giovedì 21 luglio 2011

PAINT IT BLACK

Blocchi Neri, Tute Bianche e Zapatisti nel movimento antiglobalizazione

Claudio Albertani

…s’è accesa, a poco a poco, una nuova epoca d’incendi, di cui nessuno di coloro i quali vivono ora vedrà la fine: l’obbedienza è morta

Guy Debord

Più di mezzo secolo fa, George Orwell scrisse che una società perviene ad essere totalitaria quando le sue strutture diventano palesemente artificiali, cioè quando la classe dominante riesce a sostenersi unicamente grazie alla forza e all’inganno. Una tale società non può permettersi di essere tollerante, né può autorizzare un resoconto veridico di ciò che accade.

Oggi il Grande Fratello è al governo ovunque e combattere le sue menzogne risulta più difficile che ai tempi di Orwell. Lo si è visto in occasione delle manifestazioni contro il vertice dei potenti, tenuto a Genova a fine luglio 2001.

Ci è parso utile, per ristabilire la verità, provare a ricomporre frammenti di quel resoconto, come strumenti da mettere a disposizione di chiunque intenda liberamente avvalersene.

In quei giorni erano all’opera un numero impressionante - forse centomila - fra microfoni, macchine fotografiche, cineprese e videocamere, la qual cosa, se da un lato ha attizzato la curiosità malevola dei pubblici ministeri, dall’altro ha reso più facili la memoria e il ripensamento critico.

Inoltre, grazie alla creazione di Radio Gap e al suo sito Internet ( www.radiogap.net/it ), l’informazione è circolata in tempo reale ed ha potuto essere seguita in più lingue da qualsiasi parte del mondo.

Ci siamo dunque avvalsi di questo materiale e delle testimonianze che coloro i quali sono stati a Genova hanno, in prima persona registrato.

In un’epoca che pare avere perduto ogni certezza, è molto difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di questo movimento, ma di sicuro, per molto tempo non potremo percorrere la via accidentata della liberazione umana, senza ricordarci di Genova.

1. Genova: un esercizio di democrazia totalitaria

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo "stato d'eccezione" in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d'eccezione...

W. Benjamin

Questo è il sale della democrazia. Tutti i cittadini hanno uguali diritti, uguali doveri, uguali manganellate

lista movimento@ecn.org del 31.7.01

In preparazione del vertice, la città venne smontata e ricomposta in base a criteri che aggiornavano l’urbanistica controinsurrezionale del barone Haussmann, l’architetto che, dopo la rivoluzione del 1848 aveva demolito interi quartieri di Parigi per prevenire la costruzione di barricate e consentire i movimenti dell’artiglieria.

In bilico fra l’ostentazione del proprio potere e la consapevolezza di una crescente impopolarità, i signori governanti avevano stabilito di asserragliarsi nella «zona rossa». L’accesso rimase consentito solo a residenti – invitati in ogni modo a prendersi una piccola vacanza e diffidati comunque a non stendere antiestetiche mutande (?!) nelle vie proibite - portaborse, funzionari, giornalisti accreditati di un «passaporto interno».

Intorno, a dividere in due la città, ventimila tra poliziotti, finanzieri e carabinieri, tremila militari, paracadutisti, guardie carcerarie, marines, avieri, incursori, sommozzatori, e specialisti della guerra batteriologica, nucleare e chimica.

Nel contempo la temperatura politica veniva alzata artificialmente grazie a un maldestro remake della strategia della tensione: lettere-bomba, piccoli attentati, falsi allarme. Una mossa prevedibile. In Italia, ogniqualvolta appare un movimento di protesta, i corpi separati dello stato rimestano nel torbido.

Il 19 luglio, Genova aveva ormai assunto l’aspetto kafkiano di una città blindata e semi abbandonata: chiuse le stazioni ferroviarie, chiusi il porto e l’aeroporto, chiusa la strada sopraelevata lungo il mare come pure il principale accesso autostradale, chiusi gli accessi alle spiagge, chiusi i posti di lavoro, sospesi i matrimoni, le operazioni chirurgiche, i funerali, capillare ed ossessivo il controllo sul territorio e lo sfoggio di potenza militare. Nemmeno ai tempi dell’occupazione nazista o durante la grande sollevazione del luglio 1960, si era giunti a tanto.

Quel giorno, nel corso di una pacifica manifestazione per la tutela dei migranti (quelli residenti a Genova poco presenti in piazza, per via delle minacce recapitate dalla polizia, casa per casa, nelle settimane precedenti), ciò che si poté constatare fu l’incompatibilità della libera circolazione di tutti, e non solo dei clandestini, con la sicurezza dei governanti. Nell’ansia di difendersi dalle migliaia di assedianti giunti dai cinque continenti, e per verificare l’efficacia di nuovi dispositivi di dominio, essi avevano sospeso per decreto la rassicurante cappa della normalità sociale.

La città era a tal punto intasata da reti metalliche barriere, percorsi obbligati e labirinti ossessionanti, che il suo attraversamento a piedi da Ovest a Est – d’abitudine una bella passeggiata per il centro storico più grande d’Europa - avrebbe richiesto un percorso di varie ore attraverso i monti !

Il 20 luglio, quando tra calici di vino e linguine al pesto (rigorosamente senz’aglio, per compiacere le idiosincrasie alimentari del satrapo Berlusconi) l’élite globale - il senato virtuale del mondo, secondo la definizione di Noam Chomsky - si fu riunita infine a Palazzo Ducale per ragionare amabilmente del destino dell’umanità, poco lontano, al di là delle barriere protettive, una parte di quell’umanità decise di riprendere in mano il proprio destino.

La reazione non si fece attendere. Il cielo fu solcato da assordanti elicotteri da combattimento da cui - come nel film Apocalypse Now – si affacciavano, minacciose, le sagome dei gorilla di stato armati fino ai denti. Più sotto, squadracce di poliziotti e carabinieri sfogavano i loro istinti sadici contro manifestanti inermi e seminudi, arretrando di fronte ai Black Blocs i quali, altrove, colpivano con efficacia carceri, banche, commissariati e supermercati.

La sera del 21 gli sbirri, ansiosi di scrollare dai manganelli la polvere di troppi anni di quiete sociale, devastavano due scuole dove si trovavano centinaia di manifestanti. In una di esse, aveva sede il centro multimediale del movimento.

Gli arrestati, per la maggior parte sorpresi nel sonno, vennero massacrati al canto di Faccetta nera, la vecchia canzone fascista. Le violenze continuarono negli ospedali, nelle caserme, nelle carceri, scandite da slogan inequivocabili «Un, due, tre, evviva Pinochet, / quattro, cinque, sei, diamo fuoco agli ebrei, / sette, otto, nove, il negretto non commuove».

Più ancora di questo misero folklore, se vi è un elemento nella condotta del governo italiano che davvero richiama il fascismo, è l’inquietante modo di dare la caccia ai manifestanti, non già perché facessero qualcosa di proibito o si astenessero da qualcosa di obbligatorio (non ci furono né intimazioni di sgombero, né ordini di scioglimento; la polizia, semplicemente, assalì il corteo), ma, come dei nuovi ebrei, per la semplice colpa di esistere.

