giovedì 23 luglio 2020

La religione del virus e dell’antivirus Come questa crisi sconvolgente ci spinge a un cambiamento radicale o a sparire



But go to work and consume!

La paura è la radice fondamentale di ogni credenza, di ogni superstizione. Dalla notte dei tempi, di fronte a un pericolo verificato o immaginato del quale non si ha una conoscenza articolata, la prima reazione umana è la creazione di un’ipotesi rassicurante, almeno a livello psicologico. Essa accompagna il principio di precauzione che è una prima risposta razionale al pericolo. Come tutte le emozioni umane, la paura comporta una parte irrazionale e un’altra razionale. Queste due componenti sono l’espressione della soggettività che è emozionale e pragmatica nello stesso tempo. Nessuna reazione umana può essere unicamente razionale. Per contro, essa può ridursi a un’affabulazione.
Lo spirituale e il materiale sono indivisibili, ma il loro dosaggio variabile può oscillare fortemente tra il misticismo e il razionalismo morboso. A questo proposito ricordo a memoria una frase di Freud: “Il viaggiatore che fischia nella notte prova meno paura, ma non ci vede più chiaro”.
Poco importa, perché fischia appunto per avere meno paura giacché non ci vede per niente chiaro. Meno ci vede chiaro, più ha paura, più ha paura, più fischia forte. Bisogna diffidare di questa paura della paura.
Mi ha colpito, in questi giorni di coronavirus, leggere sui muri del mio villaggio la saggezza negazionista all’opera: “Non abbiate paura”. Questo slogan pubblicitario dall’apparenza fraterna, è un’illusione dello stesso tipo del “I Want You” americano di un tempo, utilizzato per arruolare i soldati nell’esercito. Si tratta della stessa esortazione ma rovesciata poiché non c’è più bisogno di soldati che muoiano battendosi per la produzione come nelle guerre passate (almeno nel nostro arcipelago occidentale), ma di caporali pronti a morire di consumo – soprattutto della malattia di non vivere che spalanca le porte alle patologie cancerogene, alle malattie cardiovascolari, all’Aids e ora anche al coronavirus, in attesa del seguito che sarà sicuramente caldo, anzi caldissimo.
In questo contesto, “Non abbiate paura” significa comprate, comprate qualsiasi cosa, comprate la vostra sopravvivenza di merda. È un messaggio per gli alienati che hanno la peggiore delle paure: la paura di avere paura, quella che tetanizza il principio di precauzione spingendoti a fischiare nella notte buia del consumo delle cose e della tua vita ridotta a una sopravvivenza sempre più improbabile.
In questo contesto, non avere paura per davvero significa battersi con le armi della vita, la gratuità e l’aiuto reciproco, contro la sopravvivenza alienata con o senza maschera – a ciascuno la sua libera precauzione, rispettando quella altrui perché questa parte della paura è un patrimonio dell’umanità.
Il gioco degli eroi immacolati e senza paura è molto spesso un gioco suicida, tragico o ridicolo, commovente o macabro, nobile espressione di autonomia individuale o prodotto stupido e cattivo dell’individualismo alienato e alienante.
Quel che vogliono questi rivoltosi spettacolari che fischiano nella notte produttivista l’inesistenza del virus, non è la fine del capitalismo, ma la continuazione del loro sonno agitato: passando dal famoso slogan critico del sessantotto francese – métro, boulot, dodo (metro, lavoro e a nanna) – all’alienazione attuale – apéro, portable, boulot (aperitivo, telefonino e lavoro) –, non si è usciti dall’incubo e soprattutto non ci si è risvegliati; si resta dei sonnambuli che si scambiano baci in piena pandemia anziché abbracciarsi fino all’orgasmo nella rivoluzione sociale. Troppi giovani mistici abbracciano una rivolta spettacolare sprovvisti della coscienza radicale del rifiuto necessario e urgente della società produttivista.
Non abbiate paura di temere il pericolo, abbiate piuttosto paura di non vivere mai una vita vera. Prendete i rischi necessari con il virus come con il vostro lavoro. Abbracciatevi per un orgasmo, per amarsi organicamente in tutte le forme che si è capaci d’inventare. Di grazia, non prendiamo rischi per andare a lavorare (o comunque il meno possibile, visto che il ricatto economico è sempre in agguato), per fare marciare la macchina economica che potremmo gioiosamente sostituire con l’autogestione generalizzata della vita quotidiana, né per quelle pantomime mondane in cui il bar non è più che una chiesa della noia condivisa e del consumo sacralizzato.
Quando i situazionisti si ubriacavano un bistrot dopo l’altro, l’alcol era un carburante della loro volontà di rovesciare il mondo. Oggi – specialmente con il virus, ma io che ho passato una buona parte della mia giovinezza nei bar, ne avevo già avuto sentore prima – abbiamo barattato la voglia poetica di trasformare le chiese in bistrot con la tendenza depressiva a trasformare i bistrot in chiese del consumo.
Ancora una volta, l’essere umano ha sviluppato un pensiero religioso che inquina la sua voglia di vivere con le gerarchie di potere nate con l’instaurazione e il progressivo rinforzo della civiltà produttivista. Il grande psicodramma della crisi del coronavirus non sfugge a questa regola.
Incapaci di tenere sotto controllo la nuova situazione e i pericoli che essa comporta, tutte le reazioni in proposito sono fortemente intaccate di misticismo (Bisognerà chiarire, però, il senso dato a questa parola chiave e complessa: misticismo. Essa accompagna, infatti, l’umano lungo tutta la sua evoluzione alienata e reificata).
Il negazionismo a proposito del virus, come ogni complottismo, è un alibi per il capitalismo e per suo padre – il produttivismo. Dalla sua nascita ci dice che non è il capitalismo che fa male, ma i cattivi che dirigono il mondo complottando contro di noi. Non è il virus che uccide, sono i cattivi eccetera...
Il complottismo partecipa alla reificazione negandone l’esistenza. Non è l’alienazione che corrompe il mondo, sono i corrotti che ci vogliono male. Non esiste una colpa strutturale del sistema come non sono esistiti i campi di sterminio. Ebbene, il virus esiste altrettanto che lo Zyklon B ed entrambi sono prodotti di un’artificiale industrializzazione economicista della vita! Dopo il trauma nazista, la sua sconfitta militare e la sua vittoria economicista, il mondo marcia a testa in giù; una testa svuotata dall’alienazione e dalla reificazione.
Il negazionismo è il meccanismo di base del totalitarismo mercantile arrivato alla sua fase terminale: l’ultima programmazione dello spettacolo sociale.
Il virus ci obbliga in negativo a dei comportamenti virtuosi che sta a noi rovesciare in positivo per liberare il mondo della macchina produttivista. Negare il virus come tendono a fare parecchi giovani educati dall’alienazione e dal feticismo della merce, è un accecamento pernicioso.
Questi rivoltosi senza rivoluzione si oppongono con una logica binaria ai loro compagni di disgrazia sociale ancora malati del vecchio métro, boulot, dodo. Rifiutano questo diktat sostituendolo con apéro, portable, boulot, cambiando così mantra, ma non abbandonando neanche per un secondo il mondo del consumo. Perché il vero lavoro generalizzato del mondo occidentale è ormai il consumo della merda nociva che il sistema produttivista mondiale fa circolare: cibo, comunicazione, attività virtuali, viaggi fittizi e in conseguenza salute fragile e malattie.
Di fronte alla peste sociale diffusa, accontentarsi d’ignorare la crisi del virus quando la crisi della vita ci risica già da molto tempo, è una risposta mistica delirante al potere dominante. Una fuga cieca che fa i suoi affari. Perché se il potere utilizza il virus come qualunque manifestazione del vivente per meglio addomesticare i suoi servitori volontari o refrattari, questa variabile imprevista lo obbliga a scelte pericolose e rivelatrici della disumanità intrinseca del capitalismo e del produttivismo approvato come un universo insuperabile.
Per preservare il pieno uso dei loro schiavi, sono stati obbligati a interrompere massivamente il lavoro produttivo che ora rimettono in marcia, inquieti, senza la minima sicurezza per i lavoratori. Il diniego dell’esistenza di un pericolo virale è dunque prezioso per i giocolieri del potere che ne approfittano, mentre stigmatizzano i “giovani irresponsabili” che ignorano i gesti barriera e non portano le maschere di protezione. Dimenticano, ipocriti e cinici manipolatori, che per settimane hanno fatto circolare la vergognosa e criminale menzogna che le maschere non servono a nulla!
Senza saperlo, i partecipanti allo spettacolo sono tutti malati della stessa religione. Infatti, negare il rischio pandemico con i Bolsonaro, i Trump e altri nazistelli deficienti, sia pur spinti da una sincera e ben comprensibile rabbia diffidente verso il potere, è un atteggiamento mistico che nega la possibilità di rompere con il produttivismo di cui il virus ci rivela, in effetti, l’arcano rimosso di una rivoluzione ancora tutta da fare: l’abbandono radicale e ben controllato dell’attività che fa di noi gli schiavi del produttivismo per la creazione collettiva di una nuova società produttrice di felicità.
Per lottare contro questa pandemia che include tutte le nocività particolari, si deve farla finita con la logica economica, fracassando l’impresa di un sistema che schiaccia l’umano da millenni e trasforma gli esseri in oggetti, le cose in merce e la merce in denaro. La trasformazione della produzione di oggetti utili in oggetti redditizi è giunta oggi alla distruzione programmata delle condizioni della vita sulla terra. Non ne usciremo per mezzo di riforme. Ci vorrà un’interruzione di gravidanza del parto del Frankenstein totalitario, numerico e planetario.
Il virus ci mostra la strada, ma è la sua. Sta a noi d’inventare la nostra, non favorendo la pandemia ignorandola, ma abolendo il produttivismo e con lui le nocività che produce e protegge.


Sergio Ghirardi, 14 luglio 2020


La religion du virus et de l’antivirus


Comment cette crise bouleversante nous pousse à un changement radical ou à disparaître

La peur est la racine fondamentale de toute croyance, de toute superstition. Depuis la nuit des temps, face à un danger vérifié ou imaginé dont on n’a pas une connaissance maitrisée, la première réaction humaine est la création d’une hypothèse rassurante, du moins au niveau psychologique. Celle-ci accompagne le principe de précaution qui est une première réponse rationnelle à un danger. La peur, comme toutes les émotions humaines, comporte une composante irrationnelle et une autre rationnelle. Ces deux composantes sont l’expression de la subjectivité qui est émotionnelle et pragmatique en même temps. Aucune réaction humaine ne peut être uniquement rationnelle. En revanche, elle peut se réduire à une affabulation.
Le spirituel et le matériel sont indivisibles, mais leur dosage variable peut balancer grandement entre le mysticisme et le rationalisme morbide. A ce propos, je me rappelle de mémoire une phrase de Freud: « Le voyageur qui siffle dans le noir a moins peur, mais il ne voit pas plus clair ».
Peu importe, car il siffle justement pour avoir moins peur alors qu’il ne voit pas clair du tout. Moins il voit clair, plus il a peur, plus il a peur, plus il siffle fort. Il faut se méfier de cette peur de la peur.
Cela m’a frappé, dans ces jours de coronavirus, de lire sur les murs de mon village la sagesse négationniste à l’œuvre : « N’ayez pas peur ». Ce slogan publicitaire à l’apparence fraternel, est un leurre du même ordre que le « I Want You » américain de jadis, utilisé pour enrôler les soldats dans l’armée. C’est la même exhortation mais renversée car on n’a plus besoin de soldats qui meurent en se battant pour la production comme dans les guerres d’antan (du moins dans notre archipel occidental), mais de caporaux prêts à mourir de consommation – surtout de la maladie de ne pas vivre qui ouvre grande la porte au cancer, aux maladies cardiovasculaires, au Sida, et maintenant aussi au coronavirus, en attendant la suite qui sera surement chaude, même très chaude.
Dans ce contexte, « N’ayez pas peur » signifie achetez, achetez n’importe quoi, achetez vos survies de merde. C’est un message pour les aliénés qui ont la pire des peurs : la peur d’avoir peur, celle qui tétanise le principe de précaution en te poussant à siffler dans la nuit sombre de la consommation des choses et de ta vie réduite à une survie de plus en plus improbable.
Dans ce contexte, n’avoir véritablement pas peur, signifie se battre avec les armes de la vie, la gratuité et l’entraide, contre la survie aliénée avec ou sans masque – à chacun sa libre précaution, en respectant celle des autres car cette partie de la peur est un patrimoine de l’humanité.
Le jeu des héros immaculés et sans peur est très souvent un jeu suicidaire, tragique ou ridicule, émouvant ou macabre, expression noble d’autonomie individuelle ou produit bête et méchant de l’individualisme aliéné et aliénant.
Ce qu’ils veulent ces révoltés spectaculaires qui sifflent dans la nuit productiviste l’inexistence du virus, ce n’est pas la fin du capitalisme, mais la continuation de leur sommeil agité : en passant du fameux slogan critique de mai ’68 – métro, boulot, dodo – à l’aliénation actuelle – apéro, portable, boulot –, on n’est pas sortis du cauchemar et surtout on n’est pas réveillés ; on est des somnambules qui se font la bise en pleine pandémie plutôt que s’embrasser jusqu’à l’orgasme dans la révolution sociale. Trop de jeunes gens mystiques embrassent une révolte spectaculaire dépourvus de la conscience radicale du refus nécessaire et urgent de la societé productiviste.
N’ayez pas peur d’avoir peur du danger, ayez plutôt peur de ne jamais vivre une vraie vie. Prenez les risques nécessaires avec le virus comme avec votre travail. Embrassez vous pour un orgasme, pour s’aimer organiquement dans toutes les formes qu’on est capables d’inventer. De grâce, ne prenons pas des risques pour aller bosser (les moins possible du moins, que le chantage économique nous guette toujours), pour faire marcher la machine économique qu'on pourrait joyeusement substituer par l'autogestion généralisée de la vie quotidienne, ni pour ces pantomimes mondaines où le bistrot n’est plus qu’une église de l’ennui partagée et de la consommation sacralisée.
Quand les situationnistes se soulaient le gueule un bistrot après l’autre, l’alcool était un carburant de leur volonté de renverser le monde. Aujourd’hui – spécialement avec le virus, mais moi que j’ai passé une bonne partie de ma jeunesse dans les bistrots, je l’avais déjà senti venir avant – on a troqué l’envie poétique de transformer les églises en bistrots avec la tendance dépressive à transformer le bistrot en églises de la consommation.
Une fois de plus, l’être humain a développé une pensée religieuse qui pollue son envie de vivre avec des hiérarchies nées de l’instauration et du renforcement progressif de la civilisation productiviste. Le grand psychodrame de la crise du coronavirus n’y échappe pas.
Incapables de maitriser la situation nouvelle et les dangers qu’elle comporte, toutes les réactions à son propos sont fortement entachées de mysticisme (Il faudra, néanmoins, clarifier le sens qu’on donne à ce mot clé et complexe: mysticisme. Car il accompagne l’humain pendant toute son évolution aliénée et réifiée).
Le négationnisme du virus, comme tout complotisme, est un alibi pour le capitalisme et pour son père – le productivisme. Depuis sa naissance, il nous dit que ce n’est pas le capitalisme qui fait mal, ce sont les méchants qui dirigent le monde en complotant contre nous. Ce n’est pas le virus qui tue ce sont les méchants etcetera…
Le complotisme participe à la réification en niant son existence. Ce n’est pas l’aliénation qui corrompt le monde, ce sont les corrompus qui nous veulent du mal. Il n’y a pas de faute structurelle du système comme il n’y a pas eu de camps d’extermination. Or, le virus existe autant que le zyklon B et les deux sont des produits d’une industrialisation de la vie ! Depuis le traumatisme nazi, sa défaite militaire et sa victoire économiste, le monde marche sur la tète, une tète vidée par l’aliénation et la réification.
Le négationnisme est le mécanisme de base du totalitarisme marchand arrivé à sa phase terminale : la dernière séance du spectacle social.
Le virus nous oblige en négatif à des comportements vertueux qu’on doit renverser en positif pour libérer le monde de la machine productiviste. Nier le virus comme tendent à le faire pas mal de jeunes éduqués par l’aliénation et le fétichisme de la marchandise, c’est un aveuglement pernicieux.
Ces révoltés sans révolution s’opposent avec une logique binaire à leurs camarades d’infortune sociale encore malades du vieux métro, boulot, dodo. Ils refusent ce diktat en y substituant apéro, portable, boulot, en changeant ainsi de mantra, mais ne quittant pas un seul second le monde de la consommation. Car le vrai boulot généralisé du monde occidental est désormais la consommation de la merde nuisible que le système productiviste mondial fait circuler : nourriture, communication, activités virtuelles, voyages fictifs et, par conséquence, santé fragile et maladies.
Face à la peste sociale diffuse, se contenter d’ignorer la crise du virus alors que la crise de la vie nous ronge depuis bien avant, c’est une réponse mystique délirante au pouvoir dominant. Une fuite aveugle qui l’arrange pas mal. Car si le pouvoir utilise le virus comme toutes les manifestations du vivant pour mieux domestiquer ses serviteurs volontaires ou réfractaires, cette variable imprévue l’oblige à des choix dangereux et révélateurs de l’inhumanité intrinsèque du capitalisme et du productivisme approuvé comme un univers indépassable.
Pour préserver le plein usage de leurs esclaves, ils ont été obliges d’arrêter massivement le travail productif que maintenant ils remettent en marche affolés, sans la moindre sécurité pour les travailleurs. Le déni de l’existence d’un danger virale est donc une aubaine pour les jongleurs du pouvoir qui en profitent, tout en stigmatisant les « jeunes irresponsables » qui font fi des gestes barrière et ne portent pas de masques. Ils oublient, hypocrites et cyniques manipulateurs, qu’ils ont fait circuler pendant des semaines le mensonge éhonté et criminel que les masques ne servent à rien !
Sans le savoir, les participants au spectacle sont tous malades de la même religion. Car nier le danger pandémique, avec les Bolsonaro, les Trump et autres nazillons débiles, même poussés par une sincère et bien compréhensible rage méfiante envers le pouvoir en place, c’est une attitude mystique qui nie la possibilité de rompre avec le productivisme dont le virus nous révèle, en fait, l’arcane refoulé d’une révolution toujours à parfaire : l’abandon radical et maitrisé de l’activité qui fait de nous les esclaves du productivisme par la création collective d’une nouvelle société productive de bonheur.
Pour lutter contre cette pandémie qui inclut toutes les nuisances particulières, il faut en finir avec la logique économique, briser l’emprise d’un système qui écrase l’humain depuis des millénaires et transforme les êtres en objets, les choses en marchandise et la marchandise en argent. La transformation de la production d’objets utiles en objets rentables est arrivée aujourd’hui à la destruction programmée des conditions de la vie sur terre. On ne s’en sortira pas avec des reformes. Il faudra une interruption de grossesse de l’accouchement du Frankenstein totalitaire, numérisé et planétaire.
Le virus nous montre la voie, mais c’est la sienne. A nous d’inventer la notre, non pas en favorisant la pandémie en l’ignorant, mais en abolissant le productivisme et avec lui les nocivités qu’il produit et protège.


Sergio Ghirardi 14 juillet 2020

giovedì 9 luglio 2020

Human lives matter - Il matriarcato Studio sulle origini della famiglia - Paul Lafargue 1886



 
Human lives matter

La lotta di classe e di genere sono state il nodo centrale di tutta la civiltà produttivista.
Se ne avrò la capacità, il tempo e la voglia, proverò, ci sto lavorando da tempo con la passione e la lentezza di un gioco, a mettere insieme l’enorme quantità coerente di dati critici sul conflitto di genere, accumulati dalla ricerca sociale, psicologica, antropologica e archeologica nell’ultimo secolo, ma soprattutto in tempi recenti, concomitanti con il risorgere grandioso e complesso delle lotte per l’emancipazione femminile.
In diversi scritti, del resto, ho già avuto modo di ricordare spesso l’apporto di Marija Gimbutas sulle società matricentriche dell’antica Europa. Secondo la ricercatrice lituana, esse erano abbondantemente diffuse prima che le popolazioni Kurgan invadessero a più riprese il vecchio continente, strappandolo a quella centralità femminile che lo aveva caratterizzato per millenni non come un matriarcato, ma come una moltitudine di società acratiche a centralità femminile che la sua amica e complice Riane Eisler ha opportunamente definito gilaniche (della donna libera).
Vi propongo, per ora, qui di seguito, tradotto in italiano, il breve ma ricco testo di Paul Lafargue che personalmente non conoscevo e che ci parla della questione in termini di matriarcato.
Lafargue é più vicino temporalmente a Bachofen che alla lettura di là da venire di M. Gimbutas, mentre si dichiara fortemente in sintonia – come dubitarne, del resto –  con la teoria del proletariato di Marx e di Engels.
Concentrandosi in particolare sulla mitologia ellenica e argomentando con perizia e conoscenza sull’interpretazione teatrale che la tragedia greca ha dato di questa mutazione rivoluzionaria dei rapporti sociali di genere, Lafargue rende trasparente e perfettamente leggibile lo sviluppo del suprematismo maschile concomitante col nascere del produttivismo.
L’ho, dunque, trovato appassionante e illuminante su molti aspetti cruciali del passaggio da una società matrilineare tendenzialmente acratica a un patriarcato suprematista che, in epoche successive della storia dell’umanità, ha fatto irruzione praticamente dovunque come una nuova morale sessuale e sociale tragicamente imposta alle donne.
Paul Lafargue si esprime su questo tema quando il marxismo non si era ancora ridotto a una macchina da guerra ideologica cooptata dal marxismo-leninismo ed esplorava ancora con intelligenza e cultura il senso del sociale nel passato e nel presente, guardando al futuro (nonostante i conflitti deleteri di pochi anni prima all’interno della Prima Internazionale non fossero affatto di buon auspicio).
Evidentemente, questo scritto del 1886, ha molte qualità ma anche qualche limite legato al suo tempo perché, seppure la solidarietà nei confronti delle donne sia totale, affiora marginalmente qualche traccia fobica di moralismo verso dei costumi bollati speditamente comeinfami, insofferenza che non intacca, tuttavia la qualità libertaria della sua lucida denuncia della supremazia di genere al cuore della civiltà produttivista.
Mezzo secolo dopo Lafargue, con un bagaglio culturale, psicologico e antropologico ben più sviluppato, due grandi amici e ricercatori come B. Malinowski e W. Reich hanno messo a nudo, ognuno nel suo campo, il problema dell’irruzione della morale sessuale coercitiva imposta dal potere maschile.
Lafargue, poi Reich e infine Gimbutas personificano tre stadi successivi della presa di coscienza radicale moderna destinata a liberare l’umanità e la vita dalle miserie tossiche del produttivismo; questo apporto commovente dell’autore del famoso Diritto alla pigrizia di qualche anno prima (1880), non é che il primo stadio della nostra emancipazione individuale e collettiva a venire.

