Tra le rovine del
vecchio mondo e i vagiti di una nuova civiltà
“Siate risoluti a smettere di servire ed eccovi liberi. Non vi chiedo di
spingerlo o di scrollarlo ma solo di smettere di sostenerlo, e lo vedrete
fondere sotto il suo peso e rompersi come un gran colosso al quale si sia
frantumata la base”.
Citazione tradotta dal francese
tratta dal Discorso della servitù
volontaria di Etienne de la Boétie del 1576.
Elogio della transizione
Il mio comportamento di modesto lanceur d’alerte che riflette ancora una volta senza poter fare
molto di più in assenza di un movimento sociale che s’incarichi di confrontarsi
con la storia, è, in effetti, una reazione vitale e non una pretesa
intellettuale, dal momento che la transizione da un mondo che muore verso un
altro che comincia a farsi sentire tra le rovine, è ormai un’esigenza concreta
e, probabilmente, la conditio sine qua
non per la sopravvivenza della specie.
Erede di secoli di resistenza e di lotte, la teoria radicale
intravvede da almeno mezzo secolo la fine del vecchio mondo mentre il fantasma
di una democrazia illusoria nasconde l’evidenza del crollo in corso dietro la
propaganda della felicità mercantile destinata ai servitori volontari. I quali,
del resto, non chiedono di meglio che poterci credere, pur credendoci sempre
meno poiché in tutte le teste lavora la potente percezione che questo mondo non
può durare e che solo l’assenza crudele di un progetto alternativo chiaro e
visibile spinge a fingere di credere al progresso persino al bordo dell’abisso.
Perché dunque cambiare, per andare dove, cambiare che cosa,
quando e come? La questione si pone con la caratteristica dell’urgenza mentre
le risposte restano confuse se non latenti. Orbene, una tale interrogazione
planetaria non può essere risolta da un qualunque individuo geniale, da un
ennesimo profeta uscito dal cilindro di una qualche credenza. Essa richiede
delle risposte collettive fondate su un vero dibattito non falsato da interessi
di casta, sulla conoscenza delle sperimentazioni passate e presenti e su una
volontà di creare le condizioni reali di una società libera, egualitaria e
fraterna.
Non ho dunque l’ambizione di essere esaustivo occupandomi
della transizione quanto di contribuire un minimo a una chiarificazione del suo
difficile innesco da parte di chi, come me ha deciso di esplorarla e praticarla
comunque, ma insieme al più gran numero possibile di persone. Non c’è scelta e
il momento storico mostra chiaramente quanto questa risoluzione occupi gli
spiriti umani come mai prima.
Indipendentemente dall'’esito della loro resistenza,
l’apparizione inattesa dei Gilets jaunes sulla scacchiera della democrazia
parlamentare francese – scacchiera truccata né più né meno di quella di
qualunque altro statalismo mercantile – non ha fatto altro che dare corpo
all’urgenza di un rovesciamento di prospettiva sociale.
La natura del vivente e i vagiti di un’insofferenza che cerca
di trasformarsi in progetto di vita ci invitano oggi a percepire una
rivoluzione sociale tesa alla costruzione di un mondo nuovo sulle rovine del
vecchio che crolla, mentre la politica mercenaria e il suo pensiero
intellettuale tragicamente separato dal corpo, continuano a imbalsamare il
cadavere del produttivismo da buoni domestici sottomessi. Una tale liturgia
demenziale, vero e proprio riflesso condizionato che ha svuotato il concetto di
progresso di ogni senso, è diventata una follia omicida – e peggio ancora,
suicida – che va abbandonata se ci si vuole sottrarre al progresso mortifero
del nichilismo capitalista.
Continuo dunque a parlare ai sopravvissuti, o meglio a quelli
che sono sul punto di diventarlo, perché non sono così ottimista da pensare che
saremo capaci di passare da un mondo all’altro in modo indolore, facendo
l’economia di una tragedia dalle dimensioni colossali; non sono, però, neppure
pessimista al punto di credere che la transizione sia definitivamente
impossibile e che la specie umana sia destinata al naufragio.
Chi vivrà vedrà. Perché anche in questo presente
imbarazzante, vivere fino in fondo il godimento complesso di essere al mondo,
diffonde una dose di soddisfazione e di voglia di partecipare all’avventura
ineluttabile della transizione dalla società spettacolare mercantile a un mondo
finalmente umano.
Sergio Ghirardi, 18 giugno 2019
Poiché anche in
un’Italia soporifera un risveglio resta auspicabile, ho tradotto qui di seguito
alcune interviste scritte con cui Raoul Vaneigem ha risposto alle domande di
una stampa francese abbondantemente in preda alla confusione e a corto di punti
di riferimento sia per capire che per recuperare. Ne emergono diverse
riflessioni utili all’autentico dibattito – non quello spettacolare e
paternalistico messo in scena per mesi dal potere – tuttora in corso in Francia
tra, su e oltre i Gilets jaunes.
Sergio
Ghirardi
Intervista a Raoul Vaneigem per Ballast
1) Lei ha scritto all’inizio degli anni 2000 che le parole “comunismo”,
“socialismo” e “anarchismo” non sono più che degli “involucri vuoti e
definitivamente obsoleti”. Queste tre parole hanno tuttavia permesso agli
esseri umani di rendere pensabile l’emancipazione e la fine dello sfruttamento.