Il bilancio fu di proporzioni belliche: più di 300 arresti, 600 feriti, decine di teste fracassate, braccia e gambe spezzate, un numero imprecisato di torturati in caserma, forse qualche desaparecido, e l’odore acre del sangue di un morto sull’asfalto ardente.

Fu un esperimento di controguerriglia freddamente pianificato nelle alte sfere dell’élite mondiale o, semplicemente, una bravata del centrodestra nazionale ansioso di consumare sui «rossi» la vendetta per la cacciata di quarantun anni prima?

La tempestiva proposta tedesca di creare una forza europea antisommossa, l’insistenza che si leva da ogni parte per la creazione di un'anagrafe internazionale dei sovversivi, farebbero propendere per la prima ipotesi, però la questione rimane aperta.

A Genova si trovava riassunto il peggio di due anni di repressioni globali: le torture e i canti nazisti a Praga e a Napoli, la rete metallica a Quebec, il blocco delle vie di fuga ancora a Napoli, l’assalto alle scuole concesse al movimento e i colpi di pistola ad altezza d’uomo a Goteborg.

Mentre Berlusconi non arrossiva proclamando: «Il G8 ha lavorato bene e, per la prima volta, si è aperto alla società civile», da parte sua, il fiammeggiante vice primo ministro, Gianfranco Fini, avvertiva: «il nostro è uno stato democratico dove nessuno ha il diritto di pensare che vi siano soppressioni di libertà».

Il messaggio è chiaro: il nostro è il migliore dei mondi possibili, nessuno si azzardi a sollevare obiezioni. E, giustamente, il ruolo di polizia del pensiero, i neofascisti al governo – eredi proprio di chi il vocabolo «totalitarismo» lo inventò – lo reclamano per sé.

2. Elogio del provocatore

Carlo Giuliani non era "vestito di nero". Non era un anarchico insurrezionalista. Non era uno squatter. Non era un punkabbestia. Era solo un ragazzo arrabbiato contro questo mondo, che si è difeso uccidendolo. Non era uno dei pochi, era uno dei tanti

Genova: pochi o molti? Comunicato firmato Alcuni anarchici 24.7.01

Mentre le polizie ed i governi del mondo - in special modo quello italiano – riesumavano il logoro fantasma dell’anarchico bombarolo, stampa e televisione scoprirono un nuovo filone su cui campare: il misterioso Black Bloc, ultimo antieroe della guerra sociale.

Poiché la verità non si annovera tra le aspirazioni dei giornalisti, un elenco delle loro menzogne risulterebbe lungo e tedioso. Con modeste varianti, il ritornello è questo: da Seattle in poi, gruppi di manifestanti buoni protestano in maniera civile contro la globalizzazione neoliberale. Organizzano seminari, gruppi di studio, incontri. Hanno delle proposte. Vorrebbero essere ascoltati. E magari lo sarebbero anche se alcuni parassiti non ne approfittassero per compiere atti di vandalismo sconsiderato.

Il loro nome è Black Bloc, vestono di nero e, come ninja, appaiono e scompaiono con grande rapidità. Silenziosi e misteriosi, vengono da lontano: Stati Uniti, Germania, Inghilterra, Paesi Baschi (e qui si evocava il fantasma di ETA…), Grecia, Europa Orientale.

C’erano tutti gli elementi per costruire il mostro: il cattivo anarchico non è, di preferenza, un prodotto nostrano. Un’idea questa, del male in genere e dell’anarchico in particolare, di chiaro stampo statunitense: il nazionalismo nordamericano contemporaneo si forma, fra l’altro, intorno alla campagna contro i sovversivi stranieri.

«Zanzare agili e veloci, prive di consenso, che rappresentano una disgrazia per tutti» – li definirà la Tuta Bianca Marco Beltrami, portavoce del «Laboratorio del Nord-Ovest», dimenticando che, prima di Genova, in un’intervista con un esponente dei BB americani, la rivista Carta, vicina al suo gruppo, aveva addirittura manifestato un interesse a diventarne l’interlocutore privilegiato in Italia.

Inoltre, in giugno, a Goteborg, Tute Bianche e BB si erano trovati in piazza insieme, senza particolare conflitti. Fu, solo dopo il 20 luglio, che le Tute individuarono nei BB il capro espiatorio ideale.

«Perché non li hanno fermati alla frontiera?», tuonarono tutti i quotidiani, compresi Liberazione e Manifesto, che fino al giorno prima avevano strepitato a favore della libera circolazione dei manifestanti.

Nelle ore successive alla morte di Carlo Giuliani circolarono tutte le ipotesi, comprese le più stravaganti. Hooligans? Infiltrati? Tifosi diffidati cui era stata garantita l’impunità? Agenti al servizio di interessi oscuri? Di sicuro, comunque, provocatori.

Ogniqualvolta ci si imbatte nella parola «provocatore», emerge inevitabilmente una mescolanza di rabbia e di simpatia. Rabbia perché chi non abbia interamente abdicato alla memoria non può proprio sopportare la riscoperta del linguaggio sinistro – «provocatore anarchico» - che reca l’impronta sanguinosa di Stalin. Simpatia perché, a ben guardare, le esperienze rivoluzionarie più significative del Novecento non avrebbero avuto luogo se non ci fossero stati dei «provocatori» a provocarle.

Provocatori furono di volta in volta gli insorti di Kronstadt; gli anarchici e i comunisti libertari nella Spagna del 1937; gli operai in rivolta nei paesi chiamati socialisti, a Berlino, Budapest, Danzica; i ribelli di maggio in Francia e quelli del 1977 in Italia.

Forse non tutti ricordano che, nel gennaio 1994, la medesima etichetta fu affibbiata anche agli zapatisti messicani per essersi azzardati a tagliare, con la loro pretesa di vivere nella libertà e nella dignità, la fallimentare strada verso il potere della sinistra elettorale.

3. Black Blocs. Demolitori di vetrine. Demolitori di menzogne.

Signori il tempo della vita è breve, e se viviamo, viviamo per calpestare i re

William Shakespeare -Slogan del Network per i diritti globali. Genova - luglio 2001

Chi intende sondare il mistero che circonda i BB, scopre in breve che tale mistero esiste solo nella menzogna dei confusionisti interessati: al riguardo, decine di testimonianze, analisi ed articoli, sono da tempo disponibili su Internet, riviste, libri.

La rivista belga Alternative Libertaire illustrava, ad esempio, già nell’ottobre 2000, come sul tema circolassero equivoci e falsificazioni in quantità. Recentemente, il Circolo Freccia Nera di Bergamo (CP 15, 24040 Bonate Sotto, BG) ha pubblicato un’interessante antologia di materiali in gran parte pescati sui siti infoshop.org, ainfos.ca, indymedia, ecn.org, radiogap e tactitalmedia.

Innanzi tutto è sbagliato dire Black Bloc, si dovrebbe dire Black Blocs, al plurale, perché non è mai esistito un singolo gruppo con questa etichetta, bensì una vasta costellazione di persone, organizzazioni e collettivi genericamente appartenenti all’area libertaria e che rivendicano una pratica radicale.

