giovedì 21 agosto 2025

Quando il mercato domina, il territorio muore - Del territorio, della sua suburbanizzazione e della sua difesa - Miguel Amoròs

 





Da quando la Rivoluzione Industriale ha portato alla progressiva urbanizzazione della società, si può affermare che la storia sociale è la storia del processo di urbanizzazione. Nelle fasi finali di questo processo, la caratteristica più distintiva della società odierna è l'enorme aumento delle aree urbane e periurbane. Oggi, più della metà della popolazione mondiale vive in agglomerati urbani. Questa percentuale raggiunge il 74% in Europa e l'84% negli Stati Uniti. La crescita è continua, persistente e accelerata, quindi è ragionevole supporre che, tra qualche decennio, il 5 o 6% del territorio concentrerà quasi l'intera popolazione del pianeta, mentre il resto, svuotato, continuerà a orbitare attorno alle zone abitate, mantenendo con loro un rapporto di totale dipendenza. È quel che Henri Lefebvre definì negli anni '70 come "società urbana", ovvero una società completamente urbanizzata. La città industriale, eminentemente borghese, orientata al mercato interno, perde i suoi confini e si disperde sul territorio, trasformandosi in un sistema informe di agglomerati urbani collegati da autostrade e treni metropolitani, connessi tramite internet ai flussi transnazionali di capitale. Questo tipo d’insediamento, in cui lo spazio pubblico diventa un semplice spazio di circolazione e lo spazio decisionale si virtualizza, è oggi l'unità spaziale significativa che rivendica  l'intero territorio per estendersi. Non si tratta di una città in declino, ma di un fenomeno completamente nuovo. Negli Stati Uniti è stata chiamata "area metropolitana". Il boom residenziale che l’ha resa possibile è stato facilitato dalla motorizzazione privata. L'automobile utilitaria ha innescato un processo di suburbanizzazione delle periferie che si è verificato in modo esplosivo in Europa a partire dagli ultimi anni '50 e in America più di dieci anni prima. Negli anni '80, con l'avvio dell'informatizzazione e lo sviluppo delle attività aeroportuali, si può già parlare chiaramente di metropolitanizzazione. Si tratta di una realtà inedita, prodotta dalla transizione dalla città-fabbrica, con la sua morfologia diffusa ma definita, alla metropoli finanziaria, iperespansiva, ormai confusa nello spazio, o, che è lo stesso, dalla città dei produttori al non-luogo dei passanti e dei consumatori.

L'era delle città è finita, ha affermato con enfasi Françoise Choay. Il tipico oblio del suddetto metropolitano impone un eterno presente: le metropoli odierne emergono dalla tabula rasa del passato, non dalla storia. Con l'accumularsi delle conurbazioni metropolitane, si è completata la transizione da un'economia industriale urbana a base nazionale a un'economia di servizi metropolitana e internazionalizzata. La primitiva opposizione tra città e campagna è stata risolta a favore delle metropoli, che Saskia Sassen chiama impropriamente "città globali", poiché, pur essendo globali, non sono più città: la città è scomparsa e la campagna ha cessato di essere una realtà differenziata, sia a causa dell'industrializzazione delle mansioni, sia per la mentalità urbana e lo stile di vita standardizzato dei suoi residenti sparsi. Non esiste più veramente una campagna: la campagna è ormai un fatto urbano o succedaneo dell'urbano. Negli anni '60 è stato coniato il concetto di urban field. Finalmente, le regioni metropolitane, omogenee, trasparenti, indistinguibili le une dalle altre, non sono altro che la traduzione spaziale del postfordismo e della globalizzazione, o, per dirla in altro modo, corrispondono allo spazio più appropriato per la riproduzione del capitale nella sua fase globalizzata. Costituiscono la concretizzazione denazionalizzata della società capitalista globale. Grazie alle infrastrutture di trasporto – grazie soprattutto agli aeroporti e al calo del costo dei container – e successivamente, grazie alla digitalizzazione, lo spazio del capitale si modifica radicalmente e si adatta, disintegrando i livelli locali e nazionali, vestigia della precedente fase capitalista, fino ad acquisire le necessarie dimensioni globali e l'immagine distintiva, il logo o "marchio", ovvero la pseudo-identità. Contribuiscono altri processi complementari: motorizzazione privata, clusterizzazione, gentrificazione, musealizzazione, turisticizzazione, litoralizzazione, esclusione sociale, ecc. Oggi più che mai lo spazio urbano non appartiene a chi lo abita, ma a chi specula con esso – la stessa classe di sempre rappresentata dai costruttori immobiliari, dai proprietari dei terreni e dei fondi d’investimento – e lo plasma secondo i propri interessi.