Come rimpiazzarle?
Nel 2000 era ormai parecchio che l’ideologia, di cui Marx
denunciava il carattere menzognero, aveva svuotato della loro sostanza dei
concetti che, fuoriusciti dalla coscienza proletaria e forgiati dalla volontà
d’emancipazione, non erano più che i vessilli branditi dai protagonisti di una
burocrazia sindacale e politica. Le lotte di potere avevano rapidamente
soppiantato la difesa del mondo operaio. Sappiamo come la lotta per il
proletariato sia scaduta in una dittatura esercitata in suo nome contro di lui.
Il comunismo e il socialismo ne sono stati la prova. L’anarchismo della
rivoluzione spagnola non è stato da meno – penso alle fazioni della CNT e della
FAI complici della Generalità catalana.
Comunismo, socialismo, anarchismo erano dei concetti già passabilmente
rovinati quando il consumismo ha ridotto a niente persino la loro copertura
ideologica. L’attività politica è diventata un clientelismo, le idee sono diventate
degli articoli di cui i depliant di supermercato stimolano la vendita promozionale.
Le tecniche pubblicitarie hanno sconfitto la terminologia politica mescolando
come si sa, destra e sinistra. Quando si vede da un lato il ridicolo di
elezioni accaparrate da una democrazia totalitaria che prende le persone per
degli imbecilli e dall'’altro il Movimento dei Gilets jaunes che irride le
etichette ideologiche, religiose, politiche e che rifiuta capi e rappresentanti
non nominati dalla democrazia diretta delle assemblee affermando la sua
determinazione a far progredire il senso umano, si ha ragione di dire che di tutto
questo pasticcio ideologico che ha fatto scorrere tanto sangue, ottenendo al
massimo delle conquiste sociali ormai annichilite, non c’importa decisamente
più niente!
2) Il suo ultimo libro riguarda i gilets
jaunes. Questo movimento le è apparso come una “gioia” e un “immenso conforto”.
Che cosa implica quest’entusiasmo?
Non esprime niente di più né di meno di quel che preciso nell’Appello alla vita[1]:
”È fin dal Movimento delle occupazioni
del maggio 1968 che passo anche agli occhi dei miei amici per un inguaribile
ottimista le cui elucubrazioni gli han fatto girare la testa. Fatemi il favore
di credere che non m’importa nulla d’aver avuto ragione allorché un movimento
di rivolta (e non ancora di rivoluzione, ben lungi) conferma la fiducia che ho
sempre accordato alla parola libertà tanto abusata, corrotta e sostanzialmente
marcita. Perché mai il mio attaccamento viscerale alla libertà dovrebbe
ingombrarsi di torto e ragione, di vittorie e sconfitte, di speranze e
delusioni quando si tratta soltanto per me di strapparla in ogni istante alle
libertà del commercio e della predazione che la uccidono e di restituirla alla
vita di cui essa si nutre?”
Questo momento lo sogno fin dall’adolescenza. Ha ispirato,
più di cinquanta anni fa, il Trattato del
saper vivere a uso delle giovani generazioni[2].
Non mi si toglierà il piacere di salutare questi Gilets jaunes che non hanno
davvero avuto bisogno di leggere il Trattato
per illustrare la sua messa in pratica poetica. Come non ringraziarli nel nome
dell’umanità che hanno deciso di affrancare da ogni barbarie?
3)Lei oppone alla democrazia parlamentare la democrazia diretta fondata
su assemblee auto organizzate. Il che fa pensare ovviamente a Murray Bookchin –
anche se l’IS[3]
lo aveva qualificato di “cretino confusionista” nel 1967! Tuttavia almeno due
punti vi separano: il principio e la nozione di potere che Lei rigetta in
blocco. Bookchin affermava, invece, che solo la legge maggioritaria permette la
democrazia e che la ricerca di consenso induce a un “autoritarismo insidioso” e
a “manipolazioni grossolane”; stimava ugualmente che cercare di abolire il
potere è altrettanto “assurdo” che voler farla finita con la gravità: “Bisogna
soltanto dargli una forma istituzionale concreta d’emancipazione”. Come si
spiega il suo rifiuto?
Fu un errore sottovalutare Bookchin e l’importanza
dell’ecologia. Non è stato il mio solo errore né il solo dell’IS. Tuttavia
questo errore ha una causa Essa risiede nella confusione (di cui il Trattato non è esente) tra
l’intellettualità e la presa di coscienza dell’Io e del mondo, tra
l’intelligenza della testa e l’intelligenza sensibile del corpo. Gli
avvenimenti recenti aiutano a chiarire la nozione d’intellettualità.
I Gilets jaunes che scandiscono ostinatamente alla faccia
dello Stato “siamo qui, siamo qui” fanno fremere le élites intellettuali di
ogni bordo, quelle che, progressiste o conservatrici, si attribuiscono la
missione di pensare per gli altri. Niente di sorprendente che i seguaci del
gauchismo e della critica-critica si siano impegnati a schernirli dall'’alto
della loro sufficienza!
Chi sono mai questi zoticoni che battono il marciapiede?