Quindi non si è del Black Bloc, ma si fa un Black Bloc. E infatti sono proprio le azioni, che si distinguono sempre per l’alto grado di combattività, fluidità e solidarietà, a rendere i BB visibili e singolari. L’uso di maschere e passamontagna vale a mantenerli anonimi, proteggendoli dalla repressione. «Non è romanticismo», spiega un loro documento, «il Grande Fratello ci osserva!». Dopo Genova, l’indagine giudiziaria sui tatuaggi visibili nei filmati, per incriminare qualcuno fra gli arrestati, indica che la precauzione non è affatto superflua.

La loro prima apparizione pubblica risale a una decina di anni fa, negli Stati Uniti, quando centinaia di individui mascherati si scontrarono con la polizia in occasione delle manifestazioni contro la guerra del Golfo. Presenti alla marcia "Millions for Mumia" dell'aprile 1999 a Filadelfia, conquistarono l’attenzione internazionale a Seattle (30 novembre/2 dicembre 1999), dove, fra l’altro, misero a segno delle azioni spettacolari contro compagnie multinazionali già da tempo oggetto di boicottaggio, come McDonald's e Nike, banche, supermercati e negozi di lusso. Già allora, alcuni dirigenti di Ong (in quel caso Global Exchange e Public Citizen) organizzarono una catena umana per proteggere tali negozi, arrivando al punto di invocare l’intervento della polizia contro gli «anarchici distruttori», esattamente come poi successe a Genova,

Altri denunciarono le solite infiltrazioni. I BB furono tuttavia difesi da alcuni conosciuti ricercatori universitari del gruppo WIN: «non emarginiamo questo movimento», diceva un loro documento diffuso si internet il 2 dicembre 1999.

Poi, il 16 e 17 aprile 2000, migliaia di persone manifestarono a Washington, contro una riunione della Banca Mondiale e del FMI. Qui un BB di circa 1000 persone adottò una nuova tattica: invece di attaccare la proprietà concentrò i propri sforzi sulla polizia forzando sbarramenti, facendola arretrare, e riuscendo a liberare alcune persone arrestate (un obiettivo meritevole della massima cura, forse trascurato troppo nelle giornate di Genova).

Seguirono altre apparizioni nel corso delle Convenzioni del Partito Repubblicano a Filadelfia (1/2 agosto 2000), e di quello Democratico a Los Angeles (14/17 agosto). In quest’occasione i BB furono anche protagonisti di interessanti manifestazioni tra cui un esperimento di teatro di strada chiamato gioiosamente clown bloc. Un’altra volta, per irridere quei giornalisti che li avevano definiti trash (spazzatura), assunto il controllo di un’area urbana mediante l’erezione di barricate, organizzarono precisamente la raccolta della spazzatura…

Secondo numerose testimonianze, i BB cercarono, in tutte queste circostanze, di rispettare quanto più possibile la volontà dei manifestanti pacifici, e di agire anzi come scudo protettivo tra il grosso della manifestazione e la polizia.

In Europa la pratica dei BB trovava un antecedente, e probabilmente le sue radici originarie, nei gruppi autonomi tedeschi degli anni settanta e ottanta: dopo Seattle, allorché il movimento traversò l’Atlantico, si produsse un inevitabile effetto di reciproca contaminazione. Da quel momento, in tutto il mondo (a Praga, a Melbourne, a Londra, a Nizza, a Quebec, a Davos e a Goteborg), le proteste furono fortemente influenzate dalle tattiche dei BB americani.

In particolare a Quebec City, non solo i BB, demonizzati appena due anni prima a Seattle, ricevettero l’applauso della popolazione locale mentre attraversavano l’Esplanade des Ameriques Françaises, ma tutti i manifestanti presero spunto dalle loro tecniche, nell’assalto al muro della vergogna - un piccolo assaggio di ciò che si sarebbe visto a Genova – che fu poi distrutto in più punti e assediato per l’intera giornata.

A Goteborg, durante le manifestazioni di giugno, un BB di alcune centinaia di persone sfilò dietro un grande striscione che diceva Smash Capitalism. Particolare importante: anche in quest’occasione, il BB, si impegnò a rispettare le manifestazioni pacifiche.

Ciò fu reso possibile da precisi accordi fra le varie componenti del movimento, accordi che però non sempre sono realizzabili, conducendo fin da Praga (settembre 2000) alla creazione di tre distinti spezzoni, rosa (limitato alla nonviolenza rigorosa), giallo (limitato alla disubbidienza, escludendo atti offensivi), blu (senza autolimitazioni).

Giudicando la soluzione di Praga insoddisfacente, il Genoa Social Forum (GSF) – l’alleanza che si fece carico dell’organizzazione delle manifestazioni - scelse di introdurre le cosiddette piazze tematiche (Manin, Verdi, Dante, Paolo da Novi), ciascuna delle quali gestita con criteri indipendenti da diversi spezzoni del movimento. L’intento comune doveva essere quello di assediare, ed eventualmente violare, la zona rossa seguendo tattiche rigorosamente nonviolente.

Tuttavia, in un documento copiato di sana pianta dagli scritti zapatisti (senza nemmeno citarli), dei membri del GSF, le Tute Bianche, diffusero, il 20 luglio, un’incredibile dichiarazione di guerra che aveva fra gli altri destinatari il governo italiano e l’ambasciata americana seminando la confusione e introducendo una nota di ipocrisia nelle ripetute affermazioni di adesione al pacifismo.

Poiché la meta era raggiungere il traguardo mediatico di mille associazioni partecipanti, il GSF, oltre a contabilizzare ogni singola sezione di partito e di movimento, incluse anche le organizzazioni raggruppate nel Network per i Diritti Globali - ovvero i sindacati di base, Cobas, e molti Centri Sociali – le quali, se erano disposte ad agire pacificamente, non si opponevano però ad altre linee di condotta.

A ciò bisogna aggiungere che, mentre il GSF poteva trattare con il governo per garantire l’agibilità delle piazze, i BB, nemici coerenti della delega e della gerarchia, non disponevano di incaricati da spedire ai tavoli di spartizione della visibilità mediatica.

Come notava, con impressionante candore, una Tuta Bianca bolognese (lista ecn.org): «peccato che il Black Bloc, per sua stessa scelta ideologica, non abbia capi, né leader carismatici, né portavoce, e agisca esclusivamente per piccoli gruppi di affinità autorganizzati. Lorsignori sono anarchici duri e puri e provano schifo davanti a qualsivoglia figura anche solo lontanamente gerarchica».

Il risultato di tutto ciò fu che nonviolenti e BB agirono senza coordinarsi, esponendosi, tutti indistintamente, alla furia della polizia. E ancor di più che i BB, i quali facevano parte del movimento fin dal principio (in verità c’erano prima di molti membri del GSF), vennero consegnati al riflettore malevolo delle televisioni, dei poliziotti e dei calunniatori come provocatori e violenti sbucati dal nulla.

Eppure nei loro documenti – da anni disponibili in rete - non vi è traccia di una retorica della violenza; vi si trovano, al contrario, riflessioni serene e niente affatto banali sulle varie tattiche di protesta urbana e riferimenti teorici condivisi da altri, quali le Temporary Autonomous Zone (TAZ) di Hakim Bey, la critica radicale del lavoro di Bob Black, l’ecologismo municipalista di Murray Bookchin o l’anticapitalismo primitivista di John Zerzan. I BB si limitano inoltre a realizzare azioni simboliche contro le cose e non contro le persone.

