brave persone con a cuore gli interessi dell'umanità.

Condivide questa nostalgia accecante con Zuboff, sebbene quest'ultima abbia una visione diversa dell'età dell'oro del capitalismo: prima della tecnologia digitale, l'economia funzionava a meraviglia grazie a geniali innovazioni in materia di organizzazione del lavoro. Neppure lei riesce a immaginare come le multinazionali americane abbiano potuto prosperare grazie ai contratti con il Pentagono, agli interventi delle agenzie d’intelligence e alla portata mondiale di Wall Street.

Varoufakis lo ribadisce: le aziende tecno digitali non devono "produrre merci più economiche e di migliore qualità" e si dedicano a pratiche predatorie perché si sono liberate dalla disciplina imposta dalla concorrenza. Cosi, il social network Tik Tok non è realmente in concorrenza con Facebook, ma "costituisce un nuovo feudo digitale per i nuovi servi che cercano di migrare verso un'altra esperienza online". Allo stesso modo, Disney Plus "non ha offerto al pubblico film e serie Netflix a un prezzo inferiore o in alta risoluzione, ma film e serie che non sono disponibili su Netflix". Quanto a Walmart, "non abbassa i prezzi di Amazon né offre prodotti migliori usa il suo database per attrarre più utenti nel suo nuovo feudo digitale".

Varoufakis pensa di aver scoperto una profonda verità del capitalismo moderno. Eppure, sta solo descrivendo l'eterno funzionamento di questo sistema. Non esiste certamente una vera concorrenza tra le piattaforme, ma la concorrenza non si è mai basata esclusivamente sulla qualità e sul prezzo dei prodotti[7]. Le imprese hanno sempre cercato di catturare i consumatori, produrre beni esclusivi, costruire reti proprietarie e sfruttare tutti i vantaggi a loro disposizione. L'unica differenza è che oggi questi vantaggi – solitamente temporanei, se non garantiti dagli Stati – assumono una forma digitale anziché fisica. Il libertario Varoufakis non vede che la concorrenza è essa stessa una forma di potere coercitivo. Da buon marxista, ammetterà che i capitalisti esercitano un vincolo sui lavoratori, ma non arriverà ad ammettere che il mercato eserciti un vincolo sui primi – e non sempre per incoraggiarli a produrre meglio e a un prezzo più basso. Marx, da parte sua, lo aveva capito bene: il capitale si dirige dove si presentano le migliori prospettive di profitto e ricorre a volte all'innovazione, a volte alla predazione – una dialettica antica quanto il capitalismo. Questo movimento perpetuo trascina i capitalisti in una guerra di tutti contro tutti da cui non possono sfuggire più di quanto i pesci possano sopravvivere fuori dall'acqua.

Per quanto potente, la multinazionale Apple stessa risponde anch’essa a un padrone: il capitale mondiale. Per quanto l'azienda imponga, come un guardiano medievale, una tassa dal 15 al 30% sulle app offerte sull'App Store, si sente minacciata dal suo ritardo in tema d’intelligenza artificiale che le vale già gli strali di Wall Street e domani, forse, la fuga di utenti verso altri sistemi operativi come Android e HarmonyOS o Huawei (che ha detronizzato il suo, iOS, in Cina). Sostituendo il suo numero due per placare gli scettici, Apple ha rivelato la triste verità: il controllo autoritario che esercita sugli sviluppatori di applicazioni non è nulla in confronto ai diktat dei mercati di capitali.

Favola

Questo insegnamento sfugge a Varoufakis: se c'è un signore feudale nel dramma in corso, è il capitale stesso. Non era diverso ai tempi di Marx. L'espressione "capitalismo democratico" è un ossimoro, perché, nel capitalismo, solo l'esercito degli analisti di Wall Street decide. Se esigono l'integrazione dell'intelligenza artificiale nei loro smartphone, si può essere certi che Apple acconsentirà.

A suo agio nell'analizzare dei micro mercati, Varoufakis non riesce a comprendere la guerra sistemica che sta dilaniando i capitalisti – e questo era il suo campo d'azione quando era ministro delle finanze in Grecia. Errore fatale, l’albero gli nasconde la foresta: invece di cercare di comprendere la logica del sistema economico nella sua interezza, si concentra su alcune delle sue componenti, proprio come un meccanico incapace di spiegare il funzionamento di un motore.