Hanno la testa vuota, non hanno programma né idee. Olà! Questi operai,
contadini, piccoli commercianti, artigiani, imprenditori, pensionati,
insegnanti, disoccupati, lavoratori consumati dalla ricerca di un salario,
poveri senza un tetto, studenti senza scuola, automobilisti da tassare e ai quali
far pagare il pedaggio, avvocati, ricercatori scientifici; insomma tutte quelle
e quelli che sono semplicemente disgustati dall'’ingiustizia e dall'’arroganza
dei morti-viventi che ci governano. Uomini e donne di ogni età hanno
bruscamente smesso di stiparsi in una massa gregaria, hanno abbandonato le
greggi belanti della maggioranza silenziosa. Non è gente da niente, è gente
ridotta a niente che ne prende coscienza e ha un progetto: istaurare la
preminenza della dignità umana distruggendo il sistema di profitto che devasta
la vita e il pianeta.
Il loro terreno è la realtà vissuta, quella di un salario, di
un magro contributo sociale, di una pensione insufficiente, di un’esistenza
sempre più precaria in cui la parte di vita vera si fa rara. Una realtà
siffatta si urta a una ginnastica delle cifre praticata nelle alte sfere. Se la
sottilità dei calcoli ha di che far perdere la ragione, il risultato finale è
invece di una semplicità esemplare e preoccupante: accontentatevi
dell’elemosina concessa dai poteri pubblici (finanziati da voi) e fate in
fretta a morire da cittadini rispettosi delle statistiche che tengono conto del
numero eccessivo di vecchi, di vecchie e di altri anelli che rendono fragile la
catena della redditività.
Questo scarto tra la vita e la sua rappresentazione astratta
permette di capire meglio oggi quel che è l’intellettualità. Lungi dal
costituire un elemento inerente alla natura dell’essere umano essa è un effetto
della sua denaturazione. Essa deriva da un fenomeno storico, il passaggio da
una società fondata su un’economia di raccolta a un sistema principalmente
agrario che pratica lo sfruttamento della natura e dell’uomo da parte
dell’uomo.
L’apparizione delle Città-Stato e lo sviluppo delle società
strutturate in classe dominante e classe dominata ha sottoposto il corpo alla
stessa divisione. Il carattere gerarchico del corpo sociale, composto di signori
e schiavi, va di conserva, nel susseguirsi dei secoli, con una segmentazione
che affligge il corpo dell’uomo e della donna. La testa – il capo – è chiamata
a governare il resto del corpo. Lo Spirito, celeste e terrestre, doma,
controlla e reprime le pulsioni vitali così come il prete e il principe
impongono la loro autorità allo schiavo. La testa assume la funzione
intellettuale – privilegio dei signori – che detta le sue leggi alla funzione
manuale, attività riservata agli schiavi. Stiamo ancora pagando i tributi di
quest’unità perduta, di questa rottura che consegna il corpo individuale e
carnale a una guerra endemica con se stesso.
Nessuno sfugge a quest’alienazione. Da quando la natura,
ridotta a un oggetto mercantile, è diventata (così come la donna) un elemento
ostile, spaventoso, disprezzabile, siamo tutti in preda a questa maledizione
che può essere soltanto sradicata da un’evoluzione restauratrice della natura,
da un’umanità in simbiosi con tutte le forme di vita. Messaggio per quanti e
quante ne hanno abbastanza delle scempiaggini dell’ecologismo!
Sono esistiti, in un passato recente, degli operaisti
abbastanza stupidi e contorti per glorificare lo statuto di proletario come se
questi non fosse bollato dal marchio di un’indegnità dalla quale solo una
società senza classi renderebbe possibile emanciparsi.
Chi vediamo oggi infatuarsi di questa funzione intellettuale
che è una delle ragioni maggiori della miseria esistenziale e
dell’incomprensione di sé e del mondo? Dei segugi in agguato di un potere da
esercitare, dei candidati al ruolo di capetto, degli aspiranti al ruolo di
guru.
Quando un movimento rivendica un rifiuto radicale dei capi e
dei rappresentanti non scelti dagli individui che compongono un’assemblea di
democrazia diretta, non sa che farsene di questi intellettuali fieri della loro
intellettualità. Non cade nella trappola dell’anti intellettualismo professato
dagli intellettuali del populismo di stampo fascista (“quando intendo la parola
cultura, tiro fuori la pistola”non fa
che tradurre il partito preso intellettuale dell’oscurantismo e dell’ignoranza
militante, tanto cari all’integralismo religioso e ai militanti neo nazisti).
Non c’è bisogno di denunciare i capi che intrallazzano nelle assemblee
di autogestione, quanto di accordare la preminenza alla solidarietà, al
sentimento umano, alla presa di coscienza della nostra forza potenziale e della
nostra immaginazione creatrice. Certo, la messa in atto deliberata di un
progetto più vasto è ancora incerta e confusa ma è almeno già l’espressione di
una sana e tranquilla collera che decreta: più nessuno mi darà degli ordini,
più nessuno mi abbaierà addosso!
