Da
quando la Rivoluzione Industriale ha portato alla progressiva urbanizzazione
della società, si può affermare che la storia sociale è la storia del processo
di urbanizzazione. Nelle fasi finali di questo processo, la caratteristica più
distintiva della società odierna è l'enorme aumento delle aree urbane e
periurbane. Oggi, più della metà della popolazione mondiale vive in agglomerati
urbani. Questa percentuale raggiunge il 74% in Europa e l'84% negli Stati
Uniti. La crescita è continua, persistente e accelerata, quindi è ragionevole
supporre che, tra qualche decennio, il 5 o 6% del territorio concentrerà quasi
l'intera popolazione del pianeta, mentre il resto, svuotato, continuerà a
orbitare attorno alle zone abitate, mantenendo con loro un rapporto di totale
dipendenza. È quel che Henri Lefebvre definì negli anni '70 come "società
urbana", ovvero una società completamente urbanizzata. La città
industriale, eminentemente borghese, orientata al mercato interno, perde i suoi
confini e si disperde sul territorio, trasformandosi in un sistema informe di
agglomerati urbani collegati da autostrade e treni metropolitani, connessi
tramite internet ai flussi transnazionali di capitale. Questo tipo d’insediamento, in cui lo
spazio pubblico diventa un semplice spazio di circolazione e lo spazio
decisionale si virtualizza, è oggi l'unità spaziale significativa che
rivendica l'intero territorio per
estendersi. Non si tratta di una città in declino, ma di un fenomeno
completamente nuovo. Negli Stati Uniti è stata chiamata "area metropolitana".
Il boom residenziale che l’ha resa possibile è stato facilitato dalla
motorizzazione privata. L'automobile utilitaria ha innescato un processo di
suburbanizzazione delle periferie che si è verificato in modo esplosivo in
Europa a partire dagli ultimi anni '50 e in America più di dieci anni prima.
Negli anni '80, con l'avvio dell'informatizzazione e lo sviluppo delle attività
aeroportuali, si può già parlare chiaramente di metropolitanizzazione. Si
tratta di una realtà inedita, prodotta dalla transizione dalla città-fabbrica,
con la sua morfologia diffusa ma definita, alla metropoli finanziaria, iperespansiva,
ormai confusa nello spazio, o, che è lo stesso, dalla città dei produttori al
non-luogo dei passanti e dei consumatori.
L'era
delle città è finita, ha affermato con enfasi Françoise Choay. Il tipico oblio del
suddetto metropolitano impone un eterno presente: le metropoli odierne emergono
dalla tabula rasa del passato, non dalla storia. Con l'accumularsi delle
conurbazioni metropolitane, si è completata la transizione da un'economia
industriale urbana a base nazionale a un'economia di servizi metropolitana e
internazionalizzata. La primitiva opposizione tra città e campagna è stata
risolta a favore delle metropoli, che Saskia Sassen chiama impropriamente
"città globali", poiché, pur essendo globali, non sono più città: la
città è scomparsa e la campagna ha cessato di essere una realtà differenziata,
sia a causa dell'industrializzazione delle mansioni, sia per la mentalità
urbana e lo stile di vita standardizzato dei suoi residenti sparsi. Non esiste
più veramente una campagna: la campagna è ormai un fatto urbano o succedaneo
dell'urbano. Negli anni '60 è stato coniato il concetto di urban field. Finalmente, le regioni metropolitane,
omogenee, trasparenti, indistinguibili le une dalle altre, non sono altro che
la traduzione spaziale del postfordismo e della globalizzazione, o, per dirla
in altro modo, corrispondono allo spazio più appropriato per la riproduzione
del capitale nella sua fase globalizzata. Costituiscono la concretizzazione
denazionalizzata della società capitalista globale. Grazie alle infrastrutture
di trasporto – grazie soprattutto agli aeroporti e al calo del costo dei
container – e successivamente, grazie alla digitalizzazione, lo spazio del
capitale si modifica radicalmente e si adatta, disintegrando i livelli locali e
nazionali, vestigia della precedente fase capitalista, fino ad acquisire le
necessarie dimensioni globali e l'immagine distintiva, il logo o
"marchio", ovvero la pseudo-identità. Contribuiscono altri processi
complementari: motorizzazione privata, clusterizzazione, gentrificazione,
musealizzazione, turisticizzazione, litoralizzazione, esclusione sociale, ecc.
