Uno
dei motivi per cui di autogestione, nella ormai lunga storia della
sovversione, molto si è parlato e
scritto e molto meno si è fatta materiale esperienza, è che con questo nome,
sovente si è cercato di camuffare e infiocchettare quello che, in un momento di
bella lucidità, i rivoluzionari hanno smascherato come “comunismo noioso”.
Vale
a dire la presa in carico da parte di ciascuno dell’onere di amministrare
collettivamente l’amministrazione dell’esistente, convertendosi ciascuno in
burocrate e travet dell’economia
sociale. A lungo riflettendo sull’allocazione dei beni, sulle priorità della
produzione, sulle corvée obbligatorie, sulla perequazione del dare e
dell’avere: il tutto con un perenne sorriso sulle labbra, lieti della conquistata
libertà di faticare in prima persona, cessando di delegare incombenze così
triviali a degli specialisti prezzolati, come accade oggi.
Di
fronte a questa prospettiva, ben prima che le circostanze imponessero una
verifica materiale, i più si ritraevano all’inglese, in cuor loro augurandosi
di non dover mai pervenire a una liberazione di tal fatta; mentre un gruppo
meno numeroso ma anch’esso nutrito, si figurava con largo anticipo assiso in un
consiglio (più simile a un consiglio di amministrazione che a un consiglio
operaio) a distribuire incarichi a destra e a manca, ritagliando per sé un
ruolo di “organizzatore permanente”.
D’altronde,
piccole anticipazioni di queste due tendenze molti di noi le hanno potute
assaporare negli esperimenti comunitari che sono stati tentati da decenni da
volenterosi e fiduciosi compagni: da una parte un buon numero di oziosi quasi
del tutto passivi, dall’altra un manipolo di stakanovisti dell’organizzazione,
alcuni più coerenti (e che finivano per faticare per tutti), altri neppure
coerenti (e che stavano seduti a capotavola a decidere per tutti, prima che
qualcuno potesse decidere per loro).
La
spiegazione è semplice: l’autogestione possibile e desiderabile (e possibile in quanto desiderabile, perché
masochismo e sovversione seguono percorsi inevitabilmente divergenti) è cosa
ben diversa: più precisamente non ha alcunché in comune con l’amministrazione e
con l’economia. Essa nasce precisamente dall’abolizione definitiva della
subordinazione della vita agli imperativi economici e agli obblighi sociali.
In questo senso va chiarito una volta per tutte il concetto, introdotto dai situazionisti, di “autogestione generalizzata”, vale a dire estesa a tutti gli aspetti della vita. Si tratta di una concezione condivisibile, e assai felice, alla sola condizione che si premetta chiaramente che i soggetti dell’autogestione SONO GLI INDIVIDUI, fra loro liberamente, variamente e non necessariamente, associati.
In questo senso va chiarito una volta per tutte il concetto, introdotto dai situazionisti, di “autogestione generalizzata”, vale a dire estesa a tutti gli aspetti della vita. Si tratta di una concezione condivisibile, e assai felice, alla sola condizione che si premetta chiaramente che i soggetti dell’autogestione SONO GLI INDIVIDUI, fra loro liberamente, variamente e non necessariamente, associati.
L’autogestione
quindi non è una forma di società, nella quale una volta ancora gli esseri
umani sarebbero sottomessi alle necessità collettive, con divisione del lavoro, diffusione di vecchi e
nuovi specialisti, gerarchie occulte come inevitabili corollari.
Ma
indica proprio ciò che il vocabolo stesso suggerisce: la gestione autonoma da
parte di ciascuno dei propri affari, dei quali ognuno sarebbe unico
legislatore, esecutore e giudice.
Questa
visione, come già suggerito da Vaneigem più di quaranta anni fa, capovolge la
funzione spettante alle assemblee: nelle quali le decisioni non si situano a
valle, come frutto della discussione collettiva, ma a monte, come presa di
posizione che ciascuno porta, se e quando lo ritiene opportuno, porta al
cospetto di chi gli è prossimo, per informare delle sue intenzioni, e per proporre
a ciascuno di dialettizzarsi, facendo conoscere a propria volta il proprio
giudizio e, se del caso, ideando delle collaborazioni, dei miglioramenti, delle
aggiunte, delle modifiche.