Poiché la povertà e il mal vivere non sono stati sradicati; anzi, i salari sono stagnanti, la precarietà, il lavoro spazzatura e la disuguaglianza si sono diffusi, la conflittualità non è scomparsa, ma è stata deviata in diverse maniere. Il confronto forzato, quando si verifica, non arriva mai a generalizzarsi, sia nello spazio che nel tempo, né tanto meno ad approfondirsi. I metodi classici della lotta di classe e i concetti ideologici che la giustificavano, un tempo funzionali alla città manifatturiera, diventano inefficaci in un quadro spaziale espressamente progettato per favorire comportamenti conformisti e sottomessi: quello della metropoli-impresa. La difficoltà di comunicazione diretta dovuta alla distanza, l'entropia sociale e i complessi meccanismi di contenimento tecnologico-poliziesco favoriscono la rassegnazione, mentre la ripetizione egoistica dei vecchi schemi naufraga inevitabilmente nell'impotenza. La demagogia non serve più nemmeno ai demagoghi. Quando l'economia, grazie alle innovazioni tecniche, abbraccia la totalità dell'attività umana, i suoi valori tendono a diventare universali, condizionando tutti i comportamenti in direzione del mercato. Agli effetti della delocalizzazione industriale, della deregolamentazione e della razzializzazione del mercato del lavoro, del turismo e della comunicazione unilaterale, del sindacalismo e dell'associazionismo sovvenzionati, ecc., si somma un senso di sradicamento, solitudine e mancanza di amore, un ripiegamento sulla sfera privata e sui consumi quotidiani, un presentismo amnesico, un cieco seguire le mode, una sottomissione volontaria all'ordine costituito e, infine, una proliferazione di comportamenti nevrotici e psicopatologici, che rendono gli individui vulnerabili e, di conseguenza, timorosi e facilmente manipolabili. Come conseguenza di questo "nuovo tipo di cittadinanza", gli antagonismi sono più difficili da formulare e ancora più difficili da assimilare, ma ciò non impedisce la loro manifestazione laddove i controlli sistemici falliscono e la strada riappare come luogo d’incontro, si supera l'isolamento e i professionisti della rappresentanza fittizia falliscono.

