Dopo avervi informato la
settimana scorsa su alcuni aspetti interessanti della rivolta dei Gilets
jaunes, persevero con questa traduzione di un’intervista che l’amico Raoul ha
appena concesso col solito metodo di rispondere sempre e solo per scritto in
modo da evitare ogni possibile manipolazione mediatica.
Come vi ho detto la volta
scorsa, il libro in questione, appena uscito in Francia, è già stato tradotto
dal sottoscritto ed è pronto per un’edizione italiana se qualche editore né
cieco né sordo si farà avanti prima che la rivoluzione planetaria abbia abolito
il vecchio mondo.
Sergio
Ghirardi
Intervista
di Raoul Vaneigem al Nouveau magazine littéraire.
1. In Contributo
all’emergenza di territori liberati dall’impresa statale e mercantile -
Riflessioni sull’autogestione della vita quotidiana, Lei scrive che
“preferire il male di oggi a quello che domani sarà peggiore, c’impedisce di sollevarci”.
Eppure i Gilets Jaunes si sono sollevati proprio per preservare il loro posto
in questa civiltà dei consumi e dell’automobile regina che Lei condanna.
Non
dev’esservi sfuggito che l’obiettivo del mio libro è principalmente quello di
scuotere la rassegnazione, l’indifferenza e l’apatia che finora hanno permesso
di tollerare che la desertificazione della terra e della vita sia freddamente
programmata e imposta con un cinismo crescente a danno delle popolazioni del
globo. Che una grande esplosione di collera deflagri improvvisamente,
inopinatamente, con moventi di cui solo l’apparenza è futile, mi procura dunque
una grande soddisfazione. Si sono sollevati per preservare il loro posto, dice?
Ma quale posto? Non hanno posto in questo bel mondo affarista che li sfrutta come
consumatori telecomandati, come produttori di beni che devono pagare, come
fornitori controllati burocraticamente di tasse e imposte che rimpinguano le
malversazioni bancarie. Certo, il grande grido “Ya basta!”, “ne abbiamo
abbastanza!” può spegnersi, tagliar corto. La servitù volontaria ha conosciuto
spesso rivolte senza domani. Tuttavia, anche se la collera dei Gilets jaunes
stagnasse e subisse un riflusso, una grande onda veramente popolare – e non
populista – si è sollevata provando che niente resiste agli slanci della vita.
2. I Gilets jaunes sono
il nuovo nome di quella classe sottomessa a “una sfiancante corvè la cui
retribuzione salariale serve principalmente a investire nell’acquisto di
merce?”
Non
è una classe, è un movimento eteroclito, una nebulosa in cui degli elementi
politicizzati di ogni colore si mischiano a quanti hanno bandito la politica
dalle loro preoccupazioni. Il carattere globale della collera impedisce ai
tradizionali tribuni del popolo di recuperare e manipolare il gregge perché qui
non c’è, come di solito, un gregge che bela seguendo il suo macellaio. Ci sono
individui che riflettono sulle condizioni sempre più precarie della loro vita
quotidiana. C’è un’intelligenza degli esseri e un rifiuto della sorte indegna
che è loro riservata. La lucidità si cerca a tentoni, aprendosi la strada tra
le incertezze. Che il potere e i suoi sgherri mediatici prendano gli insorti per
degli imbecilli non fa che dimostrare a che punto è stupido e vulnerabile
questo capitalismo che i suoi mentori non smettono di presentarci come
ineluttabile e invincibile.
3. All’idea che
“abbrutiti da un lusso di paccottiglia, i futuri naufraghi si dimenano sul
ponte mentre la nave affonda” i Gilets jaunes replicano “voi vi preoccupate
della fine del mondo, noi della fine del mese”. Che cosa risponde loro?