No, questa non è violenza da stadio e neppure disagio esistenziale, come vorrebbe Rossanda Rossanda (Il Manifesto, 6 agosto). È una modalità di protesta criticabile finché si vuole, e qualche volta anche controproducente, ma non irrazionale né illegittima. Inoltre, nonostante le calunnie di cui continuano ad essere oggetto, al movimento contro la globalizzazione i BB hanno apportato energia, coraggio, intelligenza tattica, e una pratica antiautoritaria.

A Genova, mentre i ricercatori indefessi della visibilità televisiva lanciavano le loro farneticanti dichiarazioni di guerra e annunciavano di marciare sulla zona rossa senza esserne capaci, essi se ne allontanavano in silenzio per agire fuori portata delle forze repressive. In realtà, ciò che non si perdona loro è di avere demolito, insieme con le vetrine, anche le menzogne dei politicanti.

Travolti dagli avvenimenti, nelle ore successive alla morte di Carlo Giuliani, alcuni leader del GSF fecero circolare la voce (subito ripresa dai media) che i BB erano degli «anarchici».

E tuttavia, solo con enorme mala fede si possono identificare i Black Blocs con gli anarchici (o, a maggior ragione, con punk ed animalisti come si è tentato di fare). Un BB può essere anarchico, ma non necessariamente un anarchico condividerà le azioni dei BB. Anzi, una buona parte del movimento anarchico, non solo in Italia, ma nel mondo intero, è su posizioni rigorosamente pacifiste. Tanto è vero che, presi da uno zelo senza dubbio eccessivo, subito dopo i fatti di Genova, alcuni anarchici emisero un duro comunicato contro i BB.

Francesco Berardi, l’inaffondabile Bifo della Bologna ribelle del 1977, li definì «centinaia di psicopatici vestiti di nero che il Ministro degli Interni ha infiltrato, aizzato e utilizzato contro il movimento» e Alfio Nicotra, rappresentante del Partito della Rifondazione Comunista nel GSF, ammise di aver denunciato alla polizia, fin dal 17 luglio (prima di qualsiasi violenza, dunque) la presenza di autobus carichi di sospetti (Corriere della Sera, 29 luglio). Luca Casarini (Tute Bianche) e Vittorio Agnoletto (GSF) non furono da meno: «abbiamo le prove».

«Siete contenti di aver provocato la brutalità poliziesca? Siete contenti di avere infine un martire?» ruggì Susan George, vicepresidentessa di Attac (Association pour une Taxation des Transactions financières pou l’Aide aux Citoyens). Bernard Cassen, presidente della stessa organizzazione e inoltre direttore generale di Le Monde Diplomatique, rincarò la dose: «la complicità della polizia italiana con il Black Bloc è evidente». Il tutto in un paginone dal titolo suggestivo: Los tentáculos del terrorismo internacional dove insinuava anche l’esistenza di un Internazionale nera dei servizi segreti della quale i BB sarebbero il pezzo forte (El País, 29 luglio 01).

In perfetta consonanza, Karl Schwab, fondatore ed organizzatore del famoso World Economic Forum di Davos, dopo aver intessuto l’elogio dei manifestanti pacifici «i quali possono influenzare positivamente il mondo degli affari e i governi» aggiungeva che «purtroppo tutto ciò viene sistematicamente sabotato dalle azioni di una piccola minoranza il cui unico obiettivo è la violenza» (Liberation, 30 luglio).

Ora, è evidente che la polizia fa il suo lavoro, cercando di ottenere il massimo di informazione sui meccanismi interni dei movimenti di protesta, e di seminare nel contempo il massimo di disinformazione. Da sempre, l’infiltrazione è uno dei metodi più usati per controllare o manipolare; però, chi può dirsene immune?

A Genova è stata denunciata la presenza di infiltrati non solo tra i BB, ma anche tra le Tute Bianche (Il Secolo XIX, 1 settembre). Nulla prova che i primi siano più esposti di altri a questo pericolo: semmai, il loro strumento organizzativo, il gruppo d’affinità – fondato su una conoscenza approfondita fra tutti i partecipanti – appare il meglio indicato a contrastare infiltrazioni e strumentalizzazioni.

La colossale operazione di polizia montata prima degli scontri fa pensare ad un esperimento di low intensity war in versione metropolitana. È chiaro che il governo cercava la violenza con o senza BB. L’operazione attirò, probabilmente, anche la curiosità di un gran numero di agenti segreti, stranieri e nostrani, con l’idea, magari, di influenzare gli avvenimenti in base ai rispettivi interessi nazionali. Ma queste sono solo speculazioni.

Ciò che di sicuro accadde, è che, fin dal tardo pomeriggio di venerdì, la presenza degli infiltrati fu denunciata dalla loro stessa goffaggine, riferita dai giornalisti, filmata dagli operatori, smentita senza convinzione dai questurini.

Nei giorni successivi, gli stessi BB misero in chiaro che polizia e carabinieri, vestiti di nero e con passamontagna, avevano costituito squadre di casseur. Gli infiltrati c’erano dunque, ed erano lì soprattutto per diffondere la sensazione paralizzante che la polizia è ovunque, che non esiste via d'uscita; e per indurre ciascuno a diffidare del proprio compagno appena conosciuto, e a confidare, invece, nei partiti, nelle bandiere, nei leader che tutti credono di conoscere davvero, giacché appaiono continuamente alla televisione.

La presenza di questi intrusi, per quanto provata, non spiega tuttavia la portata degli scontri di Genova. Secondo numerose testimonianze, delle circa 300.000 persone presenti, almeno 30.000 parteciparono ad atti violenti, e molte di più cercarono di agevolarli in tutti i modi, individualmente oppure organizzati come Pink Blocs (ad esempio, gli americani di Tactical Frivolity), presenti nel movimento fin da Seattle, i quali non impiegano in prima persona la violenza, ma si impegnano a favorirla tatticamente.

Di tutti costoro, solo una minoranza, senz’altro inferiore al 10 per cento, poteva definirsi BB: gli altri erano individui che, in quella situazione, condivisero e magari anticiparono il loro cammino. Non pochi erano Tute Bianche, o aderenti ad organizzazioni nonviolente, sfuggiti al controllo dei loro dirigenti. Altri ancora erano genovesi indignati che presero parte attiva negli scontri oppure manifestarono la loro simpatia offrendo acqua e riparo ai manifestanti.

E a ben guardare tutto ciò non è poi così strano: invece del consueto effetto paralizzante, l’arroganza dei governanti, ebbe per una volta l’effetto di causare un’esplosione di collera generalizzata che sfociò nella rivolta sociale più violenta degli ultimi 40 anni.

Di fronte a ciò, alcuni ritennero di difendere i «veri» BB che non sarebbero andati a Genova, dai provocatori che agirono al loro posto. Altri ancora ammisero che i «veri» BB c’erano ma li accusarono di non avere riflettuto sulle conseguenze dei propri atti, di essersi sottratti al confronto con gli altri appartenenti al movimento, di essersi rivelati, in sostanza, degli irresponsabili (si veda Liberazione, 8 e 10 agosto, e il sito internet di Rifondazione Comunista, Reds).