La concentrazione metropolitana squilibra profondamente il territorio circostante, spopolandolo, assorbendone tutte le risorse e scaricandovi i rifiuti, inquinandolo e degradandolo. La porzione urbana consuma tre quarti dell'energia disponibile e il 20% dell'acqua, produce due miliardi e mezzo di tonnellate di rifiuti l’anno ed è responsabile di oltre il 70% delle emissioni di gas serra. L'impatto ambientale – l'"impronta" urbana – è formidabile e apre un nuovo terreno di lotta che chiamiamo difesa del territorio. Per comprendere meglio la nozione di difesa, sarebbe utile spiegare innanzitutto il concetto di territorio. In linea di principio, il territorio è più del semplice spazio concreto in cui s’insedia una popolazione, quindi non equivale, ad esempio, a paesaggio, appezzamento di terreno, ambiente naturale o dominio rurale: l'area urbanizzata è solo uno dei suoi elementi costitutivi. Non è uno spazio geografico, ma sociale, con le sue tradizioni, la sua cultura e la sua storia. E oggi, lo spazio mercantile. È una vera e propria costruzione socio-storica frutto dell'azione umana nel tempo, più o meno simbiotica con l'ambiente. E proprio quando la simbiosi tra le sue componenti si rompe, sorgono aspri conflitti e scontri. Ricordiamo le rivolte rurali, le guerre contadine e le rivoluzioni. Il superamento della contraddizione campagna-città causata dall'industrializzazione fu possibile convertendo il territorio in luogo dell'economia e, di conseguenza, adattando la prima alle esigenze della seconda, il che oggi significa suburbanizzazione. Così, la campagna fu svuotata e contemporaneamente parcellizzata, regolamentata e specializzata; ridisegnata con piani e articolata attraverso reti stradali che la resero più accessibile, sfruttabile e urbanizzabile. Nel suo nuovo aspetto, la campagna rifletteva il nuovo ordine socio-politico emanato dalle metropoli. In quest'ordine, i principali sconfitti continuarono a essere le classi salariate urbane, relegate nei sobborghi dormitorio, come quelli che il mondo anglosassone chiama commuters. Grazie all'alta tecnologia, le risorse territoriali hanno acquisito un'importanza crescente nella riproduzione del capitale, man mano che si è fatta chiara la consapevolezza che la produzione industriale, in particolare quella energetica, dipendeva da esse. Nella fase estrattivista del capitalismo, tali risorse hanno conferito ai territori non urbani lo status di "strategici", poiché da essi dipendeva la crescita economica. Ciò ha trasformato qualsiasi protesta in queste aree in un problema di Stato, da risolvere con metodi repressivi. Di conseguenza, la difesa del territorio, e la lotta anti-sviluppo in generale, hanno finito per occupare il centro della questione sociale. Il paradosso è che la maggior parte delle forze di difesa del territorio sono più urbane che rurali. Per certi versi, per certi aspetti, la difesa del territorio non urbano è una lotta urbana.

L'anti-sviluppo è evidentemente de urbanizzante e decentralizzatore. Pretende di riequilibrare e riabilitare il territorio per integrarne nuovamente le parti su basi di reciprocità. I primi autori a sollevare la questione del decentramento della città industriale e della sua fusione con la natura e la campagna, molto prima dell'esplosione urbana, furono gli anarchici Reclus e Kropotkin. Entrambi fecero appello a un "senso della natura" alla guida della costruzione di una nuova società senza classi. Il ritorno alla natura consisterebbe in una dispersione urbana a bassa intensità di tutte le attività monopolizzate dalla città, in modo da verificare una compenetrazione reciprocamente vantaggiosa. Creando una rete di piccole industrie, mulini, cascate, strade e fattorie agricole collettivizzate attorno alle città recuperate sotto il regime comunista libertario, il risultato sarebbe una regione urbano-rurale integrata, estranea all'economia capitalista, poiché sarebbe priva di un centro di governo e sarebbe governata da principi di uguaglianza, solidarietà e giustizia. Questa idea fu ripresa e sviluppata, in parte o integralmente, da vari autori critici nei confronti delle nuove realtà suburbane: Geddes, Mumford, Bookchin, Hall, Oyón, Harvey.... Dai tempi di Reclus e del principio delle trincee, le cose si sono complicate. Il problema principale di una simile trasformazione sociale è che le aree metropolitane sono progettate esclusivamente per la riproduzione di capitali, con i luoghi di produzione, lavoro, alloggi, forniture e svago lontani tra loro, le loro arterie stradali affollate, i loro turisti, la loro atmosfera inquinata, le loro piattaforme digitali, ecc., rendendole inutilizzabili per scopi di socializzazione. In queste condizioni, l'autogestione non sarebbe altro che l'autogestione popolare del capitale. Per realizzare un progetto territoriale emancipatore su larga scala, non capitalista, e quindi per creare un quadro spaziale appropriato, queste aree dovranno prima essere smantellate. La futura insostenibilità e l'attuale potenziale esplosivo delle metropoli contribuiranno a questo compito, ma tenderanno a provocare una dispersione caotica che dovrà essere superata. Chiaramente, la trasformazione rivoluzionaria della società dipenderà dalla formazione di un soggetto politico collettivo capace di organizzarsi e di confrontarsi con l'ordine attuale e con lo Stato. Non si tratta di trovare una formula e di farla attuare silenziosamente da una manciata di volontari laboriosi, in modo che l'esempio si diffonda, nel peggiore dei casi, sotto l'ombrello dell'attività politica convenzionale. Si tratta di mobilitare e auto-organizzare un settore significativo della popolazione, e di far convergere le proprie lotte fino a superare le barriere capitaliste. Le strategie per il cambiamento devono iniziare da lì.