Oggi più che mai lo spazio urbano non appartiene a chi lo abita, ma a chi
specula con esso – la stessa classe di sempre rappresentata dai costruttori
immobiliari, dai proprietari dei terreni e dei fondi d’investimento – e lo
plasma secondo i propri interessi.
Poiché
la povertà e il mal vivere non sono stati sradicati; anzi, i salari sono
stagnanti, la precarietà, il lavoro spazzatura e la disuguaglianza si sono
diffusi, la conflittualità non è scomparsa, ma è stata deviata in diverse
maniere. Il confronto forzato, quando si verifica, non arriva mai a generalizzarsi,
sia nello spazio che nel tempo, né tanto meno ad approfondirsi. I metodi
classici della lotta di classe e i concetti ideologici che la giustificavano,
un tempo funzionali alla città manifatturiera, diventano inefficaci in un
quadro spaziale espressamente progettato per favorire comportamenti conformisti
e sottomessi: quello della metropoli-impresa. La difficoltà di comunicazione
diretta dovuta alla distanza, l'entropia sociale e i complessi meccanismi di
contenimento tecnologico-poliziesco favoriscono la rassegnazione, mentre la
ripetizione egoistica dei vecchi schemi naufraga inevitabilmente
nell'impotenza. La demagogia non serve più nemmeno ai demagoghi. Quando
l'economia, grazie alle innovazioni tecniche, abbraccia la totalità
dell'attività umana, i suoi valori tendono a diventare universali, condizionando
tutti i comportamenti in direzione del mercato. Agli effetti della delocalizzazione
industriale, della deregolamentazione e della razzializzazione del mercato del
lavoro, del turismo e della comunicazione unilaterale, del sindacalismo e
dell'associazionismo sovvenzionati, ecc., si somma un senso di sradicamento,
solitudine e mancanza di amore, un ripiegamento sulla sfera privata e sui
consumi quotidiani, un presentismo amnesico, un cieco seguire le mode, una
sottomissione volontaria all'ordine costituito e, infine, una proliferazione di
comportamenti nevrotici e psicopatologici, che rendono gli individui
vulnerabili e, di conseguenza, timorosi e facilmente manipolabili. Come
conseguenza di questo "nuovo tipo di cittadinanza", gli antagonismi
sono più difficili da formulare e ancora più difficili da assimilare, ma ciò
non impedisce la loro manifestazione laddove i controlli sistemici falliscono e
la strada riappare come luogo d’incontro, si supera l'isolamento e i
professionisti della rappresentanza fittizia falliscono.
La concentrazione metropolitana squilibra profondamente il territorio circostante, spopolandolo, assorbendone tutte le risorse e
scaricandovi i rifiuti, inquinandolo e degradandolo. La porzione urbana consuma
tre quarti dell'energia disponibile e il 20% dell'acqua, produce due miliardi e
mezzo di tonnellate di rifiuti l’anno ed è responsabile di oltre il 70% delle
emissioni di gas serra. L'impatto ambientale – l'"impronta" urbana –
è formidabile e apre un nuovo terreno di lotta che chiamiamo difesa del territorio.
Per comprendere meglio la nozione di difesa, sarebbe utile spiegare
innanzitutto il concetto di territorio. In linea di principio, il territorio è
più del semplice spazio concreto in cui s’insedia una popolazione, quindi non
equivale, ad esempio, a paesaggio, appezzamento di terreno, ambiente naturale o
dominio rurale: l'area urbanizzata è solo uno dei suoi elementi costitutivi.