Roberto Bui, ideatore di Luther Blissett, aspirante nuovo leader delle Tute Bianche, scrisse in rete che, «nel momento in cui le pratiche del BB sono state usate contro di noi, dobbiamo dire con forza che queste persone sono politicamente morte. E se avessero un minimo di intelligenza dovrebbero essere i primi a fare l’esame di coscienza e suicidare un’esperienza che si è, di fatto, conclusa a Genova» (23 luglio, movimento@ecn.org).

Qui, come osservò Oreste Scalzone, bisognerebbe chiedere agli pseudostrateghi della disobbedienza civile se è forse più responsabile dichiarare guerra all’ «impero», gridare ai quattro venti «sfonderemo la zona rossa», usare un linguaggio aggressivo per poi dire, a quelli che a sfondare ci vanno con le pietre, oppure fanno riots, che sono dei rozzi o degli infiltrati. Ed infine gestire tutti insieme la morte di Carlo Giuliani. Da vivo, col suo estintore in mano, Carlo chi era ? A chi disobbediva?

4. La lunga marcia delle Tute Bianche

sapevano cosa volevamo fare e avrebbero potuto permetterci di violare la zona rossa. La verità però è che sono stati i carabinieri a far saltare tutto"

Luca Casarini, Il Nuovo, 27.8.01

«Non conta aver dato la propria parola. E’ a chi l'hai data, che conta»

Dutch – Ernest Borgnine, nel film «Il mucchio selvaggio», 1969, di Sam Peckinpah

Le Tute Bianche amano presentarsi come un movimento di tipo nuovo, creativo, nonviolento. Sebbene provengano da esperienze operaiste ed ultra leniniste piuttosto truculente la cui espressione teorica è l’opera di Toni Negri, ripudiano adesso l’idea della conquista del potere, rifiutano i modelli monolitici e ostentano l’influenza degli zapatisti messicani e, più precisamente, l’influenza del subcomandante Marcos.

L’immagine è falsa. Infatti, aldilà delle apparenze, le Tute rassomigliano più ad un partito tradizionale con tanto di leader – ora chiamati portavoce –, una separazione netta tra dirigenti ed esecutori, un’ideologia che si allontana sempre più dalla pratica, un raffinato lavoro di lobbying istituzionale, e perfino candidati a cariche elettive nelle amministrazioni comunali e regionali.

Le Tute Bianche sono violente o nonviolente? Diciamo che difendono violentemente le ragioni della nonviolenza. Mentre, ad esempio, i Black Bloc, attaccano la proprietà, le Tute amano spaccare la testa di coloro che contravvengono le loro regole.

I paradossi non finiscono qui: nonostante l’antipatia sovente manifestata in Italia nei confronti dei libertari e delle loro idee, essi coltivano all’estero la fama di essere anarchici. In Messico, dove hanno fatto molto chiasso, sono considerati degli irresponsabili. Ed in Italia sono riusciti a gettare il discreto sul tentativo, nobile all’inizio, di creare un movimento neozapatista nel nostro paese.

In realtà, la pratica delle Tute Bianche nasce all’interno dell’Associazione Ya Basta, creata nel 1996 dall’alleanza di centri sociali definita nella cosiddetta Carta di Milano: il Pedro di Padova ed il Rivolta di Mestre, il Leoncavallo di Milano, il Corto Circuito e il Forte Prenestino di Roma, lo Zapata e il Terra di Nessuno della Liguria e altri ancora.

I centri sociali (spesso menzionati con la sigla CSOA, dove O sta per occupato e A per Autogestito), nati da esperienze locali negli anni 70, nell’area generalmente conosciuta come Autonomia Operaia, costituirono vere e proprie isole di socialità alternativa strappate al grigiore dei ghetti metropolitani, che si dimostrarono capaci di una certa resistenza al riflusso degli anni ottanta.

Aggiungiamo che non sono mai stati una realtà omogenea, ma piuttosto una serie d’esperienze locali che si sono venute diversificando – a volte contrapponendo - nel corso del tempo.

Verso l’inizio degli anni novanta, una parte di essi prese la decisione, molto criticata, di allacciare rapporti di collaborazione con autorità ed enti locali, con l’obiettivo di legalizzare il possesso degli edifici, ottenere riconoscimento istituzionale ed accedere a finanziamenti pubblici.

Non è nostra intenzione scagliare anatemi per questo, né entrare nella merito di una storia complessa e accidentata. Il problema non è trattare con lo stato, ma come e perché si tratta. In Messico, ad esempio, gli zapatisti hanno mostrato che è possibile farlo, mantenendo, allo stesso tempo, un ragionevole margine di autonomia e senza venire meno a due principi irrinunciabili: la trasparenza e la verità.

In quanto all’Italia, la profonda frattura che si era venuta creando all’interno dei centri sociali tra antagonisti e negoziatori venne in parte colmata proprio in seguito alla massiccia ondata di entusiasmo suscitata dalla ribellione degli indigeni messicani il primo gennaio 1994. Si apriva la possibilità di cominciare da capo e di costruire un nuovo grande movimento, non più sul modello della solidarietà, ma su quello, ben più appassionante, del coinvolgimento e della condivisione.

Seguì una tappa unitaria, di breve durata, culminata nel Primo Incontro Intercontinentale per l’Umanità e contro il Neoliberalismo, celebrato in Chiapas nell’agosto 1996, su invito del sub comandante Marcos. Quell’incontro può essere considerato come l’atto di battesimo dell’attuale movimento contro la globalizzazione.

I problemi ricominciarono quando, in seguito alla proposta zapatista di organizzare un secondo incontro in Europa, si avviarono i dibattiti sulle modalità e i percorsi del nuovo appuntamento.

Le future Tute Bianche fondarono allora l’Associazione Ya Basta presentando la proposta di organizzare l’incontro a Venezia con l’appoggio del comune (il sindaco era Massimo Cacciari una persona non certo affine agli zapatisti, né, ad esempio, alla problematica degli immigrati clandestini), più quello di Rifondazione (che allora sosteneva il governo neoliberista dell’Olivo) e de Il Manifesto.

Il viaggio di Bertinotti in Chiapas, insieme con alcuni esponenti del CSOA Corto Circuito di Roma, - organizzato con gran fragore pubblicitario nel gennaio 1997 - siglò la nuova alleanza, di cui gli zapatisti erano solo un pretesto, mentre ciò che realmente contava erano le dinamiche interne italiane e il difficile equilibrio tra forze molto eterogenee.

Per Rifondazione, partito con un occhio puntato sui movimenti e l’altro sui sondaggi elettorali, era vitale mettere radici in quel grande serbatoio di voti che sono i giovani; e per questi centri sociali era importante proseguire la lunga marcia nelle istituzioni. La coalizione dell’Ulivo, da poco insediata grazie alla somma dei voti degli ex comunisti e degli ex democristiani, offriva nuove, inaspettate, opportunità all’operazione.

Tanto in Europa come in Italia, però, il grosso del movimento bocciò la formula veneziana, preferendo la proposta presentata dai collettivi spagnoli di un incontro autorganizzato ed autofinanziato in cinque località della Spagna.