Il tecno-feudalesimo è una favola che occulta la vera storia: il dominio incontrastato delle tecnologie digitali sta completando un processo iniziato settanta anni fa[8]. Mano nella mano, Wall Street, Silicon Valley, Pentagono e Central Intelligence Agency (CIA) hanno sistematicamente annientato i Paesi non allineati che aspiravano a una vera sovranità tecnologica ed economica. Per un'amara ironia, gli Stati di oggi stanno acquistando quella che alcuni ricercatori chiamano già "sovranità come servizio": non preoccupatevi, Microsoft, Palantir e altri soddisferanno tutte le vostre esigenze, a un prezzo accessibile.

Ecco quel che rende così seducente e pericolosa la teoria del tecno-feudalesimo: si basa su cattivi da cartoni animati ("Bezos!" "Musk!" "Zuckerberg!") e su soluzioni dello stesso genere ("Formiamo cooperative!" "Chiediamo alle banche centrali di emettere valute digitali!" "Consentiamo la portabilità dei dati!"). Essa ci fa credere di combattere contro signori medievali, quando l'avversario è di tutt’altra statura. È ora di chiamare il capitalismo con il suo vero nome. Non lo sconfiggeremo mascherandolo con orpelli medievali.

Evgeny Morozov

(Tradotto in francese dall'inglese da Nicolas Vieillescaze)



[1] McKenzie Wark, Capital is Dead: Is This Something Worse? Verso, Londres, 2019.

[2] Cedric Durand, Techno-féodalisme. Critique de l’économie numérique, La Decouverte, Paris 2020. L’autore prosegue una riflessione cominciata in Le Capital fictif. Comment la finance s’approprie notre avenir, Les prairies ordinaires, Paris 2014.

[3] Jodi Dean, Capital’s Grave: Néofeudalism and the New Class Struggle, Verso, 2025.

[4] Yanis Varoufakis, Technofeudalism : What Killed Capitalism, The Bodley Head, Londres 2023, tradotto in francese nel 2024 alle edizioni Les Liens qui libèrent con il titolo Les nouveaux serfs de l’économie.

[5] Eroe della serie televisiva Mad Men sui pubblicitari americani degli anni sessanta.

[6] Vedi : Shoshana Zuboff, « Un capitalisme de surveillance », Le Monde diplomatique, janvier 2019.

[7] Anwar Shaikh, Capitalism: Competition, Conflict, Crises, Oxford University press, 2016.

[8] Leggere « Une guerre froide 2.0 », Le Monde diplomatique, maggio 2023.


fonte: https://www.monde-diplomatique.fr/2025/08/MOROZOV/68672 




Controverses sur le techno-féodalisme, une notion à la mode

Le numériques nous ramène-t-il au Moyen Âge ?

Un débat fait rage : les géants de l’intelligence artificielle ont-ils changé leurs utilisateurs en serfs et en vassaux condamnés comme au Moyen Age, à trimer gratuitement et à payer la rente ? Ou appliquent-ils à la lettre, mais avec des produits sophistiqués, les vieilles recettes du capitalisme industriel ? Pour les combattre, il faudra choisir entre Don Quichotte et Karl Marx.

Evgeny Morozov (Directeur de Syllabus, une plateforme de sélection et de mise en valeur des connaissances).

De Paris à Madrid et de Rome à Berlin, un spectre médiéval vêtu d’un sweat à capuche hante la gauche européenne, le spectre du « techno-féodalisme ». D’un côté, M. Jean-Luc Melenchon réclame la taxation des profits de nos nouveau « seigneurs du numériques » ; de l’      autre il ecrit que l’intelligence artificielle (IA) « n’est pas extérieure à la réalité capitaliste : elle s’inscrit dans un techno-féodalisme où quelques acteurs captent la rente ». Les profits ou la rente ? Capitalisme ou féodalisme ? L’économie mélenchonienne s’apparente à un chat de Schrödinger errant dans les rues de Palo Alto : elle existe simultanément dans deux états – vivante et morte, capitaliste et féodale.

La vice-première ministre espagnole, Mme. Yolanda Diaz, s’insurge elle aussi contre le « techno-féodalisme du magnat Elon Musk ». Les milliardaires de la tech, prévient-elle, entendent transformer « les démocraties en monarchies à la botte des grandes entreprises ». Un leader écologiste italien, M. Angelo Bonelli, accuse le même milliardaire d’instaurer « un néo féodalisme autocratique » et enjoint à son pays de faire un choix : « Musk ou la démocratie ».