Buon viaggio a tutti.



Sergio Ghirardi, 4 luglio 2020







Paul Lafargue

Il matriarcato
Studio sulle origini della famiglia



Pubblicato a puntate ne Il socialista dal 4 settembre al 16 ottobre 1886.


Viviamo sotto il regime della famiglia patriarcale: attorno al padre, riconosciuto dai costumi e dalla legge come capo della piccola società familiare, si raggruppano la donna e i figli: solo il suo nome percorre il corso delle generazioni: un tempo la proprietà si trasmetteva attraverso i maschi. La Bibbia, i libri sacri dell’Oriente, la maggior parte dei filosofi, degli storici e degli uomini di Stato hanno ammesso come una verità indiscutibile che questa forma di famiglia è stata all’origine delle società umane e che attraverserà i secoli a venire non subendo che insignificanti modifiche. Per l’uomo volgare e per gli spiriti colti, la famiglia patriarcale è tuttora la sola forma familiare secondo ragione e natura: anche i giureconsulti romani pensavano che lo jus gentium fosse l’espressione giuridica del Diritto naturale. Per dare un’autorità morale alle loro istituzioni civili, politiche e religiose, alle loro consuetudini e ai loro costumi, gli uomini li hanno sempre presentati come manifestazioni della legge naturale ed emanazioni della divinità. I diritti e i doveri religiosi, morali e politici della donna riposano su questa nozione di famiglia che nasce con la storia.
Il padre è il capo naturale della famiglia monogamica o poligamica. Quest’assioma sociale, reputato più solido della roccia, si sfalda di fronte al soffio impietoso della scienza così come altre verità venerate fin dall’antichità. Questa verità eterna sarebbe stata messa in dubbio da tempo se i costruttori di filosofia della storia non si fossero lasciati accecare dai pregiudizi sociali, se avessero tenuto conto dei fatti conosciuti, se non avessero sdegnato come fantasie individuali senza portata, le opinioni avanzate dai cinici, dagli stoici, dai gimnosofisti e dai platonici sulla comunità delle donne e dei beni, se non avessero ridicolizzato le teorie dei socialisti moderni sulla comunità dei beni e la libertà in amore. Si è dovuto attendere fino al 1861 perché un uomo di vasta scienza e d’intelligenza ardita dimostrasse che nelle società primitive erano esistite altre forme familiari: è nel 1861 che Bachofen ha pubblicato Das Mutterecht (Il diritto della madre). La sua importante scoperta, avvolta da una spessa coltre di nebbia mistica, sarebbe forse passata inosservata se, quattro anni dopo, degli scrittori inglesi come Mac Lennan, Lubbock, Herbert Spencer, Tylor, ecc., raggruppando confusamente, da idee false e concepite frettolosamente, le numerose narrazioni dei viaggiatori inglesi, non avessero attirato l’attenzione su popoli che non conoscevano la famiglia paterna. Tuttavia, l’onore di avere stabilito in maniera scientifica che le società umane cominciano dalla promiscuità sessuale e non pervengono alla famiglia paterna se non dopo aver attraversato una serie graduata di forme familiari, va attribuito al profondo pensatore americano Lewis H. Morgan. È il primo ad avere introdotto un ordine ragionato nella massa inestricabile di fatti curiosi, strani e sovente contraddittori raccolti dagli storici dell’antichità e dagli antropologi sull’uomo preistorico, ma anche dai viaggiatori sui popoli moderni. La sua grande opera, Ancient History; pubblicata a Londra nel 1877, è il riassunto di lavori apparsi nelle pubblicazioni della Smithsonian Society di Washington, alle quali aveva consacrato quaranta anni di ricerche aride, pazienti e coscienziose. Friedrich Engels, completando i lavori di Morgan con gli studi economici e storici di Karl Marx e con i suoi propri, ha esposto nella forma breve, limpida e avvertita che gli è propria, le investigazioni fatte sull’origine della famiglia, dello Stato e della proprietà privata.
M. Dumas figlio, in una delle sue prefazioni, la cui lunghezza è riscattata dalla banalità, scrive che è difficile riprodurre sulla scena i rapporti mondani tra uomini e donne per paura di sgomentare il pudore timorato delle signore che non sono caste che nelle orecchie. Tuttavia, il pudore dei signori, e M. Dumas per primo, è ancora più forte. Hanno delle idee talmente stereotipate sul pudore nativo delle donne, delle regole così precise sulla loro condotta privata e pubblica che ogni fatto, ogni idea che non sia marcata dal timbro della morale civile usuale li offusca. Non potrebbero ammettere che in terra come in cielo esista qualcosa che non sia concepito dalla loro filosofia, come diceva Amleto a Orazio.
Eppure i fatti raccolti tra tutti i popoli antichi e moderni sono così numerosi, le teorie che hanno contribuito a elaborare così positive, che se si vuole capire l’evoluzione della specie umana, bisogna lasciare alle porte della scienza storica le idee sentenziose che ingombrano la testa dei civilizzati.

I
Alla fine del XV° secolo, quando Vasco de Gama abbordò sulle coste di Malabar[1], i portoghesi sbarcarono in mezzo a un popolo ragguardevole per il suo stato avanzato di civiltà, lo sviluppo della sua marina, la forza e l’organizzazione del suo esercito, la ricchezza delle sue città cantata da Camoens[2], il lusso degli abitanti e l’educazione dei suoi costumi; tuttavia, la posizione sociale della donna e la forma della famiglia mandarono in crisi tutte le loro idee apportate d’Europa. – Nei suoi Antiquarische Briefe, Bachofen ha raccolto sulla famiglia Nair dei documenti delle provenienze più diverse, di scrittori arabi, portoghesi, olandesi, italiani, francesi, inglesi e tedeschi, dal medio evo all’epoca moderna.
La famiglia Nair ha fornito prove eccezionali di vitalità: ha saputo resistere al cristianesimo, all’oppressione dell’aristocrazia braminica ariana e alla religione musulmana. Questa tenace istituzione familiare si è mantenuta tra i popoli di Malabar fino all’invasione di Hyder-Ally nel 1766.
I Nair, elemento aristocratico del paese, formavano grandi famiglie di parecchie centinaia di membri che portavano lo stesso nome, analogamente ai clan celti, alla gens romana, al génos greco. I beni immobili appartenevano in comune a tutti i membri della gens; un’assoluta eguaglianza regnava tra loro.
Il marito, anziché vivere con la moglie e i figli abitava con fratelli e sorelle nella casa materna; quando la lasciava era sempre accompagnato dalla sorella preferita; alla sua morte i suoi beni mobili non tornavano ai suoi figli ma erano distribuiti tra i figli delle sorelle.
Il capofamiglia era la madre o, in mancanza, la figlia maggiore; suo fratello maggiore, chiamato il nutritore, ne gestiva i beni; il marito era un ospite; non entrava in casa che in giorni determinati e non si sedeva a tavola a lato di sua moglie e dei bambini. I Nair, riferisce Barbosa, hanno un rispetto straordinario per la loro madre; ricevono da lei beni e onori; onorano ugualmente la sorella maggiore che deve succedere alla madre e prendere la direzione della famiglia.
La donna Nair aveva diversi mariti di ricambio, dieci o dodici e anche di più, se ne aveva voglia; si succedevano a turno, ognuno aveva il suo giorno coniugale stabilito nel quale doveva assumere le spese familiari; appendeva alla porta la spada e il suo scudo per indicare che il posto era occupato. La gloria e la fama della signora si misuravano col numero di mariti che cooperavano al suo mantenimento. Per non restare a digiuno, i giorni in cui non aveva accesso alla sua signora, il marito faceva parte di altre società matrimoniali; poteva a suo gusto ritirarsi da un’associazione coniugale per entrare in un’altra e la signora aveva il diritto di ripudiarlo se non le piaceva o se assolveva fiaccamente i suoi doveri. La donna Nair era poliandrica e l’uomo poliginico.
I figli appartenevano alla madre che s’incaricava di nutrirli. “Nessun Nair, dice Buchanan, conosceva suo padre. Ogni uomo considera suoi eredi i figli della sorella; li ama dello stesso amore con cui nelle altre parti del mondo, i padri amano i loro figli. Si guarderebbe come un mostro chi, alla morte di un figlio supposto suo a causa della somiglianza e della lunga coabitazione con la madre, mostrasse altrettanta pena che alla morte di un figlio della sorella”.
I Nair sembravano aver assunto il compito di contrariare le idee morali dei bravi europei. Il diritto di possesso di una vergine, riservato ai signori feudali come uno dei privilegi più preziosi, e comprato dai signori del capitale a un prezzo – è vero – particolarmente basso, era visto dai Nair come una corvè. Per deflorare le vergini impiegavano degli stranieri, uomini del porto che ricevevano un salario, probabilmente pattuito in precedenza. Bartema racconta che nella città di Tarnassari, i rajah incaricavano gli stranieri di tenere compagnia alle loro donne durante le prime notti di nozze. Giorgio IV d’Inghilterra condivideva l’opinione dei Nair: diceva che era un lavoro da palafrenieri. Barbosa che fa una descrizione molto rapida della cerimonia nuziale, grida con un’indignazione tutta cristiana: “Secondo l’opinione di questi pagani, una ragazza che morisse vergine non andrebbe in paradiso”. Il cadavere delle vergini era violato, la verginità diventava dunque un peccato mortale! Se questi strani costumi fossero stati osservati presso selvaggi collocati all’ultimo stadio della specie umana, sarebbe bello e pronto il giudizio portato dagli spagnoli sui pellerossa che massacrarono selvaggiamente: – “I Nair sono gente irragionevole – gentes sin razon”. I cristiani dei nostri giorni e con loro molti sapienti antropologi, potrebbero aggiungere: “I Nair sono un popolo di degenerati, i loro costumi abominevoli testimoniano della loro degradazione”. I Nair, al contrario, formavano l’aristocrazia indigena di un popolo educato, senz’altro più civilizzato dei portoghesi del XVI° secolo.
Si potrebbe porre questa questione: la famiglia Nair basata sulla comunità dei beni in seno al clan, sulla poligamia dei due sessi, sulla preminenza della madre, padrona sovrana della casa il cui fratello maggiore era soltanto una specie di maggiordomo, sulla filiazione materna per cui solo la madre trasmetteva ai figli il suo nome, il rango e i beni, sarebbe dunque un fatto anormale, una mostruosità sociale generata da circostanze talmente eccezionali, impossibili da ritrovarsi altrove? Ammettendo che presso nessun popolo della terra si siano osservati in tempi storici costumi analoghi, l’uomo di scienza esitante non dovrebbe forse dirsi: niente è miracoloso. La teratologia di Geoffroy Saint-Hilaire colloca nella serie animale il mostro come un organismo bloccato in una delle sue fasi di sviluppo che riproduce un tipo inferiore della serie. La famiglia Nair, questo fenomeno sociale, non riprodurrebbe una delle forme familiari primitive attraversate dall’umanità nel corso della sua evoluzione?
Tuttavia, i costumi familiari dei Nair non sono un’eccezione unica. Se si sfogliano i racconti dei viaggiatori tra le popolazioni selvagge dell’antico e del nuovo mondo, se, con lo spirito sbarazzato dai pregiudizi civilizzati e risvegliato dalle narrazioni degli esploratori moderni, si rileggono gli storici, i poeti e i filosofi dell’antichità, se si analizzano i riti religiosi e si studiano i libri sacri, si raccoglie un’abbondante raccolta di fatti che dimostrano come tutti i popoli della terra hanno avuto a un momento del loro passato dei costumi analoghi a quelli dei Nair.

II
La famiglia materna presso altri popoli
Spostiamoci in Africa, in mezzo ai Tuareg del Nord e prendiamo per guida un viaggiatore francese, M. Duveyrier.
“Il ventre colora il bambino” dice un proverbio dei Targui[3] che si ritrova tra gli Hova[4] del Madagascar. Il bambino targui segue la condizione della madre; se essa è libera e nobile, il figlio è libero e nobile anche se il padre è schiavo. Se una donna della Licia[5] di condizione libera, sposa uno schiavo, i suoi figli sono considerati nobili – rapporta Erodoto. Se invece un cittadino, anche del rango più distinto, sposa una straniera o una concubina, i suoi figli sono avviliti”. Partus sequitur ventrem era un vecchio adagio latino. “La pancia libera e nobilita”, dicevano i costumi della Champagne e del Brie nel XII secolo.
I Tuareg hanno due tipi di proprietà: 1°) I beni acquisiti tramite il lavoro dell’individuo come armi, denaro, schiavi comprati, greggi, raccolte e provvigioni, sono individuali; 2°) I diritti percepiti sulle carovane e sui viaggiatori,  i diritti territoriali sulle terre del percorso e sulle terre di coltura, sulle acque; i diritti sulle persone e sulle tribù ridotte in servitù, il diritto di comandare e di essere ubbiditi, sono collettivi: non si trasmettono per linea maschile ma competono al figlio maggiore della sorella primogenita che li gestisce nell’interesse di tutta la famiglia.
Anticamente, quando si trattava di distribuzione territoriale, le terre attribuite a ogni famiglia erano registrate a nome della madre. Il diritto berbero accorda alle donne l’amministrazione dei loro beni; a Rhât solo le donne dispongono delle case, dei giardini, insomma di tutta la proprietà terriera del paese.
I Tuareg possiedono una sola parentela, quella uterina: la genealogia è femminile. Il Targui conosce sua madre e la madre di sua madre ma ignora suo padre. Il figlio appartiene alla donna e non al marito; è il suo sangue e non quello del suo sposo che conferisce al figlio il rango da occupare nella tribù e nella famiglia. “Se c’è un punto in cui la società targui differisce da quella araba, è nel contrasto della posizione elevata che occupa la donna comparato allo stato d’inferiorità della donna araba. Non solo tra i Tuareg la donna è l’uguale dell’uomo, ma gode persino di una condizione preferibile. Ha la mano libera e nella comunità coniugale gestisce la sua ricchezza senza essere forzata a contribuire alle spese di sostentamento. Capita, dunque, che per il cumulo dei prodotti, la maggior parte della fortuna sia tra le mani delle donne”.
La donna targui è monogama e impone la monogamia al marito benché la legge musulmana gli permetta diverse mogli. Essa è indipendente nei confronti del suo sposo che può ripudiare con il minimo pretesto: va e viene liberamente. Queste istituzioni sociali e i costumi che ne derivano hanno sviluppato straordinariamente la donna targui; “la sua intelligenza e il suo spirito d’iniziativa stupiscono nel bel mezzo di una società musulmana”. Essa eccelle negli esercizi corporali; a dorso di dromedario percorre cento chilometri per recarsi a una serata; sostiene corse con i più arditi cavalieri del deserto. Si distingue per la sua cultura intellettuale: le donne della tribù di Jmanan sono celebri per la loro bellezza e per il loro talento musicale; quando danno dei concerti, gli uomini accorrono dai posti più lontani, mascherati come maschi di struzzo. Le donne delle tribù berbere cantano tutte le sere e si accompagnano con la rebâza (il violino); improvvisano: in pieno deserto fanno rivivere le corti d’amore della Provenza. La donna sposata è tanto più considerata quanti più amici conta tra gli uomini, ma per conservare la sua reputazione non deve preferirne alcuno. “L’amica e l’amico, dice, sono per gli occhi e per il cuore e non soltanto per il letto come presso gli arabi”. Tuttavia, le nobili dame targui non sono affatto obbligate a mettere la loro condotta in contraddizione con i loro sentimenti, come le eroine della Fronda che rendevano platonici i rapporti con l’amante maschio e femmina e che, secondo l’espressione di Saint-Evremond, amavano teneramente l’amante mentre godevano solidamente di loro marito con avversione. Il matrimonio dei Tuareg non è indissolubile, le coppie possono separarsi facilmente e le donne convolare a nuove unioni.
Le donne detengono il ruolo principale nelle leggende del paese; lo stesso fenomeno si osserva nella Grecia omerica: a diverse riprese, esse hanno esercitato il comando; una di loro, Kahiva, la Maria Teresa del deserto, all’inizio dell’ottavo secolo, ha riunito sotto il suo dominio le tribù berbere diventando l’eroina della resistenza nazionale contro l’invasione dei conquistatori arabi che riuscirono a impadronirsi del litorale dell’Atlas soltanto dopo la sua morte. Essa cadde con le armi in pugno, uccisa dal generale arabo Hassan. Qualche anno fa, la tribù dei Jhéhaouen era governata da una donna, una sceicca ; ancora oggi le donne che si distinguono per i loro talenti sono ammesse ai consigli della tribù.
I tuareg sono i discendenti di quei libici di cui parla Erodoto, che avevano le loro donne in comune, che non abitavano insieme con loro e i cui figli erano allevati dalle madri. Pretendevano che Minerva fosse la figlia adottiva di Giove, perché non potevano ammettere che un uomo partorisse senza l’aiuto dell’altro sesso: le donne sole erano capaci di un tale miracolo.
Nella valle del Nilo, quest’antica culla della civiltà, le donne del tempo di Erodoto godevano di una situazione così privilegiata che i Greci chiamavano l’Egitto “un paese a rovescio”. Lo storico di Alicarnasso spiegava questo contrasto per “la natura del Nilo, così diversa da quella degli altri fiumi: così gli usi degli egizi e le loro leggi diverse delle consuetudini e dei costumi degli altri popoli... Gli uomini portano il fardello sulla testa e le donne sulle spalle. Le donne vanno al mercato e trafficano, mentre gli uomini chiusi in casa lavorano sulla tela... I figli maschi non sono per nulla obbligati dalla legge a nutrire i loro genitori; quest’incarico incombe d’ufficio alle ragazze”.
Questa condizione imposta alle ragazze basterebbe da sola per stabilire che i beni della famiglia appartenevano alle donne, come tra i Nair e i Tuareg: dovunque la donna possiede questa posizione economica, non è sotto la tutela del marito ma è capofamiglia. “A causa dei numerosi benefici della dea Iside, scrive Diodoro Siculo, era stato stabilito che la regina d’Egitto ricevesse maggiore potenza e rispetto del re; il che spiega perché in casi particolari l’uomo appartiene alla donna, secondo i termini del contratto dotale ed è stabilito tra gli sposi che l’uomo ubbidirà alla donna”. Si era archiviata quest’osservazione di Diodoro tra le storie meravigliose di cui abbondano i viaggiatori che tornano da lontano: tuttavia, non si poteva evitare di constatare che l’associazione delle regine al potere è persistita fino ai Tolomei, a dispetto delle idee greche che conquistavano il paese. Cleopatra nelle sue cerimonie religiose, rivestiva gli attributi di Iside, la madre santa, mentre il suo sposo, Antonio, un generale romano, seguiva a piedi il suo carro trionfale.
Le iscrizioni funerarie raccolte nella valle del Nilo menzionano frequentemente il nome della madre, ma non quello del padre. Talvolta, dice M. Révillout, s’indica per parallelismo che il personaggio in questione era il figlio di un tale. Questa designazione patronimica, però, era molto rara nella lingua sacra... Aggiungiamo che la donna sposata, madre o sposa, è sempre nebt pas, signora della casa, padrona della casa”, M. Révillout ne è tutto scandalizzato.
L’analisi dei papiri demotici del Louvre ha permesso al sapiente egittologo di costatare che gli antichi contratti di matrimonio non menzionavano i beni della donna, per quanto numerosi e importanti fossero, il marito non avendo alcun diritto su di essi, mentre si specificava la somma che doveva pagare alla moglie, sia come dono nuziale, come pensione annuale e come ammenda in caso di divorzio. La sposa è sempre padrona assoluta dei suoi beni che amministra e di cui dispone a piacimento. Essa vende, compra, presta, impresta; in breve, esercita senza controllo tutti gli atti di capofamiglia. I fatti riportati da Erodoto e Diodoro, confermati dai lavori di Champollion-Figeac e degli egittologi, dimostrano che la donna egiziana occupava nella famiglia la stessa posizione delle signore nair e targui.
Ci sono, però, altre prove e di diversa natura.
Le cerimonie e le leggende religiose preservano mummificati i costumi del passato. La Pasqua cattolica, questo pasto mistico in cui i fedeli mangiano il loro Dio fatto uomo, la leggenda ebraica di Abramo che immola un caprone al posto del figlio Isacco, sono l’eco lontano dei pasti antropofagi e degli olocausti umani. La testa dell’uomo elabora le religioni con i fatti che lo circondano; ma nel corso dei secoli i fatti si trasformano, spariscono, mentre la forma religiosa che è stata la loro manifestazione nell’intelligenza umana, persiste: studiando la forma religiosa, si possono ritrovare e ricostituire i fenomeni naturali e sociali che le sono serviti da scheletro.
Iside, la dea degli antichi egizi, la madre degli dei, è venuta da sola; essa è anche la dea vergine; i suoi templi a Sais, la città santa, portavano questa fiera iscrizione: nessuno mi ha mai sollevato la veste, il frutto che ho partorito è il Sole. L’orgoglio della donna echeggia in queste parole sacre, essa si proclama indipendente dall’uomo, non ha bisogno di ricorrere alla sua cooperazione per procreare. La Grecia replicherà a questa insolente asserzione: Giove, il padre degli dei, partorirà Minerva senza l’aiuto della donna e Minerva, la dea “che non è stata concepita nelle tenebre del seno materno”, sarà la nemica della supremazia familiare della donna. Iside, al contrario, è la dea degli antichi costumi; sposa suo fratello, come ai tempi della promiscuità sanguigna; sui suoi monumenti essa dichiara: “Io sono la madre del re Horus, la sorella e la sposa del re Osiride, io sono la regina di tutta la terra”. Suo marito, più modesto, non si dichiara padre del re Horus. Iside è immortale, Osiride è mortale ed è ucciso da Seth[6]: una volta riempita la sua funzione di genitore doveva morire.
Babilonia festeggiava con cinque giorni di orge popolari, la dea Milita: era la festa universale della libertà e dell’uguaglianza primitive; il Fallo che rende tutti gli uomini uguali, era adorato; il re della festa, scelto tra i ranghi degli schiavi, dopo aver goduto della regina della cerimonia, la più bella delle etere, era gettato tra le fiamme: così come il dio Osiride, una volta riempita la sua funzione di genitore, doveva morire. La donna riduceva l’uomo a non essere che un organo. L’antagonismo dei sessi, nato con l’umanità, dura ancora. Il disprezzo che dai tempi storici, gli uomini hanno dimostrato per la donna, messa in tutela e trattata da cortigiana o da domestica, le donne – i riti religiosi lo provano –, l’hanno mostrato nei confronti degli uomini quando erano loro eguali e talvolta superiori.
Nelle società animali comuniste, come le formiche, le api, il maschio è un parassita; dopo la fecondazione è ucciso.

