in omaggio al grande Alfredo Passadore che abbiamo avuto la fortuna di avere per amico, pubblico questo testo tratto dal suo blog
Gli anni del ’68: I Comontisti
“Corri compagno, il vecchio mondo è dietro di te”. Lo slogan, scaturito insieme a decine d’altri dal geyser eruttato nel pieno del “joli mois de mai” parigino, era piovuto anche sulla Genova sonnacchiosa e grigia di fine anni ’60. E vecchia appariva davvero la città, dominata in allora da una borghesia persa nel circolo vizioso delle sue ritualità famigliari, nel grigiore della sua omogeneità culturale, catturata dalla logica sempiterna dello “scagno”. Eppure il fremito di novità che percorreva il mondo in quegli anni poteva arrivare anche lì, perfino attraverso le ritualità più scontate, come il viaggio premio in Inghilterra alla fine del liceo, per studiare l’inglese e osservare il mondo del business anglosassone, oggetto di deferente ammirazione. Capitava così che invece di frequentare i santuari della finanza, qualcuno si perdesse nei meandri delle decine di club che popolavano la Swinging London, letteralmente rapito dalla potenza della musica che si suonava e dalla vitalità che la pervadeva.
Tornati a casa si restava straniti da
una sorta di nervosismo esistenziale, si stentava a rientrare nei
binari della quotidianità, così che iscriversi all’Università poteva
significare preferire alle noiose lezioni dei cattedratici le rabbiose
assemblee che, un po’ ovunque, cominciavano a popolare gli istituti.
Erano gli anni delle marce contro la guerra in Vietnam, dei sit-in
davanti ai consolati Usa, della contestazione a un mondo non solo
vecchio, ma anche profondamente ingiusto. Inevitabile, a quel punto,
“politicizzare” il proprio malessere, leggerlo in chiave di conflitti di
classe, di dominio di una borghesia aggrappata ai propri privilegi come
alle proprie idiosincrasie, laddove ogni differenza era vissuta con
sospetto se non condannata a priori.
Eppure, qualcosa non tornava. Troppo
vero che il mondo alle nostre spalle fosse vecchio, consunto da rituali
scontati e antidiluviani. Ma il nuovo verso cui si pretendeva di
correre, dov’era? Possibile che lo si potesse trovare nei sogni di uno
stalinismo riciclato e rimesso a nuovo, nei deliri di un maoismo
infantilmente ingenuo, o nelle lunghe disquisizioni sul fatto se Lenin
fosse o meno il padre putativo di Stalin? Il “68”, in questa dimensione
politica, più che rappresentare il razionale sviluppo di una autentica
spinta al cambiamento, ne sembrava piuttosto un finale fin troppo
prematuro, il tappo che riduceva l’ansia del nuovo ad uno stanco rituale
sinistrorso di adorazione di vecchi miti già allora ampiamente
decomposti, da Lenin a Trockij, da Mao a Ho Chi Minh.
Ma poteva accadere che, iscrivendosi
quell’anno a Filosofia, si inciampasse in qualcosa di imprevisto e si
venisse finalmente a contatto con qualcuno che lo spirito radicale dei
tempi sembrava davvero incarnarlo. Era un gruppo di amici che ruotava
attorno a Gianfranco Faina, docente di Storia Moderna, personaggio di
spicco della sinistra non allineata. Uscito dal Pci all’indomani
dell’invasione dell’Ungheria, coerentemente radicale ma mai stalinista,
Faina aveva dato vita prima al circolo Rosa Luxemburg e poi, ai tempi in
cui lo conobbi, alla Lega degli operai e degli studenti, trasformatasi
in Ludd.
Rispetto alle solite prediche più o meno
progressiste e alle critiche su posizioni oltranziste ai partiti
tradizionali della sinistra (erano gli anni in cui Pajetta bollava gli
studenti di “lupi mannari” e Pasolini si scioglieva in lodi insensate
dei giovani poliziotti, a suo dire ben più autentici dei borghesi
studenti) i luddisti citavano Paul Cardan, “Socialisme ou Barbarie” e la
prima critica radicale al delirio burocratico sovietico, parlavano di
autogestione e soprattutto, per bocca di Mario Lippolis, ironico e
sarcastico oratore nelle assemblee di Filosofia, dei situazionisti
francesi, gruppo allora sconosciuto ai più e ben lungi dal profluvio di
citazioni a sproposito di cui sarebbero diventati vittime in futuro.