Non è uno spazio geografico, ma sociale, con le sue tradizioni, la sua cultura
e la sua storia. E
oggi, lo spazio mercantile. È una vera e propria costruzione socio-storica
frutto dell'azione umana nel tempo, più o meno simbiotica con l'ambiente. E
proprio quando la simbiosi tra le sue componenti si rompe, sorgono aspri
conflitti e scontri. Ricordiamo le rivolte rurali, le guerre contadine e le
rivoluzioni. Il superamento della contraddizione campagna-città causata
dall'industrializzazione fu possibile convertendo il territorio in luogo
dell'economia e, di conseguenza, adattando la prima alle esigenze della
seconda, il che oggi significa suburbanizzazione. Così, la campagna fu svuotata
e contemporaneamente parcellizzata, regolamentata e specializzata; ridisegnata
con piani e articolata attraverso reti stradali che la resero più accessibile,
sfruttabile e urbanizzabile. Nel suo nuovo aspetto, la campagna rifletteva il
nuovo ordine socio-politico emanato dalle metropoli. In quest'ordine, i
principali sconfitti continuarono a essere le classi salariate urbane, relegate
nei sobborghi dormitorio, come quelli che il mondo anglosassone chiama commuters. Grazie all'alta tecnologia, le risorse
territoriali hanno acquisito un'importanza crescente nella riproduzione del
capitale, man mano che si è fatta chiara la consapevolezza che la produzione
industriale, in particolare quella energetica, dipendeva da esse. Nella fase
estrattivista del capitalismo, tali risorse hanno conferito ai territori non
urbani lo status di "strategici", poiché da essi dipendeva la
crescita economica. Ciò ha trasformato qualsiasi protesta in queste aree in un
problema di Stato, da risolvere con metodi repressivi. Di conseguenza, la
difesa del territorio, e la lotta anti-sviluppo in generale, hanno finito per
occupare il centro della questione sociale. Il paradosso è che la maggior parte
delle forze di difesa del territorio sono più urbane che rurali. Per certi
versi, per certi aspetti, la difesa del territorio non urbano è una lotta
urbana.
L'anti-sviluppo
è evidentemente de urbanizzante e decentralizzatore. Pretende di riequilibrare
e riabilitare il territorio per integrarne nuovamente le parti su basi di
reciprocità. I primi autori a sollevare la questione del decentramento della
città industriale e della sua fusione con la natura e la campagna, molto prima
dell'esplosione urbana, furono gli anarchici Reclus e Kropotkin. Entrambi
fecero appello a un "senso della natura" alla guida della costruzione
di una nuova società senza classi. Il ritorno alla natura consisterebbe in una
dispersione urbana a bassa intensità di tutte le attività monopolizzate dalla
città, in modo da verificare una compenetrazione reciprocamente vantaggiosa. Creando una rete di piccole industrie, mulini, cascate,
strade e fattorie agricole collettivizzate attorno alle città recuperate sotto
il regime comunista libertario, il risultato sarebbe una regione urbano-rurale
integrata, estranea all'economia capitalista, poiché sarebbe priva di un centro
di governo e sarebbe governata da principi di uguaglianza, solidarietà e
giustizia.
Questa idea fu ripresa e
sviluppata, in parte o integralmente, da vari autori critici nei confronti
delle nuove realtà suburbane: Geddes, Mumford, Bookchin, Hall, Oyón, Harvey....
Dai tempi di Reclus e del
principio delle trincee, le cose si sono complicate. Il problema principale di
una simile trasformazione sociale è che le aree metropolitane sono progettate
esclusivamente per la riproduzione di capitali, con i luoghi di produzione,
lavoro, alloggi, forniture e svago lontani tra loro, le loro arterie stradali
affollate, i loro turisti, la loro atmosfera inquinata, le loro piattaforme
digitali, ecc., rendendole inutilizzabili per scopi di socializzazione. In queste
condizioni, l'autogestione non sarebbe altro che l'autogestione popolare del
capitale. Per realizzare un progetto territoriale emancipatore su larga scala,
non capitalista, e quindi per creare un quadro spaziale appropriato, queste
aree dovranno prima essere smantellate. La futura insostenibilità e l'attuale potenziale
esplosivo delle metropoli contribuiranno a questo compito, ma tenderanno a
provocare una dispersione caotica che dovrà essere superata. Chiaramente, la
trasformazione rivoluzionaria della società dipenderà dalla formazione di un
soggetto politico collettivo capace di organizzarsi e di confrontarsi con
l'ordine attuale e con lo Stato. Non si tratta di trovare una formula e di
farla attuare silenziosamente da una manciata di volontari laboriosi, in modo
che l'esempio si diffonda, nel peggiore dei casi, sotto l'ombrello
dell'attività politica convenzionale. Si tratta di mobilitare e
auto-organizzare un settore significativo della popolazione, e di far
convergere le proprie lotte fino a superare le barriere capitaliste. Le
strategie per il cambiamento devono iniziare da lì.