A quel punto Rifondazione e Ya Basta scelsero la via dei rapporti diretti e privilegiati con il comando zapatista, boicottando l’incontro spagnolo con il significativo pretesto che gli organizzatori non erano altro che … un mucchio di anarchici, e spedendo in Chiapas Gianfranco Bettin, prosindaco di Venezia, per invitare gli zapatisti a un incontro concorrenziale, messo in piedi in gran fretta per la fine di settembre.

In seguito, gli aderenti a Ya Basta, non esitarono a proclamare sé stessi Comunità Zapatiste, dando luogo a equivoci grotteschi. Infatti, una cosa è il proclamarsi ribelle di una comunità india a partire da una pratica reale di rottura ed autonomia ed un’altra, molto differente, è che un gruppo di persone si autoproclami «comunità», senza che a ciò corrisponda nulla di autentico.

Nei mesi successivi, il Messico continuò ad essere al centro delle preoccupazioni di tutti in Italia. Il massacro di Acteal (23 dicembre 1997) aprì una nuova fase unitaria il cui punto culminante fu la grande manifestazione di gennaio a Roma: 50.000 persone in piazza per protestare contro la politica genocida del governo messicano.

Su iniziativa dei collettivi che avevano sostenuto l’Incontro in Spagna, in febbraio vi fu l’iniziativa della Commissione Civile Internazionale per l’Osservazione dei Diritti Umani.

Poiché la Costituzione messicana prevede l’espulsione degli stranieri che si intromettono negli affari interni, la commissione si muoveva sul filo del rasoio. Per visitare le zone del conflitto, come a gran voce chiedevano le comunità maya colpite dalla repressione, era necessario ottenere il permesso delle autorità, il che imponeva evidenti limitazioni. Anche la pretesa di essere degli osservatori «neutrali» era un assurdo, però erano in gioco molte vite umane e ne valeva la pena.

L’iniziativa ebbe successo. La Commissione, alla quale parteciparono anche alcuni membri di Ya Basta, riuscì ad intervistare centinaia di persone, scrivendo poi un rapporto dettagliato che fu di grande utilità per tutti coloro che lavoravano sul Chiapas.

Un paio di mesi dopo, in aprile, Ya Basta tornò in Messico, questa volta senza l’ingombro di altra gente. Se in Italia proseguiva a gonfie vele la politica di avvicinamento al governo di centro sinistra, il Chiapas offriva un terreno ideale per dare sfogo alla spinta rivoluzionaria che continuava a venire dalla base.

Il 6 maggio 1998, 135 militanti di Ya Basta forzarono un posto di blocco tenuto da cinque agenti della polizia di frontiera in piena Selva Lacandona. Seguiti da uno stuolo di giornalisti, essi irruppero nel villaggio di Taniperla, uno dei più conflittuali della regione, dove il gruppo paramilitare Movimiento Indígena Revolucionario Antizapatista (MIRA) terrorizzava da tempo la popolazione civile.

Dopo alcuni spintoni e un paio di momenti drammatici, i militanti di Ya Basta tornarono a San Cristobal, non senza rilasciare dichiarazioni incendiarie. Seguirono il rituale dell’espulsione, ed un grottesco viaggio a Strasburgo a bordo di un aereo noleggiato dal governo messicano. È dubbio il beneficio che ne trassero gli indigeni di Taniperla i quali vivevano un dramma autentico. Inoltre, l’incidente servì da pretesto per ridurre ancor più l’erogazione di visti agli osservatori, però l’obiettivo di Ya Basta, far parlare di sé e creare scandalo, era raggiunto.

Più recentemente, in occasione della marcia zapatista del marzo 2001, le Tute Bianche monopolizzarono la sicurezza dell’EZLN, comportandosi come Hell’s Angels a un concerto, ed agendo in maniera violenta ed autoritaria nei confronti degli altri membri della carovana.

Queste prodezze messicane illustrano bene la doppiezza del gruppo: essere intransigenti e rivoluzionari all’estero, ma accettare tutti i compromessi, compresi i più disonorevoli, a casa propria.

Anche l’idea della tuta, messa per la prima volta a Milano verso la fine del 98, si ispira esplicitamente agli zapatisti. Infatti, gli «invisibili» metropolitani vestono di bianco, così come gli indigeni del Chiapas si coprono il volto di nero: per essere visti.

Tuttavia, se il fine è di essere ripresi dai telegiornali, invitati ai talk show e magari stipendiati da qualche istituzione, l’oro delle comunità diventa piombo volgare, mentre le poetiche immagini dei maya («camminiamo interrogandoci», «esercito di sognatori») si convertono in fastidiosi e vuoti ritornelli.

E, per risultare più telegeniche, le contestazioni stesse finiscono per essere concordate con la polizia e gestite come vere e proprie performance teatrali (Guerriglia urbana? Ma vi prego…, Il Manifesto, 1 febbraio 2000). A Milano si è arrivati al punto di presentare come una grande vittoria la chiusura di un lager per immigrati che era già stata decisa dalle autorità.

In occasione del G8 di Genova, nonostante Berlusconi offrisse una sponda assai meno rassicurante dei governi «amici» che lo avevano preceduto, pare ormai accertato esistesse un accordo più o meno esplicito per consentire al corteo dei disubbidienti (altro nome delle Tute Bianche) di operare uno sfondamento simbolico della Zona Rossa in piazza Verdi, seguito da altrettanti simbolici fermi, che sarebbero dovuti cessare la sera.

Ma il nubifragio della notte di giovedì impose alle Tute di posticipare al mattino successivo la «prova generale» dell’attacco, e di partire quindi con più di due ore di ritardo sulla tabella di marcia concordata. Come per Napoleone a Waterloo, la pioggia si doveva rivelare fatale: prima che il corteo potesse infine raggiungere il punto prestabilito, si trovò davanti «alla violenza della Storia» (Marco d’Eramo, Il Manifesto, 24.7.01).

E così la lunga marcia è arrivata al traguardo. Partiti dalla contestazione totale e dal brivido voluttuoso del passamontagna di negriana memoria, essi sono pervenuti a pretendere sconti, treni speciali, aerei e alberghi per andare a contestare, esattamente come i sindacati di regime.

Loro li chiamano «rapporti di concretezza con le istituzioni», però collaborare non è lo stesso di trattare. Si tratta quando si è differenti, mentre quando si collabora si è omologhi. Ne era ben consapevole, già il 23 aprile 1998, un Casarini ancora poco noto che dichiarava al quotidiano Il Gazzettino «Lo Stato non è più, d’ora innanzi, il nemico da abbattere, ma l’omologo con cui dobbiamo discutere».

Tale collaborazione, che li ha condotti, di volta in volta, ad intrecciare relazioni con Rifondazione, i Verdi e gli stessi DS (Casarini è stato consulente retribuito di Livia Turco, ministro degli affari sociali del governo Amato), a ricevere sponsorizzazioni da grandi aziende, a presentare e talvolta far eleggere rappresentanti nei consigli comunali di Venezia, Roma, Milano, ha ormai superato tutti i limiti.

Più volte e in differenti luoghi (Bologna, Aviano, Treviso, Rovigo, Roma, Venezia, Padova… ) le Tute hanno fatto le veci della polizia, aggredendo fisicamente anarchici, autonomi, o semplicemente persone che non condividevano le loro indicazioni.

