Human lives matter
La lotta di classe e di genere sono state il nodo
centrale di tutta la civiltà produttivista.
Se ne avrò la capacità, il tempo e la voglia, proverò, ci
sto lavorando da tempo con la passione e la lentezza di un gioco, a mettere
insieme l’enorme quantità coerente di dati critici sul conflitto di genere,
accumulati dalla ricerca sociale, psicologica, antropologica e archeologica
nell’ultimo secolo, ma soprattutto in tempi recenti, concomitanti con il
risorgere grandioso e complesso delle lotte per l’emancipazione femminile.
In diversi scritti, del resto, ho già avuto modo di
ricordare spesso l’apporto di Marija Gimbutas sulle società matricentriche
dell’antica Europa. Secondo la ricercatrice lituana, esse erano abbondantemente
diffuse prima che le popolazioni Kurgan invadessero a più riprese il vecchio
continente, strappandolo a quella centralità femminile che lo aveva
caratterizzato per millenni non come un matriarcato, ma come una moltitudine di
società acratiche a centralità femminile che la sua amica e complice Riane
Eisler ha opportunamente definito gilaniche (della donna libera).
Vi propongo, per ora, qui di seguito, tradotto in
italiano, il breve ma ricco testo di Paul Lafargue che personalmente non
conoscevo e che ci parla della questione in termini di matriarcato.
Lafargue é più vicino temporalmente a Bachofen che alla
lettura di là da venire di M. Gimbutas, mentre si dichiara fortemente in
sintonia – come dubitarne, del resto –
con la teoria del proletariato di Marx e di Engels.
Concentrandosi in particolare sulla mitologia ellenica e argomentando
con perizia e conoscenza sull’interpretazione teatrale che la tragedia greca ha
dato di questa mutazione rivoluzionaria dei rapporti sociali di genere,
Lafargue rende trasparente e perfettamente leggibile lo sviluppo del
suprematismo maschile concomitante col nascere del produttivismo.
L’ho, dunque, trovato appassionante e illuminante su
molti aspetti cruciali del passaggio da una società matrilineare
tendenzialmente acratica a un patriarcato suprematista che, in epoche
successive della storia dell’umanità, ha fatto irruzione praticamente dovunque
come una nuova morale sessuale e sociale tragicamente imposta alle donne.
Paul Lafargue si esprime su questo tema quando il
marxismo non si era ancora ridotto a una macchina da guerra ideologica cooptata
dal marxismo-leninismo ed esplorava ancora con intelligenza e cultura il senso
del sociale nel passato e nel presente, guardando al futuro (nonostante i
conflitti deleteri di pochi anni prima all’interno della Prima Internazionale
non fossero affatto di buon auspicio).
Evidentemente, questo scritto del 1886, ha molte qualità
ma anche qualche limite legato al suo tempo perché, seppure la solidarietà nei
confronti delle donne sia totale, affiora marginalmente qualche traccia fobica di
moralismo verso dei costumi bollati speditamente come“infami”, insofferenza che non intacca,
tuttavia la qualità libertaria della sua lucida denuncia della supremazia di
genere al cuore della civiltà produttivista.
Mezzo secolo dopo Lafargue, con un bagaglio culturale,
psicologico e antropologico ben più sviluppato, due grandi amici e ricercatori
come B. Malinowski e W. Reich hanno messo a nudo, ognuno nel suo campo, il
problema dell’irruzione della morale sessuale coercitiva imposta dal potere
maschile.
Lafargue, poi Reich e infine Gimbutas personificano tre
stadi successivi della presa di coscienza radicale moderna destinata a liberare
l’umanità e la vita dalle miserie tossiche del produttivismo; questo apporto
commovente dell’autore del famoso Diritto alla pigrizia di qualche anno prima (1880), non
é che il primo stadio della nostra emancipazione individuale e collettiva a
venire.
Buon viaggio a tutti.
Sergio Ghirardi, 4 luglio 2020
Paul
Lafargue
Il matriarcato
Studio sulle origini della famiglia
Pubblicato
a puntate ne Il socialista dal 4
settembre al 16 ottobre 1886.