Il
movimento operaio del passato ci ha fornito esempi pratici di autorganizzazione
per la lotta sociale: corporazioni, cooperative, sindacati unici, consigli
operai, comitati di quartiere... Si trattava per lo più di forme associative
urbane, episodiche nella durata, artificiali, basate sull'adesione volontaria e
sulla permanenza di interessi di classe. Il villaggio, d'altra parte, ci offre
una forma di convivenza auto-organizzata, senza tempo, organica, fondata su
legami di vicinato e radici territoriali: la comunità di villaggio. Si tratta
più di uno stile di vita comunitario legato alla terra che di un rapporto
contrattuale basato su alleanze e accordi. Il villaggio comunitario è la più
antica forma di organizzazione sociale. In Europa, emerse nel nono secolo,
governato da un organo amministrativo e giudiziario attraverso il quale tutti
gli abitanti del villaggio prendevano decisioni – l'assemblea comunale – e sostenuta
dalla gestione collettiva dei beni comunali e dalla raccolta in campi aperti. Questo sistema ricevette nomi diversi
a seconda della località: consiglio (concilium)
o cabildo aperto nella penisola
iberica, finage in Francia, Gemeindeversammlung in area tedesca, contado in Italia, ecc. Era uno
strumento di democrazia diretta e di totale partecipazione: come si legge nel
documento fondatore di un concilio leonese: "Noi tutti, uomini e donne,
giovani e vecchi, alti e bassi, tutti insieme, che siamo abitanti, villici e
infanti...". L'autogoverno è esistito anche in grandi centri e città,
dando origine a comuni e municipalità statutarie. La sovranità popolare era
regolata dalla consuetudine (diritto consuetudinario) che implicava un
complesso sistema di relazioni, con infinite varianti derivanti dalle
vicissitudini locali. Il declino delle assemblee consiliari fu direttamente
correlato allo sviluppo dello Stato, alle divisioni interne e all'uso diffuso
del diritto civile basato sul diritto romano. La ricerca di una società senza
Stato s’ispirerà al sistema comunale, sua eredità sconosciuta. L'efficacia economica dei beni comuni
residuali è stata recentemente studiata dalla studiosa Elinor Ostrom, che ha
attentamente ignorato gli sforzi obbligatori e le implicazioni politiche del loro
ripristino, gestione e usufrutto. La riorganizzazione sociale del territorio in
margine al capitalismo è soprattutto politica e, in quanto tale, sarà
comunitaria e frutto di una lunga lotta, o non sarà.
La
difesa del territorio è l'attuale paradigma della lotta anticapitalista,
ereditata dalla passata lotta di classe. Avviene sia all'interno sia
all'esterno della metropoli, mostrando tre aspetti interrelati tra loro, l’urbano,
il rurale e l’ecologico, ognuno con le sue sfaccettature negatrici e creative,
i suoi momenti violenti o pacifici e i suoi rispettivi livelli, locale e
globale. Comprende quindi diverse questioni che attualmente emergono in
relazione all'edilizia abitativa, ai trasporti, all'immigrazione, alle
abitudini patriarcali, al prezzo dell'energia, alla problematica del parcheggio
nei quartieri storici, alla perdita di terreni coltivabili, alla dipendenza
alimentare, allo spopolamento rurale e alla distruzione del paesaggio. La sfida attraverso l'azione capace di
abbandonare il capitalismo è la confluenza di tutte le lotte in una sola. Ciò
sarà impossibile senza una rinascita della società civile al di fuori dello
Stato e contro la tecnologia colonialista del capitale. La resistenza richiede
radicamento nel territorio, spazi propri, connessioni e progetti. Mi riferisco
a infrastrutture alternative, tessuto sociale autonomo, esempi pratici di
autosufficienza, tentativi autogestiti... Pertanto, il lato guerriero e demolitore
della difesa corre parallelo a quello costruttivo e organizzativo. La negazione
richiede il suo opposto, e viceversa. La creatività deve essere accompagnata
dall'attacco.