Istruttivo è anche il loro «breviario della disobbedienza civile», in cui spiccano istruzioni quali: «7. Qualunque iniziativa va concordata con le tute bianche; 8. Non ci deve essere né lancio di alcunché né altro che non sia concordato con gli organizzatori; 11. Durante il corteo nessuna iniziativa personale o di gruppo deve essere messa in atto; 12. Si prega di segnalare alle tute bianche qualunque cosa succeda».

Esasperati da questi comportamenti, alcuni anonimi compagni dell’area antagonista diffusero a principio di luglio, un violento documento contro le Tute che recava il titolo significativo di «Pompieri della rivolta» (lista ecn.org).

L’ultimo episodio vergognoso è avvenuto a Venezia, pochi giorni dopo i fatti di Genova, allorché un gruppo di Tute appartenenti al CSOA Rivolta di Mestre ha aggredito un gruppo di persone intente a un banchetto di solidarietà con gli incarcerati.

5. Un nuovo mondo è possibile: basta farlo. Noi. Oggi.

Dal piacere di creare al piacere di distruggere non c’è che un’oscillazione, che distrugge il potere.

Raoul Vaneigem

Il 21 luglio, all’indomani dell’assassinio di Carlo Giuliani, le 300.000 persone sfilate a Genova, nonostante gli evidenti pericoli, hanno risposto affermativamente alla domanda in sospeso fin dai giorni Seattle: questo movimento esiste e, come sottolineano i compagni della rivista Vis-à-vis, «non cerca legittimazioni di sorta: semplicemente impone la propria presenza, riprende la parola, pratica il proprio rifiuto».

Eppure, quella medesima forza che si è espressa con tanto vigore ha condotto ad un conflitto preoccupante tra le diverse tendenze che, fin dal principio, convivono al suo interno, seminando profondi interrogativi per ciò che attiene il futuro.

Contro l’opinione di coloro che cercano l’unità a tutti i costi, bisogna prendere atto che il movimento contro la mondializzazione ha molte anime. Fin dal principio ne è esistita una pacifista, ed una propensa all’azione diretta, con un’infinita gamma di variazioni intermedie.

La sua forza potrebbe risiedere proprio in questa dimensione plurale e nella molteplicità delle sue espressioni internazionali. Oggi il mondo è in subbuglio dal Karnakata alla Tailandia, da Seattle a Genova, dalla Selva Lacandona a Puerto Alegre.

In un intervista recente, il sub-comandante Marcos ha recentemente affermato: «Crediamo sinceramente che a livello mondiale i nostri ‘no’ si sommino semplicemente con tutti gli altri che provengono dal resto del pianeta, mentre i ‘sì’ debbano ancora essere individuati. (…) Non crediamo che tutti questi ‘sì’ possano articolarsi in un unico corpo mondiale. Anzi, non consideriamo questa eventualità auspicabile. Non crediamo, insomma, che alla globalizzazione si debba opporre una nuova internazionale» (rivista Linus, 6 luglio '01).

Il problema è che mentre la tendenza radicale non pretende di esercitare egemonia alcuna, ed anzi ammette apertamente la possibilità di altri approcci, non si può dire altrettanto di molti, anche se non tutti, i pacifisti.

Questi hanno sovente criminalizzato i primi, impiegando …la violenza, la calunnia, e perfino la delazione con esiti sono sovente grotteschi. Era già accaduto a Seattle ed è accaduto di nuovo a Genova. Al direttore di Liberazione, Sandro Curzi, che in TV, contestava alla polizia di non avere agito preventivamente contro i violenti, un funzionario ha dovuto rispondere imbarazzato: «dottor Curzi, questo non è uno stato di polizia, quel che ci chiede noi non lo possiamo fare».

A tutti costoro è bene ricordare il monito di Orwell: «la differenza importante non è tra violenza e nonviolenza, ma tra avere o no appetito di potere. Vi sono individui che disprezzano la polizia e l’esercito, ma si rivelano poi molto più intolleranti ed inquisitori di coloro che ammettono la necessità di usare la violenza in circostanze determinate» (Inside the Whale and Other Essays, Penguin Book, 1962, pag. 118).

Sebbene il problema esista, le contraddizioni principali non sono tra violenti e nonviolenti e forse neppure tra chi cerca alternative al capitalismo e chi, invece, vorrebbe semplicemente abbellirlo o limitarne i danni.

La malafede nelle accuse di alcuni autoproclamati portavoce contro chi agisce in maniera indipendente indica che la posta in gioco è, appunto, il potere. Calunniare è grave: gli stalinisti lo hanno fatto a Barcellona nel 37 ed ogni qualvolta si sono sentiti minacciati nei loro interessi.

Occorre inoltre tenere presente che, come fanno notare i BB la violenza risiede, prima di tutto, nelle relazioni sociali stesse. Chi fu il primo a scatenarla a Genova? Il governo italiano che blindò la città? Le multinazionali che in nome del libero commercio depredano l’umanità e la madre terra? Gli stati che le proteggono? I Black Bloc? Il carabiniere che sparò? Carlo Giuliani che gli ributtò addosso l’estintore?

Quanto alla nonviolenza, lo stesso Gandhi affermò più volte che, sebbene la considerasse superiore alla violenza sia da un punto di vista tattico che etico, non si poteva fare di ciò un dogma e che, in ogni caso, era preferibile essere violenti che codardi. La nonviolenza – diceva - è una scelta valida solo se praticata da chi rinuncia a una violenza che avrebbe la forza di praticare. E non è certo la pratica del topo che fugge di fronte al gatto.

Oggi una tale pratica corre il rischio di essere immiserita da comportamenti addomesticati e condiscendenti. Se il movimento deve crescere, nonviolenza non può voler dire astensione, neutralità o, peggio, collaborazione, ma disobbedienza, determinazione, azione, costruzione di altro.

Se l’aspetto propositivo della violenza vandalica pratica dai BB, consiste proprio nel mettere in crisi la pretesa neutralità delle relazioni sociali e nel ricondurre al centro dell’attenzione la loro precarietà storica, ogni gesto inscritto in questo registro rischia di rimanere prigioniero di una negazione simbolica dell’esistente. «Il fine non giustifica i mezzi», ci mandano a dire gli zapatisti dal Messico. E gli anarchici replicano: «da due secoli lo sappiamo» e non può dirsi casuale il numero crescente di bandiere rosse e nere in tutti gli appuntamenti del movimento che cresce.

Con o senza violenza, l'essenziale è che ciascuno individui la propria strategia e il proprio percorso; perché la rivoluzione questo è: liberazione, scatenamento dei percorsi, movimento centrifugo, non centripeto.

Non è necessario, avere obiettivi ambiziosi ne prefiggersi la distruzione del capitalismo per essere disponibili, qui e subito, a lottare contro la barbarie neoliberista. Oggi, non vi è più un palazzo d’inverno da conquistare e il vecchio dibattito tra «rivoluzionari» e «riformisti» appare obsoleto.

Accantonando questa terminologia, molti preferiscono definirsi semplicemente «ribelli», parola che sottolinea l’assenza di un programma compiuto nel senso inteso dai vecchi partiti comunisti. Ed anche per ciò che riguarda i nostri vecchi sperimentati nemici, il capitalismo e lo stato, forse, più che di distruzione, converrebbe forse parlare di accantonamento, di dismissione, di soffocamento, di abbandono.

