Maurizio Pallante e Andrea Bertaglio - 9 novembre 2011 IL FATTO
Cambiare, sì. Ma con umiltà e pazienza
Ci sono sempre più persone che, comprensibilmente stanche di questo tipo di sistema e giustamente schifate dalla bassezza raggiunta dal mondo politico e da quello economico, si aspettano che il cambiamento possa avvenire da un giorno all’altro. C’è però da considerare che, seppure tantissime e in costante aumento, queste sono ancora una minoranza rispetto al resto della popolazione del cosiddetto “mondo industrializzato”.
A quanti di voi sarà capitato, anche fra parenti o amici, di essere guardato con aria interrogativa, o addirittura preso per fondamentalista, estremista o pazzo, nel momento in cui vi siete avventurati a parlargli, ad esempio, di risparmio delle risorse, riduzione dei consumi e quindi degli sprechi, decrescita o stili di vita che non impongano la televisione, la scarpetta firmata o i centri commerciali? Basta molto poco a spaventare le persone, soprattutto quando queste hanno subito un lavaggio del cervello lungo più di due secoli. Produttivismo, consumismo, dipendenza dal mercato, carriera ecc. Come ce li si può scrostare di dosso dall’oggi al domani?
Immaginate di essere da sempre convinti che la vostra meritata ricompensa per aver dedicato la maggior parte del vostro tempo al lavoro, un lavoro che magari odiate, è il consumo. Immaginate adesso che qualcuno arrivi e vi dica, o vi faccia più o meno cortesemente notare che il consumo, magari indotto, è proprio fra le cause che vi portano a spendere la maggior parte del vostro tempo alle prese col lavoro di cui sopra. Di sicuro ciò vi potrebbe creare qualche problema, o comunque non vi farebbe sentire a vostro agio. È come credere da una vita a Babbo Natale e sentire qualcuno che vi dice (o vi dimostra) che Babbo Natale non esiste.
Il fatto, e il problema, è che il tempo stringe, sia a livello economico, che sociale, che ambientale. La famigerata recessione dell’economia globale non si farà tanto scrupoli, e imporrà bruscamente a moltissima gente degli stili di vita molto diversi da quelli a cui si è abituata negli ultimi anni, determinando così una serie di reazioni e problematiche sociali sotto certi aspetti inquietanti.
E l’ambiente? Beh, ancor più dell’economia o della società, si saprà regolare e “proteggere” da solo, quando per nostra sfortuna lo vorrà fare. Del resto ha già iniziato a darci espliciti segnali, e non aspetterà che dei minuscoli, giovanissimi, irrispettosi e parecchio presuntuosi esseri come noi “salvino il pianeta”, quando non sono nemmeno in grado di salvare se stessi.
Un importante aspetto da considerare è che però non tutti hanno avuto lo stesso percorso. A quanti amici e/o colleghi provenienti dall’est europeo, dal sud America, dall’Africa e dalla Cina ho parlato della Decrescita Felice! Bene, a quanti credete sia passato per la testa, nonostante in molti abbiano sinceramente condiviso le mie parole e idee, di abbandonare gli stili di vita che avevano sognato da una vita (quelli consumistici occidentali) e che erano appena riusciti a fare propri?
Ci vorrà del tempo prima che si rendano conto, cellulare dopo cellulare, auto dopo auto, debito dopo debito, che la luccicante società dei consumi alla fine non porta a vivere tanto meglio di quanto potessero fare i folli regimi sotto i quali molti di loro sono cresciuti, e che passare da un estremo all’altro non è certo la scelta più saggia.
È per questo che è fondamentale cercare di evitare moralismi o prediche a chi non la pensa come noi, o a chi non può ancora permettersi di farlo. Perché come diceva tempo fa Andy Riley, vignettista dell’inglese Observer, è irritante «leggere sui giornali quanto è bello “rallentare” prima ancora di aver potuto “accelerare”». Per molta gente, anche nei Paesi “sviluppati”, non ha ancora senso parlare di decrescita, o comunque non gliene importa nulla visto che, appunto, non ha ancora avuto modo di “crescere”, secondo i canoni forniti dal nostro tipo di società.
Insomma, è per diversi motivi che, per portare chi ci circonda al cambiamento in cui tutti speriamo, dobbiamo innanzitutto cambiare noi stessi (“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo!”), perché sono indispensabili umiltà, costanza, lucidità e tanta pazienza. Ci si può augurare, ma non certo aspettare, che questi cambiamenti avvengano in fretta. Ma così non sarà.
di Andrea Bertaglio
Commento di SergioGhirardi
Da tempo, ormai, partecipo in Francia alla riflessione sull’ipotesi di decrescita (vedi la rivistina LIMITES e incontri, dibattiti del MOC, Movimento degli Objecteurs de Croissance) come cambio di paradigma e uscita possibile e necessaria da una civiltà produttivistica (capitalista, per non dimenticare l’elemento centrale dell’economia politica) al lumicino e sempre più pericolosa per il vivente.
La decrescita però non può essere un obbiettivo, ma un rovesciamento di comportamento teso a un rovesciamento di prospettiva. Parlare di decrescita felice mi sembra favorire l’equivoco di un luogo e di un fine – la decrescita, appunto – dove i problemi sarebbero risolti. Invece la decrescita è una necessità puntuale dei paesi avanzati (verso il baratro) per potersi finalmente porre i problemi della libertà dell’uomo e del suo ambiente vitale, anziché quelli della schiavitù salariata e non.