Ces envolées tragico-féodales prêtent d’autant plus à sourire qu’elles surviennent au beau milieu de l’orgie capitaliste la plus obscène depuis l’âge d’or américain à la fin du XIXème siècle. En mai dernier, M. Donald Trump rapportait de sa tournée dans le Golfe la promesse d’investissements pantagruéliques dans l’économie américaine, essentiellement destinés aux infrastructures de l’intelligence artificielle : l’Arabie saoudite a annoncé 600 milliards de dollars, le Qatar, 1200 milliards, les Emirats arabes unis, 1400. Ils s’ajouteront aux 1000 milliards misés par le Japon en février. L’an passé, quand M. Sam Altman, fondateur d’OpenAI, a déclaré vouloir lever 7000 milliards de dollars, on a cru à un canular A present, cela apparaît comme un flagrant manque d’ambition.

Le tsunami d’investissements a englouti la Big Tech : à elle seules, Meta, Microsoft, Alphabet et Amazon injectent 320 milliards de dollars dans les infrastructures d’IA cette année, contre 246 en 2024. La start-up Thinking Machines Lab a levé 2 milliards de dollars sans même fournir une version beta. Quelle époque bénie pour les experts – ou les escrocs – de l’IA ! Pour débaucher des ingénieurs, Meta leur fait miroiter des primes à la signature de 100 millions de dollars. L’ancien responsable d’IA Models chez Apple s’est vu proposer deux fois plus.

La frénésie capitalistique atteint son pic avec xAI, de M. Musk : l’entreprise, qui a récolté 17 milliards de dollars en seulement deux ans d’existence, carbonise 1 milliard par mois. Par comparaison, les débuts des premiers géants du numérique apparaissent bien modestes : Tesla avait levé 7,5 millions de dollars, Google, 1 million, Amazon, 8 millions. xAI a dépensé 3 à 4 milliards de dollars pour bâtir le superordinateur Colossus, en seulement cent vingt-deux jours (alors que les experts prévoyaient deux ans).

Froid comme du granite

Dans la guerre de tous contre tous que constitue la concurrence capitaliste, les mastodontes de l’IA passent entre eux d’invraisemblables alliances. On y signe des chèques à ses ennemis mortels, et l’on aiguise les couteaux sitôt qu’ils tournent le dos. BlackRock, Microsoft et xAI ont mis en commun 30 milliards de dollars destinés aux infrastructures d’IA (objectif : 100 milliards). De leur côté, OpenAI, Oracle et Soft Bank ont réuni 500 milliards pour le projet Stargate, avec la bénédiction de M. Trump. Microsoft est l’un des principaux investisseurs d’OpenAI ? Qu’importe, il y a de l’eau dans le gaz entre les deux entreprises.

Face à l’enjeu d’un tel volume de capitaux – et de profit à venir –, rien n’est sacré. La thésaurisation de données, les forteresses algorithmiques, les brevets eux-mêmes protègent autant de la concurrence qu’un parapluie des intempéries pendant la mousson : le monopoliste d’aujourd’hui sera demain l’exemple type de l’impéritie. Ainsi Wall Street réclame la tête de M. Tim Cook, coupable de n’avoir pas su diriger la stratégie d’Apple en matière d’IA.

La guerre des prix qui fait rage témoigne des puissantes turbulences causées par cette lutte. xAI a dégoupillé la première, en fixant des tarifs inferieurs à ceux des poids lourds du marché. Puis l’entreprise chinoise DeepSeek, en annonçant avoir crée une IA supérieure à celle d’Open AI pour un cout dérisoire, a provoqué la plus forte dégringolade de l’histoire de la Bourse américaine : en l’espace de quelques heures, Nvidia a vu s évaporer 600 milliards de valorisation boursière qu’elle a récupérés quelques jours plus tard. Un carnage s’est ensuivi : en cassant ses prix comme un vulgaire commerce en liquidation (-26% pour GPT -4.1 avant une ristourne suicidaire de 80% sur son modèle vedette, o3), OpenAI a entrainé l’ensemble du secteur dans une spirale déflationniste.

Des lors pourquoi le personnel politique européen recourt-il à des métaphores médiévales pour décrire l’accomplissement du capitalisme dans toute sa splendeur : la destruction creatrice portée à son paroxysme ?

Mais la gauche raffole d’une idée à laquelle on peut reconnaître le charme du charlatanisme : l’industrie de la tech serait en train de tuer le capitalisme. La critique du techno-féodalisme constitue son créneau éditorial le plus porteur et les diagnostics apocalyptiques se multiplient plus vite encore que les start-up de la Silicon Valley. L’essayiste McKenzie Wark a sonné le tocsin dés 2019 : le capital n’a-t-il pas fini par faire une indigestion d’économie de l’information ? Nos nouveaux seigneurs, qu’elle baptise « vectorialistes » parce qu’ils commandent non plus la production mais les vecteurs de l’information, font du moindre smartphone un « sandwich minéral » rempli de nos données[1].