Il movimento operaio del passato ci ha fornito esempi pratici di autorganizzazione per la lotta sociale: corporazioni, cooperative, sindacati unici, consigli operai, comitati di quartiere... Si trattava per lo più di forme associative urbane, episodiche nella durata, artificiali, basate sull'adesione volontaria e sulla permanenza di interessi di classe. Il villaggio, d'altra parte, ci offre una forma di convivenza auto-organizzata, senza tempo, organica, fondata su legami di vicinato e radici territoriali: la comunità di villaggio. Si tratta più di uno stile di vita comunitario legato alla terra che di un rapporto contrattuale basato su alleanze e accordi. Il villaggio comunitario è la più antica forma di organizzazione sociale. In Europa, emerse nel nono secolo, governato da un organo amministrativo e giudiziario attraverso il quale tutti gli abitanti del villaggio prendevano decisioni – l'assemblea comunale – e sostenuta dalla gestione collettiva dei beni comunali e dalla raccolta in campi aperti. Questo sistema ricevette nomi diversi a seconda della località: consiglio (concilium) o cabildo aperto nella penisola iberica, finage in Francia, Gemeindeversammlung in area tedesca, contado in Italia, ecc. Era uno strumento di democrazia diretta e di totale partecipazione: come si legge nel documento fondatore di un concilio leonese: "Noi tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, alti e bassi, tutti insieme, che siamo abitanti, villici e infanti...". L'autogoverno è esistito anche in grandi centri e città, dando origine a comuni e municipalità statutarie. La sovranità popolare era regolata dalla consuetudine (diritto consuetudinario) che implicava un complesso sistema di relazioni, con infinite varianti derivanti dalle vicissitudini locali. Il declino delle assemblee consiliari fu direttamente correlato allo sviluppo dello Stato, alle divisioni interne e all'uso diffuso del diritto civile basato sul diritto romano. La ricerca di una società senza Stato s’ispirerà al sistema comunale, sua eredità sconosciuta. L'efficacia economica dei beni comuni residuali è stata recentemente studiata dalla studiosa Elinor Ostrom, che ha attentamente ignorato gli sforzi obbligatori e le implicazioni politiche del loro ripristino, gestione e usufrutto. La riorganizzazione sociale del territorio in margine al capitalismo è soprattutto politica e, in quanto tale, sarà comunitaria e frutto di una lunga lotta, o non sarà.

La difesa del territorio è l'attuale paradigma della lotta anticapitalista, ereditata dalla passata lotta di classe. Avviene sia all'interno sia all'esterno della metropoli, mostrando tre aspetti interrelati tra loro, l’urbano, il rurale e l’ecologico, ognuno con le sue sfaccettature negatrici e creative, i suoi momenti violenti o pacifici e i suoi rispettivi livelli, locale e globale. Comprende quindi diverse questioni che attualmente emergono in relazione all'edilizia abitativa, ai trasporti, all'immigrazione, alle abitudini patriarcali, al prezzo dell'energia, alla problematica del parcheggio nei quartieri storici, alla perdita di terreni coltivabili, alla dipendenza alimentare, allo spopolamento rurale e alla distruzione del paesaggio. La sfida attraverso l'azione capace di abbandonare il capitalismo è la confluenza di tutte le lotte in una sola. Ciò sarà impossibile senza una rinascita della società civile al di fuori dello Stato e contro la tecnologia colonialista del capitale. La resistenza richiede radicamento nel territorio, spazi propri, connessioni e progetti. Mi riferisco a infrastrutture alternative, tessuto sociale autonomo, esempi pratici di autosufficienza, tentativi autogestiti... Pertanto, il lato guerriero e demolitore della difesa corre parallelo a quello costruttivo e organizzativo. La negazione richiede il suo opposto, e viceversa. La creatività deve essere accompagnata dall'attacco.