III
Costumi della famiglia matriarcale
Non si può più dubitare che prima di giungere alla forma familiare attuale, l’umanità abbia attraversato una forma di famiglia a rovescio: la madre determina la discendenza; il padre, personaggio secondario, non trasmette ai figli né il nome né i beni né il rango. La famiglia è allora il prolungamento da donna a donna del cordone ombelicale, segno materiale della maternità. Quest’organo che nelle famiglie reali d’Europa si taglia alla presenza di testimoni per evitare ogni contestazione sulla legittimità del neonato, è ancora circondato di un tale rispetto presso alcuni popoli, che per esempio gli abitanti dell’alto Nilo, i Figiani e anche i creoli delle Antille li conservano preziosamente e li seppelliscono cerimonialmente alla morte dell’individuo; è il legame che lo univa alla stirpe della famiglia, alla madre.
I costumi che corrispondono a questa forma familiare primitiva scandalizzano la morale dei civilizzati. La castità monogamica non è per nulla una virtù: la donna, al contrario, è onorata in funzione del numero dei mariti che si succedono a giorni fissi o che coabitano con lei il tempo di una rivoluzione lunare, com’era uso nelle isole Canarie. I mariti di una stessa moglie, secondo l’osservazione di Herera a proposito dei selvaggi del Venezuela, vivono in perfetto accordo e senza conoscere la gelosia; questa passione appare tardivamente nella specie umana.
I figli ereditano i beni della madre e degli zii materni, mai quelli del padre. Lo zio ama i propri nipoti più teneramente che i propri figli. Tra i Germani, dice Tacito, il figlio di una sorella è caro allo zio quanto a suo padre. Alcuni stimano persino questo grado di consanguineità più santo e più stretto; ricevendo degli ostaggi, preferiscono dei nipoti che ispirano un attaccamento più forte e interessano maggiormente la famiglia. Tuttavia, i Germani descritti dallo storico latino, erano già entrati nella forma familiare paterna, poiché i figli ereditavano dal padre; conservavano, però, ancora i sentimenti e certe abitudini della famiglia materna. L’espressione francese “i nostri nipoti” per designare i discendenti che qualche spirito maligno attribuiva allo scetticismo sulla fedeltà coniugale della donna di Francia, è senza dubbio un vecchio ricordo della famiglia matriarcale.
La donna abita in casa sua o in quella del suo clan, mai in quella del marito. L’osservazione seguente, citata da Morgan come quella di un pastore protestante vissuto per anni tra gli Irochesi-Seneca, è tipica: “nel tempo in cui abitavano nelle loro ampie abitazioni (che potevano contenere centinaia d’individui), un clan predominava: le donne, però, vi introducevano i mariti appartenenti ad altri clan. Era uso che le donne governassero la casa; le provviste erano messe in comune: guai, però, al marito o all’amante troppo pigro o maldestro nel contribuire alla sua parte di approvvigionamenti della comunità. Qualunque fosse il numero dei figli e la quantità di beni apportati al focolare, doveva aspettarsi di ricevere l’ordine di ripiegare la sua coperta e sloggiare: pericoloso per lui disobbedire. La casa avrebbe cominciato a scottare. Unica cosa da fare, tornare nel proprio clan o, quel che accadeva più spesso, andare a cercare un altro focolare in un altro clan. Le donne incarnavano il grande potere del clan. Esse non esitavano, se necessario, a far saltare le corna (simbolo del comando) dalla testa dei capi, facendoli rientrare nei ranghi di semplici guerrieri. L’elezione dei capi dipendeva sempre da loro”.
I racconti dei viaggiatori rappresentano la donna barbara come oberata di lavoro. La divisione del lavoro, come nota Karl Marx, comincia con la divisione dei sessi. Il selvaggio è un guerriero e un cacciatore; vive circondato da nemici e può essere attaccato in ogni istante; deve essere sempre pronto a battersi, sempre con le armi a tiro: il suo lavoro consiste nel difendere la tribù e fornire viveri alla sua donna e ai suoi figli. Tra i popoli civilizzati, il soldato è dispensato da ogni lavoro. La donna selvaggia, invece, è incaricata di tutti i lavori del focolare, della coltura dei campi, del trasporto sul dorso dei bambini e degli oggetti di casa che, del resto, le appartengono. “I popoli barbari che impongono alle donne un lavoro più duro di quanto sarebbe giusto secondo le nostre idee, dice Engels, hanno spesso per esse una stima più reale di noialtri europei. La signora della civiltà, adulata e tenuta lontana da ogni lavoro, occupa una posizione sociale infinitamente inferiore a quella della donna della barbarie gravata di lavoro: il suo popolo la considerava una vera signora; essa lo era, in effetti, per il carattere”.
La donna, sovrana signora del focolare, esercitava un’azione sugli affari pubblici; prendeva parte ai consigli della tribù: senza volermi estendere su questo tema, ricorderò il ruolo di arbitro da essa assunto. In Tasmania, all’inizio delle battaglie, le donne spingevano ardentemente i guerrieri all’attacco, ma appena alzavano tre volte le mani, il combattimento cessava e lo sconfitto, pronto per essere sgozzato, era risparmiato. “Le donne erano inviolabili tra i Trogloditi che smettevano di tirare le loro frecce appena esse s’interponevano tra i combattenti”. Le Germane assistevano alle battaglie eccitando i guerrieri con le loro grida, riportando alla mischia quelli che mollavano, contando e curando le ferite. I germani non disdegnavano di consultarle e seguire i loro consigli; temevano di più la prigionia per le loro donne che per loro stessi; questi barbari credevano che ci fosse in esse qualcosa di santo e di profetico, sanctum aliquid et providum.
Potrei continuare a citare dei fatti analoghi per intere pagine, provando che tutti i popoli della terra sono passati per una forma familiare ben diversa da quella che conosciamo oggi. Questi fatti strani che sconcertano le idee acquisite non erano stati rilevati che da qualche raro spirito scettico; alcuni se ne servivano per battere in breccia le nozioni della morale corrente. I filosofi moralisti che hanno formulato dogmaticamente le leggi della Morale eterna, li hanno assolutamente ignorati e considerati come non avvenuti, era la cosa più semplice. Oggi, però, dei pensatori arditi e profondi li hanno classificati e utilizzati per ritracciare le fasi dell’evoluzione umana.

IV
Teoria dell’evoluzione della famiglia
Prendiamo una coppia, creata tutta d’un pezzo come Eva e Adamo della tradizione biblica, oppure fuoriuscita da un’orda selvaggia, quando l’uomo si distaccava appena dall’animalità, e vediamo come vanno le cose. Questa coppia con figli e nipoti, formerà un’orda di trenta o quaranta persone, poiché la difficoltà di procurarsi cibo non permetteva di oltrepassare questo numero. In seno al gruppo, le relazioni sessuali saranno assolutamente libere, come tra i gallinacei dei nostri cortili; ogni donna sarà la sposa degli uomini dell’orda e ogni uomo il marito di tutte le donne, senza distinzione di padre e di figlia, di madre e di figlio, di sorella e di fratello. Questa famiglia promiscua non è stata ritrovata in nessun popolo selvaggio per quanto si osservi nelle grandi capitali della civiltà: eppure è dovuta esistere allo stato di fatto generale, quando l’uomo non era ancora, secondo l’espressione latina, un animale partecipe della ragione, rationis particeps; quando viveva nudo, si rifugiava sugli alberi o nelle caverne naturali, si nutriva di frutti, di molluschi e di animali che non sapeva cuocere, distinguendosi appena dal bruto suo antenato.
Le feste orgiastiche delle religioni asiatiche, durante le quali regnava la libertà sessuale più assoluta, sembrano essere reminiscenze della promiscuità primitiva. Strabone riporta che tra i Magi, la tradizione religiosa prescriveva il matrimonio tra padre e figlia e del figlio con la madre, allo scopo di procreare una prole destinata alle funzioni sacerdotali. Invece di riconoscere un’origine naturale alla promiscuità primitiva, Bachofen la prende per un’istituzione religiosa. Le feste promiscue e i costumi che tra tanti popoli obbligavano le donne a prostituirsi al primo arrivato, senza scelta, erano secondo lui, degli atti d’espiazione per calmare la divinità irritata: contrattando dei matrimoni individuali più o meno poligamici, gli uomini avrebbero violato i comandamenti della divinità che prescrivevano la comunità della donne.
La restrizione della libertà sessuale primitiva ha dovuto cominciare con la separazione degli individui della tribù selvaggia in compartimenti generazionali e con il divieto di matrimonio tra gli individui di compartimenti diversi. Il primo compartimento è quello dei genitori, il secondo quello dei figli, il terzo quello dei nipoti e così via. Tutti gli individui di un compartimento sono i figli del settore superiore e i padri e le madri di quello inferiore; si considerano fratelli e sorelle e si comportano come mariti e mogli; tuttavia è loro vietato avere relazioni sessuali con i membri del compartimento superiore e inferiore. Non ci sono matrimoni individuali, quando si nasce maschi in una tribù e si è il marito di tutte le donne della sua promozione senza distinzione di fratello e sorella e reciprocamente per la donna. “Nei tempi primitivi, dice Marx, la sorella era la moglie e ciò era morale”. Le leggende religiose e i costumi dei popoli antichi ci forniscono numerosi esempi di questi matrimoni consanguinei; Iside e Osiride, Giunone e Giove, ecc., erano al contempo sorelle e fratelli, mogli e mariti.
Morgan che si è dedicato alle più aride ricerche sulla nomenclatura dei termini di parentela in uso tra i popoli selvaggi, ha incontrato, nelle isole Sandwich, una serie di termini di parentela non rapportati alla loro organizzazione sociale, che doveva aver visto la luce al momento in cui gli individui maschi e femmine di un compartimento generazionale si consideravano i figli del compartimento superiore e i padri e le madri di quello inferiore, mentre ignoravano le distinzioni di zio, zia, nipoti e cugini. “La famiglia è l’elemento attivo che non è mai stazionario, dice Morgan; essa progredisce da una forma inferiore a una superiore nella misura in cui la società passa da uno stadio meno sviluppato a uno più sviluppato. I sistemi di parentela sono, invece, passivi, prendono un tempo eccessivamente lungo per registrare il progresso compiuto dalla famiglia, non subiscono cambiamenti radicali se non quando la famiglia si è radicalmente trasformata”. “Lo stesso vale per i sistemi politici, giuridici, religiosi e filosofici”, aggiunge Marx. Mentre la famiglia progredisce, il sistema di parentela si ossifica e sebbene continui a sussistere per la forza dell’abitudine, la famiglia lo supera.
“Se il primo grado di organizzazione, scrive Engels, è consistito nell’escludere i genitori e i figli dal commercio sessuale, il secondo fu il divieto di matrimonio tra fratelli e sorelle. Questo progresso, a causa della maggiore uguaglianza d’età degli interessati, fu infinitamente più importante ma anche più difficile da realizzare. Non si è compiuto che gradualmente, cominciando con il divieto delle relazioni sessuali tra fratelli e sorelle carnali, tra figli uterini, per giungere al divieto del matrimonio tra fratello e sorella di padre e di madre”. Questa marcia evolutiva della famiglia è un’eccellente illustrazione del principio della selezione naturale”. Le tribù che vietavano i matrimoni uterini dovevano svilupparsi più rapidamente e completamente di quelle in cui i matrimoni tra fratelli e sorelle erano il costume e la regola.
Fison e Howitt, nel rimarchevole studio sui Kamilaroi e i Kurnai, due popolazioni australiane, riportano una leggenda che cerca di spiegare il modo in cui si realizzò la restrizione graduale delle relazioni sessuali: “Dopo la creazione, i fratelli, le sorelle e i parenti più prossimi si sposarono tra loro senza distinzione; finché il male proveniente da queste unioni divenne manifesto; i capi si riunirono allora in consiglio per cercare il modo di rimediarvi. Il risultato della loro deliberazione fu una supplica indirizzata a Muramura (lo spirito buono), che ordinò di dividere la tribù in gruppi distinti tra loro da nomi presi da oggetti animati e inanimati, come cane, topo, emù, pioggia, igname, ecc., proibì espressamente agli individui con lo stesso nome di sposarsi tra loro, ma permise a un gruppo di unirsi a un altro”. Questo costume è ancora osservato oggi; la prima domanda di un australiano a uno straniero è: “Di quale murdou? Vale a dire: di che gruppo sei?”
La leggenda murdou contiene tre fatti importanti da notare. Dapprima la tribù forma un tutto omogeneo, i matrimoni si praticano indistintamente tra fratelli e sorelle e anche tra genitori e figli; poi la tribù si fraziona in gruppi che scelgono un totem, cioè il nome di un animale, di un fenomeno naturale; quest’oggetto animato o inanimato finisce per essere considerato l’antenato del gruppo che corrisponde al clan celtico, alla gens romana e al génos greco. Il grammatico Festus Pompeius pretende che la gens Aurelia, alla quale apparteneva la madre di Cesare derivava il proprio nome dal sole, aurum urere. Diverse famiglie greche riconoscevano come antenati degli animali; è vero che assicuravano che quegli animali erano dei travestimenti indossati da Zeus durante le sue scappatelle amorose sulla terra. Plutarco cita una gens ateniese che riveriva una pianta antica, l’asparago. La leggenda murdou ci insegna ancora che il buon genio aveva vietato le relazioni sessuali tra individui con lo stesso nome, lo stesso totem, vale a dire appartenenti allo stesso gruppo.
Come si potranno conservare queste divisioni della tribù in gruppi, in clan, in gentes che per procurarsi i mezzi di sussistenza saranno obbligati a disperdersi? Per mezzo della tutela del nome dell’antenato che sarà trasmesso di generazione in generazione come un bene sacro. I membri che lasciano il clan portano con loro il nome; possono andare a stabilirsi lontano, aldilà dei mari e delle montagne; possono nel corso del tempo cambiare i loro costumi e trasformare la loro lingua al punto di essere incapaci di comprendere quella del ceppo materno, restano, tuttavia, membri dello stesso clan, membri dello stesso gruppo. Poiché il matrimonio è vietato tra persone dello stesso gruppo, la prima cosa, quando ci si abborda, è informarsi sul nome, sul totem. Questo divieto è così formale che in Australia il guerriero che, anche per ignoranza, si unisse a una donna dello stesso totem, sarebbe braccato come una bestia selvaggia dai membri della sua stessa tribù.
Come si trasmetterà il nome dell’antenato? – Attraverso il padre o la madre?
Ai nostri tempi, dopo secoli di morale monogamica, si ricorre a un sotterfugio legale per costatare la paternità; il padre non è quello designato dalla natura, ma da una cerimonia religiosa e civile. Non si può sperare che degli uomini primitivi, non ancora educati dalla sapiente cavillosità dei legislatori, incaricassero il padre della sacra funzione di trasmettere il nome, il totem del clan. Il sentimento paterno non è innato nell’uomo; per manifestarsi, anche qualora esista, richiede certe condizioni esterne. L’amore materno è, invece, profondamente radicato nel cuore della donna: essa è preparata per essere madre, per elaborare il figlio nel suo seno e nutrirlo del suo latte dopo la nascita. Il sentimento materno è uno dei più importanti bisogni fisiologici per la conservazione e la perpetuazione della specie. La civiltà che spesso agisce all’incontro della natura, complicando la vita alla donna al punto di rendere la gestazione faticosa, il parto laborioso e doloroso, e l’allattamento pericoloso e persino impossibile, attenua il sentimento materno nel cuore delle donne civilizzate. Le donne selvagge amano molto i loro figli; li allattano per due anni, non li battono mai: il bambino che la madre protegge dalla brutalità degli uomini, si serra contro di lei, come i pulcini si nascondono al minimo segno di pericolo sotto le ali della gallina. La femmina era dunque naturalmente designata per assumere la funzione di trasmissione del totem del clan. “La donna fa il clan”, dicono gli indiani Wyandotts dell’America settentrionale: è letteralmente esatto; le donne del clan sono incaricate di riprodurlo; gli uomini vanno a deporre i loro figli negli altri clan. Il figlio appartiene al clan della madre.
I membri di un clan, per numerosi e dispersi che siano, formano un’immensa famiglia; lo stesso sangue circola nelle loro vene; lo stesso cordone ombelicale prolungato da donna a donna, li riunisce all’antenato, al ceppo materno. Si devono aiuto, protezione e vendetta in ogni circostanza. Il padre è sconosciuto: il fratello della madre lo rimpiazza. I legami di sangue e di un’intima affezione uniscono lo zio e i nipoti. I padri e i figli appartenenti a clan differenti sono invece considerati come non consanguinei: nessuna affezione li unisce; possono venire alle mani, ammazzarsi se i due clan in cui sono nati si dichiarano guerra, mentre versare il sangue del proprio clan, è un crimine spaventoso. I piccoli intellettuali attuali prendono in giro Omero perché non ha il loro manierismo e ridono dei suoi eroi che, prima di combattere, si fermano per declinare la loro genealogia; i rapsodi omerici avevano un senso del reale più fine degli scrittori della scuola naturalista; riproducevano un uso sopravissuto anche dopo che la filiazione paterna ha rimpiazzato nel clan la filiazione materna. Dei guerrieri situati in campi nemici potevano essere membri dello stesso clan; avevano bisogno di conoscersi prima di attaccarsi, per non commettere il crimine orribile di versare il sangue del loro steso clan. Mac Lennan nota che gli eroi dell’Iliade che dettagliano la loro genealogia non risalgono oltre la terza generazione senza incontrare un dio, cioè un padre sconosciuto; la qual cosa sembrerebbe indicare che a quell’epoca la filiazione paterna era molto recente tra gli Elleni.
Il selvaggio in guerra perpetua con le bestie e con gli uomini non può vivere isolato; non può concepire di poter esistere separato dal suo gruppo, dal suo clan; espellerlo dal suo clan è condannarlo a morte: così l’esilio è stato considerato, per molto tempo, come la pena più terribile che si potesse infliggere all’uomo delle società antiche. L’uomo primitivo non costituisce un’entità di per sé; non esiste che come una parte integrante di un tutto che è il gruppo, il clan: Non è lui individualmente che possiede, ma il suo clan; non è lui individualmente che si sposa, ma il suo clan. Questa forma di matrimonio è senza dubbio la più curiosa. Per illustrarla prendo questo esempio nel libro di Fison e Howitt. I Kamilaroi sono suddivisi in quattro gruppi o clan: Ipai e Kubi, Kumbu e Muri. Le relazioni sessuali sono vietate in seno a uno stesso clan: tuttavia, il clan Ipai sposa il clan Kubi e il clan Kumbu sposa il clan Muri, il che significa che tutti gli uomini Ipai sono i mariti delle donne Kubi e tutte le donne Ipai sono le mogli degli uomini Kubi. Il matrimonio non è un contratto individuale ma collettivo, uno stato naturale: il fatto di nascere donna in un gruppo vi dà come mariti tutti gli uomini del vostro clan matrimoniale: I due clan possono essere dispersi su tutto un continente come avviene in Australia; tuttavia, quando due individui di sesso differente si incontrano e si riconoscono come membri di clan matrimoniali, possono senza altre cerimonie comportarsi da moglie e marito. “Questa forma di matrimonio, dice Fison, mi sembra il sistema matrimoniale comunista più esteso che io conosca”.
Per riassumere: la specie umana, così come le grandi specie animali, ha iniziato con la promiscuità dei sessi, poi ha gradualmente ristretto le relazioni sessuali, prima tra genitori e figli poi tra sorelle e fratelli uterini, infine tra fratelli e sorelle collaterali; in questa marcia evolutiva essa ha prima adottato la filiazione matrilineare sempre sicura, poi la filiazione patrilineare sempre problematica.
La filiazione materna coincide con la forma comunista e collettivista della proprietà che ha potuto continuare a esistere anche quando la filiazione paterna l’ha rimpiazzata.
La donna delle tribù selvagge appartiene teoricamente a un numero illimitato di mariti benché, in pratica, mettendosi sotto la protezione di stregoni e di capi, essa abbia saputo limitare questo numero: poco a poco, approfittando di circostanze diverse, essa li riduce a una dozzina, poi a un solo marito che rinnova sovente.
La filiazione matrilineare dà alla donna una posizione elevata nella tribù, talvolta superiore a quella dell’uomo; essa la perde con la filiazione per via paterna.
Il passaggio dalla filiazione matrilineare a quella paterna che ha spogliato la donna dei suoi beni e delle sue prerogative consacrate nel tempo, nei costumi e nella religione, non si è sempre compiuto pacificamente: la sua storia è scritta con lettere di sangue in una leggenda della Grecia che i suoi più grandi poeti drammatici hanno successivamente portato sulla scena. Vediamo di analizzarla.