Per quanto riguarda la questione della maggioranza e della
minoranza mi sono spiegato più di una volta in proposito. Secondo me, il voto
in assemblea autogestita non può ridursi al quantitativo, al meccanico. La
legge dei numeri si accorda poco con la qualità della scelta. Per quale ragione
una minoranza dovrebbe inchinarsi di fronte a una maggioranza? Non significa
forse ricadere nel vecchio dualismo della forza e della debolezza? Passi per le
situazioni in cui l’urgenza prescrive di evitare le discussioni e le
tergiversazioni senza fine, ma anche se si tratta di decidere di un’inezia
senza conseguenze gravi, la concertazione, il dialogo, la conciliazione,
l’armonizzazione dei punti di vista, detto altrimenti il superamento dei
contrari, sono certamente preferibili alla relazione di potere che implica la
dittatura delle cifre. Cerchiamo di non dover “lavorare nell’urgenza”.
A fortiori, fosse pure adottata a larga maggioranza, stimo inaccettabile
una decisione inumana – una punizione, una pena di morte, per esempio. Non sono
gli esseri umani che vanno messi in condizione di non nuocere, ma un sistema,
le macchine dello sfruttamento e del profitto. Il senso umano di uno solo avrà
sempre la meglio sulla barbarie di molti.
4) Chiunque s’identifichi con un territorio o
una lingua, Lei ha scritto, si spoglia della sua vitalità e della sua umanità. Tuttavia,
essere senza radici e senza lingua materna, non è forse il destino dei soli
robot?
Curiosa alternativa dover scegliere tra l’appartenenza a
un’entità geografica e l’erranza dell’esiliato. Da parte mia, la mia patria è
la terra. Identificarmi con l’essere umano in divenire – quel che mi sforzo di
essere – mi dispensa dal versare nel nazionalismo, nel regionalismo, nel
comunitarismo etnico, religioso, ideologico, dal soccombere a quei pregiudizi
arcaici e morbosi che la robotizzazione tradizionale dei comportamenti
perpetua. Lei invoca l’internazionalismo mafioso della mondializzazione. Io
scommetto su un’internazionale del genere umano e ho sotto gli occhi la
pertinacia di un’insurrezione pacifica che la concretizza.
5) Lei invita a non collaborare più con lo
Stato perché non è che il valletto “delle banche e delle imprese
multinazionali”. Per dirlo chiaro: a non pagare più le tasse. Molti continuano
a pensare, in seno al movimento anticapitalista, che quel che Bourdieu chiamava
“la mano sinistra” dello Stato – i servizi pubblici, per esempio – merita
ancora di essere salvato. Dobbiamo dunque tranciare le due mani senza più
esitare?
Salvare le conquiste sociali? Sono già perdute. Treni,
scuole, ospedali, pensioni sono spinte alla demolizione dal bulldozer dello
Stato. La liquidazione continua. La macchina del profitto di cui lo Stato non è
che un banale ingranaggio, non farà dietrofront. Le condizioni ideali sarebbero
per lo Stato d’intrattenere un’atmosfera di guerra civile con cui impaurire gli
spiriti e rendere il caos redditizio. Le mani dello Stato non manipolano che il
denaro, il manganello e la menzogna. Come non dare piuttosto fiducia alle mani
che nei crocevia, nelle case del popolo, nelle assemblee di democrazia diretta,
si attivano alla ricostruzione del bene pubblico?
6) Lei è favorevole a un “contributo mensile” –
quel che altri chiamano reddito di base o reddito universale. Senza lo Stato in
che modo istituirlo?
Il principio di accordare a tutti e tutte di che non
sprofondare sotto la soglia della miseria partiva da una buona intenzione. L’ho
abbandonata di fronte all’evidenza. Era un modo d’illudersi sull’intelligenza
che non aveva ancora totalmente disertato la testa dei governanti. Un certo
Tobin aveva proposto di eseguire sulla bolla finanziaria, minacciata di apoplessia,
un prelevamento salutare di qualche 0,001 per cento che avrebbe permesso di
evitare l’implosione finanziaria e di investire il montante della tassa per la tutela
delle conquiste sociali. La decomposizione accelerata dei cervelli delle élites
statali esclude ormai una misura che del resto gli ultimi residui del
socialismo non avevano osato adottare.
Lo Stato non è ormai più che un Leviatano ridotto alla
funzione grandguignolesca di gendarme. Tutto riprende radice alla base. Là
andremo a imparare a premunirci dalle ricadute della grande Fandonia statale e
dal disegno di coinvolgerci nel suo crollo. Se si vedono uscire dalle loro tane
tanti sociologi, politologi, nullità filosofiche, non è forse perché la nave
affonda?
Tutto è da ricostruire, vuoi da reinventare: insegnamento,
terapie, scienze, cultura, energia, permacultura, trasporti. Che il dibattito,
il dialogo, le riflessioni si situino su questo terreno, non nelle sfere eteree
della speculazione economica, ideologica, intellettuale!
Non tocca a noi reinventare una moneta di scambio e una banca
solidale che preparando la scomparsa del denaro, permetterebbero di assicurare
a ciascuna e a ciascuno un minimo vitale?
7) Lei mette in avanti il Chiapas zapatista e
il Rojava comunalista.Queste due esperienze si fondano, in parte, su un
esercito: l’EZLN e il YPG/J. In che modo il suo appello a “fondare dei
territori” affrancati dal potere centrale e dal mercato mondiale si posiziona
sulla questione cruciale dell’autodifesa, visto che lo Stato finirà, prima o
poi, per inviare i suoi gendarmi o il suo esercito?