Miguel Amorós, 5 agosto 2025.

Materiali per la discussione



Cuando el mercado domina,

el territorio muere

Del territorio, su suburbialización y su defensa

Desde que la revolución industrial provocó la urbanización progresiva de la sociedad, se puede decir que la historia social es la historia del proceso urbanizador. En la recta final del proceso, la característica más distinguible de la sociedad actual es el enorme incremento de las áreas urbanas y periurbanas. Hoy en día, más de la mitad de la población mundial vive en aglomeraciones urbanas. En Europa alcanza el 74%, y el 84% en los Estados Unidos. El crecimiento es continuo, persistente y acelerado, por lo que cabe suponer que, en pocas décadas, el 5 o 6% del territorio concentre a casi toda la población del planeta, mientras que el resto, vaciado, quedará orbitando alrededor de las aglomeraciones y manteniendo con ellas una relación de total dependencia. Es lo que Henri Lefebvre definió en los pasados setenta como “sociedad urbana”, es decir, sociedad completamente urbanizada. La ciudad industrial, eminentemente burguesa, volcada al mercado interior, pierde sus límites y se dispersa por el territorio para transformarse en un sistema informe de conurbaciones enlazadas por autopistas y trenes metropolitanos, conectado por internet a los flujos transnacionales de capital. Tal clase de asentamiento, donde el espacio público se convierte en simple espacio circulatorio y el espacio de la decisión se virtualiza, es ahora la unidad espacial significativa que reclama todo el territorio para desparramarse. No se trata de una ciudad deteriorada, sino de un hecho completamente nuevo. En Estados Unidos lo llamaron “área metropolitana.” El "boom" residencial que lo hizo posible fue facilitado por la motorización privada. El automóvil utilitario desencadenó un proceso de suburbanización de las afueras que se dio de manera explosiva en Europa a partir de los años cincuenta del siglo pasado, y en América, más de diez años antes. En los años ochenta, con los inicios de la informatización y del desarrollo empresarial aeroportuario, ya podemos hablar claramente de metropolitanización. Es una realidad inédita producida por el paso de la ciudad fabril, de morfología difusa pero clara, a la metrópolis financiera hiperexpansiva, ya desdibujada en el espacio, o lo que es lo mismo, de la ciudad de los productores al no-lugar de transeúntes y los consumidores.

La era de las ciudades ha terminado, afirmó rotundamente Françoise Choay. La desmemoria típica del súbdito metropolitano impone un eterno presente: las actuales metrópolis surgen de la tabula rasa con el pasado, no de la historia. Con el amontonamiento de conurbaciones metropolitanas se ha completado la transición de una economía industrial urbana, de base nacional, a una economía de servicios metropolitana, internacionalizada. La primitiva oposición ciudad-campo se ha resuelto en favor de las metrópolis, a las que impropiamente Saskia Sassen llama “ciudades globales” puesto que si bien son globales, ya no son ciudades: la ciudad se ha desvanecido y el campo ha dejado de ser una realidad diferenciada, tanto por la industrialización de las tareas, como por la mentalidad urbana y el estilo de vida estándar de su escaso vecindario. Realmente no hay campo: el campo es ya un hecho urbano o subsidiario de lo urbano. En los sesenta se acuñó el concepto de urban field. En fin, las regiones metropolitanas, homogéneas, transparentes, indistinguibles unas de otras, no son más que la traducción espacial del posfordismo y la globalización, o dicho de otro modo, se corresponden con el espacio más adecuado para la reproducción del capital en su fase mundializada. Constituyen la concreción desnacionalizada de la sociedad capitalista global. Gracias a las infraestructuras del transporte -gracias sobre todo a los aeropuertos y al abaratamiento de los contenedores- y posteriormente, gracias a la digitalización, el espacio del capital se modifica radicalmente y adapta desintegrando los niveles locales y nacionales, vestigios de la fase capitalista anterior, hasta adquirir las dimensiones mundiales necesarias y la imagen diferencial, el logo o la "marca", es decir, la seudo-identidad. Otros procesos complementarios contribuyen: motorización privada, clusterización, gentrificación, museificación, turistización, litoralización, exclusión social, etc. Hoy más que nunca, el espacio urbano no es de quien lo habita, sino de quien especula con él, la clase de siempre representada por los promotores inmobiliarios, los propietarios de suelo y los fondos de inversión, y es esta quien lo modela en función de su interés.