È merito degli zapatisti aver attirato l’attenzione su tali questioni e, in particolare, su quella del potere. Più volte essi hanno ripetuto di non essere interessati a governare né a sedere in parlamento. Ciò che li distingue dai partiti e dalle guerriglie tradizionali non è l’impiego (o l’accantonamento) delle armi, ma il tentativo di andare oltre i vecchi modelli tanto bolscevichi come socialdemocratici.

Un tale superamento implica la creazione (non facile) di un terreno nuovo di lotta politica, non certo trasformarsi in un gruppo di pressione o in una lobby.

Fanno sorridere le dichiarazioni del solito Cassen, il quale annuncia, niente meno, l’imminente iscrizione del sub comandante Marcos, senza più passamontagna ed in versione «civile» (…e l’EZLN?) ad Attac (La Repubblica, 20 agosto). Così, il fuoco della prima rivoluzione del secolo XXI dovrebbe essere spento con lo straccio bagnato della Tobin Tax…

Ancor più fanno sorridere le affermazioni del medesimo Tobin il quale, smentisce i suoi discepoli, dichiarando di essere, da sempre, un fervente sostenitore della globalizzazione e di avere proposto a suo tempo, quella tassa…per «favorire il libero mercato», di cui, dice «sono, come tutti gli economisti, un fautore».

Attac e il gruppo di intellettuali raccolti intorno a Le Monde Diplomatique rappresentano oggi l'ultima versione della vecchia e fallimentare utopia socialdemocratica. Coloro i quali pensano di risolvere la disgrazia dei poveri tassando i ricchi non paiono consapevoli di fondare il futuro sulla permanenza precisamente dei ricchi, e dello sfruttamento che li produce, delle produzioni assassine che li alimentano, dello stato che li garantisce.

No, non ci accontenteremo di fare petizioni, né diventeremo una Ong con voto consultivo all’Onu. A Seattle, come a Genova e nella Selva Lacandona, la scommessa era un’altra.

«Un nuovo mondo è possibile: basta farlo. Noi. Oggi.» Questo è un altro dei tanti messaggi che ci arrivano dalla Selva Lacandona. Oggi l’importante è creare situazioni di rottura, aprire il cammino a una socialità diversa, intessere reti, stimolare incontri, favorire l’autonomia dei soggetti. L’apporto di tutti è necessario, quello dei popoli indigeni, delle loro civiltà, della loro capacità di resistenza, prezioso.

Il movimento è giovane e non ha ancora obiettivi definiti. Non importa, questi si chiariranno al momento opportuno. L’importante è non ripetere gli errori del passato, imparare a navigare in acque agitate, tra gli uragani della repressione e le risacche istituzionali.

Il momento è appassionante. Organismi come l’FMI, la Banca Mondiale o il G8, che prima ritenevano di poter agire indisturbati, sono adesso sulla difensiva e si trovano costretti a organizzare i loro incontri dietro mura invalicabili o in luoghi inaccessibili. Accordi che prima erano discussi in gran segreto e al riparo dalla furia popolare sono adesso sottoposti a dibattito pubblico.

Dopo Genova, meno gente nel mondo crede che la globalizzazione capitalista promuova la democrazia e la distribuzione della ricchezza. Tuttavia questo «stato d’emergenza», questo «momento del pericolo» faticosamente riemersi, non ammettono ripetizioni. Non conviene rincorrere una volta ancora il calendario dei signori governanti, riproponendo semplicemente quello che Tony Blair ha chiamato con spregio «il circo itinerante degli anarchici».

Anche il futuro delle manifestazioni di piazza solleva un gran numero di interrogativi. Il movimento è oramai, in maniera irreversibile, internazionale: questo fatto che dà corpo come mai prima a centocinquant'anni di sogni e di speranze degli internazionalisti, impone però a tutti un grande salto di qualità dal punto di vista dell’organizzazione e della comunicazione.

Chi ha vissuto l’avventura degli incontri zapatisti del 1996 e 1997, che tanta parte hanno avuto nel condurci dove ora ci troviamo, sa quanta fatica, sia pure entusiasmante, costi comunicare fra persone che non si conoscono, e che neppure parlano la medesima lingua. Il rischio dell’incomprensione, come pure quello dell’appiattimento a slogan di ogni ragionamento è sempre in agguato.

La bastonata che un BB ha assestato a un compagno dei Cobas che ragionevolmente invitava «non partite ancora, aspettate che tutti siano pronti» può certamente essere ascritta in buona misura a questo oggettivo ritardo.

Sgombrato il campo dalle calunnie, il più urgente e irrisolto dei problemi rimane: come armonizzare la violenza offensiva di alcuni con la nonviolenza di molti altri?

I Black Blocs, con buona pace dei calunniatori, non sembrano orientati al suicidio, ma nel futuro non sempre sarà loro possibile fare come a Washington o a Quebec City.

Genova mostra già ora un salto di qualità nella strategia repressiva. La scelta da parte delle forze repressive di concentrare gli attacchi sui manifestanti pacifici ha dato buoni risultati ed è facile prevedere che continuerà ad essere usata, spingendo alla ritirata chi non ama o non ha la possibilità di battersi e imponendo il terreno dello scontro militare, su cui non potremo, per molto tempo ancora, giocare al rialzo, quand’anche lo volessimo.

Alcuni ripropongono la vecchia piaga dei servizi d’ordine, una soluzione che, oltre a suggerire una spiacevole identificazione con i repressori in uniforme, è profondamente estranea a un movimento che trae la propria forza dal disordine, dagli innumerevoli approcci della creatività individuale.

Né bisogna avere illusioni sull’orientamento politico dei governi. A Goteborg, un governo socialdemocratico ha ordinato di sparare sui manifestanti e a Genova un governo postfascista ha fatto il morto. A Parigi, in agosto, i CRS di Jospin e Chirac, hanno fermato, identificato e maltrattato i partecipanti a una pacifica manifestazione sui fatti di Genova.

Occorre che tutti, anche coloro i quali per mille legittimi motivi non hanno desiderio di militarizzare la propria azione, né di contrapporre la mazza al manganello, o la molotov al lacrimogeno, comprendano che arriva un momento in cui il percorso dell’autonomia individuale e collettiva si scontra inevitabilmente con il potere e con la sua violenza e che le conseguenze di ciò sono spesso tragiche.

A loro volta i «violenti», cui non può più essere negata la possibilità di presentare liberamente le proprie tattiche e i propri punti di vista, devono affinare, perfezionare, graduare la portata delle loro azioni per meglio salvaguardare la vita e la libertà di tutti.

Se di sicuro non è possibile combattere l’alienazione con forme alienate, non è possibile neppure cancellare la violenza stupida dei potenti con qualcosa che non sia in certo qual modo un «antiviolenza» le cui forme rimangono in buona misura ancora da inventare con la collaborazione di tutti.

Il futuro di questo movimento sta tutto qui: le sue anime devono imparare ad agire in maniera fraterna. Se no, un’altra occasione sarà perduta…

Parigi, agosto/settembre 2001

Ringrazio i compagni del Comitato di Solidarietà con la Lotta dei Popoli del Chiapas in Lotta a Parigi; e Paolo Ranieri, vecchio amico, complice, e testimone appassionato degli avvenimenti di Genova.