V
Trasformazione del matriarcato in patriarcato
Erodoto e i greci del suo tempo consideravano l’Egitto un mondo a rovescio a causa della posizione superiore delle donne; ignoravano che qualche secolo prima, la Grecia aveva presentato gli stessi fenomeni che sconvolgevano le loro idee acquisite. Una vecchia leggenda, conservata da Varrone e trasmessa da S. Agostino nella Città di Dio, rapporta che “sotto il regno di Cecrope avvenne un doppio miracolo ad Atene. Scaturì da terra un olivo e contemporaneamente una sorgente a qualche distanza. Il re, terrorizzato, inviò a chiedere all’oracolo di Delfi il significato di quell’avvenimento e quel che doveva fare. Il dio rispose che l’olivo significava Minerva e la sorgente Nettuno e che dipendeva da loro ormai dare alla città il nome di una delle due divinità. Cecrope convocò allora un’assemblea di cittadini, cioè uomini e donne, perché era allora costume di ammettere le donne alle deliberazioni pubbliche. Le donne votarono per Minerva e gli uomini per Nettuno e siccome c’era una donna in più, trionfò Minerva. Nettuno per vendicarsi inondò immediatamente le campagne degli ateniesi. Per calmare la collera del Dio, gli uomini si videro obbligati a imporre alle loro donne una tripla punizione: – prima di tutto esse furono condannate a perdere il loro diritto di voto; in secondo luogo i loro figli non furono più autorizzati a portare il nome della madre; infine si videro costrette a rinunciare al loro nome di Ateniesi”, vale a dire a perdere i loro diritti di cittadinanza, a non essere più che le donne degli Ateniesi.
Ci volevano nientedimeno che dei fenomeni soprannaturali e l’intervento di un dio perché le donne di Atene perdessero le prerogative che facevano di loro delle libere cittadine.
Altre leggende rapportano che dei crimini spaventosi insanguinarono le famiglie prima che la donna si lasciasse spogliare dei diritti che la rendevano rispettabile nella città e nel clan. Le leggende omeriche sono la storia degli odi, delle brame, delle rivalità e delle lotte esplosi tra genitori e figli e tra fratelli appena i beni e il rango cominciarono a essere trasmessi dal padre anziché dalla madre. L’Orestiade, la grandiosa trilogia di Eschilo, conserva, ancora palpitanti, le terribili passioni che divorarono i cuori degli uomini e degli dei omerici.
Se si vuole ritrovare la storia sotto la leggenda di Oreste, si deve conoscere la genealogia di suo padre e di sua madre: discendevano entrambi da famiglie illustri per i loro crimini e le loro azioni eroiche.
Pelope, figlio di Tantalo, ebbe, insieme con altri figli, i due gemelli Atreo e Tieste che sposarono la stessa donna Erope; Atreo ebbe come figli Agamennone e Menelao e Tieste, Tantalo ed Egisto. Agamennone fu il padre di Oreste ed Elettra. – Clitennestra, nipote di Ebalo e figlia di Tindaro, mise al mondo Oreste, Elettra ed Erigone.
Tantalo, l’antenato degli Atridi, servì in pasto agli dei, suo figlio Pelope che Zeus resuscitò. Atreo e Tieste, figli di Pelope, e Ippocoonte e Tindaro, figli di Ebalo, si disputarono i beni e l’autorità dei loro padri. Nel momento in cui la famiglia paterna occupava il posto della famiglia matrilineare e il diritto di primogenitura non era ancora stabilito, i figli lottavano per impadronirsi dell’eredità del padre. Eschilo mette queste parole nella bocca di Egisto: “Atreo esiliò mio padre dalla sua patria. Il povero Tieste tornò al focolare, invocò l’ospitalità... L’empio Atreo offre a mio padre il festino degli ospiti e il pasto che serve a Tieste è la carne dei suoi figli! Atreo, seduto nella parte superiore della stanza, divora le dita dei piedi e delle mani che ha riservato per sé. Le parti irriconoscibili sono offerte a Tieste”. Quest’orribile pasto e altre leggende sembrerebbero indicare che poco tempo prima del periodo omerico, c’erano ancora in Grecia dei casi di antropofagia.
Atreo e Tieste, i due fratelli, hanno la stessa moglie Erope; Clitennestra sposa in seguito i tre nipoti di Pelope: Agamennone figlio di Atreo, e Tantalo ed Egisto figli di Tieste. Elena, sorella di Clitennestra, sposa Menelao, fratello di Agamennone. Questi matrimoni lasciano supporre che la famiglia di Pelope e quella di Tindaro appartenevano a due clan coniugali, analoghi a quelli dell’Australia contemporanea.
Addentriamoci nell’oscuro dramma di Eschilo. La vendetta, “la sete inestinguibile di sangue”, tormenta l’anima degli dei e dei mortali.
Clitennestra ed Egisto uccidono Agamennone, l’una per vendicare sua figlia Ifigenia; l’altro suo padre Tieste, “e ora la morte mi sembrerebbe bella”, grida Egisto alla vista del cadavere dell’eroe, imprigionato nella rete in cui l’aveva avviluppato affinché non potesse difendersi; “vedo il nemico nella rete della giustizia”. A quei tempi la famiglia era incaricata di vendicare l’ingiuria fatta a uno dei suoi membri; la vendetta era un dovere sacro, un atto di giustizia.
Elettra. sorella di Oreste, non piange sulla tomba del padre, essa viene a ravvivare il suo odio ed eccitarsi alla vendetta. “Zeus, Zeus, invoca, sei tu che fai sorgere dal fondo degli inferi la vendetta, lenta a punire, la vendetta che colpisce il mortale audace e perverso: anche sui genitori tu sai compierla. Come la rabbia del lupo divoratore, è implacabile l’ira che mia madre ha messo nel mio cuore... O madre odiosa! O donna empia! Tu hai osato seppellire mio padre come un nemico, i cittadini non hanno seguito i funerali del loro capo; lo sposo non ha avuto pianti!”
ORESTE. – Quale oltraggio, grandi Dei! ... Ella ne pagherà il prezzo. Che io la uccida, poi morirò contento”.
ELETTRA. – Grava le mie parole nella tua anima, che penetrino attraverso le tue orecchie fino in fondo, fino al luogo calmo del pensiero. Ecco quel che hanno fatto: quel che deve seguire domandalo alla vendetta.
“E mentre Elettra, durante questa scena, soffia l’odio e la vendetta nell’anima di Oreste, il coro, come la voce della coscienza pubblica, si rivolge agli dei e ricorda i costumi antichi: “O grandi Parche! Fate che la legge d’equità trionfi! La giustizia reclama quel che le è dovuto, la sua voce risuona e ci grida: che l’oltraggio sia punito con l’oltraggio! Che l’omicidio vendichi l’omicidio! Male per male, dice la sentenza dei vecchi tempi... Non è giusto rendere a un nemico male per male?... La legge lo vuole, il sangue versato sulla terra domanda un altro sangue... La terra nutrice ha bevuto il sangue dell’omicidio; è seccato, ma la traccia resta indelebile e grida vendetta”.
Un dio, Loxias (soprannome di un Apollo ambiguo, equivoco – NdT), impone a Oreste il dovere della vendetta. “Sento ancora risuonare la voce formidabile di Loxias. Il cuore riempito di vita, devo subire l’orribile assalto del male se non perseguito gli assassini di mio padre; se non colpisco, come hanno colpito; se non vendico su di loro la perdita di tutti i miei beni”.
Solo i barbari, come i Greci dei tempi omerici, o i pellerossa d’America, sentono il cuore bruciare violentemente giorno e notte, senza intermittenza, finché non abbiano versato il sangue per il sangue. Trasmettono di padre in figlio il ricordo dell’omicidio di un parente, di un membro del clan, fosse anche quello di una vecchia”.
Si citano dei selvaggi che non potendo vendicarsi si sono suicidati. I moralisti, gli economisti e persino i poeti e i romanzieri, che hanno, tuttavia, una psicologia meno fantasiosa di quella dei filosofi, ripetono da talmente tanto tempo che l’uomo è sempre stato lo stesso, che si è finito per ammettere che in ogni epoca le stesse passioni avevano fatto battere il cuore degli esseri umani. Niente di più falso: il civilizzato prova altre passioni del barbaro; il desiderio della vendetta non corrode il suo cervello come del vetriolo.
Nessun crimine spaventa i barbari torturati dal bisogno della vendetta. Per dieci lunghi anni, Clitennestra attende il momento di vendicare sua figlia: Assassinato Agamennone, essa è ubriaca e ritraccia con una gioia feroce la scena dell’omicidio: “Due volte, l’ho colpito due volte, lancia un grido lamentoso e le sue membra si distendono. Caduto, un terzo colpo lo finisce... La vittima spira, le convulsioni della morte fanno sprigionare del sangue dalle ferite e la rugiada dell’omicidio cade in gocce nere su di me, una rugiada dolce per il mio cuore quanto la pioggia di Zeus sui campi nella stagione in cui la spiga esce dall’involucro. Ecco quel che è successo. Voi che vedo in questi luoghi, vecchi di Micene, non m’importa che condividiate o condanniate la mia gioia: io mi applaudo per la mia azione. Se fosse permesso brindare su un cadavere, è qui che sarebbe giusto ringraziare gli dei... Ecco Agamennone, il mio sposo, ed ecco la mano che lo ha ucciso. Il necessario è frutto di una degna lavoratrice. Ho detto.”
Clitennestra ignora il rimorso; “mai lo spavento metterà piede sulla soglia del suo palazzo”, essa ha vendicato il suo sangue, ha ucciso l’uomo che ha “immolato il frutto beneamato del suo ventre”; sono le dee Ate (la fatalità) e Dike (la giustizia), sono le Erinni che l’hanno aiutata a sgozzare quest’uomo”. Essa ha compiuto un dovere sacro e spande la sua gioia. L’opinione pubblica ratifica il suo atto lasciandola vivere in pace finché il figlio di Agamennone sia in età di vendicarlo. L’opinione pubblica è potentissima tra i popoli primitivi; è l’autorità che nessuno domina, che persegue spietatamente quelli che infrangono i costumi, gli usi; per fuggirla i colpevoli abbandonano il paese, si esiliano finché i loro crimini siano dimenticati. L’uomo assassinato da Clitennestra era un guerriero celebre che tornava vincitore da una gloriosa spedizione. La Grecia omerica si arma per punire il ratto di una donna e l’omicidio del più grande dei Greci resta impunito.
Uccidere uno dei suoi mariti, un guerriero illustre, non spaventa Clitennestra. Alzare la mano su sua madre, anche per vendicare suo padre, sembra invece a Oreste il più spaventoso dei delitti: eppure non prova il minimo affetto per sua madre; non l’ha mai conosciuta; l’accusa di averlo spogliato dell’eredità paterna, di averlo esiliato. Bisogna che Loxias ecciti la sua audacia, gli assicuri che la sua azione non sarà considerata un crimine; quanto alla punizione se disobbedisse agli ordini, non osa dirlo, ma sarebbe talmente spaventosa che nessuna immaginazione saprebbe spingersi a simili orrori”. Apollo, il nuovo dio, lo spinge a uccidere sua madre per vendicare suo padre, mentre le Eumenidi, le vecchie dee che vegliavano affinché i crimini contro i genitori fossero vendicati, lo lasciano tranquillo; esse stimavano l’omicidio di un marito un crimine ordinario che non le riguarda, poiché il marito non ha lo stesso sangue di sua moglie.
Clitennestra, armata de ”l’ascia omicida”, si precipita a combattere l’assassino di Egisto, suo marito. Infervorato dal suo primo omicidio, la spada alla mano, Oreste si precipita su sua madre gridando: cerco anche te; lui ha la sua paga”.
Tuttavia quando si riconoscono, si fermano, esitano. Clitennestra, questa donna terribile, supplica, non si difende; versare il sangue di suo figlio sarebbe versare il sangue del suo clan, il grande crimine delle epoche primitive.
CLITENNESTRA. – Fermati, figlio mio!
L’arma cade dalle mani di Oreste che si rivolge al suo amico:
ORESTE. – Pilade, che cosa devo fare? Devo retrocedere dinanzi al crimine di mia madre?
PYLADE. – E gli oracoli di Loxias! E la fedeltà ai tuoi sermoni.
ORESTE. – Lo vedo, hai ragione, i tuoi consigli sono giusti.
CLITENNESTRA. – Non temi la maledizione di una madre, figlio mio... pensaci: guardati dai cani rabbiosi che vendicano una madre.
Nella mitologia antica, c’erano dei mostri e delle dee, specialmente incaricate di punire i matricidi; Zeus, il nuovo dio, sarà il vendicatore dei padri. Il parricidio è un crimine nuovo che non poteva esistere quando non si conosceva il proprio padre.
Appena Oreste commette il crimine, la paura invade la sua anima: invoca il Sole “perché contempli le opere empie di mia madre. Bisogna che un giorno, se mi si accusa, si possa testimoniare che ho dato giustamente la morte a mia madre... Non so come tutto ciò finirà; come dei corrieri ardenti, i miei sensi indocili mi trasportano mio malgrado; il mio cuore già sospira di paura”.
È pazzo: – “Ha! Ah! Vedete, schiavi, vedetele come Gorgoni, vestite di nero, circondate dalle contorsioni di innumerevoli serpenti”.
IL CORO. – Quali visioni ti sconvolgono, o figlio il più devoto?
ORESTE. – Delle visioni! Il tremendo supplizio è troppo reale, si tratta proprio dei cani rabbiosi che vendicano mia madre.
Se dopo l’omicidio di uno dei suoi mariti, Clitennestra poteva rimanere a Micene senza essere perseguita dalla collera divina e dall’indignazione pubblica, per sfuggire alla collera popolare Oreste è obbligato a fuggire, a esiliarsi da Micene, ad abbandonare i beni del padre che cercava di riconquistare con la morte di Egisto.
Le due prime parti della trilogia di Eschilo (Agamennone e Le Coefore) sono il dramma della vendetta; la terza parte, Le Eumenidi, è la lotta del diritto materno e del diritto paterno, del diritto antico e del diritto nuovo.
Le Eumenidi, queste figlie della Notte che le ha create per la punizione dei crimini, per il mantenimento della vendetta familiare e dei costumi antichi, sono il terrore dei nuovi dei. Apollo le ingiuria: “Sono delle abominevoli vecchie, antiche vergini la cui stirpe fa orrore agli dei, agli uomini e persino ai bruti: Sono nate solo per il male”.
Difendono l’autorità materna: quando esse spariranno o quando il loro potere sarà annullato dai nuovi dei, la madre non avrà più protezione né tra gli uomini né tra gli dei, né in terra né agli inferi né nei cieli: Finché esse mantengono la loro potenza, l’omicidio della madre è il più grave dei crimini: “Il sangue materno, una volta versato sulla terra, non si riscatta più. Tu devi dare del sangue per questo sangue, dicono le Eumenidi a Oreste: bisogna che il tuo corpo ben vivo calmi la nostra sete; bisogna che ci dissetiamo a grandi sorsi con la rossa e amara bevanda... Ti condurremo in inferno dove subirai il supplizio dei matricidi”.
Né Omero né Virgilio né Dante né alcun poeta o visionario cristiano che sia sceso in inferno ci parla dei supplizi riservati agli assassini di madri: perché sono scomparsi dal catalogo delle torture infernali appena la madre ha smesso di essere la base della famiglia. Allora, questa punizione era “la follia, il delirio, la disperazione: l’inno delle Eumenidi che incatena le anime, l’inno senza lira il cui veleno consuma i mortali”.
Le Eumenidi non menzionano mai i loro padri; esse implorano la madre, la Notte; le denunciano “il figlio di Lattone; ci ha sottratto la nostra preda che ci aveva dedicato l’omicidio di una madre... Ecco quel che osano i nuovi dei, essi regnano senza equità. Figlio di Zeus, giovane dio, tu oltraggi delle antiche dee. Salvare quest’uomo, fatale per quella che l’ha generato; sottrarre alla nostra vendetta l’assassino di sua madre! E tu sei un dio! Chi dirà che questo è rendere giustizia?”
Esse abbandonano Oreste per prendersela con Apollo, è lui il violatore della legge antica. “Tu non sei il complice del crimine di Oreste, tu hai fatto tutto; sei il solo autore. Il tuo oracolo gli ha ordinato di uccidere sua madre”.
APOLLO. – Il mio oracolo gli ha ordinato di vendicare il padre.
IL CORO DELLE EUMENIDI. – C’’è una violenza che possa forzare un uomo a uccidere sua madre?
APOLLO. – Suvvia! Quando una donna uccide suo marito.
IL CORO. – Perlomeno non versa il suo proprio sangue.
Giacché il marito non apparteneva allo stesso clan della donna, non toccava ai suoi figli di vendicarlo poiché, secondo l’idea primitiva, non erano dello stesso sangue.
APOLLO. – Così tu riduci a niente quei giuramenti nuziali di cui sono garanti Giunone e Zeus. Insomma! T’irriti per il crimine di Oreste e il crimine di Clitennestra non ti ha turbato.
IL CORO DELLE EUMENIDI. – Non era dello stesso sangue dell’uomo che ha ucciso... così Zeus, secondo te, ha pronunciato quest’oracolo; è lui che ha ordinato a Oreste di vendicare l’assassinio del padre senza prendere in conto i diritti della madre! Zeus sarebbe dunque il vendicatore dei padri? Eppure ha incatenato suo padre, il vecchio Saturno”.
San Basilio e i padri della Chiesa greca rilevavano con vivacità le incoerenze mitologiche per sviare l’attenzione da quelle della Bibbia e citavano questo passaggio di Eschilo. Zeus che ha incatenato suo padre e Saturno che ha tolto il trono a suo padre Urano, non commettevano delle azioni reprensibili secondo la legge antica: finché dura la filiazione matrilineare, il padre e il figlio appartengono a clan diversi: possono venire alle mani, ammazzarsi senza che ci sia parricidio o infanticidio.
Apollo e le Eumenidi si rivolgono a Minerva per tranciare il dibattito: la scelta di una dea come arbitro è una concessione ai costumi antichi.
Minerva e i nuovi dei vogliono abolire la vendetta; desiderano che la società s’incarichi della punizione dei crimini, lasciata fino ad allora ai membri della famiglia. La giustizia civile deve rimpiazzare la giustizia familiare. Per informarsi sulla causa e giudicarla, Minerva istituisce una giuria, l’Areopago; deve “durare per sempre... e diventare l’arbitro di Atene. Per la prima volta questa giuria porterà la sentenza a proposito del sangue versato... e che mai, per vendicare l’omicidio, un omicida si levi infuriato in Atene”.
Un’altra leggenda racconta che l’Areopago rese la sua prima sentenza a proposito di Cefalo che per errore aveva ucciso sua moglie: la condanna fu l’esilio. È curioso vedere collegato all’omicidio di una donna da parte del marito l’istituzione dell’Areopago che non dovrà più occuparsi di una tale questione una volta che la filiazione paterna si sarà radicata nei costumi; la nuova legge concedendo al marito il diritto di vita e di morte sulla moglie.
Le Eumenidi danno al dibattito la sua portata sociale: “Se la causa di quest’uomo trionfa, nuove leggi sconvolgeranno il mondo... il palazzo della giustizia crollerà in rovina”.
Oreste le accusa di non aver perseguito con la loro collera colei che aveva ucciso suo padre e il marito. Esse rispondono ancora: “Lei non era dello stesso sangue dell’uomo che ha ucciso”.
ORESTE. – Ed io sono dunque del sangue di mia madre?
IL CORO DELLE EUMENIDI. – Scellerato! Vuoi rinnegare il proprio sangue di tua madre?
Rinnegare il sangue della madre! Dei pellerossa hanno preferito essere legati al palo della tortura piuttosto che essere adottati in un nuovo clan, rinnegando conseguentemente il sangue della madre. Tuttavia, Oreste è il personaggio simbolico che deve eliminare tutti i costumi della famiglia materna. Versa il sangue di sua madre, rinnega quel sangue per scusare il suo crimine; e per dimostrare che non è del sangue di sua madre, sposa Ermione, la figlia di Elena, sorella di Clitennestra; sposare la cugina di lato materno era agli occhi degli uomini primitivi un incesto altrettanto spaventoso che per noi il matrimonio di un padre con sua figlia: abbiamo visto con qual furore gli australiani cacciavano quanti, anche per errore, commettevano un tale crimine. In seguito Oreste sposò Erigone, figlia di sua madre Clitennestra, ma con Egisto come padre.
Le Eumenidi, sentendosi condannate dai nuovi dei, invocano la giustizia umana. “Quest’uomo che ha versato sulla terra il sangue di sua madre, il sangue che lo ha animato, andrà ad abitare a Micene nella casa paterna! A quale altare pubblico oserà fare dei sacrifici? Quale fratria vorrà ammetterlo alle sue libagioni”?
Allora Apollo porta il colpo decisivo; attacca la donna nella sua funzione essenziale, quella che assicurava la sua superiorità, la sua funzione materna: “Non è la madre che genera quel che si chiama suo figlio, argomenta, essa non è che la nutrice del germe versato nel suo seno; colui che genera è il padre. La donna riceve il germe altrui come un depositario straniero e quando piace agli dei, lo conserva. La prova di quel che avanzo è che si può diventare padre senza bisogno di una madre; lo testimonia quella dea, figlia di Zeus, del re dell’Olimpo. Essa non è stata affatto nutrita nelle tenebre del seno materno e quale dea avrebbe prodotto una tale prole”?
Minerva, risposta dell’uomo alle insolenti partenogenesi delle prime dee che si vantavano di concepire senza il soccorso del maschio, era la protesta vivente contro la famiglia materna. Essa è convinta in anticipo; confessa cinicamente la sua parzialità; “Non ho una madre a cui devo la vita; quel che favorisco dovunque è il sesso virile... Sono completamente per la causa del padre. Non posso dunque interessarmi alla sorte della donna che ha ucciso il suo sposo, il signore della casa”.
La madre non è più che una capsula contenente il “germe”, secondo l’espressione egizia. La donna ha capitolato. Cento anni più tardi, nell’Oreste, Euripide si serve dello stesso argomento antifisiologico che si ritroverebbe presso tutti i popoli se se ne possedessero tutte le leggende. Nel diciottesimo secolo, quando si perfezionò il microscopio, dei sapienti crederono di vedere l’homunculus, l’essere umano in miniatura microscopica: gli si scopriva una testa, dei membri e persino degli organi interni.
“Ah! divinità novelle, urlano le Eumenidi disperate, voi avete calpestato delle leggi antiche, ci avete strappato di mano tutta la nostra potenza”.
Il ruolo delle Eumenidi è finito. La donna è scesa dal suo rango superiore. Il figlio non apparterrà più alla madre Il padre sarà il signore della casa, come dichiara Minerva: il figlio comanderà alla madre. Telemaco ordinerà a Penelope di uscire dalla stanza del festino e di ritirarsi nell’appartamento delle donne. Gesù, il nuovo Dio, dirà a Maria: “Donna, che cosa c’è di comune tra voi e me? ” e aggiungerà che è venuto in terra per eseguire gli ordini di suo padre e non per occuparsi delle inquietudini di sua madre. “La famiglia e il culto si perpetueranno attraverso il padre; rappresenterà da solo tutta la serie dei discendenti, il culto domestico riposerà su di lui, potrà quasi dire come l’Indù: sono io il Dio. Quando la morte verrà, sarà un essere divino che i discendenti invocheranno”.
La donna, trattata da minore, sarà sottomessa al padre, al marito, ai genitori di lui, se questi dovesse morire. Sarà spogliata dei suoi beni: i maschi e i discendenti dei maschi escluderanno le donne e i discendenti delle donne dall’eredità della proprietà di famiglia. Catone il vecchio formulerà così il nuovo codice coniugale: “Il marito è giudice della donna; il suo potere non ha limiti; può quel che vuole. Se essa ha commesso qualche colpa, la punisce: se ha bevuto del vino, la condanna; se ha avuto commercio con un altro uomo, la uccide”. La legge di Manu[7] condannava la donna che aveva “ effettivamente violato il suo dovere verso il suo signore, a essere divorata dai cani in un luogo molto frequentato”.
Un nuovo crimine era nato: l’adulterio.
La Clitennestra di Eschilo che, a conoscenza di tutti, vive con Egisto, il cugino di Agamennone suo secondo marito, potrà dire ai vegliardi di Micene: “Non ho rotto il sigillo del pudore e della segretezza”. Nelle Eumenidi, Oreste e Apollo l’accuseranno dell’omicidio di Agamennone, ma non di aver tradito la fede coniugale. Tuttavia, più di cinque secoli dopo la presa di Troia, Eschilo drammatizzava una leggenda che aveva dovuto perdere la sua nettezza al contatto delle idee e dei costumi novelli. Cento anni dopo Eschilo, Euripide riprendeva lo stesso tema: la sua Clitennestra è assassina e adultera. Essa ha consumato un’unione colpevole... ha sporcato il letto coniugale. Sulla piazza pubblica, Oreste trova come difensore “un cittadino dal cuore valente, integro, dalla vita irreprensibile. Propone d’incoronare il figlio di Agamennone per aver voluto vendicare suo padre uccidendo una donna cattiva ed empia, a causa della quale un cittadino non vorrebbe armare il suo braccio e partire in spedizione lontano dal focolare se quelli che restano corrompono le guardiane della casa e sporcano il letto coniugale. Nell’Elettra, Clitennestra è fatta scendere della sua altera dignità; diventa una donna sottomessa che richiede le circostanze attenuanti; essa rigetta su Agamennone il suo adulterio: “Se lo sposo si dimentica fino a disdegnare il letto coniugale, la sposa segue volentieri il suo esempio e cerca altrove un amante”.
La donna conquistava un nuovo dovere, la fedeltà coniugale; tuttavia, relegata al fondo del gineceo, sotto l’oppressione maritale, essa perde il suo ruolo storico. Nei tempi omerici, la donna è il centro delle leggende; dovunque essa mostra la potenza della sua azione: la tradizione, conservata principalmente dagli uomini, ha preservato soprattutto il ricordo dei suoi crimini.
Eschilo l’attacca ne Le Coefore con un tal furore che si deve supporre che la donna del suo tempo non fosse ancora completamente sottomessa al giogo degradante del maschio.
IL CORO. – Chi dirà tutta la rabbia di una donna impudente... L’amore nel cuore di una donna non è più dell’amore; è un delirio al quale non sono mai arrivati, al momento dell’accoppiamento, gli animali selvaggi né i bruti:
“Ricordati della figlia di Testio (la madre di Meleagro)[8], questa madre fatale a suo figlio... Odio ancora per la sanguinaria Scilla (che consegnò la città di Megara e suo padre Niso a Minosse, suo amante). Di tutti i crimini, però, il più tristemente famoso è quello di Lemno (il massacro degli uomini da parte delle donne).
Mentre la sposa spariva dalla vita pubblica, degradata, avvilita dalla nuova organizzazione della famiglia, infangata a teatro dalle insultanti e impudiche offese di Aristofane che i padri della Chiesa, i moralisti e gli spiritosi di ogni tempo hanno servilmente ripetuto, la cortigiana, la prostituta corteggiata dai professionisti, dai ricchi e dai potenti, cantata dai poeti, adulata dai filosofi, tollerata in fondo al tavolo, s’impadroniva del posto da cui era stata scacciata la madre di famiglia. Gli ateniesi che ebbero il triste onore di segnalarsi per un asservimento familiare tanto duro della donna, si dedicavano, con l’approvazione dei filosofi moralisti, a costumi infami che, secondo Erodoto esportavano in tutti i paesi in cui passavano. Zeus “il padre degli Dei”, “il vendicatore dei padri”, “il guardiano della fede coniugale”, meritava di essere l’amante di Ganimede.