Dado que la pobreza y el malvivir no se han erradicado; bien al contrario, los salarios se han estancado, la precariedad, el empleo basura y la desigualdad se han extendido, la conflictividad no ha desaparecido, pero ha sido abducida de diferentes maneras. La forzosa confrontación, cuando llega a producirse, jamás llega a generalizarse, tanto en el espacio como en el tiempo, y ni mucho menos profundizarse. Los métodos clásicos de la lucha de clases y los conceptos ideológicos que la justificaban, antaño funcionales en la ciudad manufacturera, se vuelven ineficaces en un marco espacial delineado expresamente para fomentar conductas conformistas y sumisas, el de la metrópolis-empresa. La difícil comunicación directa debido a las distancias, la entropía social y los complejos mecanismos de contención tecnológico-policiales favorecen la resignación, mientras la repetición interesada de los viejos esquemas naufraga inevitablemente en la impotencia. La demagogia no sirve ya ni a los demagogos. Cuando la economía, gracias a las innovaciones técnicas abraza la totalidad de la actividad humana, sus valores tienden a universalizarse condicionando a todos los comportamientos en la dirección del mercado. A los efectos de la deslocalización industrial, de la desregulación y racialización del mercado laboral, del turismo y la comunicación unilateral, del sindicalismo y asociacionismo subvencionados, etc., se suma un sentimiento de desarraigo, soledad y desamor, una la retirada en lo privado y el consumo cotidiano, un presentismo amnésico, un seguidismo ciego de las modas, una sumisión voluntaria al orden establecido, y, por último, una proliferación de conductas neuróticas y sicopatológicas, todo lo cual vuelve a los individuos vulnerables, y en consecuencia, asustadizos y fácilmente manipulables. De resultas de este “nuevo tipo de ciudadanía”, los antagonismos son más difíciles de formular y más aún de asimilar, pero no impide su manifestación allá donde fallan los controles sistémicos, reaparece la calle como lugar de encuentro, se supera el aislamiento y fracasan los profesionales de la representación espuria.