Miguel
Amorós, 5 agosto 2025.
Materiali
per la discussione
Cuando el mercado domina,
el territorio muere
Del
territorio, su suburbialización y su defensa
Desde que la revolución industrial provocó la
urbanización progresiva de la sociedad, se puede decir que la historia social
es la historia del proceso urbanizador. En la recta final del proceso, la
característica más distinguible de la sociedad actual es el enorme incremento
de las áreas urbanas y periurbanas. Hoy en día, más de la mitad de la población
mundial vive en aglomeraciones urbanas. En Europa alcanza el 74%, y el 84% en
los Estados Unidos. El crecimiento es continuo, persistente y acelerado, por lo
que cabe suponer que, en pocas décadas, el 5 o 6% del territorio concentre a
casi toda la población del planeta, mientras que el resto, vaciado, quedará
orbitando alrededor de las aglomeraciones y manteniendo con ellas una relación
de total dependencia. Es lo que Henri Lefebvre definió en los pasados setenta
como “sociedad urbana”, es decir, sociedad completamente urbanizada. La ciudad
industrial, eminentemente burguesa, volcada al mercado interior, pierde sus
límites y se dispersa por el territorio para transformarse en un sistema
informe de conurbaciones enlazadas por autopistas y trenes metropolitanos,
conectado por internet a los flujos transnacionales de capital. Tal clase de
asentamiento, donde el espacio público se convierte en simple espacio circulatorio
y el espacio de la decisión se virtualiza, es ahora la unidad espacial
significativa que reclama todo el territorio para desparramarse. No se trata de
una ciudad deteriorada, sino de un hecho completamente nuevo. En Estados Unidos
lo llamaron “área metropolitana.” El "boom" residencial que lo hizo
posible fue facilitado por la motorización privada. El automóvil utilitario
desencadenó un proceso de suburbanización de las afueras que se dio de manera
explosiva en Europa a partir de los años cincuenta del siglo pasado, y en
América, más de diez años antes. En los años ochenta, con los inicios de la
informatización y del desarrollo empresarial aeroportuario, ya podemos hablar
claramente de metropolitanización. Es una realidad inédita producida por el
paso de la ciudad fabril, de morfología difusa pero clara, a la metrópolis
financiera hiperexpansiva, ya desdibujada en el espacio, o lo que es lo mismo,
de la ciudad de los productores al no-lugar de transeúntes y los consumidores.
La era de las ciudades ha terminado, afirmó
rotundamente Françoise Choay. La desmemoria típica del súbdito metropolitano
impone un eterno presente: las actuales metrópolis surgen de la tabula rasa con el pasado, no de la
historia. Con el amontonamiento de conurbaciones metropolitanas se ha
completado la transición de una economía industrial urbana, de base nacional, a
una economía de servicios metropolitana, internacionalizada. La primitiva
oposición ciudad-campo se ha resuelto en favor de las metrópolis, a las que
impropiamente Saskia Sassen llama “ciudades globales” puesto que si bien son
globales, ya no son ciudades: la ciudad se ha desvanecido y el campo ha dejado
de ser una realidad diferenciada, tanto por la industrialización de las tareas,
como por la mentalidad urbana y el estilo de vida estándar de su escaso
vecindario. Realmente no hay campo: el campo es ya un hecho urbano o
subsidiario de lo urbano. En los sesenta se acuñó el concepto de urban field. En fin, las regiones
metropolitanas, homogéneas, transparentes, indistinguibles unas de otras, no
son más que la traducción espacial del posfordismo y la globalización, o dicho
de otro modo, se corresponden con el espacio más adecuado para la reproducción
del capital en su fase mundializada. Constituyen la concreción desnacionalizada
de la sociedad capitalista global. Gracias a las infraestructuras del
transporte -gracias sobre todo a los aeropuertos y al abaratamiento de los
contenedores- y posteriormente, gracias a la digitalización, el espacio del capital
se modifica radicalmente y adapta desintegrando los niveles locales y
nacionales, vestigios de la fase capitalista anterior, hasta adquirir las
dimensiones mundiales necesarias y la imagen diferencial, el logo o la
"marca", es decir, la seudo-identidad. Otros procesos complementarios
contribuyen: motorización privada, clusterización, gentrificación,
museificación, turistización, litoralización, exclusión social, etc. Hoy más
que nunca, el espacio urbano no es de quien lo habita, sino de quien especula con
él, la clase de siempre representada por los promotores inmobiliarios, los
propietarios de suelo y los fondos de inversión, y es esta quien lo modela en
función de su interés.