Immediatamente attratto da un discorso
che finalmente pareva tener conto dello spirito dei tempi e del nuovo
che prepotentemente si affacciava, ricordo ancora i consigli non
richiesti di qualche compagno di allora che suggeriva di non prestar
loro ascolto in quanto provocatori, ingenui spontaneisti, predicatori
del nulla e via insultando.
Fortunatamente non lo feci e venni così a
conoscenza di concetti sicuramente cruciali, come quello di critica
della vita quotidiana (non aspettiamo la rivoluzione a venire, ma
combattiamo già da subito il potere dell’alienazione all’interno delle
nostre singole esistenze), di comunismo consigliare (non serve un
partito egemone, guida e coscienza, ma piuttosto una miriade di consigli
che si autogestiscono e decidono sul loro immediato futuro), di società
dello spettacolo (la teoria di Debord sulla spettacolarizzazione della
merce e sulle deflagranti conseguenze nelle società contemporanee), di detournement
(la capacità di rovesciare la realtà, mostrandone in controluce gli
autentici significati), di deriva metropolitana (il vagabondaggio
creativo che trasforma concretamente il modo di vivere nelle città).
Così, mentre all’indomani dell’invasione di Praga da parte dei
sovietici, qualcuno arrivava a scrivere che “il socialismo si difende
anche con i carri armati”, mentre tanti inneggiavano al libretto rosso e
alla rivoluzione culturale, che altro non era se non una spietata
epurazione voluta dallo strapotere maoista, i luddisti, in modo ironico e
giocoso, lanciavano le loro provocazioni, dimostrandosi eccentrici
rispetto a tanto neo conformismo di maniera. Oltre all’Internazionale
Situazionista, si leggevano “Do It” di Jerry Rubin che raccontava le
forme creative della lotta alle lobby negli USA, i romanzi di Victor
Serge che descrivevano dall’interno l’incubo staliniano, si pubblicava
un opuscolo sulla cui copertina campeggiava ironicamente il motto “Il
lavoro rende liberi” del lager di Aushwitz.
E nella sede di Ludd in via San Luca,
nel triennio in cui Ludd ebbe vita dal ’69 fino al ’71, transitavano
personaggi dello spessore di Giorgio Cesarano, poeta anarchico e
analista attento della contemporaneità, Mario Perniola, allora
responsabile della rivista “Agar Agar”, Jacques Camatte, a sua volta
editore di “Invariance”, divenuto poi psicogeografo e sostenitore di
soluzioni assai simili a quelle pensate dai comontisti , mentre si
allacciavano rapporti con gruppi milanesi, torinesi e romani. A Roma,
nella sede del “Film Studio 70” di Amerigo Sbardella e Annabella
Miscuglio, ricordo fumose riunioni interrotte dal passare di bellezze
eteree succintamente vestite, accolte da improvvisi e attenti silenzi. E
il sapore dolciastro e intenso di un “fumo” mai provato fino allora.
Circolo e abitazione sorgevano a Trastevere, a pochi passi da Regina
Coeli e disponevano di una sala dove si proiettavano film
dell’avanguardia internazionale, tutto aveva orari assurdi e ti faceva
sentire terribilmente provinciale.
Tra i gruppi amici quello dei torinesi
spiccava per il radicalismo non solo predicato ma apparentemente anche
duramente praticato. Editavano una rivista, “Acheronte”: il “fiume
infernale si è rimesso in moto” procedendo spedito verso la rivoluzione,
e avevano dato vita all’Organizzazione Consigliare, in linea con le
teorie di autogestione praticate anche a Genova. Il personaggio di
spicco, Riccardo D’Este, era allora in galera ed era stato tra i
protagonisti della rivolta carceraria delle Nuove. Aveva fama ambigua,
perché da sempre molti lo accusavano apertamente di essere un
provocatore, addirittura, sosteneva qualcuno, un cripto fascista
mascherato da gauchista. Quando finalmente comparve a Genova, lo fece in
occasione di uno spettacolo teatrale recitato tra i vicoli del centro
storico, il “Genovese Liberale” credo si intitolasse, e Riccardo e i
suoi proposero di parteciparvi direttamente, trasformandolo dall’interno
in una provocazione in presa diretta. Fu divertente, a tratti anche
pericoloso, perché in qualche occasione si rischiò quasi il linciaggio.