VI
La farsa dopo la tragedia
La teoria fabbricata da Apollo per spiegare il ruolo preponderante del padre nell’atto della generazione, non arrivò a convincere lo spirito positivo della base popolare che preferisce un fatto tangibile a tutti i ragionamenti della sofistica. Ha usato un metodo diverso per autorizzare la sostituzione del padre alla madre nella direzione della famiglia.
Si conosce la covata basca: la donna partorisce, il marito si corica, geme e si contorce; i compari e le comari del vicinato vengono a complimentarsi con gravità per la sua felice liberazione. Questo curioso costume che Strabone aveva già segnalato tra gli Iberi, s’è conservato fino ai nostri giorni. Ci si era immaginato che solo i Baschi fossero tanto amici della farsa da dare ai loro amici e conoscenti lo spettacolo di una scena così grottesca. Tuttavia, quando gli Europei scoprirono l’America, si accorsero che i loro correligionari della Biscaglia e della Guipuzcoa non erano i soli a mettere in scena la covata. “Tra gli Apiponnes, scrive un missionario, appena la donna ha messo al mondo un bambino, si vede il marito mettersi a letto: lo si circonda di cure, digiuna per un certo periodo, giurereste che è lui che ha appena partorito”. – “Presso altri indigeni, scrive un viaggiatore, il marito si mette tutto nudo nell’amaca; è curato dalle donne del vicinato, mentre la madre del nuovo nato prepara la cucina, senza che nessuno si occupi di lei”.
Questo costume è stato osservato un po’ dappertutto: in Europa, in Africa, in Asia, nel vecchio e nel nuovo mondo; nel presente e nel passato. Marco Polo l’ha trovato nello Yunnam, nel tredicesimo secolo. Apollonio, vissuto due secoli prima della nostra era, racconta che le donne del Ponto Eusino mettono al mondo i loro figli con la partecipazione degli uomini che si coricano, lanciano delle grida penetranti, si fasciano la testa, si fanno preparare dei bagni e sono delicatamente nutriti dalle loro mogli” – “I ciprioti, dice Plutarco, si mettono a letto e imitano le contorsioni della donna incinta”. Gli ateniesi celebravano il due del mese gorpeius (settembre), una festa in onore di Arianna; durante il sacrificio “ un giovane, coricato in un letto, imitava i movimenti e le grida di una donna partoriente” (PLut. Teseo XVIII). Potrei moltiplicare le citazioni, ma queste bastano per stabilire che questo ridicolo costume è stato assai diffuso su tutta la terra.
Gli dei, queste scimmie dell’uomo, non consideravano la commedia della covata indegna della loro maestà. Zeus si mise a letto, lanciò dei gemiti e giurò che aveva portato nella sua coscia il piccolo Bacco che sua madre aveva appena messo in paradiso: per privilegio raro Bacco era Bimétor, di madre doppia; i civilizzati si accontentano di essere di diversi padri. Zeus non era al suo primo parto, aveva già partorito Minerva.
La covata dei Baschi non era che un divertente soggetto di battute finché la si è creduta una particolarità di questo popolo così originale; tuttavia, il fatto di ritrovarla presso popoli tanto diversi e persino nell’Olimpo, merita considerazione. L’uomo, il più crudele e il più grottesco degli animali, traveste talvolta i fenomeni sociali più considerevoli con le cerimonie più ridicole. La covata è una delle soperchierie impiegate dal maschio per spogliare la donna dei suoi beni e del suo rango. Il parto proclamava il diritto superiore della donna nella famiglia: l’uomo ha parodiato il parto per convincersi di essere davvero l’autore del figlio.
La famiglia patriarcale fece la sua entrata nel mondo scortata dalla discordia, dal crimine e dalla farsa degradante.



[1] Nella parte settentrionale dello Stato indiano del Kerala (NdT).
[2] Autore del poema epico I Lusiadi, 1572 (NdT).
[3] Popolazione di etnia Tuareg del Sahara sudorientale (NdT).
[4] Il termine Hova designa la più importante suddivisione del popolo dei Mérinas nelle alte terre centrali del Madagascar (NdT).
[5] Regione del sudovest della Turchia (NdT).
[6] Lafargue usa qui in francese, l’identificazione greca di Seth: Typhon (NdT).
[7] Essa fa parte dei dharmaśāstra, ossia uno dei trattati hindu di diritto che raccolgono le regole del vivere umano secondo il dharma (NdT).
[8] Si tratta di Altea che causò la morte del figlio prima di togliersi la vita (NdT).




Paul Lafargue :


Le matriarcat
Etude sur les origines de la famille



Paru en feuilleton dans Le Socialiste, du 4 septembre au 16 octobre 1886.




Nous vivons sous le régime de la famille patriarcale : autour du père, reconnu par les mœurs et la loi chef de la petite société familiale, se groupent la femme et les enfants : son nom seul descend le cours des générations : autrefois la propriété se transmettait par les mâles. La Bible, les livres sacrés de l'Orient, la plupart des philosophes, des historiens et des hommes d'Etat ont admis comme une vérité indiscutable, que cette forme familiale présida à l'origine des sociétés humaines et qu'elle traverserait les siècles à venir en ne subissant que d'insignifiantes modifications. Pour le vulgaire et pour les esprits cultivés la famille patriarcale est encore la seule forme familiale selon la raison et selon la nature : les jurisconsultes romains, eux aussi, pensaient que le jus gentium était l'expression juridique du Droit naturel. Afin de donner une autorité morale à leurs institutions civiles, politiques et religieuses, à leurs mœurs et à leurs coutumes, les hommes les ont toujours présentées comme des manifestations de la loi naturelle et des émanations de la divinité. Les droits et les devoirs religieux, moraux et politiques de la femme reposent sur cette notion de la famille, qui naît avec l'histoire.
L'axiome social : – le père est le chef naturel de la famille monogamique ou polygamique, réputé plus inébranlable que le roc, s'effrite au souffle impie de la science, aussi bien que d'autres vérités vénérées de toute antiquité. Il y a beau jour que cette vérité éternelle aurait été mise en doute, si les faiseurs de philosophie de l'histoire ne s'étaient pas laissé aveugler par les préjugés sociaux, s'ils avaient tenu compte des faits connus, s'ils n'avaient pas dédaigné, comme des fantaisies individuelles et sans portée, les opinions avancées par les cyniques, les stoïciens, les gymnosophistes et les platoniciens sur la communauté des femmes et des biens, s'ils n'avaient pas ridiculisé les théories des socialistes modernes sur la communauté des biens et la liberté de l'amour. Il a fallu attendre jusqu'à l'année 1861, pour qu'il vint un homme de science vaste et d'intelligence hardie, démontrant que dans les sociétés primitives d'autres formes familiales avaient existé : c'est en 1861 que Bachofen publiait Das Mutterrecht (le droit de la mère) . Son importante découverte, qu'un épais nuage mystique enveloppait, aurait peut-être passé inaperçue, si, quelques années après, des écrivains anglais, tels que Mac Lennan, Lubbock, Herbert Spencer, Tylor, etc., groupant confusément d'après des idées fausses et conçues à la hâte, les nombreux récits des voyageurs anglais, n'avaient attiré l'attention sur des peuples ne connaissant pas la famille paternelle. Mais l'honneur d'avoir établi d'une manière scientifique que les sociétés humaines débutent par la promiscuité sexuelle et ne parviennent à la famille paternelle qu'après avoir traverse une série graduée de formes familiales, revient au profond penseur américain, Lewis H. Morgan. Il est le premier qui ait mis un ordre raisonné dans le fouillis inextricable de faits curieux, étranges et souvent contradictoires, recueillis par les historiens de l'antiquité, par les anthropologistes sur l'homme préhistorique, et par les voyageurs sur les peuples modernes. Son grand ouvrage, Ancient Society, publié à Londres en 1877 est le résumé de travaux parus dans les publications de la Smithsonian Society de Washington, auxquelles il avait consacré quarante années de recherches arides, patientes et consciencieuses. Friedrich Engels, complétant les travaux de Morgan par les études économiques et historiques de Karl Marx et par les siennes propres, a exposé dans la forme brève, limpide et alerte qui lui est spéciale, les investigations faites sur l'origine de la famille, de l'Etat et de la propriété privée.
M. Dumas fils, dans une de ses préfaces, que rachète leur longueur par leur banalité, écrit qu'il est difficile, sinon impossible de reproduire sur la scène les rapports entre hommes et femmes de la vie mondaine, de peur d'effaroucher la pudeur timorée des dames qui ne sont chastes que par les oreilles. Mais la pudeur des messieurs, de M. Dumas tout le premier, est encore plus corsée. Ils ont des idées si stéréotypées sur la pudeur native des femmes, des règles si précises pour leur conduite privée et publique, que tout fait, toute idée qui ne porte pas l'estampille de la morale civile et usuelle les offusque. Ils ne sauraient admettre qu'il y ait sur terre et dans le ciel des choses que ne reveut pas leur philosophie, comme disait Hamlet à Horatio.
Mais les faits recueillis chez tous les peuples anciens et modernes sont si nombreux, les théories qu'ils ont contribué à élaborer sont si positives, que si l'on veut comprendre l'évolution de l'espèce humaine, il faut déposer aux portes de la science historique les idées prudhommesques qui meublent la tête des civilisés.


I

A la fin du XVº siècle, lorsque Vasco de Gama aborda sur les côtes de Malabar, les Portugais débarquèrent au milieu d'un peuple remarquable par l'état avance de sa civilisation, le développement de sa marine, la force et l'organisation de son armée, la richesse de ses villes, que chanta Camoens, le luxe des habitants et la politesse de leurs mœurs ; mais la position sociale de la femme et la forme de la famille bouleversèrent toutes leurs idées apportées d'Europe. – Bachofen a rassemblé, dans ses Antiquarische Briefe, des documents sur la famille naïre de sources les plus diverses, d'écrivains arabes, portugais, hollandais, italiens, français, anglais et allemands, depuis le moyen âge jusqu'à l'époque moderne.
La famille naïre a donné des preuves exceptionnelles de vitalité : elle a su résister au christianisme, à l'oppression de l'aristocratie brahmanique aryenne et à la religion musulmane. Cette tenace institution familiale se maintint chez les peuples de Malabar jusqu'à l'invasion de Hyder-Ally en 1766.
Les Naïrs, l'élément aristocratique du pays, formaient de grandes familles de plusieurs centaines de membres, portant le même nom, analogues au clan celtique, à la gens romaine, au génos grec. Les biens immobiliers appartenaient en commun à tous les membres de la gens ; l'égalité la plus complète régnait entre eux.
Le mari, au lieu de vivre avec sa femme et ses enfants, demeurait avec ses frères et sœurs dans la maison maternelle ; quand il l'abandonnait, il était toujours accompagné de sa sœur favorite ; à sa mort, ses biens mobiliers ne retournaient pas à ses enfants mais étaient distribués entre les enfants de ses sœurs.
La mère ou à son défaut, sa fille aînée était le chef de la famille ; son frère aîné, nommé le nourricier, en gérait les biens ; le mari était un hôte ; il n'entrait dans la maison qu'à des jours déterminés et ne s'asseyait pas à table à côté de sa femme et de ses enfants. Les Naïrs, dit Barbosa, ont un respect extraordinaire pour leur mère ; c'est d'elle qu'ils reçoivent biens et honneurs ; ils honorent également leur sœur aînée, qui, doit succéder à la mère et prendre la direction de la famille.
La dame naïre possédait plusieurs maris de rechange, dix et douze et même davantage, si le cœur lui en disait ; ils se succédaient à tour de rôle, chacun avait son jour conjugal marqué, pendant lequel il devait subvenir aux frais du ménage ; il pendait à la porte son épée et son bouclier pour indiquer que la place était occupée. La gloire et le renom de la dame se mesuraient au nombre de maris coopérant à son entretien. Le mari pour ne pas jeûner les jours où il n'avait pas accès auprès de sa dame, faisait partie d'autres sociétés matrimoniales ; il pouvait à son gré se retirer d'une association conjugale pour entrer dans une autre, et la dame avait le droit de le répudier s'il lui déplaisait ou remplissait mollement ses devoirs. La femme naïre était polyandre et l'homme polygyne.
Les enfants appartenaient à la mère, elle se chargeait de les nourrir. "Aucun Naïr, dit Buchanan, ne connaît son père. Chaque homme regarde comme ses héritiers les enfants de sa sœur ; il les aime du même amour que dans les autres parties du monde, les pères aiment leurs enfants. On regarderait comme un monstre celui qui, à la mort d'un enfant qu'il supposerait sien à cause de la ressemblance et de la longue cohabitation avec la mère, montrerait autant de chagrin qu'à la mort d'un enfant de sa sœur".
Les Naïrs semblaient avoir pris à tâche de déranger les idées morales des braves Européens. Le droit de possession d'une vierge, réservé aux seigneurs féodaux comme un de leurs plus précieux privilèges, et acheté par les seigneurs du capital, à fort bas prix il est vrai, était considéré par les Naïrs comme une corvée. Pour déflorer les vierges, ils employaient des étrangers, des hommes du port qui recevaient un salaire, préalablement débattu. Bartema raconte que dans la ville de Tarnassari, les rajahs chargeaient les étrangers de tenir compagnie à leurs femmes pendant les premières nuits de noces. Georges IV d'Angleterre partageait l'opinion des Naïrs: il disait que c'était là un travail de palefrenier. Barbosa qui fait une si leste description de la cérémonie nuptiale, s'écrie avec une indignation toute chrétienne :"Dans l'opinion de ces païens, une fille qui mourrait vierge n'irait pas au paradis". Le cadavre des vierges était violé, la virginité devenant là un péché mortel !Si ces mœurs étranges eussent été observées chez des sauvages placés au dernier échelon de l'espèce humaine, on aurait tout prêt le jugement porté par les Espagnols sur les Peaux-Rouges, qu'ils massacraient sauvagement : – "Les Naïrs sont des gens sans raison – gentes sin razon". Les chrétiens de nos jours et beaucoup de savants anthropologistes avec eux, pourraient ajouter : – "Les Naïrs sont des peuplades dégénérées, leurs mœurs abominables portent témoignage de leur dégradation". Les Naïrs, au contraire, formaient l'aristocratie indigène d'un peuple policé, à coup sûr plus civilisé que les Portugais du XVIº siècle.
On pourrait sa poser cette question : la famille naïre basée sur la communauté des biens dans le sein du clan, sur la polygamie des deux sexes, sur la suprématie de la mère, maîtresse souveraine de la maison, son frère aîné n'étant qu'une espèce de majordome, sur la filiation maternelle, la mère seule transmettant à ses enfants son nom, son rang et ses biens, serait-elle un de ces faits anormaux, une de ces monstruosités sociales engendrées par des circonstances tellement exceptionnelles, qu'elle n'ont pas dû se retrouver ailleurs ? En admettant que chez aucun peuple de la terre on n'eut observé depuis les temps historiques des mœurs analogues, l'homme de science hésitant, ne devrait-il pas se dire : – Rien n'est miraculeux. La tératologie de Geoffroy Saint-Hilaire classe dans la série animale le monstre, qui n'est qu'un organisme arrêté à une de ses phases de développement et reproduisant un type inférieur de la série. La famille naïre, ce phénomène social, ne reproduirait-elle pas une des formes familiales primitives, qu'aurait traversées l'humanité dans le cours de son évolution ?
Mais les mœurs familiales des Naïrs ne sont pas une exception unique. Si l'on feuillette les récits des voyageurs sur les peuplades sauvages de l'ancien et du nouveau monde, si, l'esprit débarrassé des préjugés civilisés et éveillé par les narrations des explorateurs modernes, on relit les historiens, les poètes et les philosophes de l'antiquité, si l'on analyse les rites religieux, et si l'on étudie les livres sacrés, on ramasse une abondante moisson de faits qui démontrent que tous les peuples de la terre ont eu à un moment de leur passé des mœurs analogues à celles des Naïrs.