Viviamo
sotto il regime della famiglia patriarcale: attorno al padre, riconosciuto dai
costumi e dalla legge come capo della piccola società familiare, si raggruppano
la donna e i figli: solo il suo nome percorre il corso delle generazioni: un
tempo la proprietà si trasmetteva attraverso i maschi. La Bibbia, i libri sacri
dell’Oriente, la maggior parte dei filosofi, degli storici e degli uomini di
Stato hanno ammesso come una verità indiscutibile che questa forma di famiglia
è stata all’origine delle società umane e che attraverserà i secoli a venire
non subendo che insignificanti modifiche. Per l’uomo volgare e per gli spiriti
colti, la famiglia patriarcale è tuttora la sola forma familiare secondo
ragione e natura: anche i giureconsulti romani pensavano che lo jus gentium fosse l’espressione
giuridica del Diritto naturale. Per dare un’autorità morale alle loro
istituzioni civili, politiche e religiose, alle loro consuetudini e ai loro
costumi, gli uomini li hanno sempre presentati come manifestazioni della legge
naturale ed emanazioni della divinità. I diritti e i doveri religiosi, morali e
politici della donna riposano su questa nozione di famiglia che nasce con la
storia.
Il
padre è il capo naturale della famiglia monogamica o poligamica. Quest’assioma
sociale, reputato più solido della roccia, si sfalda di fronte al soffio
impietoso della scienza così come altre verità venerate fin dall’antichità.
Questa verità eterna sarebbe stata messa in dubbio da tempo se i costruttori di
filosofia della storia non si fossero lasciati accecare dai pregiudizi sociali,
se avessero tenuto conto dei fatti conosciuti, se non avessero sdegnato come
fantasie individuali senza portata, le opinioni avanzate dai cinici, dagli
stoici, dai gimnosofisti e dai platonici sulla comunità delle donne e dei beni,
se non avessero ridicolizzato le teorie dei socialisti moderni sulla comunità
dei beni e la libertà in amore. Si è dovuto attendere fino al 1861 perché un
uomo di vasta scienza e d’intelligenza ardita dimostrasse che nelle società
primitive erano esistite altre forme familiari: è nel 1861 che Bachofen ha
pubblicato Das Mutterecht (Il diritto
della madre). La sua importante scoperta, avvolta da una spessa coltre di
nebbia mistica, sarebbe forse passata inosservata se, quattro anni dopo, degli
scrittori inglesi come Mac Lennan, Lubbock, Herbert Spencer, Tylor, ecc.,
raggruppando confusamente, da idee false e concepite frettolosamente, le
numerose narrazioni dei viaggiatori inglesi, non avessero attirato l’attenzione
su popoli che non conoscevano la famiglia paterna. Tuttavia, l’onore di avere
stabilito in maniera scientifica che le società umane cominciano dalla
promiscuità sessuale e non pervengono alla famiglia paterna se non dopo aver
attraversato una serie graduata di forme familiari, va attribuito al profondo
pensatore americano Lewis H. Morgan. È il primo ad avere introdotto un ordine
ragionato nella massa inestricabile di fatti curiosi, strani e sovente contraddittori
raccolti dagli storici dell’antichità e dagli antropologi sull’uomo preistorico,
ma anche dai viaggiatori sui popoli moderni. La sua grande opera, Ancient History; pubblicata a Londra nel
1877, è il riassunto di lavori apparsi nelle pubblicazioni della Smithsonian Society di
Washington, alle quali aveva consacrato quaranta anni di ricerche aride,
pazienti e coscienziose. Friedrich Engels, completando i lavori di Morgan con
gli studi economici e storici di Karl Marx e con i suoi propri, ha esposto
nella forma breve, limpida e avvertita che gli è propria, le investigazioni
fatte sull’origine della famiglia, dello Stato e della proprietà privata.
M. Dumas
figlio, in una delle sue prefazioni, la cui lunghezza è riscattata dalla
banalità, scrive che è difficile riprodurre sulla scena i rapporti mondani tra
uomini e donne per paura di sgomentare il pudore timorato delle signore che non
sono caste che nelle orecchie. Tuttavia, il pudore dei signori, e M. Dumas per
primo, è ancora più forte. Hanno delle idee talmente stereotipate sul pudore
nativo delle donne, delle regole così precise sulla loro condotta privata e
pubblica che ogni fatto, ogni idea che non sia marcata dal timbro della morale
civile usuale li offusca. Non potrebbero ammettere che in terra come in cielo
esista qualcosa che non sia concepito dalla loro filosofia, come diceva Amleto
a Orazio.