Per i torinesi il concetto di critica
della vita quotidiana diventava spesso e volentieri un processo
immediato alla vita di ogni giorno dei singoli individui: com’era
possibile definirsi rivoluzionari e continuare a praticare il tran tran
quotidiano come se nulla fosse? Tra i luddisti genovesi vigeva in
effetti una stretta divisione tra vita famigliare e dimensione politica,
le donne non partecipavano alle attività del gruppo e raramente
venivano coinvolte, se si eccettuano i membri più giovani che invece
tendevano a vivere tutto in coppia. D’Este al proposito aveva buon gioco
nella sua critica radicale, anche se spesso i toni cadevano
nell’eccesso e si facevano violenti, finendo per impaurire più che
convincere.
Sede di quelli che sarebbero poi
diventati i Comontisti era allora, alla fine del 1970, un casolare in
Toscana. Niente di simile alle belle tenute tra i pioppi di tanti
radical chic che già allora popolavano le amene colline del Chianti.
Ponte a Egola era un paesone piuttosto brutto del pisano, per di più
centro di concerie che inquinavano il rio locale sollevando un puzzo
infernale. La casa era un casermone in rovina, affittato ai ragazzi
perché probabilmente nessuno lo voleva, un due piani di cemento grigio,
freddissimo, dotato di uno stanzone con un enorme camino dove era
possibile bruciare un albero intero (e in effetti spesso accadeva). Qui
conveniva gente da tutta Italia, coinvolta da Riccardo nei suoi tour
delle varie città. Un mix dei più diversi tipi sociali, dai borghesi
annoiati trasformatisi in rivoluzionari radicali, ai piccoli delinquenti
amati da Riccardo, che aveva fatto dello slogan “contro il capitale
lotta criminale” una regola di vita e in carcere aveva conosciuto
simpatici giovani, dediti all’esproprio e al furto con scasso.
Tra le sedute dedicate alla teoria e
all’autoanalisi collettiva, giravano un sacco di droghe, soprattutto
psichedeliche, ma comparivano pure ben più sinistre siringhe. Fu in
questo contesto, tra trip e spinelli vari, durante interminabili nottate
di discussione, in cui chi prima cedeva al sonno era visto come un vero
e proprio traditore, e Riccardo sembrava non dormisse mai, che nacque
l’idea di comontismo. La parola in effetti fu proposta da Dada Fusco,
fresca di tesi di laurea su Gadda e quindi inevitabilmente portata al
neolinguismo. Voleva significare, in effetti, il superamento del
comunismo come semplice comunità dei beni, a favore di una comunità
degli esseri, ed era ricavata dal genitivo greco “òntos”, “dell’essere”
appunto, un richiamo alla gemeinwesen marxiana, il seme della
nuova umanità in marcia, la cui realizzazione poteva iniziare da subito,
da parte di piccoli gruppi rivoluzionari in grado di stravolgere la
realtà loro attorno. Era, rivisitato, il concetto di rivoluzione ora e
subito, con qualche sfumatura hippie e pure qualche ombra vagamente
mansoniana.
Sulla copertina del primo e unico numero
dell’omonima rivista, due Adamo ed Eva nudisti compivano, su una duna
sabbiosa, il salto di qualità di hegeliana memoria, il passaggio alla
comunità essenziale, nucleo fondante della nuova umanità che non si
sarebbe limitata a espropriare i capitalisti, ma avrebbe visto la
società fondersi finalmente in un unicum spirituale. Dal punto di vista
teorico restava forte il debito nei confronti dei situazionisti:
c’erano vignette detournate e slogan accattivanti (nella società che
abolisce l’avventura, l’unica avventura è l’abolizione della società),
scampoli di passione criminale (il detournemant di un articolo della
Stampa, “Rapine ovunque”), analisi storiche del consigliarismo e della
rivolta di Kronstadt nei confronti del leninismo, vile repressore della
giusta rabbia dei marinai rivoluzionari della fortezza, presa d’assedio e
infine distrutta dall’armata rossa di Trockij.