Dado que la pobreza y el malvivir no se han
erradicado; bien al contrario, los salarios se han estancado, la precariedad,
el empleo basura y la desigualdad se han extendido, la conflictividad no ha
desaparecido, pero ha sido abducida de diferentes maneras. La forzosa
confrontación, cuando llega a producirse, jamás llega a generalizarse, tanto en
el espacio como en el tiempo, y ni mucho menos profundizarse. Los métodos
clásicos de la lucha de clases y los conceptos ideológicos que la justificaban,
antaño funcionales en la ciudad manufacturera, se vuelven ineficaces en un
marco espacial delineado expresamente para fomentar conductas conformistas y
sumisas, el de la metrópolis-empresa. La difícil comunicación directa debido a
las distancias, la entropía social y los complejos mecanismos de contención
tecnológico-policiales favorecen la resignación, mientras la repetición
interesada de los viejos esquemas naufraga inevitablemente en la impotencia. La
demagogia no sirve ya ni a los demagogos. Cuando la economía, gracias a las
innovaciones técnicas abraza la totalidad de la actividad humana, sus valores
tienden a universalizarse condicionando a todos los comportamientos en la
dirección del mercado. A los efectos de la deslocalización industrial, de la
desregulación y racialización del mercado laboral, del turismo y la
comunicación unilateral, del sindicalismo y asociacionismo subvencionados,
etc., se suma un sentimiento de desarraigo, soledad y desamor, una la retirada
en lo privado y el consumo cotidiano, un presentismo amnésico, un seguidismo
ciego de las modas, una sumisión voluntaria al orden establecido, y, por
último, una proliferación de conductas neuróticas y sicopatológicas, todo lo
cual vuelve a los individuos vulnerables, y en consecuencia, asustadizos y fácilmente
manipulables. De resultas de este “nuevo tipo de ciudadanía”, los antagonismos
son más difíciles de formular y más aún de asimilar, pero no impide su
manifestación allá donde fallan los controles sistémicos, reaparece la calle
como lugar de encuentro, se supera el aislamiento y fracasan los profesionales
de la representación espuria.
La concentración metropolitana desequilibra
profundamente el territorio circundante, puesto que lo despuebla, a la par que
absorbe todos sus recursos y deposita en él sus residuos, contaminándolo y
degradándolo. La porción urbana consume las tres cuartas partes de la energía
disponible y el 20% de agua, produce al año dos mil quinientos millones de
toneladas de basura y es responsable de más del 70% de las emisiones de gases
de efecto invernadero. El impacto ambiental -la “huella” urbana- es formidable
y abre un nuevo escenario de lucha al que denominamos defensa del territorio.
Para mejor entender la noción de defensa convendría explicar antes el concepto
de territorio. En principio, territorio es algo más que el espacio concreto
donde se asienta una población, por lo que no equivale por ejemplo a paisaje,
solar, medio natural o dominio rural: la parte urbanizada es solo uno de los
elementos constitutivos. No es espacio geográfico, sino espacio social, con
tradición propia, cultura e historia. Y hoy en día, espacio mercantil.
Realmente es una construcción socio-histórica resultado de la acción humana a
lo largo del tiempo más o menos simbiótica con el medio. Y precisamente, cuando
la simbiosis entre sus componentes se rompe, se originan fuertes disputas y enfrentamientos.