À partir de là les oiseaux de mauvais augure on fondu en formation serrée sur les rayonnages des librairies. En 2020, Cedric Durand a livré dans Techno-féodalisme la dissection la plus minutieuse de ces symptômes féodaux. Les plans de sauvetage adoptés à la suite de la crise de 2008 ont dopé le jeu de la dépossession et du parasitisme. Son diagnostic ? Les actifs intangibles (données, algorithmes) concentrés en des points stratégiques de la chaine de valeur ont causé l’apparition d’une nouvelle forme de rente, qui permet aux géants de la tech d’accaparer la plus-value sans plus avoir à produire[2].

La dernière contribution au genre, Capital’s Grave (« Le tombeau du capital »), de Jodi Dean[3], paru cette année, explique comment les principes mêmes du régime économique sont devenus cannibales. Désormais, l’investissement, la concurrence, les progrès se repaissent de la thésaurisation, de la prédation et de la destruction. Dans ce nouveau féodalisme, nous ne vendons plus seulement notre force de travail ; nous payons pour avoir le privilège de nous faire exploiter.

La plus forte voix du folklore techno-féodale n’est autre que l’ancien ministre des finances grec Yanis Varoufakis. Son gospel est froid comme du granite : le capitalisme est mort en 2008 ; nous ne nous en sommes pas rendu compte parce que nous étions captivés par les écrans.

Wark recherche le pouls, Durand voit se multiplier les métastases dans le système, Dean surprend le capitalisme à creuser sa tombe, Varoufakis, lui, nous fournit le certificat de décès[4]. Non, ce système n’est pas à l’agonie, et pas non plus en mutation : il a été assassiné par son propre rejeton, le « cloudcapital »- le cloud (nuage) désignant l’infrastructure numérique ou s’opèrent le stockage et le traitement des données.

La théorie de Varoufakis brille par sa clarté. Dans le capitalisme, explique-t-il, les entreprises se concurrencent sur des marchés agiles, fluides, décentralisés, pour tirer profit des marchandises qu’elles fabriquent. Plus ces dernières s’avèrent efficaces, plus les profits grimpent – et, toutes choses étant égales par ailleurs, plus grands sont les avantages qu’en retire la société. Voilà pourquoi nous sommes tous équipés de gadgets moins chers mais plus sophistiqués.

Or, l’économie numérique aurait brisé ces piliers que sont les marchés et les profits. Le profit (fruit de la concurrence et de la production) y aurait été remplacé par la rente (fruit du contrôle). Les capitalistes fabriquaient des produits ; les seigneurs du numérique se contentent de monétiser les ressources en ligne qu’ils maitrisent. Les plates-formes, Amazon, ebay, Alibaba, mais aussi Facebook et Google Market-place, concentrent « le pouvoir de mettre en relation des acheteurs et des vendeurs – soit l’exact contraire de ce qu’un marché est censé être : décentralisé ». Ce sont les « fiefs du cloud », des zones commerciales numériques centralisées où l’extorsion féodale a remplacé la concurrence marchande.

Les « cloudalists », le néologisme qui désigne sous la plume de Varoufakis les seigneurs de la tech, ont réduit les bons vieux capitalistes au statut de « vassaux » contraints de quémander l’accès aux plates-formes. Adieu, la violence brute du féodalisme ; bienvenue dans la « terreur technologique aseptisée ». A présent, la suppression d'un lien du moteur de recherche Google peut « faire disparaître purement et simplement n'importe quelle entreprise du monde d'internet ». Les travailleurs à la tâche digitale, ces « prolos du cloud » courent comme des hamsters dans des roues optimisées grâce à des algorithmes. Le moindre de leurs mouvements est « guidé et accéléré par le capital numérique ». Enfin et surtout, alors que les capitalistes traditionnels ne pouvaient essorer que leurs employés, les « cloudalistes » ont inventé l'«exploitation universelle » : tous devenus des « serfs du cloud », nous labourons gratuitement les champs numériques de M. Mark Zuckerberg.