Va da sé che ogni situazione presenta una specificità che
esige un trattamento appropriato. Notre Dame des Landes non è il Rojava. L’ELZN
non è un prodotto d’esportazione. A ogni territorio in via di liberazione le
sue forme particolari di lotta. Le decisioni appartengono a quelle e quelli che
sono sul terreno.
Tuttavia, è bene ripeterlo: il modo di affrontare gli esseri
e le cose varia secondo la prospettiva adottata. L’orientamento dato alla lotta
esercita un’influenza considerabile sulla sua natura e sulle sue conseguenze.
Il comportamento varia totalmente se si combatte militarmente la barbarie con
le armi della barbarie o se le si oppone come un fatto compiuto quel diritto
incomprimibile alla vita che talvolta regredisce ma non è mai vinto e
ricomincia incessantemente.
La prima opzione è quella della guerriglia. Il gauchismo
paramilitare ha dimostrato con le sue sconfitte che scendere sul terreno del
nemico significava piegarsi alla sua strategia e subirne la legge. La vittoria
dei conflitti con pretesa di emancipazione ha fatto anche peggio. Il potere
insurrezionale ha rivolto i suoi fucili contro quelle e quelli che gli avevano
permesso di trionfare.
In Lo Stato non è più
niente, sta a noi essere tutto[4], ho azzardato la formula “Né guerrieri
né martiri”. Essa non dà alcuna risposta ma pone solamente la questione: come
fare della volontà di vivere e della propria coscienza umana un’arma che non
uccide, un’arma assoluta?
L’energia che i casseurs
militanti sprecano in incendi di spazzatura e in rottura di vetrine non sarebbe
forse più giudiziosa nella difesa delle ZAD (zone da difendere) in lotta contro
la produzione di nocività e d’inutilità redditizie? Un’interrogazione similare
vale per i manifestanti che portano a spasso episodicamente l’illusione di
ottenere delle misure in favore del clima. Che cosa attendersi da Stati che
sono i commessi viaggiatori dell’economia inquinante? La presenza massiccia dei
protestatari sarebbe più auspicabile laddove questa economia avvelena una
regione, un territorio. L’incontro di una violenza cieca con una volontà
tranquilla ma decisa non avrebbe forse qualche speranza di fondare una sorta di
pacifismo insurrezionale la cui ostinazione potrebbe spezzare poco a poco il
giogo dello Stato di profitto?
8) Lei ha più volte avanzato che “la
trasgressione è un omaggio al divieto”. Che la distruzione (in francese, la
casse) non serve l’affrancamento; peggio, ch’essa “restaura” l’ordine. Il
sollevamento dei Gilets jaunes ha trasformato numerosi “non-violenti” in
simpatizzanti dei Black Bloc; solo la violenza (in francese, le casse), dicono
in sostanza, ha permesso di far reagire il potere; solo il fuoco è riuscito a
far tremare Macron. È falso?
Che bella vittoria far tremare un tecnocrate che ha il
cervello di un registratore di cassa! Lo Stato non ha ceduto nulla, non lo può,
non lo vuole. La sua sola reazione è consistita nel sopravvalutare le violenze
nel ricorrere al pestaggio fisico e mediatico per sviare l’attenzione dai veri
casseurs, quelli che rovinano il bene pubblico. Come ho già detto le vetrine in
frantumi tanto care ai giornalisti, sono l’espressione di una collera cieca. La
collera si giustifica, la cecità no! Il valzer a mille tempi dei pavé e dei
lacrimogeni fa del surplace. Gli organi di governo vi trovano il loro conto.
Quel che è vincente è lo sviluppo della coscienza umana, la
decisione sempre più ferma, nonostante la stanchezza e i dubbi presi in conto
dalla paura e dalla meschinità mediatica. La potenza di questa determinazione
non cesserà di crescere perché non si cura né di vittoria né di sconfitta.
Perché senza capi né rappresentanti recuperatori essa è là, presente, e assume
da sola – per tutte e per tutti – la libertà di accedere a una vita autentica.
Siatene certi: la democrazia è in piazza, non nelle urne.
9) Nel 2003, con “Le Chevalier, la Dame,
le Diable et la mort”, Lei ha consacrato delle belle pagine alla questione animale che si è in
seguito imposta quasi quotidianamente nel dibattito pubblico. Lei ha parlato
recentemente di una “nuova civiltà” da creare; potrà essa voltare la pagina dei
massacri giornalieri di animali sui quali si ergono ancora le nostre società?
I biotopi devastati, i pesticidi, i massacri di api, di
uccelli, d’insetti, la fauna marina soffocata dal versamento in mare di
plastiche, l’allevamento concentrazionario delle bestie, l’avvelenamento della
terra, dell’aria, dell’acqua altrettanti crimini che l’economia di profitto
perpetua impunemente, in tutta legalità prefabbricata. Agli indignati che
strepitano che “bisogna salvare l’umanità dal disastro”, i cadaveri che ci
governano oppongono lo spettacolo di promesse non tenute e insostenibili.
Reiterano cinicamente il carattere irrevocabile del loro decreto: bisogna
salvare l’economia, la redditività, il denaro e pagare, per questo nobile
ideale, il prezzo della miseria e del sangue.