La concentración metropolitana desequilibra profundamente el territorio circundante, puesto que lo despuebla, a la par que absorbe todos sus recursos y deposita en él sus residuos, contaminándolo y degradándolo. La porción urbana consume las tres cuartas partes de la energía disponible y el 20% de agua, produce al año dos mil quinientos millones de toneladas de basura y es responsable de más del 70% de las emisiones de gases de efecto invernadero. El impacto ambiental -la “huella” urbana- es formidable y abre un nuevo escenario de lucha al que denominamos defensa del territorio. Para mejor entender la noción de defensa convendría explicar antes el concepto de territorio. En principio, territorio es algo más que el espacio concreto donde se asienta una población, por lo que no equivale por ejemplo a paisaje, solar, medio natural o dominio rural: la parte urbanizada es solo uno de los elementos constitutivos. No es espacio geográfico, sino espacio social, con tradición propia, cultura e historia. Y hoy en día, espacio mercantil. Realmente es una construcción socio-histórica resultado de la acción humana a lo largo del tiempo más o menos simbiótica con el medio. Y precisamente, cuando la simbiosis entre sus componentes se rompe, se originan fuertes disputas y enfrentamientos. Recordemos los levantamientos rurales, las guerras campesinas y las revoluciones. La superación de la contradicción campo-ciudad causada por la industrialización fue resuelta con la conversión del territorio en territorio de la economía, y en consecuencia, con la adaptación del primero a las exigencias de la segunda, que hoy significa suburbanización. Así pues, el campo se fue vaciando a la vez que parcelando, reglamentando y especializando; rediseñado con planes y articulado mediante redes viarias que lo volvían más accesible, explotable y urbanizable. En su nuevo aspecto, el campo reflejaba el nuevo orden socio-político emanado de las metrópolis. En tal orden los principales perdedores seguían siendo las clases urbanas asalariadas, relegadas a las periferias-dormitorio, en calidad de lo que el mundo anglosajón denomina commuters. Gracias a la alta tecnología, los recursos territoriales han ido adquiriendo una importancia cada vez mayor en la reproducción del capital a medida en que se ha tenido plenamente conciencia de que la producción industrial -sobre todo energética- dependía de aquellos. En la fase extractivista del capitalismo, tales recursos conferían a un territorio no urbano la categoría de “estratégico”, puesto que el crecimiento económico dependía de ellos, lo que convertía toda protesta en esos ámbitos en un problema de Estado, a resolver con métodos represivos. Por consiguiente, la defensa del territorio, y la lucha antidesarrollista en general, terminó ocupando el centro de la cuestión social. La paradoja es que los efectivos mayores de la defensa de la tierra son más urbanos que rurales. De alguna forma, bajo ciertos aspectos, la defensa del territorio no urbano es una lucha urbana.

El antidesarrollismo es evidentemente desurbanizador y descentralizador. Pretende reequilibrar y rehabilitar el territorio para volver de nuevo a integrar sus partes sobre bases de reciprocidad. Los primeros autores que plantearon el tema de la desconcentración de la ciudad industrial y la fusión con la naturaleza y el campo, muy anteriores a la explosión urbana, fueron los anarquistas Reclus y Kropotkin. Ambos apelaron a un “sentimiento de la naturaleza” que guiase la construcción de una nueva sociedad sin clases. La vuelta a la naturaleza consistiría en una dispersión urbana de baja intensidad de todas las actividades acaparadas por la urbe, de forma que se diera una interpenetración ventajosa para todas las partes. Al conformarse, alrededor de las ciudades recuperadas en régimen comunista libertario, una red de pequeñas industrias, molinos, saltos de agua, caminos y explotaciones agrícolas colectivizadas, el resultado sería una región integrada urbano-rural ajena a la economía capitalista, puesto que carecería de centro dirigente y estaría regida por principios de igualdad, solidaridad y justicia. La idea fue recogida y desarrollada, parcial o totalmente, por distintos autores críticos con las nuevas realidades suburbanas: Geddes, Mumford, Bookchin, Hall, Oyón, Harvey... Desde la época de Reclus y el príncipe de las trincheras, las cosas se han complicado. El problema principal para una transformación social de ese tipo consiste en que las áreas metropolitanas están concebidas exclusivamente para la reproducción de capitales, con los lugares de producción, trabajo, vivienda, abastecimiento y ocio alejados unos de otros, sus vías arteriales repletas, sus turistas, su atmósfera contaminada, sus plataformas digitales, etc., algo que las hace inaprovechables para menesteres socializadores. En esas condiciones, la autogestión no sería entonces más que la autogestión popular del capital. Para llevar a cabo un proyecto territorial emancipador de envergadura, no capitalista, y así pues, para crear un marco espacial apropiado, habrá primero que desmantelar dichas áreas. La inviabilidad futura y el presente potencial explosivo de las metrópolis ayudará en la tarea, pero tenderá a provocar una dispersión caótica que habrá que superar. Evidentemente, la transformación revolucionaria de la sociedad dependerá de la formación de un sujeto político colectivo capaz de organizarse y enfrentarse con el orden vigente y hacer frente al Estado. No es cuestión de encontrar una fórmula y que la practiquen tranquilamente un puñado de esforzados voluntarios con el fin de que el ejemplo cunda, a lo peor, bajo el paraguas de una actividad política convencional. Se trata de que un sector importante de la población se movilice y auto-organice, y de que sus luchas confluyan hasta abrirse camino entre las barreras capitalistas. Las estrategias de cambio deberán partir de ahí.