Un élément central à la thèse de Varoufakis tient à ce que nos nouveaux seigneurs ne destinent pas leurs produits à la vente. Les résultats de recherche sont gratuits, de même que les réponses d'Alexa (l'assistant personnel d'Amazon), et les réseaux sociaux ne font pas payer leurs utilisateurs. Ces services ont pour vocation à « capter et altérer notre attention ». Même lorsque les entreprises les facturent (l'abonnement à  ChatGPT par exemple) ou qu'elles commercialisent des produits (Alexa), « elles ne les vendent pas en tant que marchandises mais en tant que moyens pour accéder à notre foyer et, ainsi, à plus d'attention de notre part ». Ce pouvoir sur les cerveaux humains leur permet d'extraire une rente sur les capitalistes traditionnels qui, eux, doivent toujours vendre des marchandises.

L'ancien ministre des finances retrace ainsi les transformations du système : jadis, le capital avait deux casquettes, il bâtissait des usines et des machines et, surtout, il inventait des subterfuges pour extorquer toujours plus de valeur aux travailleurs – comme on essore une serpillière.

Mais, après la seconde guerre mondiale, il développe deux moyens beaucoup plus astucieux. Les manageurs en premier lieu : munis de leur chronomètre et de leur bloc-notes, ces experts en rendement ont transformé l'ensemble des lieux de travail, des ateliers, usines aux salles de réunion de Wall Street, en chaînes de montage. Pendant ce temps, les publicitaires de Madison Avenue bâtissaient leur propre empire, en moissonnant l'attention des téléspectateurs pour les mettre en enchères. Alchimistes du désir, ils ne vendaient pas seulement des produits ; ils fabriquaient des besoins et transformaient en listes de courses les inquiétudes de la classe moyenne. Ces entreprises jumelles ont donné aux grandes entreprises un pouvoir inédit, celui de contrôler les travailleurs de 9 à 17 heures et de les exploiter en tant que consommateurs de 17 à 9 heures.

Les algorithmes de la Silicon Valley surveillent la productivité de façon plus efficace et moins coûteuse qu'une armée de contremaîtres. Les moteurs de recommandation battent Don Draper[5] à plates couture sans exiger son salaire ni sa consommation de whisky. Ils travaillent 24h heures sur 24, 7 jours sur 7, et modifient notre comportement en permanence. En plus de nous encadrer comme travailleurs et de nous manipuler comme consommateurs, ils nous font travailler – gratuitement – à notre propre surveillance. Chaque recherche, chaque clic, chaque téléchargement resserre inexorablement nos chaînes.

Ainsi naît la nouvelle force extractive - « cloudalist » comme la surnomme Varoufakis – qui transforme quiconque touche un écran en serf numérique et réduit les petits patrons en vassaux devant acquitter la rente. La machine s'autoalimente : accumulation de données, modification des comportements, concentration de pouvoir, accroissement de la rente, perfectionnement des algorithmes. Dans ce mouvement perpétuel de l'extraction, nous sommes le combustible et le produit.

Paradoxe suprême, le capitalisme se suicide par sa réussite même. Ou, comme l'écrit Varoufakis, il « dépérit en raison du développement de l'activité capitaliste ». Son avidité de disruption a accouché de son successeur féodal. Au début du siècle dernier, un intellectuel socialiste comme  Rudolf Hilferding voyait ce système paver la voie au paradis ouvrier. Varoufakis, pour sa part, envisage une issue bien plus sombre.

Que faire de cette théorie provocatrice ? A première vue, elle paraît à toute épreuve, cuirassée de ces intimidants appendices dont usent les universitaires pour chasser les sceptiques. En cela, elle ressemble à celle qu'expose Shoshana Zuboff dans l'Age du capitalisme de surveillance [6]. Du reste, l'un comme l'autre semble convaincu d'avoir écrit Le Capital de notre siècle.

Or, à trop vouloir imiter Karl Marx, ils finissent par copier Charles Dickens, un mélodrame victorien déguisé en théorie sociale : la théorie, abstraite mais fondée empiriquement, cède la place à la description éloquente d'un système inhumain, qui broie les utilisateurs, les consommateurs, les travailleurs précaires. On pourra y mettre autant de concepts et de schémas que l'on voudra, mille histoires larmoyantes ne feront jamais une théorie solide.

Soucieux de s'adresser à un large électorat, Varoufakis et Zuboff laissent de côté un ensemble d'aspects techniques rébarbatifs : les rapports entre État et capital, la production, les transactions entre entreprises, par exemple. Il leur est donc plus facile de conclure que les géants de la teck ont pour vocation d'huiler les rouages de la consommation, d'abord en aidant les autres entreprises à écouler leurs produits, soit directement (Amazon), soit indirectement (la publicité sur Google et Facebook).