Eppure i
fatti raccolti tra tutti i popoli antichi e moderni sono così numerosi, le
teorie che hanno contribuito a elaborare così positive, che se si vuole capire
l’evoluzione della specie umana, bisogna lasciare alle porte della scienza
storica le idee sentenziose che ingombrano la testa dei civilizzati.
I
Alla fine
del XV° secolo, quando Vasco de Gama abbordò sulle coste di Malabar[1],
i portoghesi sbarcarono in mezzo a un popolo ragguardevole per il suo stato
avanzato di civiltà, lo sviluppo della sua marina, la forza e l’organizzazione
del suo esercito, la ricchezza delle sue città cantata da Camoens[2],
il lusso degli abitanti e l’educazione dei suoi costumi; tuttavia, la posizione
sociale della donna e la forma della famiglia mandarono in crisi tutte le loro
idee apportate d’Europa. – Nei suoi Antiquarische
Briefe, Bachofen ha raccolto sulla famiglia Nair dei documenti delle
provenienze più diverse, di scrittori arabi, portoghesi, olandesi, italiani,
francesi, inglesi e tedeschi, dal medio evo all’epoca moderna.
La famiglia
Nair ha fornito prove eccezionali di vitalità: ha saputo resistere al
cristianesimo, all’oppressione dell’aristocrazia braminica ariana e alla
religione musulmana. Questa tenace istituzione familiare si è mantenuta tra i
popoli di Malabar fino all’invasione di Hyder-Ally nel 1766.
I Nair,
elemento aristocratico del paese, formavano grandi famiglie di parecchie
centinaia di membri che portavano lo stesso nome, analogamente ai clan celti,
alla gens romana, al génos greco. I beni immobili appartenevano in comune a
tutti i membri della gens; un’assoluta eguaglianza regnava tra loro.
Il marito,
anziché vivere con la moglie e i figli abitava con fratelli e sorelle nella
casa materna; quando la lasciava era sempre accompagnato dalla sorella
preferita; alla sua morte i suoi beni mobili non tornavano ai suoi figli ma
erano distribuiti tra i figli delle sorelle.
Il
capofamiglia era la madre o, in mancanza, la figlia maggiore; suo fratello
maggiore, chiamato il nutritore, ne gestiva i beni; il marito era un ospite;
non entrava in casa che in giorni determinati e non si sedeva a tavola a lato
di sua moglie e dei bambini. I Nair, riferisce Barbosa, hanno un rispetto
straordinario per la loro madre; ricevono da lei beni e onori; onorano
ugualmente la sorella maggiore che deve succedere alla madre e prendere la
direzione della famiglia.
La donna
Nair aveva diversi mariti di ricambio, dieci o dodici e anche di più, se ne
aveva voglia; si succedevano a turno, ognuno aveva il suo giorno coniugale stabilito
nel quale doveva assumere le spese familiari; appendeva alla porta la spada e
il suo scudo per indicare che il posto era occupato. La gloria e la fama della
signora si misuravano col numero di mariti che cooperavano al suo mantenimento.
Per non restare a digiuno, i giorni in cui non aveva accesso alla sua signora,
il marito faceva parte di altre società matrimoniali; poteva a suo gusto
ritirarsi da un’associazione coniugale per entrare in un’altra e la signora
aveva il diritto di ripudiarlo se non le piaceva o se assolveva fiaccamente i
suoi doveri. La donna Nair era poliandrica e l’uomo poliginico.
I figli
appartenevano alla madre che s’incaricava di nutrirli. “Nessun Nair, dice
Buchanan, conosceva suo padre. Ogni uomo considera suoi eredi i figli della
sorella; li ama dello stesso amore con cui nelle altre parti del mondo, i padri
amano i loro figli. Si guarderebbe come un mostro chi, alla morte di un figlio
supposto suo a causa della somiglianza e della lunga coabitazione con la madre,
mostrasse altrettanta pena che alla morte di un figlio della sorella”.