La decrescita può e deve essere piacevole perché deve caricarsi di un’emancipazione che denunci la truffa del consumismo e proponga quella soddisfazione che il consumismo promette in modo alienato e non può soddisfare mai. Il consumismo è in se un inquinamento, ma la società umana comincerà a decrescere quando in questa decrescita si potrà cogliere un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Chi non è addomesticato dalla servitù volontaria lo ha già capito, ma lo sforzo pedagogico necessario a disipnotizzare gli spettatori/consumatori/elettori è lontano al riuscire nei suoi umanissimi intenti. Soprattutto finché la decrescita si presterà a una mistica del sacrificio e della rinuncia che sono l’altra faccia SPECULARE DELL’EDONISMO CONSUMISTA.
La vostra presenza qui è uno stimolo a una presa di coscienza che mi piacerebbe andasse verso la gioia di vivere praticabile anziché (come avviene nel mensile francese LA DECROISSANCE) annunciarla come sottotitolo della rivista per poi proporre una visione del mondo arcaica, sacrificale e primitivista.
Ce n’est qu’un début, commençons le débat
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Mentre orde di comparse di uno spettacolo osceno si inginocchiano davanti alla crisi come un masochista davanti alla frusta (No all’accanimento terapeutico: se l’economia è tanto malata, che crepi in pace, dicevano ancora di recente i critici radicali dell’economia politica sommersi dal brusio degli schiavi salariati imploranti), così è continuato tra pochi intimi, sul Blog dei decrescenti italiani Bertaglio e Pallante, un micro dibattito sulla decrescita:
ALLA FACCIA DELL’OTTIMISMO
Lorenzo La Rosa ha commentato sul Fatto:
Caro Bertaglio, mi permetta di essere in un certo senso più ottimista di lei. Io credo che tutti noi saremo costretti a decrescere molto prima che il desiderio di decrescere si sia diffuso in una parte significativa della società. Sarà quindi una “decrescita infelice”, ma pur sempre una decrescita.
Poi Ercolina ha aggiunto
Bravissimo, Andrea, hai centrato il punto!
I predicozzi, specie se arrivano da qualcuno che “predica bene ma razzola maluccio” servono solo a far girare le scatole, come si dice.
Lorenzo De Rosa dice una gran verità: la decrescita ci sarà, se non ci sono quattrini ci sarà per forza, volenti o nolenti, ma come renderla meno traumatica e magari serena (felice, onestamente, mi sembra un po’ utopistico)?
Non è tanto bello citarsi, vedi “chi si loda si imbroda” ma, non per merito ma per una serie di sfortunate circostanze, questa esperienza ho dovuto farla per forza.
Causa gravi problemi di salute miei e di mio marito, problemi del datore di lavoro (vedi “crisi”) e chi più ne ha più ne metta, siamo stati 2 anni praticamente a reddito 0.
Per fortuna avevamo qualche soldino da parte, ma si sono comunque imposte rinunce che vanno ben al di là del vestito firmato (di cui, a esser sinceri, non mi è mai importato un fico secco) o del cellulare ultimo grido.
Beh… siamo ancora qui vivi e vegeti (e non è solo un modo di dire). Ancora oggi la situazione è alquanto precaria, e di alcuni “consumi” la mancanza si sente (per esempio qualche giorno di vacanza ogni tanto, o poter entrare in una libreria e uscirne stracarichi) ma un modus vivendi l’abbiamo trovato, e non è neanche tanto male. Si possono riscoprire per esempio attività molto piacevoli a costo molto molto ridotto, come vedere gli amici in casa anziché fuori, preparando un buon pranzetto, magari ognuno portando la sua “specialità”.
E ce ne sono tante altre. E tanti trucchetti per risparmiare senza per questo diventar matti.
Finisco qui, altrimenti mi trasformo in uno di quei predicatori “tromboni” tanto aborriti da Andrea.
Saluti e buona giornata a tutti Ercolina
Questo il mio commento a seguire:
Mi sembra evidente che la povertà sia una forma oggettiva di decrescita, ma ancor più lapalissiano è che si tratta di operare per una decrescita che sia liberazione dallo spreco produttivista e non rinuncia del necessario. Solo una cultura masochista fondata sulla valle di lacrime e su mamme sempre vergini come l’olio d’oliva può trovare una voluttà perversa nel sacrificio.
Perché la decrescita sia piacevole e quindi auspicabile, è necessario che s’incontri con l’emancipazione dai desideri alienati legati al feticismo della merce che si sono sostituiti ai veri desideri vitali coperti da tabu e divieti assurdi fino a riemergere nelle trasgressioni patetiche e patologiche del cui vomito è stato fatto uno sport nazionale.
In Italia, in particolare, una società decrescente presuppone una vera e propria rivoluzione culturale, ma ovunque, in un mondo globalizzato dalla religione del denaro e quindi del consumo, bisogna cominciare a identificare gli innumerevoli falsi bisogni che non sono mai stati davvero desideri. Il consumo di cibo per nutrirsi correttamente e piacevolmente -tanto per fare un esempio macroscopico- non è certo, insieme a molri altri “consumi” umani da ridefinire, un nemico da punire.
L’assurdità del consumismo si misura piuttosto con il tasso di spazzatura che la natura ci mette sotto gli occhi dovunque: a Napoli con la gestione camorristica che ne fa un ultimo business mostruoso, durante le alluvioni che trasformano in spazzatura visibile gli ammassi di ferraglia inutile montata su gomma che si ammassano fino al secondo piano delle case di cemento costruite in zone inabitabili ma buone per la speculazione.
Eccetera eccetera…
Sergio Ghirardi