Les chiffres racontent pourtant une autre histoire. Les géants de la tech aident aussi ces sociétés à produire. Amazon Web Services, la plate-forme cloud de M. Jeff  Bezos, travaille pour deux millions d'organisations et a franchi, en 2024, la barre des 100 milliards de dollars de recettes. Lorsque Netflix lui règle sa facture annuelle – estimée à 1 milliard de dollars -, elle ne verse pas un tribut féodal mais achète la machinerie numérique indispensable à son fonctionnement.

Amazon a-t-elle bâti ses services Web en aspirant les données personnelles transmises par son armée d'appareils équipés d'Alexia, comme le suggère Varoufakis ? Pas du tout. Elle l'a fait selon les bonnes vieilles règles du capitalisme, en misant sur les infrastructures, où elle a injecté des centaines de milliards de dollars depuis 2014. Aujourd'hui, Amazon Web Services génère 58% de son résultat d'exploitation, alors que cette branche ne représente que 17% de ses revenus totaux. C'est en vérité grâce à cela que la multinationale gagne de l'argent, non en prélevant les frais de transaction qui obsèdent Varoufakis.

Un colosse industriel

PARESSEUSE extraction de rente ? Au contraire, l’un des déploiements de capitaux les plus agressifs de l’histoire. Sur la seule année 2025, Amazon prévoit d’investir 100 milliards de dollars, presque exclusivement dans les infrastructures de l’IA. Par son ampleur, ce processus se situe aux antipodes de la logique féodale. Nul ne hurlerait au féodalisme si une entreprise injectait des sommes folles dans une moissonneuse permettant aux cultivateurs d’améliorer la récolte.

Si l’IA se nourrit incontestablement de l’hypnotique défilement des images sur les réseaux sociaux, ce ne sont pas les  photos de chat postées par votre cousin qui la propulsent, mais des livres écrits par des êtres humains sous contrat avec des éditeurs. La Silicon Valley apparait alors pour ce qu’elle est : un ramassis de brigands. Meta a pompé 82 téraoctets de données dans la bibliothèque pirate Library Genesis ; quant à OpenAI, elle a entrainé GPT-3 sur le jeu de données « Books2 » très vraisemblablement constitué à partir des fonds les plus douteux du Web.

Un beau jour, les avocats des maisons d'édition ont frappé à leur porte. Et les cleptomanes connectés ont alors dû sortir le carnet de chèques. News Corp a soutiré 250 millions de dollars à 0penAi, Wiley a empoché 44 millions, tandis que Harvey Collins a réussi l'exploit d'obtenir 5000 dollars par titre volé. Des cohortes d'autres éditeurs attendent des décisions de justice, des auteurs ne cessent de découvrir leur précieux travail noyé dans un ragoût de métadonnées. Pendant ce temps, les géants du numérique se gargarisent d' « usage équitable ». Méta n'a toujours pas versé un centime en contrepartie du considérable butin qu'elle a accumulé grâce au logiciel de partage de fichiers Bit Torrent.

Tout cela était parfaitement prévisible. Une IA trouve ses vrais nutriments non dans l’infini bavardage des réseaux sociaux, mais dans des contenus de facture professionnelle. Voilà pourquoi les entreprises de la tech – Google la première – ont été pirates avant, contraints et forcées, de devenir mécènes. C’est l’épure du modèle capitaliste : exproprier à tour de bras ; négocier quand quelqu'un de plus costaud débarque avec une batte de baseball ; innover dans le domaine de la justification.

Revenons à l'exemple d'Amazon. Certes, ses algorithmes manipulent les utilisateurs ; certes, ses employés sont pressés comme des citrons. Mais, n'en déplaise à Varoises, l'entreprise est surtout un colosse industriel assez peu virtuel : elle contrôle plus de 600 entrepôts logistiques aux États-Unis et quelque 185 autres dans le monde. En 2024, elle a loué 1,5 million de mètres carrés supplémentaires, prévoit de créer 170 nouveaux centres de distribution et prévoit d’investir 15 milliards de dollars pour garantir la surface de ses entrepôts. En 2026, elle aura investi 4 milliards et construit 210 centres de livraison pour pouvoir desservir les zones les plus reculées d'Amérique. Les seigneurs collectaient la rente avec moins d'efforts...