II
La famille maternelle chez d'autres peuples

Transportons-nous en Afrique, au milieu des Touareg du Nord, et prenons pour guide un voyageur français, M. Duveyrier.
"Le ventre teint l'enfant", dit un proverbe targui qui se retrouve chez les Hovas de Madagascar. L'enfant targui suit la condition de sa mère ; si elle est libre et noble, il est libre et noble, même si le père est esclave. "Si une femme lycienne de condition libre épouse un esclave, ses enfants sont réputés nobles, rapporte Hérodote. Si au contraire un citoyen, même du rang le plus distingué, se marie à une étrangère ou à une concubine, ses enfants sont avilis ". Partus sequitur ventrem était un vieil adage latin. "Ventre affranchit et ennoblit", disaient les coutumes de Champagne et de Brie au XIIº siècle.
Les Touareg ont deux sortes de propriétés : 1º les biens acquis par le travail de l'individu, tels qu'armes, argent, esclaves achetés, troupeaux, récoltes et provisions, sont individuels ; – 2º les droits perçus sur les caravanes et les voyageurs, les droits territoriaux sur terres de parcours et sur terres de culture, sur les eaux ; les droits sur les personnes et les tribus réduites en servage, le droit de commander et d'être obéi sont collectifs: ils ne se transmettent pas par ligne mâle, mais reviennent au fils aîné de la sœur aînée qui les gère dans l'intérêt de toute la famille.
Anciennement, lorsqu'il s'agissait de distribution territoriale, les terres attribuées à chaque famille étaient inscrites au nom de la mère. Le droit berbère accorde aux femmes l'administration de leurs biens; à Rhât, elles seules disposent des maisons, des jardins, en un mot de toute la propriété foncière du pays.
Les Touareg ne possèdent qu'une parenté, la parenté utérine : la généalogie est féminine. Le Targui connaît sa mère et la mère de sa mère, mais ignore son père. L'enfant appartient à la femme et non au mari ; c'est le sang de celle-ci et non celui de son époux qui confère à l'enfant le rang à prendre dans la tribu et dans la famille."S'il est un point sur lequel la société targuie diffère de la société arabe, c'est par le contraste de la position élevée qu'y occupe la femme comparée à l'état d'infériorité de la femme arabe. Non seulement chez les Touareg la femme est l'égale de l'homme, mais encore elle jouit d'une condition préférable. Elle dispose de sa main, et dans la communauté conjugale elle gère sa fortune, sans être forcée de contribuer aux dépenses du ménage. Aussi arrive-t-il que, par le cumul des produits, la plus grande partie de la fortune est entre les mains des femmes".
La femme targuie est monogame, elle a imposé la monogamie à son mari, bien que la loi musulmane lui permette plusieurs femmes. Elle est indépendante vis-à-vis de son époux, qu'elle peut répudier sous le plus léger prétexte : elle va et vient librement. Ces institutions sociales et les mœurs qui en découlent ont développé extraordinairement la femme targuie ; "son intelligence et son esprit d'initiative étonnent au milieu d'une société musulmane". Elle excelle dans les exercices du corps ; à dos de dromadaire, elle franchit cent kilomètres pour se rendre à une soirée ; elle soutient des courses avec les plus hardis cavaliers du désert. Elle se distingue par sa culture intellectuelle : les dames de la tribu de Jmanan sont célèbres par leur beauté et leur talent musical ; quand elles donnent des concerts, les hommes accourent des points les plus éloignés, parés comme des mâles d'autruches. Les femmes des tribus berbères chantent tous les soirs en s'accompagnant sur le rebâza (violon) ; elles improvisent : en plein désert, elles font revivre les cours d'amour de la Provence. La femme mariée est d'autant plus considérée qu'elle compte plus d'amis parmi les hommes ; mais, pour conserver sa réputation, elle n'en doit préférer aucun. "L'amie et l'ami, dit-elle, sont pour les yeux et pour le cœur et non pour le lit seulement, comme chez les Arabes". Mais les nobles dames targuies ne sont point obligées de mettre leur conduite en contradiction avec leurs sentiments, ainsi que les héroïnes de la Fronde, qui platonisaient les rapports de l'amante et de l'amant et qui, selon l'expression de Saint-Evremond, aimaient tendrement leur amant et jouissaient solidement de leur mari avec aversion. Le mariage des Touareg n'est pas indissoluble, les couples peuvent se désunir facilement et les femmes convoler à de nouvelles unions.
Les femmes jouent le principal rôle dans les légendes du pays ; le même phénomène s'observe dans la Grèce homérique : à différentes reprises, elles ont exercé le commandement ; une d'elles, Kahiva, la Marie-Thérèse du désert, au commencement du VIIIº siècle, réunit sous sa domination les tribus berbères et fut l'héroïne de la résistance nationale contre l'invasion des conquérants arabes, qui ne réussirent à s'emparer du littoral de l'Atlas qu'après sa mort. Elle tomba les armes à la main, tuée par le général arabe Hassan. Il y a quelques années la tribu des Jhéhaouen était gouvernée par une femme, une Cheikha ; aujourd'hui encore les femmes qui se distinguent par leurs talents sont admises aux conseils de la tribu.
Les Touareg sont les descendants de ces Libyens dont parle Hérodote, qui avaient leurs femmes en commun, qui ne demeuraient pas avec elles, et dont les enfants étaient élevés par les mères. Ils prétendaient que Minerve était la fille adoptive de Jupiter, car ils ne pouvaient admettre qu'un homme engendrât sans le secours de l'autre sexe : les femmes seules étaient capables d'un tel miracle.
Dans la vallée du Nil, cet antique berceau de la civilisation, les femmes du temps d'Hérodote avaient une situation si privilégiée, que les Grecs appelaient l'Egypte "un pays à rebours". L'historien d'Halicarnasse expliquait ce contraste par "la nature du Nil, si différente de celle des autres fleuves :ainsi les usages des Egyptiens et leurs lois diffèrent des mœurs et des coutumes des autres peuples... Les hommes portent les fardeaux sur la tête et les femmes sur les épaules. Les femmes vont au marché et trafiquent, tandis que les hommes renfermés dans les maisons travaillent à la toile... Les enfants mâles ne sont point contraints par la loi de nourrir leurs parents ; cette charge incombe de droit aux filles".
Cette condition imposée aux filles suffirait à elle seule pour établir que les biens de la famille appartenaient aux femmes, comme c'était le cas chez les Naïrs et les Touareg : et partout où la femme possède cette position économique, elle n'est pas sous la tutelle du mari, elle est chef de famille."En raison des nombreux bienfaits de la déesse Isis, écrit Diodore de Sicile, il avait été établi que la reine d'Egypte recevait plus de puissance et de respect que le roi ; ce qui explique pourquoi chez les particuliers l'homme appartient à la femme selon les termes du contrat dotal, et qu'il est stipulé entre les époux que l'homme obéira à la femme" . On avait rangé cette observation de Diodore parmi les histoires merveilleuses dont abondent les voyageurs qui reviennent de loin : cependant on ne pouvait s'empêcher de constater que l'association des reines au pouvoir persista jusqu'aux Ptolémées, en dépit des idées grecques qui conquéraient le pays. Cléopâtre dans les cérémonies religieuses, revêtait les attributs d'Isis, la mère sainte, et son époux Antoine, un général romain, suivait à pied son char triomphal.
Les inscriptions funéraires recueillies dans la vallée du Nil mentionnent fréquemment le nom de la mère, mais non celui du père. "Parfois, dit M. Révillout, on indique par parallélisme que le personnage en question était le fils d'un tel. Mais cette désignation patronymique était très rare dans la langue sacrée... Ajoutons que la femme mariée, mère ou épouse, est toujours nebt pas, dame de maison, maîtresse de maison" , M. Révillout est tout scandalisé.
L'analyse des papyrus démotiques du Louvre a permis au savant égyptologue de constater que les anciens contrats de mariage ne mentionnent pas les biens de la femme, quelque nombreux et importants qu'ils aient été, le mari n'ayant aucun droit dessus, tandis qu'on spécifiait la somme qu'il devait payer à sa femme, soit comme don nuptial, pension annuelle et amende en cas de divorce. L'épouse est toujours maîtresse absolue de ses biens qu'elle administre et dont elle dispose à son vouloir. Elle vend, achète, prête, emprunte ; bref, fait sans contrôle tous les actes de chef de famille. Les faits rapportés par Hérodote et Diodore, confirmés par les travaux de Champollion-Figeac et des égyptologues, démontrent que la femme égyptienne occupait dans la famille la même position que les dames naïrs et targuies.
Mais on possède d'autres preuves ; celles-ci d'une autre nature.
Les cérémonies et les légendes religieuses préservent momifiées les coutumes du passe. La Pâque catholique, ce repas mystique où les fidèles mangent leur Dieu fait homme, la légende hébraïque d'Abraham immolant un bouc à la place d'Isaac son fils, sont le lointain écho des repas anthropophagiques et des holocaustes humains. La tête de l'homme élabore les religions avec les faits qui l'environnent ; mais dans le cours des siècles les faits se transforment, disparaissent, tandis que la forme religieuse, qui a été leur manifestation dans l'intelligence humaine, persiste : en étudiant la forme religieuse, on peut retrouver et reconstituer les phénomènes naturels et sociaux qui lui ont servi de squelette.
Isis, la déesse des anciens Egyptiens, la mère des dieux, est venue d'elle-même ; elle est aussi la déesse vierge ; ses temples à Saïs, la ville sainte, portaient cette fière inscription : Personne n'a jamais relevé ma robe, le fruit que j'ai enfanté est le Soleil. L'orgueil de la femme éclate dans ces paroles sacrées ;elle se proclame indépendante de l'homme, elle n'a pas besoin de recourir à sa coopération pour procréer. La Grèce répliquera à cette insolente assertion : Jupiter, le père des dieux, enfantera Minerve sans le secours de la femme, et Minerve, la déesse "qui n'a pas été conçue dans les ténèbres du sein maternel", sera l'ennemie de la suprématie familiale de la femme. Isis, au contraire, est la déesse des anciennes coutumes ; elle épouse son frère, comme au temps de la promiscuité consanguine ; sur ses monuments, elle déclare : "Je suis la mère du roi Horus, la sœur et l'épouse du roi Osiris, je suis la reine de toute la terre". Son mari, plus modeste, ne s'intitule pas le père du roi Horus. Isis est immortelle, Osiris est mortel, il est tué par Typhon : sa fonction de géniteur, une fois remplie, il devait mourir.
Babylone célébrait, par cinq jours d'orgie populaire, la déesse Mylita : c'était la fête universelle de la liberté et de l'égalité primitives ; le Phallus, qui rend tous les hommes égaux, était adoré ; le roi de la fête, pris dans les rangs des esclaves, après avoir joui de la reine de la cérémonie, la plus belle des hétaïres, était livré aux flammes : ainsi que le dieu Osiris, sa fonction de géniteur remplie, il devait mourir. La femme réduisait l'homme à n'être qu'un organe. L'antagonisme des sexes, né avec l'humanité, dure encore. Le mépris que, dès les temps historiques, les hommes ont eu pour la femme, mise en tutelle et traitée en courtisane ou en ménagère, les femmes – les rites religieux le prouvent -, l'ont témoigné aux hommes alors qu'elles étaient les égales et parfois les supérieures de l'homme.
Dans les sociétés animales communistes, chez les fourmis, chez les abeilles, le mâle est un parasite ; après l'acte de la fécondation, on le tue.


III
Mœurs de la famille maternelle

On ne peut plus mettre en doute, qu'avant de parvenir à la forme familiale actuelle, l'humanité n'ait traversé une forme de famille à rebours : la mère fait souche ; le père, personnage secondaire, ne transmet à ses enfants ni son nom, ni ses biens, ni son rang. La famille, alors, est la prolongation de femme à femme du cordon ombilical, ce signe matériel de la maternité. Cet organe, que dans les familles royales d'Europe on coupe en présence de témoins, afin d'éviter toute contestation sur la légitimité du nouveau-né, est encore entouré d'un tel respect chez certains peuples, que par exemple les habitants du haut Nil, les Fidjiens et même les créoles des Antilles le conservent précieusement et l'enterrent avec cérémonie, lors de la mort de l'individu ; il est le lien qui l'unissait à la souche de la famille, à la mère.
Les mœurs qui correspondent à cette forme familiale primitive scandalisent la morale des civilisés. La chasteté monogamique n'est point une vertu : la femme est au contraire honorée d'après le nombre de ses époux, qui se succèdent à jours fixes, ou qui cohabitent avec elle pendant une révolution lunaire ;c'était l'usage aux îles Canaries. Les maris d'une même femme, suivant l'observation de Herera à propos des sauvages de Venezuela, vivent en parfaite intelligence et sans connaître la jalousie ; cette passion apparaît tardivement dans l'espèce humaine.
Les enfants héritent des biens de la mère et des oncles maternels, jamais de ceux du père. L'oncle aime ses neveux plus tendrement que ses propres fils. "Chez les Germains, dit Tacite, l'enfant d'une sœur est aussi cher à son oncle qu'à son père. Quelques-uns même estiment ce degré de consanguinité plus saint et plus étroit ; et en recevant des otages, ils préfèrent des neveux, comme inspirant un attachement plus fort et intéressant davantage la famille". Cependant les Germains que décrit l'historien latin étaient déjà entrés dans la forme familiale paternelle, puisque les enfants héritaient de leur père ; mais ils conservaient encore les sentiments et certains usages de la famille maternelle. L'expression française nos neveux, employée pour désigner nos descendants, que des mauvais plaisants attribuaient au scepticisme sur la fidélité conjugale de la femme de France, est sans doute un vieux souvenir de la famille maternelle.
La femme demeure dans sa maison ou dans celle de son clan, et jamais dans celle de son mari.
L'observation suivante, citée par Morgan, d'après un pasteur protestant qui vécut pendant des années au milieu des Iroquois-Seneca, est typique : "Du temps qu'ils habitaient dans leurs longues maisons (qui pouvaient contenir plusieurs centaines d'individus), un clan prédominait : mais les femmes y introduisaient leurs maris appartenant à d'autres clans. Il était d'usage que les femmes gouvernassent la maison ; les provisions étaient mises en commun : mais malheur au mari ou à l'amant trop paresseux ou trop maladroit pour ne pas contribuer pour sa part aux provisions de la communauté. Quel que fut le nombre de ses enfants et la quantité de biens apportés dans le ménage, il devait s'attendre à recevoir l'ordre de plier sa couverture et de déloger : il serait pour lui dangereux de désobéir. La maison deviendrait trop chaude. Il ne lui restait que de retourner dans son propre clan, ou, ce qui arrivait le plus souvent, il allait chercher un nouveau ménage dans un autre clan. Les femmes étaient le grand pouvoir des clans. Elles n'hésitaient pas, lorsque la circonstance le requérait, à faire sauter les cornes (le signe du commandement) de la tête des chefs et à les faire rentrer dans les rangs des simples guerriers.
L'élection des chefs dépendait toujours d'elles".
Les récits des voyageurs représentent la femme barbare comme accablée de travaux. La division du travail, ainsi que le remarque Karl Marx, commence avec la division des sexes. Le sauvage est un guerrier et un chasseur ; il vit entouré d'ennemis et peut être attaqué à tout instant ; il doit être toujours prêt à se battre, toujours sous les armes : son travail consiste à défendre sa tribu et à pourvoir de vivres sa femme et les enfants de sa femme. Chez les peuples civilisés, le soldat est dispensé de tout travail. La femme sauvage, par contre, est chargée de tous les travaux du ménage, de la culture des champs, du transport sur son dos des enfants et des objets mobiliers, qui d'ailleurs lui appartiennent. "Les peuples barbares qui imposent aux femmes plus de travail qu'il ne conviendrait selon nos idées, dit Engels, ont souvent pour elles une estime plus réelle que nous autres Européens. La dame de la civilisation adulée et éloignée de tout travail, occupe une position sociale infiniment inférieure à celle de la femme de la barbarie accablée de travail : son peuple la considérait comme une vraie dame ; elle l'était en effet par le caractère" .
La femme souveraine maîtresse dans son ménage exerçait une action sur les affaires publiques ; elle prenait part aux conseils de la tribu : sans vouloir m'étendre sur ce sujet, je mentionnerai le rôle d'arbitre qu'elle remplissait. En Tasmanie, au début des batailles, les femmes poussaient ardemment les guerriers à l'attaque, mais sitôt qu'elles levaient trois fois les mains, le combat cessait, et le vaincu, prêt à être égorgé, était épargné . "Les femmes étaient inviolables chez les Troglodytes des qu'elles s'interposaient entre les combattants, ils cessaient de tirer leur flèche" . Les Germaines assistaient aux batailles, excitant les guerriers par leurs cris, ramenant à la mêlée ceux qui lâchaient pied, comptant et pansant les blessures. Les Germains ne dédaignaient pas de les consulter et de suivre leurs conseils ; ils redoutaient plus vivement la captivité pour leurs femmes que pour eux-mêmes ; ces barbares croyaient qu'ils y avait en elles quelque chose de saint et de prophétique, sanctum aliquid et providum.
Je pourrais pendant de longues pages continuer à citer des faits analogues, prouvant que tous les peuples de la terre ont passé par une forme familiale bien différente de celle que nous connaissons aujourd'hui. Ces faits étranges, qui déroutent les idées reçues, n'avaient été relevées que par de rares esprits sceptiques ; ils s'en servaient pour battre en brèche les notions de la morale courante . Les philosophes moralistes qui ont formulé dogmatiquement les lois de la Morale éternelle, les ont absolument ignorés et considérés comme non advenus, c'était le plus simple . Mais de nos jours, des penseurs hardis et profonds les ont classés et utilisés pour retracer les phases de l'évolution humaine.