Si tratta in sostanza di capovolgere (né potrebbe essere altrimenti) il famoso slogan social-nazionale di Kennedy: non chiediamoci che cosa noi possiamo fare per la comunità, ma chiediamoci invece se e come la comunità può fare qualcosa per noi: non l’individuo al servizio della comunità ma la comunità al servizio dell’individuo e delle sue passioni.
Si tratta in sostanza di capovolgere (né potrebbe essere altrimenti) il famoso slogan social-nazionale di Kennedy: non chiediamoci che cosa noi possiamo fare per la comunità, ma chiediamoci invece se e come la comunità può fare qualcosa per noi: non l’individuo al servizio della comunità ma la comunità al servizio dell’individuo e delle sue passioni.
L’assemblea
in tal modo si convertirebbe in una contesa di passioni, tutte parimenti
legittime.
Naturalmente una tale concezione presuppone una comprensione, non solo superficialmente intellettuale, ma profondamente vissuta, della distinzione fra spazio pubblico e ambito privato.
L’uno e l’altro intesi a reciproca salvaguardia.
Naturalmente una tale concezione presuppone una comprensione, non solo superficialmente intellettuale, ma profondamente vissuta, della distinzione fra spazio pubblico e ambito privato.
L’uno e l’altro intesi a reciproca salvaguardia.
Perché
la riedificazione del mondo e della sua civiltà, sotto forma di rete universale
di comuni (che era poi il significato originario di “comunismo”) sarà forse un
giorno possibile se si sarà chiarito che “il personale non è politico”, e la
vita di ciascuno sarà protetta da ogni forma di ingerenza dei molti e delle
loro pretese; questo traguardo potrà essere raggiunto unicamente se avremo
compreso come l’idea della comune sia
una grande idea politica, ma la comune
nella sua esistenza materiale, (in quanto superamento e negazione tanto della
famiglia, quanto dell’azienda, dell’atelier), è integralmente inerente
all’ambito privato.
Sarà
forse inutile farlo, ma, per concludere, vogliamo prudenzialmente precisare
che, ad ogni livello, dal momento che la nostra non può che essere, contro la
società di massa, la rivoluzione della qualità, è esclusa e inconcepibile
qualsiasi conta delle opinioni, qualsiasi divisione delle persone in
maggioranza e minoranza, qualsiasi subordinazione della minoranza alla
maggioranza, e parallelamente della massa agli specialisti, agli scienziati, ai
competenti, ai meritevoli.
Per
fare un esempio volutamente casereccio, perché l’autogestione si colloca
precisamente a questo livello, se di dieci persone, sei preferiscono la
pastasciutta e quattro il risotto, la
soluzione non sarà mai imporre la pastasciutta ai fautori del risotto, e
neppure di preparare sei giorni la pastasciutta e quattro il risotto. Ma che
gli uni si prepareranno la pastasciutta e gli altri il risotto, al massimo
sforzandosi di sedurre con il profumo e le attrattive dei propri piatti gli
appartenenti all’altro gruppo.
Infatti,
quanto di inevitabilmente meccanicista può sopravvivere in argomentazioni come
quelle sopra esposte, non potrebbe che evaporare se tali questioni venissero
affrontate con una vivace sensibilità fourierista, fondata su un’attenzione
acuta per l’equilibrio e l’armonia nell’azione degli individui, sempre cosciente
dell’altrui presenza e sempre intenzionata a non rischiare collisioni con il
libero dispiegarsi delle passioni altrui.
In
poche parole, l’autogestione è possibile e verosimile alla sola condizione che
essa preveda un tale grado di autonomia del singolo, da rendere superflua ogni
attenzione alla protezione della propria sfera privata, vissuta come un
indiscusso a priori, e consentendo perciò di dedicare tutte le energie alla
ricerca di un’efficace piacevolezza e qualità delle relazioni.
Paolo Ranieri 4 agosto 2016