Les vendeurs qui recourent à ses services doivent en effet s'acquitter de frais significatifs : en règle générale, 15%, sans compter le stockage et l'expédition. Certains disent même verser 40% de leurs recettes à Amazon. Mais qu'achètent-ils exactement ? Un accès à une infrastructure qui leur coûterait des centaines de milliards s'ils devaient bâtir la leur : des entrepôts automatisés où les robots portent l'essentiel des charges lourdes, une flotte de livraison plus importante que la plupart des services postaux, une capacité d’acheminer une marchandise dans la journée qui relevait de la science-fiction il y a encore 10 ans.

D'où Amazon tire-t-elle sa puissance ? Des investissements en capital fixe, des économies d'échelle, des effets de réseau ? Ou bien de la thésaurisation de données, d'une extorsion de rente sur le modèle féodal ? Dans le premier cas, elle resterait dans le cadre du capitalisme, puisqu'elle dégage des profits en accumulant du capital. Dans le second, seigneur infécond, elle se contenterait de prélever un tribut. Or, puisque l'entreprise est capable d’investir 100 milliards de dollars en une année pour proposer un service qui n'a pas grand-chose à voir avec le pillage des données utilisateurs, la réponse s'impose d'elle-même.

Varoufakis se définit comme une « marxiste erratique » avec des penchants libertaires. Mais il a une formation d'économiste néoclassique : pour lui, les affaires s’apparentent davantage à une série d'équations qu'à une partie de chasse. D'où, peut-être, son émouvante foi dans les « marchés décentralisés » et dans le capitalisme traditionnel, où régnait l'échange équitable, où la concurrence garantissait le triomphe du meilleur produit. La vieille garde, celle des « Edison, Ford et Westinghouse », « n'avait qu'une obsession : réaliser des profits en obtenant un monopole de marché et en utilisant le capital des usines et des chaînes de production ». Les seigneurs du numérique, à l'inverse, « investissent dans la recherche et le développement, la politique, le marketing, l'affaiblissement des syndicats et la constitution de cartels ». On en viendrait à croire que les capitalistes d’antan étaient de braves gens ayant à cœur les intérêts de l'humanité.

Cette nostalgie qui l'aveugle, il la partage avec Zuboff, même si cette dernière conçoit autrement l'âge d'or du capitalisme : avant le numérique, l'économie fonctionnait à merveille grâce à de géniales innovations en matière d'organisation du travail. Elle non plus ne peut imaginer que les multinationales américaines aient pu prospérer à la faveur de contrats avec le Pentagone, aux interventions des agences de renseignement et à l'envergure mondiale de Wall Street.

Varoufakis le martèle : les entreprises de la Tech n'ont pas à « produire des marchandises moins chères et de meilleure qualité » et s'adonnent à des pratiques prédatrices car elles se sont affranchies de la discipline qu'imposait la concurrence. Ainsi, le réseau social Tik Tok n'est pas vraiment en concurrence avec Facebook, mais « constitue un nouveau fief numérique destiné à de nouveaux serfs cherchant à migrer vers une autre expérience en ligne ». De la même façon, Disney Plus « n'a pas proposé au public les films et séries Netflix à un prix inférieur ou dans une résolution meilleure, mais des films et des séries qui ne sont pas disponibles sur Netflix ». Quant à Walmart, elle « ne pratique pas des prix inférieurs à ceux d'Amazon et ne propose pas non plus de meilleurs produits – elle utilise sa base de données pour attirer plus d'utilisateurs dans son nouveau fief numérique ».

Varoufakis pense avoir découvert là une profonde vérité du capitalisme moderne. Or, il ne fait que décrire l'éternel fonctionnement de ce système. Il n'existe certes pas de véritable compétition entre les plates-formes, mais la concurrence n'a jamais reposé exclusivement sur la qualité et le prix des produits[7]. Les entreprises ont toujours tenté de rendre les consommateurs captifs, de fabriquer des biens exclusifs, de bâtir des réseaux propriétaires et de mettre à profit tous les avantages dont elles disposaient. La seule différence est qu'aujourd'hui, ces avantages – en général temporaires, sauf s'ils sont garantis par les Etats – revêtent une forme numérique plutôt que physique. Le libertaire Varoufakis  ne voit pas que la concurrence est elle-même une forme de pouvoir coercitif. En bon marxiste, il admettra que les capitalistes exercent une contrainte sur les travailleurs, mais n'ira pas jusqu'à concéder que le marché exerce une contrainte sur les premiers – et pas toujours pour les inciter à produire mieux et moins cher. Marx, lui, l'avait bien compris : le capital se dirige là où se présentent les meilleures perspectives de profit et recourt tantôt à l'innovation, tantôt à la prédation – dialectique aussi vieille que le capitalisme. Ce mouvement perpétuel entraîne les capitalistes dans une guerre de tous contre tous dont ils ne peuvent pas plus sortir que les poissons ne peuvent survivre hors de l'eau.