Coi situazionisti la dipendenza ideale
era palese, ma i rapporti diretti non erano gran che: ricordo ancora
l’incontro casuale, in una trattoria fiorentina, con Gianfranco
Sanguinetti, editore dell’unico numero dell’IS italiana, a cui credo
fosse presente lo stesso Debord. Nonostante gli inviti a voce altissima
di Ricardo tra un tavolo e l’altro, quelli non fecero una piega e manco
finsero di notarlo. In linea con l’aristocratico senso di appartenenza
dell’IS, da sempre all’opera nell’esclusione perenne dell’indegnità, e
con la fama di tribù selvaggia e poco trasparente che comunque
perseguitava i comontisti.
Tra i capisaldi dell’idea comontista
dominava la critica del lavoro salariato come macchina dello
sfruttamento perpetuo. Fu prodotto addirittura un volantino, in
occasione del primo maggio, in cui si sosteneva, appunto, che “il lavoro
non si festeggia, si abolisce!”, obiettivo a cui, purtroppo, sarebbe
giunto ben prima lo stesso capitale, creando non felicità ma
disoccupazione. Comunque nessuno lavorava, la sopravvivenza era
garantita, al di là dei mezzi personali, dalle pratiche di esproprio,
che godevano del beneplacito ideologico, ma alla lunga avrebbero portato
all’isolamento e alla fine prematura, complice anche un ricorso sempre
più massiccio alle droghe pesanti.
Eppure, al di là dei limiti evidenti di
un gruppo che durò lo spazio di un mattino, bruciandosi letteralmente in
poco più di due anni dal ’70 al ‘72, il suo ruolo non dovrebbe essere
marginalizzato in una critica semplicemente folcloristica. Le istanza
portate avanti avevano una loro profonda coerenza, la critica della
separazione, allora dominante, tra pensato e vissuto, trovava un
indubbio fondamento e sottolineava uno dei limiti che avrebbero portato
la contestazione sessantottina a esaurirsi nelle ideologie più fumose e
deteriori, a scapito di quelle istanza di rinnovamento che,
fortunatamente, saranno riprese da gruppi meno ideologizzati ma assai
più concreti, che comunque il mondo, in qualche modo, lo cambiarono.
Allora, all’inizio degli anni ’70, nella
sinistra estrema cominciava a sollevarsi un fantasma oscuro che
avrebbe, alla fine, sepolto tutto il movimento, quello del terrorismo
armato. I comontisti, pur nella loro visione radicale, esclusero da
sempre il ricorso alle armi come soluzione possibile. Eppure nell’
ambiente giravano prepotenti inviti a passare alla clandestinità, in cui
purtroppo caddero anche insospettabili e stimati ingegni, compreso quel
Faina che per me era stato all’origine di tutta questa vicenda. Ma si
vedeva bene già allora il vicolo cieco in cui si sarebbe finiti, e le
voci di infiltrazioni spionistiche e provocatorie erano continue,
pressanti e ben documentate.
Comontismo terminò così la sua breve
esistenza, sciogliendosi nella vita dei singoli individui, D’Este
continuò la pratica di critico radicale, editando pamphlet e restando
comunque coerente con se stesso fino alla fine, altri cominciarono un
percorso di allontanamento da una ideologia che stava, in quegli anni,
producendo frutti avvelenati. Così agonizzava, nelle tenebre della fine
del decennio, il sogno di una rivoluzione permanente. I cambiamenti, in
fondo c’erano stati, certe mentalità decrepite uscivano sconfitte e
determinati rituali diventavano finalmente improponibili. Ma la lotta
armata fu, nell’immediato, la pietra tombale di tante speranze e finì
per dare l’avvio al decennio di controriforma conformista che avrebbe
portato ai paninari e al “Drive In”, quel trionfo di tette e culi che
diede agli italiani l’illusione di essersi finalmente liberati e
segnava invece l’inizio di un avvenire piuttosto oscuro.
Alfredo Passadore
30 gennaio 2017