Il loro mondo non è il nostro: lo sanno e se ne fottono. A
noi di decidere della nostra vita e del nostro ambiente. A noi di ridere dei
loro obblighi burocratici, giuridici, polizieschi troncando la loro impresa
alla base, là dove siamo, là dove ci soffoca. Come dicevano i sanculotti del
1789: “Ve ne fottete di noi? Non ve ne fotterete a lungo!”.
Ci incamminiamo verso uno stile di vita fondato su una nuova
alleanza con l’ambiente naturale. È in una tale prospettiva che la sorte delle
bestie sarà abbordata, non con uno spirito caritativo o compassionevole ma
sotto l’angolo di una riabilitazione: quella dell’animalità che ci costituisce
e che sfruttiamo, torturiamo, reprimiamo nello stesso modo in cui maltrattiamo,
reprimiamo, maltrattiamo quei fratelli
inferiori che sono anche i nostri fratelli
interiori.
10) Lei invita comunque, nel suo ultimo scritto
a “ristabilire la preminenza dell’umano”. Come assumere la singolarità dell’Homo
Sapiens ricordandogli al tempo dell’antropocene che dovrebbe farsi più piccolo
giacché non rappresenta che lo 0,01 % della biomassa?
Sarebbe l’ora che il ya
basta, siamo stufi, ce n’è abbastanza! si applichino a quel dogma fabbricato
da un sistema di sfruttamento che, facendo la parte bella ai signori propagava
la credenza nella stupidità e nella debolezza innata dell’essere umano. Non si
è smesso di abbassarlo questo povero diavolo. Non è stato a lungo che una deiezione
degli Dei, triturato secondo il gusto dei loro capricci. Lo si è caricato di
una maledizione ontologica, di una malformazione naturale, di uno stato di
puerilità permanente che rendeva necessaria la tutela di un signore. Finisce
oggi in una spazzatura in cui è ridotto a un oggetto, a una cifra, a una
statistica, a un valore mercantile.
Tutto salvo riconoscergli una creatività, una ricchezza
potenziale, una soggettività che aspira ed esprimersi liberamente. Voi
continuate a predicare l’angoscia degli spazi infiniti del giansenista Pascal,
mentre una rivoluzione della vita quotidiana avvantaggia l’individuo e lo
inizia a una solidarietà capace di liberarlo dal calcolo egoista e
dall'’individualismo in cui lo rinchiudeva la società gregaria. Quando degli
uomini e delle donne gettano le basi di una società egualitaria e fraterna, il
sermone rimasticato incessantemente dai propagandisti della servitù volontaria
trova dunque ancora dei portavoce!
I soli spazi infiniti che mi appassionano sono quelli che
l’immensità di una vita da scoprire e da creare apre davanti a noi. Si gridava
ieri “A cuccia i promotori di re e di curati!” Sono gli stessi oggi,
riconvertiti. A cuccia i promotori di mercato.
Intervista a Vaneigem
per We demain n° 26
1. Mezzo secolo dopo il maggio 68 nessuno slogan della
contestazione è arrivato alle caviglie di quelli che Lei ha ispirato all’epoca.
I poeti guardano altrove?
La poesia scritta non è che la schiuma della poesia vissuta.
L’atto poetico per eccellenza è oggi il risveglio della coscienza umana dopo
cinquanta anni di sonnolenza, d’abbrutimento consumistico e mediatico. Le
parole “Risveglio delle lucciole” iscritte sul gilet jaune di una manifestante
mi sembrano altrettanto promettenti del ritornello del 1968 “Vogliamo vivere e
non sopravvivere”. Come esprimere meglio il ritorno alla vita e il rifiuto
della distruzione della terra da parte della grande macinatrice del profitto?
2. Considera le ZAD come zone di autonomia la cui genesi
discenderebbe dal pensiero situazionista e gli zadisti come neosituazionisti?
Nel qual caso come definirebbe questo situazionismo del XXI secolo?
Non ci sono neosituazionisti. Il situazionismo è una volgare
ideologia, utile per infarinare i cialtroni che arrivano al ridicolo di
chiamare filosofia la nullità mentale di cui si saziano le mondanità parigine.
Per contro, il pensiero che ha nutrito la radicalità del Maggio 1968 sta ancora
lentamente aprendosi un varco. Ricordiamo che non si trattava nientedimeno che
di fondare una società autogestita in cui le assemblee di democrazia diretta
mettessero fine allo Stato, al “mostro freddo” protettore degli sfruttatori e
oppressore degli sfruttati. L’alleanza del partito comunista e del governo
francese aveva allora spezzato uno slancio rivoluzionario, in realtà già
degradato dall'’interno dall'’arrivismo dei piccoli caporali gauchisti. Che non
ci siano capi tra i Gilets jaunes e che solo l’avvallo delle assemblee
accrediti un porta parola marca un netto progresso rispetto al movimento delle
occupazioni del 1968.
3. Lei dice che “la storia non manca di momenti in cui la
poesia trionfa sulla barbarie”. Questo trionfo è stato talvolta l’opera di un
uomo provvidenziale, di un eroe, come Gandhi o Mandela. Il carattere tutelare
che rappresenta un tale personaggio impedisce l’evoluzione verso una società
autogestita?
L’uomo provvidenziale è il prodotto di uno choc sismico tra
il sistema economico in cerca di una nuova forma e l’insoddisfazione
esistenziale di una popolazione che dispera di accedere a una sorte migliore.