El pasado movimiento obrero nos proporcionó ejemplos prácticos de auto-organización para la lucha social: gremios, cooperativas, sindicatos únicos, consejos obreros, comités de barriada...  Eran formas asociativas mayoritariamente urbanas, de duración episódica, artificiales, basadas en la adhesión voluntaria y la permanencia del interés de clase. La aldea, en cambio, nos ofrece una forma auto-organizativa para la convivencia, intemporal, orgánica, fundada en los lazos vecinales y las raíces territoriales: la comunidad aldeana. Es más un estilo de vida en común ligado a la tierra, que una relación contractual basada en la alianza y el acuerdo. La aldea comunitaria es la forma más antigua de organización social. En Europa surgió en el siglo IX, gobernada por un órgano administrativo y judicial a través del cual todos los aldeanos tomaban decisiones -la asamblea comunal- y sustentada por la gestión colectiva de bienes comunales y la recolección en campos abiertos. Tal régimen recibió distintos nombres según el lugar: concejo -concilium- o cabildo abierto en la Península Ibérica, finage en Francia, Gemeindeversammlung en el área alemana, contado en Italia, etc. Era un instrumento de democracia directa y de participación total: tal como reza el documento constitutivo de un concejo leonés: “Nosotros todos, varones y mujeres, jóvenes y viejos, máximo y mínimos, todos conjuntamente, que somos habitantes, villanos e infanzones...” La auto-gobernanza también se dio en pueblos grandes y ciudades, dando lugar a comunas y municipios forales. La soberanía popular se regulaba por la costumbre -por el derecho consuetudinario- lo cual implicaba un complejo sistema de relaciones, con infinitas variantes derivadas de las vicisitudes locales. La decadencia de las asambleas concejiles estuvo emparentada directamente con el desarrollo del Estado, las divisiones internas y la generalización del derecho civil basado en el romano. La búsqueda de una sociedad sin Estado tendrá mucho que inspirarse en el régimen comunal, su patrimonio desconocido. La eficacia económica de los bienes comunes residuales fue estudiada recientemente por la académica Elinor Ostrom, que tuvo buen cuidado en ignorar los esfuerzos preceptivos y las implicaciones políticas de la reimplantación, gestión y usufructo de los mismos. La reorganización social del territorio al margen del capitalismo es sobre todo política y como tal, será comunitaria y fruto de una larga lucha o no será.

La defensa del territorio es el paradigma actual del combate anticapitalista heredero de la pasada lucha de clases. Ocurre tanto dentro de la metrópolis como fuera, mostrando tres aspectos relacionados entre sí, el urbano, el rural y el ecológico, cada uno con sus facetas negadora y creadora, sus momentos violentos o pacíficos, y sus respectivos niveles, local y global. Abarca pues cuestiones diversas que ahora mismo se presentan en torno a la vivienda, al transporte, la inmigración, los hábitos patriarcales, al precio de la energía, la parquetematización de los barrios históricos, la pérdida de superficie cultivable, la dependencia alimentaria, la despoblación de los campos o la destrucción del paisaje. El reto para la acción en pos de la salida del capitalismo es la confluencia de todas las luchas en una. Eso será imposible sin una resurgencia de la sociedad civil al margen del Estado y en contra la tecnología colonialista del capital. La resistencia necesita raíces en el territorio, espacios propios, conexiones, obras. Me refiero a infraestructuras alternativas, tejido social autónomo, ejemplos prácticos de autosuficiencia, tanteos autogestionarios... Así pues, el lado guerrero y desmantelador de la defensa corre paralelo al lado constructivo y organizador. La negación requiere su contrario, y viceversa. El hecho creativo ha de acompañarse con el ataque.

Miguel Amorós, 5 de agosto de 2025.

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