IV
Théorie de l'évolution de la famille

Prenons un couple, créé tout d'une pièce, comme Eve et Adam, de la tradition biblique, ou bien détaché d'une horde sauvage, alors que l'homme émergeait à peine de l'animalité, et voyons comment les choses vont se passer. Ce couple, avec ses fils et ses petits-fils, formera une horde de trente à quarante personnes, la difficulté de se procurer des vivres ne leur permettant pas de dépasser ce nombre. Dans le sein de ce groupe, les relations sexuelles seront absolument libres, ainsi que dans les familles des gallinacés de nos basses-cours : chaque femme sera l'épouse des hommes de la horde, et chaque homme le mari de toutes les femmes, sans distinction de père et de fille, de mère et de fils, de sœur et de frère. Cette famille promiscue n'a été retrouvée chez aucun peuple sauvage, bien qu'on l'observe dans les grandes capitales de la civilisation : elle a dû cependant exister à l'état de fait général, alors que l'homme n'était pas encore, selon l'expression latine, un animal qui participe à la raison, rationis particeps ; alors qu'il vivait nu, gîtait sur les arbres ou dans les cavernes naturelles, se nourrissait de fruits, de coquillages et d'animaux qu'il ne savait cuire, se distinguait à peine de la brute son ancêtre.
Les fêtes orgiaques des religions asiatiques, durant lesquelles régnait la liberté sexuelle la plus absolue, semblent être des réminiscences de la promiscuité primitive. Strabon rapporte que, chez les Mages, la tradition religieuse prescrivait le mariage du père et de la fille, du fils et de la mère, dans le but de procréer des enfants destinés aux fonctions sacerdotales. Au lieu de reconnaître une origine naturelle à la promiscuité primitive, Bachofen la prend pour une institution religieuse. Les fêtes promiscues et les coutumes qui, chez tant de peuples, obligeaient les femmes à se prostituer, sans choix, à tout venant, étaient selon lui, des actes d'expiation pour apaiser la divinité irritée : les hommes, en contractant des mariages individuels plus ou moins polygamiques, auraient violé les commandements de la divinité qui prescrivaient la communauté des femmes.
La restriction de la liberté sexuelle primitive a dû commencer par la séparation des individus de la tribu sauvage en couches de générations et par l'interdiction du mariage entre les individus des différentes couches. La première couche est celle des géniteurs, la deuxième celle des enfants, la troisième celle des petits-enfants, et ainsi de suite. Tous les individus d'une couche sont les enfants de la couche supérieure et les pères et mères de la couche inférieure ; ils se considèrent comme frères et sœurs et se conduisent en maris et femmes ; mais il leur est interdit d'avoir des relations sexuelles avec les membres de la couche au-dessus et au-dessous. Il n'y a pas de mariages individuels, de ce que l'on naît mâle dans une tribu on est le mari de toutes les femmes de sa promotion sans distinction de frère et de sœur, et réciproquement pour la femme. "Dans les temps primitifs, dit Marx, la sœur était la femme et cela était moral". Les légendes religieuses et les coutumes des peuples anciens nous fournissent de nombreux exemples de ces mariages consanguins ; Isis et Osiris, Junon et Jupiter, etc., étaient à la fois sœurs et frères, et femmes et maris.
Morgan qui s'est livré aux plus arides recherches sur la nomenclature des termes de parenté en usage chez les peuplades sauvages, a rencontré, dans les îles Sandwich, une série de termes de parenté ne se rapportant pas à leur organisation sociale, qui avait dû prendre naissance au moment où les individus mâles et femelles d'une couche de génération se considéraient les enfants de la couche supérieure et les pères et mères de l'inférieure et ignoraient les distinctions d'oncle, de tante, de neveu, de nièce et de cousin. "La famille est l'élément actif, qui n'est jamais stationnaire, dit Morgan ; elle progresse d'une forme inférieure à une supérieure, à mesure que la société passe d'un état moins développé à un état plus développé. Les systèmes de parenté sont au contraire passifs, ils prennent un temps excessivement long pour enregistrer les progrès accomplis par la famille, ils ne subissent des changements radicaux que lorsque la famille s'est radicalement transformée". – "Il en est de même pour les systèmes politiques, juridiques. religieux et philosophiques", ajoute Marx. Tandis que la famille progresse, le système de parenté s'ossifie et, tandis qu'il continue à subsister par la force de l'habitude, la famille le dépasse.
"Si le premier degré d'organisation, écrit Engels, consista à exclure les géniteurs et les enfants du commerce sexuel, le second fut l'interdiction des mariages entre frères et sœurs. Ce progrès, à cause de la plus grande égalité d'âge des intéressés, fut infiniment plus important, mais aussi plus difficile à réaliser. Il ne s'accomplit que graduellement, débutant par l'interdiction des relations sexuelles entre frères et sœurs charnels, entre enfants utérins, pour aboutir à la défense du mariage entre frères et sœurs de père et de mère". Cette marche évolutive de la famille est "une excellente illustration du principe de la sélection naturelle". Les tribus qui interdisaient les mariages utérins devaient se développer plus rapidement et plus complètement que celles où les mariages entre frères et sœurs étaient la coutume et la règle.
Fison et Howitt, dans leur remarquable étude sur les Kamilaroi et les Kurnai, deux peuplades australiennes, rapportent une légende qui essaye d'expliquer la façon dont se fit la restriction graduelle des relations sexuelles : "Après la création, les frères et les sœurs et les plus proches parents se mariaient entre eux, sans distinction ; jusqu'à ce que le mal provenant de ces alliances devint manifeste ; les chefs s'assemblèrent alors en conseil, afin de rechercher la manière d'y remédier. Le résultat de leur délibération fut une supplique adressée à Muramura (le bon esprit), qui ordonna de diviser la tribu en groupes se distinguant entre eux par des noms pris parmi les objets animés et inanimés, tels que chien, souris, ému, pluie, igname, etc., il défendit expressément aux individus portant le même nom de se marier entre eux, mais il permit à un groupe de s'unir à un autre". Cette coutume est encore observée de nos jours ; la première question d'un Australien à un étranger est : "De quel murdou ? c'est-à-dire : de quel groupe es-tu ? "
La légende murdou contient trois faits importants à noter. D'abord la tribu forme un tout homogène, les mariages se pratiquent indistinctement entre frères et sœurs et même entre parents et enfants ; puis la tribu se fractionne en groupes, qui prennent un totem, c'est-à-dire le nom d'un animal, d'un phénomène naturel : cet objet animé ou inanimé finit par être considéré l'ancêtre du groupe, qui correspond au clan celtique, à la gens romaine et au génos grec. Le grammairien Festus Pompeius prétend que la gens Aurelia, à laquelle appartenait la mère de César, tirait son nom du soleil, aurum urere. Différentes familles grecques reconnaissaient pour ancêtres des animaux ; il est vrai qu'elles assuraient que ces animaux étaient des déguisements revêtus par Jupiter durant ses escapades amoureuses sur terre. Plutarque cite une gens athénienne qui révérait une plante ancestrale, l'asperge. La légende murdou nous apprend encore que le bon génie défendit les relations sexuelles entre individus portant le même nom, le même totem, c'est-à-dire appartenant au même groupe.
Comment ces divisions de la tribu en groupes, en clans, en gentes, qui, pour se procurer des moyens de subsistance, seront obligés de se disperser, pourront-elles se conserver ? Par la préservation du nom de l'ancêtre, qui sera transmis de génération en génération ainsi qu'un bien sacré. Les membres qui quittent le clan emportent avec eux le nom ; ils peuvent aller s'établir au loin, au-delà des mers et des montagnes; ils peuvent dans le cours du temps changer leurs coutumes et transformer leur langue au point d'être incapables de comprendre celle de la souche mère, ils restent cependant membres du même clan, membres du même groupe. Et le mariage étant interdit entre personnes du même groupe, la première chose, lorsque l'on s'aborde, est de s'enquérir du nom, du totem. Cette interdiction est si formelle qu'en Australie le guerrier qui, même par ignorance, s'unirait à une femme du même totem, serait traqué comme une bête fauve par les membres de sa propre tribu.
Comment le nom de l'ancêtre se transmettra-t-il ? – Par le père, ou par la mère ?
De nos jours, après des siècles de morale monogamique, on recourt à un subterfuge légal pour constater la paternité ; le père n'est pas celui que désigne la nature, mais une cérémonie religieuse et civile. On ne peut espérer que des hommes primitifs, non encore éduques par la savante ergoterie des légistes, chargeraient le père de la fonction sacrée de transmettre le nom, le totem du clan. Le sentiment paternel n'est pas inné chez l'homme ; pour se manifester, même lorsqu'il existe, il requiert certaines conditions externes. L'amour maternel est, au contraire, profondément enraciné dans le cœur de la femme : elle est organisée pour être mère, pour élaborer l'enfant dans son sein et le nourrir de son lait, une fois né. Le sentiment maternel est un des plus importants besoins physiologiques, pour la conservation et la perpétuation de l'espèce. La civilisation, qui souvent agit à l'encontre de la nature, en désorganisant la femme au point de rendre la gestation fatigante, la parturition laborieuse et douloureuse, et l'allaitement dangereux et même impossible, atténue le sentiment maternel dans le cœur des femmes civilisées. Les femmes sauvages aiment beaucoup leurs enfants ; elles les allaitent pendant deux ans, elles ne les frappent jamais : l'enfant, que la mère protège contra la brutalité des hommes, se serre auprès d'elle, comme les poussins se cachent au moindre danger sous les ailes de la poule. La femme était donc naturellement toute désignée pour remplir la fonction de transmettre le totem du clan. "La femme fait le clan", disent les Indiens Wyandotts de l'Amérique Septentrionale : c'est littéralement exact ; les femmes du clan sont chargées de le reproduire ; les hommes vont déposer leurs enfants dans les autres clans. L'enfant appartient au clan de la mère.
Les membres d'un clan, quelque nombreux et dispersés qu'ils soient, forment une immense famille ; le même sang circule dans leurs veines ; la même chaîne ombilicale, prolongée de femme à femme, les rattache à l'ancêtre, à la souche mère. Ils se doivent aide, protection et vengeance en toute circonstance. Le père est inconnu : le frère de la mère le remplace. Les liens du sang et d'une étroite affection unissent l'oncle et les neveux. Les pères et les enfants appartenant à des clans différents, sont au contraire considérés comme n'étant pas consanguins : aucune affection ne les unit ; ils peuvent en venir aux mains, s'entretuer, si les deux clans où ils sont nés se déclarent la guerre, tandis que verser le sang de son clan est un crime épouvantable. Les petits gens de lettres de l'heure présente se moquent d'Homère, parce qu'il n'a pas leur maniérisme et rient de ses héros qui, avant de se combattre, s'arrêtent pour décliner leur généalogie : les rhapsodes homériques avaient un sens du réel plus fin que les écrivains de l'école naturaliste ; ils reproduisaient un usage qui persista même après que la filiation paternelle eût remplacé dans le clan la filiation maternelle. Des guerriers placés en des camps ennemis pouvaient être membres du même clan ; ils avaient besoin de se connaître avant de s'attaquer, pour ne pas commettre le crime horrible de verser le sang de leur propre clan. Mac Lennan remarque que les héros de l'Iliade, qui détaillent leur généalogie, ne remontent pas au-delà de la troisième génération sans rencontrer un dieu, c'est-à-dire un père inconnu ; ce qui semblerait indiquer qu'à cette époque la filiation par le père était très récente chez les Hellènes.
Le sauvage en guerre continuelle avec les bêtes et les hommes ne peut vivre isolé ; il ne peut comprendre qu'il puisse exister séparé de son groupe, de son clan ; l'expulser de son clan, c'est le condamner à mort : aussi l'exil a été considéré pendant longtemps comme la peine la plus terrible que l'on pût infliger à l'homme des sociétés antiques. L'homme primitif ne constitue pas une entité par lui-même ; il n'existe que comme partie intégrante d'un tout, qui est le groupe, le clan : ce n'est pas lui individu qui possède, mais son clan ; ce n'est pas lui individu qui se marie, mais son clan. Cette forme de mariage est sans contredit la plus curieuse. Pour l'illustrer je prends cet exemple dans le livre de Fison et Howitt. Les Kamilaroi sont subdivisés en quatre groupes ou clans : Ipai et Kubi, Kumbu et Muri. Les relations sexuelles sont interdites dans le sein d'un même clan : mais le clan Ipai épouse le clan Kubi, et le clan Kumbu épouse le clan Muri, ce qui signifie que tous les hommes Ipai sont les maris des femmes Kubi, et toutes les femmes Ipai sont les épouses des hommes Kubi. Le mariage n'est pas un contrat individuel, mais collectif, un état naturel : le fait de naître femme dans un groupe vous donne pour mari tous les hommes de votre clan matrimonial. Les deux clans peuvent être dispersés sur  tout un continent, et c'est le cas en Australie ; mais quand deux individus de sexe différent se rencontrent et se reconnaissent comme membres de clans matrimoniaux, ils peuvent sans autre cérémonie se traiter en mari et femme. "Cette forme de mariage, dit Fison, me semble le système de mariage communiste le plus étendu que l'on connaisse".
Pour nous résumer : l'espèce humaine, ainsi que les autres espèces animales, débute par la promiscuité des sexes, puis restreint graduellement les relations sexuelles, d'abord entre parents et enfants ensuite entre frères et sœurs utérins, enfin entre frères et sœurs collatéraux ; et dans cette marche évolutive, elle adopte d'abord la filiation par la mère toujours certaine, puis la filiation par le père, toujours problématique.
La filiation maternelle coïncide avec la forme communiste et la forme collectiviste de la propriété qui cependant peuvent continuer à subsister alors même que la filiation paternelle remplace la filiation maternelle.
La femme dans les tribus sauvages appartient théoriquement à un nombre illimité de maris bien que pratiquement, en se mettant sous la protection des sorciers et des chefs, elle sache limiter ce nombre :peu à peu, profitant de circonstances diverses, elle le réduit à une douzaine, enfin à un seul mari qu'elle renouvelle souvent.
La filiation par la mère donne à la femme dans la tribu une position élevée, parfois supérieure à celle de l'homme ; elle la perd dès que la filiation se fait par le père.
Le passage de la filiation par la mère à celle par le père, qui dépouillait la femme de ses biens et de ses prérogatives consacrées par le temps, les usages et la religion, ne s'est pas toujours effectués à l'amiable : son histoire est écrite en lettres de sang dans une légende de la Grèce, que ses plus grands poètes dramatiques ont tour à tour transportée sur la scène. Nous allons l'analyser.