Anche se Gandhi e Mandela hanno incarnato la speranza di un miglioramento
sociale, non avevano alcuna possibilità di sradicare la miseria del loro paese
perché erano lo Stato, il Leviatano degli interessi privati, il potere cher
protegge opprimendo. Sono stati i pastori di una barbarie in transumanza. Avevano
perlomeno conservato una coscienza umana e fatto mostra di una generosità
riformista di cui non ignoravano i limiti. Sappiamo che da Bonaparte a Pol Pot,
la brutalità e la meschinità hanno sempre favorito l’accesso di una guida
suprema alla testa di un paese. Tuttavia, oggi quale Provvidenza potrebbe
accomodarsi di un meccanismo rudimentale la cui funzione è di ticchettare al
ritmo di una macchina assurda, sprovvista di umanità?
4. Lei dice della poesia che è “l’antidoto dell’intellettualità”,
e anche che può “sradicare la nocività del capitalismo parassitario”. La si può
insegnare al bambino? Sottraendolo alla scuola? Con quali cambiamenti nei
metodi educativi?
Sarebbe prerogativa del bambino insegnarci l’arte di essere umani
se l’educazione che gli applichiamo non gli disapprendesse a vivere. Lasciarlo libero
di scoprire l’esperienza della vita in comune, i conflitti che essa genera e la
loro soluzione possibile, questo è il progetto diffuso oggi dalla volontà di
sradicare l’insegnamento concentrazionario, l’indottrinamento alla servilità di
cittadinanza, l’iniziazione alle pratiche di predazione, della concorrenza,
della competizione, la fabbricazione di quegli schiavi di mercato di cui i
tecnocrati che pretendono di governarci illustrano il ridicolo pietoso. La
forza del movimento sovversivo di cui i Gilets jaunes non sono che un
epifenomeno, dipende principalmente dalla volontà di un ritorno alla base e dall’attenzione
di abbordare dal punto di vista delle preoccupazioni locali – villaggio,
quartiere, regione – dei problemi che lo
Stato non può e non vuole gestire che a vantaggio delle potenze finanziarie. È
giunta l’ora di fare della scuola l’affare di tutte e di tutti, di sottrarla
allo Stato e alla sua scienza senza coscienza.
5. Ha conoscenza dell’esistenza nel mondo di zone in cui la
poesia, la creatività, le arti abbiano più possibilità di fiorire che altrove?
Dovunque le donne sono al cuore della lotta per la vita
sovrana, dovunque la loro decisione infrange il potere patriarcale e supera
l’opposizione tra virilismo e femminismo che troppo sovente frena e occulta
un’aspirazione comune a essere semplicemente umani. Dovunque la solidarietà
senza frontiere abolisce il razzismo, l’antisemitismo (questo “socialismo degli
imbecilli”), la xenofobia, il sessismo, l’omofobia. Dovunque è spazzata via la
struttura gerarchica e la tecnica del “capro espiatorio” indispensabile
all’arte di sottomettere i propri simili.
6. Lei dice che “non c’è cuore nel quale non dimori una
potenza di vita avida di affermarsi affinandosi alla luce della propria
intelligenza sensibile”. Questa “intelligenza sensibile” che attraversa tutti i
suoi scritti non è la fonte viva della sua filosofia?
Essa è soprattutto sorgente di vita. Affinare ogni giorno la
coscienza della mia volontà di vivere mi dispensa dal sostenere un ruolo. Non
sono né filosofo, né scrittore, né agitatore, né maître à penser. Combattere il vecchio mondo mi aiuta ad “avanzare
nell’inverno a forza di primavere”, come dice Charles de Ligne. Che noi siamo
entrati in un periodo critico in cui la minima contestazione particolare si
articola su un insieme di rivendicazioni globali m’incanta, come m’incanta, in
questo movimento di rivolta in cerca di una rivoluzione, la lotta del cuore
contro lo spirito del registratore di cassa.
7. Lei dice che “persino l’insubordinazione è rassegnata”.
Pensa questo dei Gilets jaunes?
Troppe lotte d’emancipazione sono state logorate fin
dall'’inizio dall'’idea di una sconfitta ineluttabile. I “no pasaran” e altre
fanfaronate del trionfalismo non hanno mai fatto altro che esorcizzare il
panico inerente a un’azione militare. La servitù volontaria costruisce attorno
a noi dei muri del pianto che giustificano e alimentano la nostra
rassegnazione.
A differenza dei movimenti rivendicativi del passato, la
grande ondata insurrezionale che agita la Francia non si preoccupa né di
vittoria né di sconfitta, ma insiste nel manifestare la sua intenzione
incrollabile, la sua volontà di ricominciare senza sosta; come rinasce senza
sosta la passione di vivere.
8. Per Lei il movimento dei Gilets jaunes non è altro che una
jacquerie che alimenta il sistema oppure segna l’irruzione di una contestazione
radicale?