I Nair
sembravano aver assunto il compito di contrariare le idee morali dei bravi
europei. Il diritto di possesso di una vergine, riservato ai signori feudali
come uno dei privilegi più preziosi, e comprato dai signori del capitale a un
prezzo – è vero – particolarmente basso, era
visto dai Nair come una corvè. Per deflorare le vergini impiegavano degli
stranieri, uomini del porto che ricevevano un salario, probabilmente pattuito
in precedenza. Bartema racconta che nella città di Tarnassari, i rajah incaricavano
gli stranieri di tenere compagnia alle loro donne durante le prime notti di
nozze. Giorgio IV d’Inghilterra condivideva l’opinione dei Nair: diceva che era
un lavoro da palafrenieri. Barbosa che fa una descrizione molto rapida della
cerimonia nuziale, grida con un’indignazione tutta cristiana: “Secondo
l’opinione di questi pagani, una ragazza che morisse vergine non andrebbe in
paradiso”. Il cadavere delle vergini era violato, la verginità diventava dunque
un peccato mortale! Se questi strani costumi fossero stati osservati presso
selvaggi collocati all’ultimo stadio della specie umana, sarebbe bello e pronto
il giudizio portato dagli spagnoli sui pellerossa che massacrarono
selvaggiamente: – “I Nair sono gente irragionevole – gentes sin razon”. I cristiani dei nostri giorni e con loro molti
sapienti antropologi, potrebbero aggiungere: “I Nair sono un popolo di
degenerati, i loro costumi abominevoli testimoniano della loro degradazione”. I
Nair, al contrario, formavano l’aristocrazia indigena di un popolo educato,
senz’altro più civilizzato dei portoghesi del XVI° secolo.
Si potrebbe
porre questa questione: la famiglia Nair basata sulla comunità dei beni in seno
al clan, sulla poligamia dei due sessi, sulla preminenza della madre, padrona
sovrana della casa il cui fratello maggiore era soltanto una specie di
maggiordomo, sulla filiazione materna per cui solo la madre trasmetteva ai
figli il suo nome, il rango e i beni, sarebbe dunque un fatto anormale, una
mostruosità sociale generata da circostanze talmente eccezionali, impossibili
da ritrovarsi altrove? Ammettendo che presso nessun popolo della terra si siano
osservati in tempi storici costumi analoghi, l’uomo di scienza esitante non
dovrebbe forse dirsi: niente è miracoloso. La teratologia di Geoffroy Saint-Hilaire
colloca nella serie animale il mostro come un organismo bloccato in una delle
sue fasi di sviluppo che riproduce un tipo inferiore della serie. La famiglia
Nair, questo fenomeno sociale, non riprodurrebbe una delle forme familiari
primitive attraversate dall’umanità nel corso della sua evoluzione?
Tuttavia, i
costumi familiari dei Nair non sono un’eccezione unica. Se si sfogliano i
racconti dei viaggiatori tra le popolazioni selvagge dell’antico e del nuovo
mondo, se, con lo spirito sbarazzato dai pregiudizi civilizzati e risvegliato
dalle narrazioni degli esploratori moderni, si rileggono gli storici, i poeti e
i filosofi dell’antichità, se si analizzano i riti religiosi e si studiano i
libri sacri, si raccoglie un’abbondante raccolta di fatti che dimostrano come
tutti i popoli della terra hanno avuto a un momento del loro passato dei
costumi analoghi a quelli dei Nair.
II
La famiglia
materna presso altri popoli
Spostiamoci
in Africa, in mezzo ai Tuareg del Nord e prendiamo per guida un viaggiatore
francese, M. Duveyrier.
“Il ventre colora
il bambino” dice un proverbio dei Targui[3]
che si ritrova tra gli Hova[4]
del Madagascar. Il bambino targui segue la condizione della madre; se essa è
libera e nobile, il figlio è libero e nobile anche se il padre è schiavo. Se
una donna della Licia[5]
di condizione libera, sposa uno schiavo, i suoi figli sono considerati nobili –
rapporta Erodoto. Se invece un cittadino, anche del rango più distinto, sposa
una straniera o una concubina, i suoi figli sono avviliti”. Partus sequitur ventrem era un vecchio
adagio latino. “La pancia libera e nobilita”, dicevano i costumi della
Champagne e del Brie nel XII secolo.