Si puissante soit-elle, la multinationale Apple répond elle-même à un maître : le capital mondial. L'entreprise a beau prélever, en garde-barrière du Moyen Age, 15 à 30% sur les applications proposées sur l'App Store, elle se sent menacée par son retard en matière d'intelligence artificielle qui lui vaut déjà les foudres de Wall Street et demain, peut-être, la fuite d'utilisateurs au profit d'autres systèmes d'exploitation comme Android et HarmonyOS, de Huawei (qui a détrôné le sien, iOS, en Chine). En remplaçant son numéro 2 pour apaiser les sceptiques, Apple a révélé la triste vérité : le contrôle autoritaire qu'elle exerce sur les développeurs d'applications n'est rien face aux diktats des marchés de capitaux.

Conte de fées

Cet enseignement échappe à Varoufakis : s'il existe un seigneur féodal dans le drame qui se déroule, c'est le capital lui-même. Il n'en allait pas autrement à l'époque de Marx. L'expression « capitalisme démocratique » tient de l'oxymore, car, dans le capitalisme, seule l'armée des analystes de Wall Street décide. S'ils exigent l'intégration de l'IA dans son smartphone, on peut être sûr qu’Apple s'exécutera.

A son aise pour disséquer des micromarchés, Varoufakis ne peut appréhender la guerre systémique qui déchire les capitalistes – or c'était là son terrain de jeu quand il était ministre des finances de la Grèce. Erreur fatale, l'arbre lui cache la forêt : au lieu de chercher à comprendre la logique du régime économique dans sa totalité, il se concentre sur certaines de ses composantes, comme un mécanicien serait incapable d'expliquer le fonctionnement d'un moteur.

Le techno-féodalisme est un conte de fées qui occulte la véritable histoire : la domination sans partage des Big Tech parachève un processus commencé il y a 70 ans[8]. Main dans la main, Wall Street, la Silicon Valley, le Pentagone et la Central Intelligence Agency (CIA) ont systématiquement brisé les pays non alignés qui aspiraient à une authentique souveraineté technologique et économique. Par une amère ironie du sort, les Etats actuels achètent ce que certains chercheurs appellent déjà la « souveraineté comme service » : pas d'inquiétude, Microsoft, Palantir et les autres sauront répondre à tous vos besoins, pour un prix abordable.

Voilà ce qui rend si séduisante – et si dangereuse – la théorie du techno-féodalisme : elle repose sur des méchants de dessin animé (« Bezos ! » « Musk ! » « Zuckerberg ! » et des solutions de même genre (« Formons des coopératives ! », « demandons aux banque centrales d'émettre des devises numériques ! », « autorisons la portabilité des données ! ». Elle nous laisse à croire que nous combattons des seigneurs médiévaux alors que l'adversaire est d'une tout autre stature. Il est temps d'appeler le capitalisme par son vrai nom. On ne le vaincra pas en l'affublant d'oripeaux du Moyen Age.

 

Evgeny Morozov

(Traduit de l’anglais par Nicolas Vieillescaze)



[1] McKenzie Wark, Capital is Dead: Is This Something Worse? Verso, Londres, 2019.

[2] Cedric Durand, Techno-féodalisme. Critique de l’économie numérique, La Decouverte, Paris 2020. L’auteur poursuit une réflexion entamée dans Le Capital fictif. Comment la finance s’approprie notre avenir, Les prairies ordinaires, Paris 2014.

[3] Jodi Dean, Capital’s Grave: Néofeudalism and the New Class Struggle, Verso, 2025.

[4] Yanis Varoufakis, Technofeudalism : What Killed Capitalism, The Bodley Head, Londres 2023, traduit en 2024 aux éditions Les Liens qui libèrent sous le titre Les nouveaux serfs de l’économie.

[5] Héros de la série télévisée Mad Men sur les publicitaires américaines des années 1960.

[6] Lire Shoshana Zuboff, « Un capitalisme de surveillance », Le Monde diplomatique, janvier 2019.

[7] Anwar Shaikh, Capitalism: Competition, Conflict, Crises, Oxford University press, 2016.

[8] Lire « Une guerre froide 2.0 », Le Monde diplomatique, mai 2023.

fonte: https://www.monde-diplomatique.fr/2025/08/MOROZOV/68672