Inquietandosi
per la fine del mese non c’è nessuno, esclusi gli affaristi che ci governano,
che non si preoccupi nello stesso tempo non della fine del mondo ma della fine di un mondo che noi non vogliamo
più; chi non si preoccupa della sorte che ci riserva, a noi e ai nostri figli,
un mondo in preda alla barbarie del “calcolo egoista”? Non si tratta di un
pensiero metafisico, ma di un pensiero che si formula tra le tasse da pagare,
il lavoro da svolgere, gli obblighi amministrativi, le menzogne
dell’informazione e “l’abbrutimento attraverso un lusso di paccottiglia”
volutamente coltivato dai fabbricanti d’opinioni che rincretiniscono la gente.
Un soprassalto d’intelligenza arriva oggi come un soffio d’aria fresca
nell’aria torbida delle fogne in cui la dittatura del denaro ci spinge a ogni
istante.
4. I Gilets Jaunes sono
un esempio di quel proletariato che “è regredito al suo precedente stato di
plebe”? Vittima di un capitalismo finanziario che ha degradato “la sua
coscienza umana e la sua coscienza di classe” la plebe non fa più la
rivoluzione ma si rivolta?
Sì,
è l’illustrazione stessa di questa regressione. Tuttavia, come ho scritto, la coscienza
proletaria che in passato aveva strappato le sue conquiste sociali allo Stato
non è stata che una forma storica della coscienza umana. La quale rinasce sotto
i nostri occhi, rianimando la solidarietà, la generosità, l’ospitalità, la
bellezza, la poesia, tutti valori oggi soffocati dall’efficacia redditizia.
5. Si può ancora, quando
si fa parte delle classi medie inferiori decentrate (lavoro mal retribuito,
obbligo di usare l’auto per tutti gli spostamenti, mutuo o affitto da
pagare...) riconquistare “l’autogestione del quotidiano”?
La
smetta di abbassare le rivendicazioni al livello della borsa della spesa! Vede
bene che sono globali, queste rivendicazioni. Vengono da ogni dove, dai
pensionati, dai liceali, dagli agricoltori, dai conducenti la cui vettura serve
piuttosto a raggiungere il lavoro che ad andare a d abbronzarsi su un yacht;
vengono da tutta questa gente anonima, donne e uomini che si accorgono di
esistere, che vogliono vivere e che ne hanno abbastanza di essere disprezzati
da una Repubblica del fatturato.
6. Lei evoca uno Stato
“ridotto alla sua semplice funzione repressiva”. E’ dunque quello di cui
vediamo oggi il volto in Francia?
Non
è un problema nazionale ma internazionale. Non so quale sia il volto della
Francia né se la Francia ha un volto, ma la realtà che ricopre questa
rappresentazione fittizia è quella di donne e uomini sfruttabili a piacimento,
di milioni di persone infeudate in una democrazia totalitaria che le tratta
come merci.
7. La lotta dei Gilets
jaunes e quelle delle forze che Lei saluta nel suo libro (Zadisti, femministe,
militanti ecologisti...) possono convergere? Oppure si oppongono per essenza?
Non
si oppongono né convergono. Siamo entrati in un periodo critico in cui la
minima contestazione particolare si articola su un insieme di rivendicazioni
globali. La pianta di pomodori è più importante degli stivali militari e
statali che vengono a schiacciarla – come a Notre Dame des Landes.
I
dirigenti politici e quelli che premono alla porta per prenderne il posto
pensano il contrario, così come pensano che tassare il carburante di quelli che
hanno obbligato a usare la vettura e la benzina li esonera dal toccare i
benefici enormi di Total e soci. Le zone da difendere (Le ZAD) non si limitano
a combattere le nocività che le multinazionali insediano nel disprezzo degli
abitanti della terra; sono il luogo in cui l’esperienza di nuove forme di
società fa i primi passi. “Tutto è possibile!” è anche il messaggio dei Gilets
jaunes.
Tutto
è possibile, anche le assemblee di autogestione in mezzo agli incroci stradali,
nei villaggi, nei quartieri.