V
Transformation du matriarcat en patriarcat

Hérodote et les Grecs de son temps trouvaient l'Egypte un monde à l'envers, à cause de la position supérieure des femmes ; ils ignoraient que, quelques siècles auparavant, la Grèce avait présenté les mêmes phénomènes qui bouleversaient leurs idées acquises. Une vieille légende, conservée par Varron et transmise par Saint-Augustin dans la Cité de Dieu, rapporte que "sous le règne de Cécrops arriva un double miracle à Athènes. Il sortit en même temps de terre un olivier et une source, à quelque distance. Le roi effrayé envoya demander à l'oracle de Delphes ce que signifiait cet événement et ce qu'il y avait à faire. Le dieu répondit que l'olivier signifiait Minerve et la source Neptune, et qu'il dépendait d'eux de nommer désormais la ville d'après l'une des deux divinités. Cécrops convoqua alors une assemblée de citoyens, à savoir les hommes et les femmes, car c'était alors la coutume d'admettre les femmes aux délibérations publiques. Les femmes votèrent pour Minerve et les hommes pour Neptune, et, comme il se trouva une femme de plus, Minerve triompha. Neptune, pour se venger, inonda aussitôt les campagnes des Athéniens. Pour apaiser la colère du Dieu, les hommes se virent obligés d'imposer à leurs femmes une triple punition : – premièrement, elles furent condamnées à perdre leur droit de vote ; secondement, leurs enfants ne furent plus autorisés à porter le nom de leurs mères ; enfin elles se virent contraintes à renoncer à leur nom d'Athéniennes", c'est-à-dire à perdre leurs droits de citoyennes, à n'être plus que les femmes des Athéniens.
Il ne fallait rien moins que des phénomènes surnaturels et l'intervention d'un dieu, pour que les femmes d'Athènes abandonnassent les prérogatives qui les rendaient libres et citoyennes. D'autres légendes rapportent que des crimes épouvantables ensanglantèrent les familles avant que la femme se laissât dépouiller des droits qui la faisaient respecter dans la Cité et dans le clan. Les légendes homériques sont l'histoire des haines, des convoitises, des rivalités et des luttes qui éclatèrent entre parents et enfants et entre frères, dès que les biens et le rang, au lieu d'être transmis par la mère, commencèrent à l'être par le père. L'Orestie, la grandiose trilogie d'Eschyle, conserve palpitantes encore les terribles passions qui dévorèrent les cœurs des hommes et des dieux homériques.
Si l'on veut retrouver l'histoire sous la légende d'Oreste, on doit connaître la généalogie de son père et de sa mère : ils descendaient tous les deux de familles illustres par leurs crimes et leurs actions héroïques.
Pélops, fils de Tantale, eut entre autres enfants Atrée et Thyeste, qui épousèrent la même femme Erope ; Atrée donna le jour à Agamemnon et à Ménélas, et Thyeste à Tantale et à Egisthe. Agamemnon fut le père d'Oreste et d'Electre. – Clytemnestre petite-fille d'Oebalus et fille de Tyndare, enfanta Oreste, Electre et Erigone.
Tantale, l'ancêtre des Atrides, servit aux dieux, dans un repas, son propre fils, Pélops, que Jupiter ressuscita. Atrée et Thyeste, fils de Pélops, et Hippocoon et Tyndare, fils d'Oebalus, se disputèrent les biens et l'autorité de leurs pères. Alors que la famille paternelle déplaçait la famille maternelle et que le droit d'aînesse n'était pas encore établi, les enfants luttaient pour s'emparer de l'héritage du père. Eschyle met ces paroles dans la bouche d'Egisthe : "Atrée exila de sa patrie mon père. Le malheureux Thyeste revint au foyer, invoqua l'hospitalité... L'impie Atrée offre à mon père le festin des hôtes et le mets qu'il sert à Thyeste, c'est la chair de ses fils ! Atrée, assis au haut bout de la salle, dévore les doigts des pieds et des mains qu'il s'est réservés pour sa part. Les morceaux méconnaissables sont offerts à Thyeste". Cet horrible repas et d'autres légendes sembleraient indiquer que, peu de temps avant la période homérique, il y avait encore en Grèce des cas d'anthropophagie.
Atrée et Thyeste, les deux frères, ont la même femme, Erope ; Clytemnestre épouse successivement les trois petits-fils de Pélops : Agamemnon fils d'Atrée, et Tantale et Egisthe fils de Thyeste. Hélène, sœur de Clytemnestre, épouse Ménélas, frère d'Agamemnon. Ces mariages laissent supposer que la famille de Pélops et celle de Tyndare appartenaient à deux clans conjugaux, analogues à ceux de l'Australie contemporaine.
Pénétrons dans le sombre drame d'Eschyle. La vengeance, "la soif inextinguible du sang", tourmente l'âme des dieux et des mortels.
Clytemnestre et Egisthe tuent Agamemnon, l'une pour venger sa fille, Iphigénie ; l'autre son père, Thyeste, "et maintenant la mort me semblerait belle, s'écrie Egisthe à la vue du cadavre du héros, emprisonné dans le filet dont il l'avait enveloppé pour qu'il ne pût se défendre ; je vois l'ennemi dans le filet de la justice". En ces temps la famille était chargée de venger l'injure faite à l'un de ses membres ;la vendetta était un devoir sacré, un acte de justice.
Electre, la sœur d'Oreste, ne pleure pas sur le tombeau de son père, elle vient y raviver sa haine et s'exciter à la vengeance. "Jupiter, Jupiter, invoque-t-elle, c'est toi qui fais surgir du fond des enfers la vengeance, lente à punir, la vengeance qui frappe le mortel audacieux et pervers : même sur les parents, tu sais l'accomplir. Ainsi que la rage du loup dévorant, il est implacable le courroux que ma mère a mis dans mon cœur... 0 mère odieuse ! ô femme impie ! tu as osé ensevelir mon père comme un ennemi, les citoyens n'ont pas suivi les funérailles de leur chef ; l'époux n'a point eu de pleurs !"
ORESTE. – Quel outrage, grands Dieux !... Elle en payera le prix. Que je la tue, après je meurs
content."
ELECTRE. – Grave mes paroles dans ton âme, qu'elles pénètrent par ton oreille jusqu'au fond, jusqu'à l'endroit calme de la pensée. Voilà ce qu'ils ont fait : ce qui doit suivre, demande-le à la vengeance.
"Et tandis que, durant cette scène, Electre souffle la haine et la vengeance dans l'âme d'Oreste, le chœur, ainsi que la voix de la conscience publique, s'adresse aux dieux et rappelle les anciennes coutumes : "O grandes Parques ! fasse que la loi d'équité triomphe ! La justice réclame ce qui lui est dû, sa voix retentit et nous crie : Que l'outrage soit puni par l'outrage ! Que le meurtre venge le meurtre ! Mal pour mal, dit la sentence du vieux temps... N'est-il pas juste de rendre à un ennemi mal pour mal ?... La loi le veut, le sang versé sur la terre demande un autre sang... La terre nourricière a bu le sang du meurtre ; il a séché ; mais la trace reste ineffaçable et crie vengeance."
Un dieu, Loxias , impose à Oreste le devoir de la vengeance. "J'entends retentir encore la voix formidable de Loxias. Le cœur tout plein de vie, je dois subir l'affreux assaut du mal, si je ne poursuis les meurtriers de mon père ; si je ne frappe, comme ils ont frappé ; si je ne me venge sur eux de la perte de tous mes biens."
Il n'y a que des barbares, comme les Grecs des temps homériques, ou les Peaux-Rouges de l'Amérique, pour "sentir leur cœur brûler violemment jour et nuit, sans intermittence, jusqu'à ce qu'ils aient versé le sang pour le sang. Ils transmettent de père en fils le souvenir du meurtre d'un parent, d'un membre du clan, alors même que ce serait celui d'une vieille femme".
On cite des sauvages qui, ne pouvant se venger, se sont suicidés. Les moralistes, les économistes et même les poètes et les romanciers, qui ont cependant une psychologie moins fantaisiste qua celle des philosophes, répètent depuis si longtemps que l'homme est toujours resté le même, que l'on a fini par admettre que de tout temps les mêmes passions avaient fait battre le cœur des humains. Rien de plus faux : le civilisé éprouve d'autres passions que le barbare ; le désir de la vengeance ainsi que du vitriol ne corrode pas son cerveau.
Aucun crime n'épouvante les barbares torturés par le besoin de la vengeance. Pendant dix longues années, Clytemnestre attend le moment de venger sa fille. Agamemnon assassiné, elle est ivre, elle retrace avec une joie féroce la scène du meurtre : "Deux fois, je le frappe deux fois, il pousse un cri plaintif et ses membres se détendent. Tombé, un troisième coup l'achève... La victime expire, les convulsions de la mort font jaillir du sang de ses blessures ; et la rosée du meurtre tombe en noires gouttes sur moi, rosée aussi douce à mon cœur que l'est pour les champs la pluie de Jupiter, dans la saison où l'épi sort de l'enveloppe. Voilà, ce qui s'est passé. Vous que je vois en ces lieux, vieillards d'Argos, partagez ou condamnez ma joie, peu m'importe : moi je m'applaudis de mon action. S'il était permis de verser des libations sur un cadavre, c'est ici qu'il serait juste de remercier les dieux... Voilà Agamemnon, mon époux, et voici la main qui l'a tué. La besogne est d'une digne ouvrière. J'ai dit."
Clytemnestre ignore le remords ; "jamais la crainte ne mettra le pied sur le seuil de son palais", elle a vengé son sang, elle a tué l'homme qui a "immolé le fruit bien-aimé de ses entrailles" ; ce sont des déesses c'est Até, c'est Dicé, ce sont les Erinnys, qui "l'ont aidée à égorger cet homme". Elle vient de remplir un devoir sacré, elle étale sa joie. L'opinion publique ratifie son acte, en la laissant vivre en paix jusqu'à ce que le fils d'Agamemnon soit en âge de le venger. L'opinion publique est toute-puissante chez les peuples primitifs ; elle est l'autorité que personne ne brave, elle poursuit impitoyablement ceux qui enfreignent les coutumes, les usages ; pour la fuir, les coupables abandonnent le pays, ils s'exilent jusqu'à ce que leurs crimes soient oubliés. L'homme assassiné par Clytemnestre était un guerrier célèbre, qui revenait vainqueur d'une glorieuse expédition. La Grèce homérique s'arma pour punir le rapt d'une femme, et le meurtre du plus grand des Grecs reste impuni.
Tuer un de ses maris, un guerrier illustre n'effraye pas Clytemnestre. Mais porter la main sur sa mère, même pour venger son père, semble à Oreste le plus épouvantable des crimes : cependant il n'a nulle affection pour sa mère ; il ne l'a jamais connue ; il l'accuse de l'avoir dépouillé de l'héritage paternel, de l'avoir exilé. Il faut que "Loxias excite son audace, qu'il lui assure que son action ne lui sera pas imputée à crime ; quant au châtiment, s'il désobéissait à ses ordres, il n'ose le dire, mais il serait tellement épouvantable que nulle imagination ne saurait atteindre à de telles horreurs". Apollon, le dieu nouveau, le pousse à tuer sa mère pour venger son père, taudis que les Euménides, les vieilles déesses, qui veillaient à ce que les crimes contre les parents fussent vengés, le laissent tranquille ; elles estimaient que le meurtre d'un mari était un crime ordinaire, qui ne les regarde pas, le mari n'étant pas du même sang que sa femme.
Clytemnestre armée de "la hache homicide" s'élance pour combattre le meurtrier d'Egisthe son mari. Enfiévré par son premier meurtre et l'épée à la main, Oreste se précipite sur sa mère, en criant : "Toi aussi, je te cherche ; lui, il a son salaire."
Cependant quand ils se reconnaissent, ils s'arrêtent, ils hésitent. Clytemnestre, cette femme terrible supplie, elle ne se défend pas ; verser le sang de son fils, serait verser le sang de son clan, le grand crime des âges primitifs.
CLYTEMNESTRE. – Arrête, ô mon fils !
L'arme tombe des mains d'Oreste, il se tourne vers son ami :
ORESTE. – Pylade, que ferai-je ? Faut-il que je recule devant le crime de ma mère ?
PYLADE. – Et les oracles de Loxias !... et la foi de tes serments.
ORESTE. – Je le vois, tu l'emportes, tes conseils sont justes.
CLYTEMNESTRE. – Ne redoutes-tu pas la malédiction d'une mère, ô mon enfant... songes-y : garde-toi des chiens irrités qui vengent une mère.
Dans l'ancienne mythologie, il y avait des monstres et des déesses, spécialement chargés de punir les matricides ; Jupiter, le dieu nouveau, sera le vengeur des pères. Le parricide est un crime nouveau, qui ne pouvait exister alors qu'on ne connaissait pas son père.
Dès que Oreste commet le crime, la peur envahit son âme : il invoque le Soleil "pour qu'il contemple les œuvres impies de ma mère. Il faut qu'un jour, si l'on m'accuse, je l'aie pour témoin que c'est avec justice que j'ai donné la mort à ma mère... Je ne sais à quoi ceci doit aboutir ; comme des coursiers fougueux, mes sens indociles m'emportent malgré moi ; mon cœur déjà soupire de crainte."
Il est fou : – "Ah! Ah ! voyez, esclaves, voyez-les comme des Gorgones, vêtues de noir, entourées des replis de serpents innombrables."
LE CHOEUR. – Quelles imaginations te bouleversent, ô le plus dévoué des fils ?
ORESTE. – Des imaginations ! l'affreux supplice est trop réel, ce sont bien là les chiens irrités qui vengent ma mère.
Si après le meurtre d'un de ses maris, Clytemnestre pouvait demeurer à Argos sans être poursuivie par la colère divine et l'indignation publique, pour échapper à la colère populaire Oreste est obligé de fuir, de s'exiler d'Argos, d'abandonner les biens du son père, qu'il cherchait à reconquérir par le meurtre d'Egisthe.
Les deux premières parties de la trilogie d'Eschyle (Agamemnon et les Choéphores) sont le drame de la vendetta ; la troisième partie, les Euménides, est la lutte du droit maternel et du droit paternel, du droit ancien et du droit nouveau.
Les Euménides, ces filles de la Nuit, qui les enfanta pour le châtiment des crimes, pour le maintien de la vendetta familiale et des anciennes coutumes, sont l'épouvante des dieux nouveaux. Apollon les injurie : "Elles sont d'abominables vieilles, d'antiques vierges, dont la couche est en horreur aux dieux ,aux hommes et aux brutes mêmes. Elles ne sont nées que pour le mal."
Elles défendent l'autorité maternelle : quand elles disparaîtront ou quand leur pouvoir sera annulé par les dieux nouveaux, la mère n'aura plus de protection ni parmi les hommes, ni parmi les dieux, ni sur terre, ni aux enfers, ni dans les cieux. Tant qu'elles conservent leur puissance, le meurtre de la mère est le plus grand des crimes : "Le sang maternel, quand on l'a versé sur la terre, ne se rachète plus. Tu dois donner du sang pour ce sang, disent-elles à Oreste : il faut que ton corps tout vivant fournisse à notre soif ; il faut que nous nous désaltérions à longs traits dans le rouge et amer breuvage... nous t'entraînerons aux enfers. Là tu subiras le supplice des matricides."
Ni Homère, ni Virgile, ni Dante, ni aucun des poètes, ni aucun des visionnaires chrétiens qui sont descendus aux enfers, ne nous parlent des supplices réservés aux meurtriers des mères : car ils ont disparu du catalogue des tortures infernales dès que la mère cessa d'être souche de la famille. Alors ce châtiment était "la folie, le délire, le désespoir :l'hymne des Euménides qui enchaîne les âmes, l'hymne sans lyre, dont le poison consume les mortels."
Les Euménides ne mentionnent jamais leurs pères ; elles n'implorent que leur mère, la Nuit ; elles lui dénoncent "le fils de Latone ; il nous a ravi notre proie, que nous avait vouée le meurtre d'une mère...Voilà ce qu'osent les dieux nouveaux, ils règnent sans équité... Fils de Jupiter, dieu jeune, tu outrages d'antiques déesses. Sauver cet homme fatal à celle qui l'enfanta ; dérober à notre vengeance l'assassin de sa mère ! Et tu es un dieu ! Qui dira que c'est là faire justice ?"
Elles abandonnent Oreste pour s'en prendre à Apollon, c'est lui le violateur de la loi antique. "Tu n'es pas le complice du crime d'Oreste, tu as tout commis ; tu en es le seul auteur. Ton oracle lui a ordonné de tuer sa mère."
APOLLON. – Mon oracle lui a ordonné de venger son père.
LE CHOEUR DES EUMENIDES. – Est-il violence qui puisse forcer un homme à tuer sa mère ?
APOLLON. – Et quoi ! lorsqu'une femme tue son époux.
LE CHOEUR. – Ce n'est pas du moins son propre sang qu'elle verse.
Le mari n'étant pas du même clan que la femme, ce n'était pas, à ses enfants à le venger, puisque, selon l'idée primitive, ils n'étaient pas du même sang.
APOLLON. – Ainsi tu avilis à rien ces serments d'hyménée dont les garants sont Junon et Jupiter. Quoi donc ! tu t'irrites du crime d'Oreste, et le crime de Clytemnestre n'a pu t'émouvoir.
LE CHOEUR DES EUMENIDES. – Elle n'était pas du même sang que l'homme qu'elle a tué... Ainsi Jupiter, suivant toi, a prononcé cet oracle ; c'est lui qui a commandé à Oreste de venger le meurtre de son père, de compter pour rien les droits de la mère !... Jupiter serait donc le vengeur des pères ? Mais il a enchaîné son père, la vieux Saturne."
Saint Basile et les pères de l'Eglise grecque relevaient avec vivacité les inconséquences mythologiques, pour détourner l'attention de celles de la Bible et citaient ce passage d'Eschyle. Jupiter enchaînant son père, et Saturne détrônant son père Uranus, ne commettaient pas des actes répréhensibles d'après la loi antique : tant que dure la filiation maternelle, le père et le fils appartiennent à des clans différents : ils peuvent en venir aux mains, s'entretuer, sans qu'il y ait parricide ou infanticide.
Apollon et les Euménides s'adressent à Minerve pour trancher le débat : le choix d'une déesse pour arbitre est une concession aux anciens usages.
Minerve et les dieux nouveaux veulent abolir la vendetta ; ils désirent que la société se charge de la punition des crimes, laissée jusqu'alors aux membres de la famille. La justice civile doit remplacer la justice familiale. Pour prendre connaissance de la cause et la juger, Minerve institue un jury, l'Aréopage; il doit "durer à jamais... et devenir l'arbitre d'Athènes. Pour la première fois ce jury portera la sentence à propos de sang versé... et que jamais, pour venger le meurtre, un meurtrier ne se dresse en courroux dans Athènes."
Une autre légende raconte que l'Aréopage rendit son premier jugement à propos de Céphale, qui par mégarde avait tué sa femme : il le condamna au bannissement. Il est curieux de voir rapporter au meurtre d'une femme par son mari l'institution de l'Aréopage qui, une fois la filiation par le père bien enracinée dans les mœurs, n'aura plus à s'occuper d'une telle question ; la loi nouvelle octroyant au mari le droit de vie et de mort sur sa femme.
Les Euménides donnent au débat sa portée sociale :
"Si la cause de cet homme triomphe, des lois nouvelles vont bouleverser le monde... le palais de la justice s'écroulera en ruines."
Oreste les accuse de n'avoir pas poursuivi de leur colère celle qui avait tué son père et son époux. Elles  répondent encore : "Elle n'était pas du même sang que l'homme qu'elle a tué."
ORESTE. – Et moi, je suis donc du sang de ma mère ?
LE CHOEUR DES EUMENIDES. – Scélérat ! tu veux renier le propre sang de ta mère ?
Renier le sang de sa mère ! – Des Peaux-Rouges ont préféré être attachés au poteau de torture que d'être adoptés dans un nouveau clan, que de renier par conséquent le sang de leur mère. Mais Oreste, est le personnage symbolique qui doit fouler aux pieds toutes les coutumes de la famille maternelle. Il verse le sang de sa mère, il renie ce sang pour excuser son crime ; et afin de démontrer qu'il n'est pas du sang de sa mère, il épouse Hermione, la fille d'Hélène, sœur de Clytemnestre ; épouser sa cousine du côté maternel était aux yeux des hommes primitifs un inceste aussi épouvantable que pour nous le mariage d'un père avec sa fille : on a vu avec quelle fureur les Australiens pourchassaient ceux qui, même par mégarde, commettaient un tel crime. Plus tard Oreste épousa Erigone, fille de sa propre mère Clytemnestre, mais issue d'Egisthe.
Les Euménides, se sentant condamnées par les dieux nouveaux, invoquent la justice humaine. "Cet homme qui a versé sur la terre le sang de sa mère, le sang qui l'anima, il ira dans Argos habiter la maison paternelle ! A quels autels publics osera-t-il faire des sacrifices ? Quelle phratrie voudra l'admettre à ses libations ?"
Alors Apollon porte le coup décisif ; il attaque la femme dans sa fonction essentielle, celle qui assurait sa supériorité, dans sa fonction maternelle : "Ce n'est pas la mère qui engendre ce qu'on appelle son enfant, argumente-t-il ; elle n'est que la nourrice du germe versé dans son sein ; celui qui engendre, c'est le père. La femme, comme un dépositaire étranger reçoit d'autrui le germe ; et quand il plaît aux dieux, elle le conserve. La preuve de ce que j'avance, c'est qu'on peut devenir père sans qu'il y ait besoin d'une mère ; témoin cette déesse, la fille de Jupiter, du roi de l'Olympe. Elle n'a point été nourrie dans les ténèbres du sein maternel et quelle déesse eût produit un pareil rejeton ?"
Minerve, la réponse de l'homme aux insolentes parthénogenèses des premières déesses, qui se vantaient de concevoir sans le secours du mâle, était la vivante protestation contre la famille maternelle. Elle est conquise d'avance ; elle avoue cyniquement sa partialité : "Je n'ai pas de mère à qui je doive la vie ; ce que je favorise partout c'est le sexe viril... Je suis complètement pour la cause du père. Je ne puis donc m'intéresser au sort de la femme, qui a tué son époux, le maître de la maison."
La mère n'est plus qu'une capsule enfermant le "germe", selon l'expression égyptienne. La femme est déchue. Cent ans plus tard, Euripide dans Oreste se sert du même argument anti physiologique, que l'on retrouverait chez tous les peuples si l'on possédait toutes leurs légendes. Au dix-huitième siècle, quand on perfectionna le microscope, des savants crurent voir l'homunculus, l'être humain en miniature microscopique : on lui découvrait une tête, des membres et même des organes internes.
"Ah ! divinités nouvelles, s'écrient les Euménides désespérées, vous avez foulé aux pieds d'antiques lois, vous nous avez arraché des mains toute notre puissance."
Le rôle des Euménides est fini. La femme est descendue de son rang supérieur. Le fils n'appartiendra plus à la mère. Le père sera le maître de la maison, comme le déclare Minerve : le fils commandera à la mère. Télémaque ordonnera à Pénélope de quitter la salle du festin et de se retirer dans l'appartement des femmes . Jésus, le Dieu nouveau, dira à Marie : "Femme, qu'y a-t-il de commun entre vous et moi ?" et ajoutera qu'il est venu sur la terre pour remplir les ordres de son père et non pour s'occuper des inquiétudes de sa mère. "La famille et le culte se perpétueront par le père ; il représentera à lui seul toute la série des descendants, sur lui reposera le culte domestique, il pourra presque dire comme l'Hindou : C'est moi qui suis le Dieu. Quand la mort viendra, il sera un être divin, que les descendants invoqueront".
La femme, traitée en mineure, sera soumise à son père, à son mari, aux parents de son mari s'il vient à mourir. Elle sera dépouillée de ses biens : les mâles et les descendants des mâles excluront les femmes et les descendants des femmes de l'héritage de la propriété familiale. Caton l'Ancien formulera ainsi le nouveau code conjugal : "Le mari est juge de la femme ; son pouvoir n'a pas de limites ; il peut ce qu'il veut. Si elle a commis quelque faute, il la punit ; si elle a bu du vin, il la condamne ; si elle a eu commerce avec un autre homme, il la tue." La loi de Manou condamnait la femme qui avait "violé effectivement son devoir envers son seigneur, à être dévorée par des chiens dans un lieu très fréquenté".
Un crime nouveau était né : l'adultère.
La Clytemnestre d'Eschyle, qui au su de toute la population vit avec Egisthe, le cousin germain d'Agamemnon, son second mari, pourra dire aux vieillards d'Argos : "Je n'ai pas violé le sceau de la pudeur et du secret." Dans les Euménides, Oreste et Apollon l'accuseront du meurtre d'Agamemnon, mais non d'avoir trahi la foi conjugale. Cependant Eschyle dramatisait la légende plus de cinq siècles après la prise de Troie et elle avait dû perdre de sa netteté au frottement des idées et des mœurs nouvelles. Cent ans après Eschyle, Euripide reprenait le même thème : sa Clytemnestre est meurtrière et adultère. Elle "a contracté une union coupable... elle a souillé le lit conjugal." Sur la place publique, Oreste trouve pour défenseur "un citoyen au cœur vaillant, intègre, d'une vie irréprochable. Il propose de couronner le fils d'Agamemnon, pour avoir voulu venger son père en tuant une femme méchante et impie, qui était cause qu'un citoyen ne voudrait armer son bras ni partir en expédition loin de ses foyers, si ceux qui restent, corrompent les gardiennes de la maison et souillent le lit conjugal." Dans Electre, Clytemnestre est descendue de sa hautaine dignité ; elle devient une femme soumise, qui plaide les circonstances atténuantes ; elle rejette sur Agamemnon son adultère : "Si l'époux s'oublie jusqu'à dédaigner le lit conjugal, l'épouse suit volontiers son exemple et cherche ailleurs un amant."
La femme conquérait un nouveau devoir, la fidélité conjugale ; mais reléguée au fond du gynécée, sous l'oppression maritale, elle perd son rôle historique. Dans les temps homériques, la femme, est le centre des légendes ; partout elle montre la puissance de son action : la tradition, conservée principalement par les hommes, n'a préservé surtout que le souvenir de ses crimes. Eschyle l'attaque dans les Choéphores avec une telle fureur, que l'on doit supposer que la femme de son temps n'était pas encore complètement assouplie au joug dégradant du mâle.
LE CHOEUR. – Qui dira tout l'emportement d'une femme impudente... L'amour dans le cœur d'une femme, ce n'est plus de l'amour ; c'est un délire, où n'atteignirent jamais, aux jours de l'accouplement, les bêtes sauvages et les brutes :
"... Rappelle-toi la fille de Thestius (la mère de Méléagre), cette mère fatale à son enfant... Haine encore à la sanguinaire Scylla (qui livra la ville de Mégare et son père Nisus à Minos son amant). Mais de tous les forfaits le plus tristement fameux c'est celui de Lemnos (le massacre des hommes par les femmes)."
Tandis que l'épouse dégradée, avilie par la nouvelle organisation de la famille, salie au théâtre par les insultantes et impudiques railleries d'Aristophane que les pères de l'Eglise, les moralistes et les beaux esprits de tous les temps ont servilement répétées, disparaissait de la vie publique, l'hétaïre, la prostituée, courtisée par les praticiens, les riches et les puissants, chantée par les poètes, adulée par les philosophes, tolérés au bout de sa table, s'emparait de la place d'où avait été chassée la mère de famille .Les Athéniens qui eurent le triste honneur de se signaler par un si dur asservissement familial de la femme, se livraient, avec l'approbation des philosophes moralistes, à des mœurs infâmes que, selon Hérodote, ils importaient dans tous les pays où ils passaient . Jupiter "le père des Dieux", "le vengeur des pères", "le gardien de la foi conjugale", méritait d'être l'amant de Ganymède.


VI
La farce après la tragédie

La théorie fabriquée par Apollon, pour expliquer le rôle prépondérant du père dans l'acte de la génération, ne parvint pas à convaincre l'esprit positif du populaire, qui préfère un fait tangible à tous les raisonnements de la sophistique. Il s'y prit d'une autre façon pour autoriser la substitution du père à la mère dans la direction de la famille.
On connaît la couvade basque : la femme accouche, le mari se couche, geint et se contorsionne ; les compères et les commères du voisinage viennent gravement le complimenter de son heureuse délivrance. Cette curieuse coutume, que Strabon avait déjà signalée chez les Ibères, s'est conservée jusqu'à nos jours. On s'était imaginé qu'il n'y avait que les Basques assez amis de la farce pour donner à leurs amis et connaissances le spectacle d'une scène aussi grotesque. Mais quand les Européens découvrirent l'Amérique, ils s'aperçurent que leurs coreligionnaires de la Biscaye et de la Guipozcoa n'étaient pas les seuls à jouer la couvade. "Aussitôt que chez les Apiponnes, écrit un missionnaire, la femme a mis au monde un enfant, on voit le mari se mettre au lit : on l'entoure de soins, il jeûne pendant un certain temps, vous jureriez que c'est lui qui vient d'accoucher." – "Chez d'autres indigènes, écrit un voyageur, le mari se met tout nu dans son hamac ; il est soigné par les femmes du voisinage, tandis que la mère du nouveau-né prépare la cuisine, sans que personne s'occupe d'elle."
Cet usage a été observé un peu partout : en Europe, en Afrique, en Asie, dans le vieux et dans le nouveau monde ; dans le présent et dans le passé. Marco-Polo le trouvait dans le Yunnam, au XIIIº siècle. Apollonius qui vivait deux siècles avant notre ère, raconte que "les femmes du Pont-Euxin mettent au monde leurs enfants avec la participation des hommes, qui se couchent, poussent des cris perçants, s'enveloppent la tête, se font préparer des bains et nourrir délicatement par leurs femmes." –"Les Cypriens, dit Plutarque, se mettent au lit et imitent les contorsions de la femme en couches." Les Athéniens célébraient le 2 du mois gorpeius (septembre), une fête en l'honneur d'Ariadne ; pendant le sacrifice "un jeune homme, couché dans un lit, imitait les mouvements et les cris d'une femme en travail." (Plut. Thésée XVIII). Je pourrais multiplier les citations, mais celles-ci suffisent pour établir que cette ridicule coutume a été assez générale sur toute la terre.
Les dieux, ces singes de l'homme, ne croyaient pas la comédie de la couvade au-dessous de leur majesté. Jupiter se mit au lit, poussa des gémissements et jura qu'il avait porté dans sa cuisse le petit Bacchus que sa mère venait de mettre aux cieux : par privilège rare, Bacchus était Bimétor, à double mère ; les civilisés se contentent d'être à plusieurs pères. Jupiter n'était pas à son premier accouchement, déjà il avait enfanté Minerve.
La couvade des Basques n'était qu'un amusant sujet de plaisanteries, tant qu'on la crut une particularité de ce peuple si original ; mais le fait de la retrouver chez des peuples si divers et jusque dans l'Olympe, mérite considération. L'homme, le plus cruel et le plus grotesque des animaux, travestit parfois les phénomènes sociaux les plus considérables en des cérémonies les plus ridicules. La couvade est une des supercheries qu'employa l'homme pour déposséder la femme de ses biens et de son rang. La parturition proclamait le droit supérieur de la femme dans la famille : l'homme parodia l'enfantement pour se convaincre qu'il était bien le faiseur de l'enfant.
La famille patriarcale fit son entrée dans le monde escortée par la discorde, le crime et la farce dégradante.