Recordemos los levantamientos rurales, las guerras campesinas y las
revoluciones. La superación de la contradicción campo-ciudad causada por la
industrialización fue resuelta con la conversión del territorio en territorio
de la economía, y en consecuencia, con la adaptación del primero a las
exigencias de la segunda, que hoy significa suburbanización. Así pues, el campo
se fue vaciando a la vez que parcelando, reglamentando y especializando;
rediseñado con planes y articulado mediante redes viarias que lo volvían más
accesible, explotable y urbanizable. En su nuevo aspecto, el campo reflejaba el
nuevo orden socio-político emanado de las metrópolis. En tal orden los
principales perdedores seguían siendo las clases urbanas asalariadas, relegadas
a las periferias-dormitorio, en calidad de lo que el mundo anglosajón denomina commuters. Gracias a la alta tecnología,
los recursos territoriales han ido adquiriendo una importancia cada vez mayor
en la reproducción del capital a medida en que se ha tenido plenamente
conciencia de que la producción industrial -sobre todo energética- dependía de
aquellos. En la fase extractivista del capitalismo, tales recursos conferían a
un territorio no urbano la categoría de “estratégico”, puesto que el
crecimiento económico dependía de ellos, lo que convertía toda protesta en esos
ámbitos en un problema de Estado, a resolver con métodos represivos. Por
consiguiente, la defensa del territorio, y la lucha antidesarrollista en
general, terminó ocupando el centro de la cuestión social. La paradoja es que
los efectivos mayores de la defensa de la tierra son más urbanos que rurales.
De alguna forma, bajo ciertos aspectos, la defensa del territorio no urbano es
una lucha urbana.
El antidesarrollismo es evidentemente
desurbanizador y descentralizador. Pretende reequilibrar y rehabilitar el
territorio para volver de nuevo a integrar sus partes sobre bases de
reciprocidad. Los primeros autores que plantearon el tema de la desconcentración
de la ciudad industrial y la fusión con la naturaleza y el campo, muy
anteriores a la explosión urbana, fueron los anarquistas Reclus y Kropotkin.
Ambos apelaron a un “sentimiento de la naturaleza” que guiase la construcción
de una nueva sociedad sin clases. La vuelta a la naturaleza consistiría en una
dispersión urbana de baja intensidad de todas las actividades acaparadas por la
urbe, de forma que se diera una interpenetración ventajosa para todas las
partes. Al conformarse, alrededor de las ciudades recuperadas en régimen
comunista libertario, una red de pequeñas industrias, molinos, saltos de agua,
caminos y explotaciones agrícolas colectivizadas, el resultado sería una región
integrada urbano-rural ajena a la economía capitalista, puesto que carecería de
centro dirigente y estaría regida por principios de igualdad, solidaridad y
justicia. La idea fue recogida y desarrollada, parcial o totalmente, por
distintos autores críticos con las nuevas realidades suburbanas: Geddes,
Mumford, Bookchin, Hall, Oyón, Harvey... Desde la época de Reclus y el príncipe
de las trincheras, las cosas se han complicado. El problema principal para una
transformación social de ese tipo consiste en que las áreas metropolitanas
están concebidas exclusivamente para la reproducción de capitales, con los
lugares de producción, trabajo, vivienda, abastecimiento y ocio alejados unos
de otros, sus vías arteriales repletas, sus turistas, su atmósfera contaminada,
sus plataformas digitales, etc., algo que las hace inaprovechables para
menesteres socializadores. En esas condiciones, la autogestión no sería
entonces más que la autogestión popular del capital. Para llevar a cabo un
proyecto territorial emancipador de envergadura, no capitalista, y así pues,
para crear un marco espacial apropiado, habrá primero que desmantelar dichas
áreas. La inviabilidad futura y el presente potencial explosivo de las
metrópolis ayudará en la tarea, pero tenderá a provocar una dispersión caótica
que habrá que superar. Evidentemente, la transformación revolucionaria de la
sociedad dependerá de la formación de un sujeto político colectivo capaz de
organizarse y enfrentarse con el orden vigente y hacer frente al Estado. No es
cuestión de encontrar una fórmula y que la practiquen tranquilamente un puñado
de esforzados voluntarios con el fin de que el ejemplo cunda, a lo peor, bajo
el paraguas de una actividad política convencional. Se trata de que un sector
importante de la población se movilice y auto-organice, y de que sus luchas
confluyan hasta abrirse camino entre las barreras capitalistas. Las estrategias
de cambio deberán partir de ahí.