Certamente il potere statale e mercantile preferirebbe non
cogliervi altro che un rimasuglio di jacquerie, uno di quei moti plebei
tradizionalmente soffocati nel sangue. Purtroppo per lui l’insurrezione
popolare ricorda piuttosto quella del 14 luglio 1789, quando un pugno di
pazzoidi che non avevano letto né Diderot né d’Holbach, né Rousseau né Meslier
hanno offerto al pensiero illuminista la fiaccola di una libertà che continua a
rischiarare il mondo, allorché la parola “libertà” è invece corrotta. Siamo in
diritto di parlare di una poesia fatta da tutti quando la coscienza umana
smonta la menzogna che identifica la libertà con la libertà di commercio, la
libertà di sfruttare, di uccidere, di avvelenare. Come potrebbe il governo non
essere condannato a uno sgomento crescente? Come potrebbe comprendere che
quella che è cominciata non è una lotta contro lo Stato ma una lotta per la
vita?
9. Lei dice che il “vecchio potenziale di credulità non ha
alcuna difficoltà nell’approfittare delle predizioni scientifiche che, dal
cataclisma nucleare a quello ecologico, passando per il valzer macabro delle
pandemie, hanno un enorme successo”. Aggiungerebbe i teorici della
collapsologia tra questi “commercianti”?
Io saluto le sentinelle che vigilano. Che le sirene d’allarme
risuonino in ogni luogo per mettere in guardia contro il degrado climatico,
l’avvelenamento agroalimentare, l’inquinamento industriale e il cinismo di un
governo che protegge Total, ma istaura una tassa sul carburante. Ciò
contribuisce al risveglio delle coscienze ma queste manifestazioni non faranno
cambiare di una virgola la politica degli Stati, indissolubilmente asserviti
alle multinazionali che fanno del pianeta un deserto. Nel solco della sconfitta
dei militanti si sviluppa dunque un’ideologia della catastrofe ineluttabile, un
sentimento di fatalità. Il mercato della paura è là per farsi carico della
disperazione di chi ha l’impressione di battersi invano. Un’energia considerevole
si dissipa nell’angelismo delle buone intenzioni, nell’indignazione impotente
delle proteste di piazza. Non sarebbe più utile investire questa energia nella
lotta che le ZAD conducono nelle loro regioni contro le nocività, le imprese
inquinanti, l’avvelenamento delle terre, dell’acqua, del cibo? È a questo
livello locale che trovano senso ed efficacia le vere rivendicazioni in favore
del clima e dell’ambiente.
10. Lei ci ricorda che ogni pensiero sovversivo è portatore
di una nuova tirannia. Se riuscissimo a sovvertire contemporaneamente il
capitalismo planetario, la società dei consumi, quella dello spettacolo e
persino l’uso della moneta, di quale tirannia dovremmo allora diffidare?
Senza dubbio del riflesso predatore, di quel residuo di
animalità non superata, del fascino morboso esercitato dal potere. Fin
dall'’apparizione delle Città-Stato datano le guerre, la risoluzione dei
conflitti attraverso la violenza, il patriarcato, la gerarchia che divide la
società in signori e schiavi. Quel che una menzogna secolare attribuisce alla
natura umana è in realtà l’effetto di una denaturazione che tocca l’uomo e la
donna, li disumanizza attraverso un sistema di sfruttamento, impone loro una
separazione fittizia con una testa dirigente, emanazione del lavoro intellettuale,
e un corpo forzato al lavoro manuale. Più che la ripetizione di suppliche
morali, l’instaurazione di uno stile di vita verrà a capo di questa tara che ci
affligge da millenni.
11. Lei propone di “avanzare verso una metamorfosi in cui
l’uomo, artista totale della propria esistenza, diventerebbe un essere umano in
un processo sperimentale capace di aprire il campo di tutti i possibili”. Non è
proprio questo campo di tutti i possibili, questa libertà che tetanizza? Non è
forse la paura l’ostacolo maggiore all’avvento dell’Homo ecologicus?
L’annotazione di Scutenaire “Poveri uccelli che non mangiate
se non con gran paura” si applica all’esistenza quotidiana di milioni di donne
e uomini trattati dal sistema di sfruttamento economico e sociale come un misto
di bestie da soma e di bestie da preda. Finché la volontà di vivere non avrà
abolito la lotta di sopravvivenza (struggle
for life) e fatto tabula rasa delle arene della miseria concorrenziale, la
paura resterà onnipresente. Solo ne verrà a capo (di essa e della sua sorella
gemella, la colpevolezza) una gioia di vivere che non ha bisogno che di audacia
e ancora di audacia per rivendicare la sua sovranità assoluta.
12. Quali consigli di lettura darebbe alle generazioni
future?
Imparare innanzitutto a decifrare la loro esistenza, quella
che è loro imposta da una società di predatori e quella che dal fondo del
cuore, desiderano con passione.
Consiglio loro, incidentalmente, di sfogliare a titolo
d’informazione il libro più durevolmente vietato e occultato della storia, Il discorso della servitù volontaria
scritto da un adolescente di diciassette anni, Etienne de la Boétie.
[1]
L’Appel à la vie è una breve sintesi
appena pubblicata in Francia a seguito di Sull’autogestione della vita quotidiana – contributo all’emergenza di territori
liberati dall'’impresa statale e mercantile, Derive Approdi, Roma 2019.
[2] R.
Vaneigem, Trattato del saper vivere ad
uso delle giovani generazioni, Castelvecchi, Roma 2006.
[3]
Internazionale situazionista alla quale Vaneigem ha grandemente contribuito.
[4] R.
Vaneigem, Lo Stato non è più niente, sta
a noi essere tutto, Nautilus Torino 2010.