El pasado movimiento obrero nos proporcionó
ejemplos prácticos de auto-organización para la lucha social: gremios,
cooperativas, sindicatos únicos, consejos obreros, comités de barriada... Eran formas asociativas mayoritariamente
urbanas, de duración episódica, artificiales, basadas en la adhesión voluntaria
y la permanencia del interés de clase. La aldea, en cambio, nos ofrece una
forma auto-organizativa para la convivencia, intemporal, orgánica, fundada en
los lazos vecinales y las raíces territoriales: la comunidad aldeana. Es más un
estilo de vida en común ligado a la tierra, que una relación contractual basada
en la alianza y el acuerdo. La aldea comunitaria es la forma más antigua de
organización social. En Europa surgió en el siglo IX, gobernada por un órgano
administrativo y judicial a través del cual todos los aldeanos tomaban
decisiones -la asamblea comunal- y sustentada por la gestión colectiva de
bienes comunales y la recolección en campos abiertos. Tal régimen recibió
distintos nombres según el lugar: concejo -concilium-
o cabildo abierto en la Península Ibérica, finage
en Francia, Gemeindeversammlung en el
área alemana, contado en Italia, etc.
Era un instrumento de democracia directa y de participación total: tal como
reza el documento constitutivo de un concejo leonés: “Nosotros todos, varones y
mujeres, jóvenes y viejos, máximo y mínimos, todos conjuntamente, que somos
habitantes, villanos e infanzones...” La auto-gobernanza también se dio en
pueblos grandes y ciudades, dando lugar a comunas y municipios forales. La
soberanía popular se regulaba por la costumbre -por el derecho consuetudinario-
lo cual implicaba un complejo sistema de relaciones, con infinitas variantes
derivadas de las vicisitudes locales. La decadencia de las asambleas concejiles
estuvo emparentada directamente con el desarrollo del Estado, las divisiones
internas y la generalización del derecho civil basado en el romano. La búsqueda
de una sociedad sin Estado tendrá mucho que inspirarse en el régimen comunal,
su patrimonio desconocido. La eficacia económica de los bienes comunes
residuales fue estudiada recientemente por la académica Elinor Ostrom, que tuvo
buen cuidado en ignorar los esfuerzos preceptivos y las implicaciones políticas
de la reimplantación, gestión y usufructo de los mismos. La reorganización
social del territorio al margen del capitalismo es sobre todo política y como
tal, será comunitaria y fruto de una larga lucha o no será.
La defensa del territorio es el paradigma actual
del combate anticapitalista heredero de la pasada lucha de clases. Ocurre tanto
dentro de la metrópolis como fuera, mostrando tres aspectos relacionados entre
sí, el urbano, el rural y el ecológico, cada uno con sus facetas negadora y
creadora, sus momentos violentos o pacíficos, y sus respectivos niveles, local
y global. Abarca pues cuestiones diversas que ahora mismo se presentan en torno
a la vivienda, al transporte, la inmigración, los hábitos patriarcales, al
precio de la energía, la parquetematización de los barrios históricos, la
pérdida de superficie cultivable, la dependencia alimentaria, la despoblación
de los campos o la destrucción del paisaje. El reto para la acción en pos de la
salida del capitalismo es la confluencia de todas las luchas en una. Eso será
imposible sin una resurgencia de la sociedad civil al margen del Estado y en
contra la tecnología colonialista del capital. La resistencia necesita raíces
en el territorio, espacios propios, conexiones, obras. Me refiero a
infraestructuras alternativas, tejido social autónomo, ejemplos prácticos de
autosuficiencia, tanteos autogestionarios... Así pues, el lado guerrero y
desmantelador de la defensa corre paralelo al lado constructivo y organizador.
La negación requiere su contrario, y viceversa. El hecho creativo ha de
acompañarse con el ataque.
Miguel Amorós, 5 de agosto
de 2025.
Materiales para discusión