I Tuareg hanno
due tipi di proprietà: 1°) I beni acquisiti tramite il lavoro dell’individuo
come armi, denaro, schiavi comprati, greggi, raccolte e provvigioni, sono
individuali; 2°) I diritti percepiti sulle carovane e sui viaggiatori, i diritti territoriali sulle terre del
percorso e sulle terre di coltura, sulle acque; i diritti sulle persone e sulle
tribù ridotte in servitù, il diritto di comandare e di essere ubbiditi, sono
collettivi: non si trasmettono per linea maschile ma competono al figlio
maggiore della sorella primogenita che li gestisce nell’interesse di tutta la
famiglia.
Anticamente,
quando si trattava di distribuzione territoriale, le terre attribuite a ogni
famiglia erano registrate a nome della madre. Il diritto berbero accorda alle
donne l’amministrazione dei loro beni; a Rhât solo le donne dispongono delle
case, dei giardini, insomma di tutta la proprietà terriera del paese.
I Tuareg
possiedono una sola parentela, quella uterina: la genealogia è femminile. Il
Targui conosce sua madre e la madre di sua madre ma ignora suo padre. Il figlio
appartiene alla donna e non al marito; è il suo sangue e non quello del suo
sposo che conferisce al figlio il rango da occupare nella
tribù e nella famiglia. “Se c’è un punto in cui la società targui differisce da
quella araba, è nel contrasto della posizione elevata che occupa la donna
comparato allo stato d’inferiorità della donna araba. Non solo tra i Tuareg la
donna è l’uguale dell’uomo, ma gode persino di una condizione preferibile. Ha
la mano libera e nella comunità coniugale gestisce la sua ricchezza senza
essere forzata a contribuire alle spese di sostentamento. Capita, dunque, che
per il cumulo dei prodotti, la maggior parte della fortuna sia tra le mani
delle donne”.
La
donna targui è monogama e impone la monogamia al marito benché la legge
musulmana gli permetta diverse mogli. Essa è indipendente nei confronti del suo
sposo che può ripudiare con il minimo pretesto: va e viene liberamente. Queste
istituzioni sociali e i costumi che ne derivano hanno sviluppato
straordinariamente la donna targui; “la sua intelligenza e il suo spirito
d’iniziativa stupiscono nel bel mezzo di una società musulmana”. Essa eccelle
negli esercizi corporali; a dorso di dromedario percorre cento chilometri per
recarsi a una serata; sostiene corse con i più arditi cavalieri del deserto. Si
distingue per la sua cultura intellettuale: le donne della tribù di Jmanan sono
celebri per la loro bellezza e per il loro talento musicale; quando danno dei concerti,
gli uomini accorrono dai posti più lontani, mascherati come maschi di struzzo.
Le donne delle tribù berbere cantano tutte le sere e si accompagnano con la rebâza (il
violino); improvvisano: in pieno deserto fanno rivivere le corti d’amore della
Provenza. La donna sposata è tanto più considerata quanti più amici conta tra
gli uomini, ma per conservare la sua reputazione non deve preferirne alcuno.
“L’amica e l’amico, dice, sono per gli occhi e per il cuore e non soltanto per
il letto come presso gli arabi”. Tuttavia, le nobili dame targui non sono
affatto obbligate a mettere la loro condotta in contraddizione con i loro
sentimenti, come le eroine della Fronda che rendevano platonici i rapporti con l’amante
maschio e femmina e che, secondo l’espressione di Saint-Evremond, amavano
teneramente l’amante mentre godevano solidamente di loro marito con avversione.
Il matrimonio dei Tuareg non è indissolubile, le coppie possono separarsi facilmente
e le donne convolare a nuove unioni.
Le donne
detengono il ruolo principale nelle leggende del paese; lo stesso fenomeno si
osserva nella Grecia omerica: a diverse riprese, esse hanno esercitato il
comando; una di loro, Kahiva, la Maria Teresa del deserto, all’inizio
dell’ottavo secolo, ha riunito sotto il suo dominio le tribù berbere diventando
l’eroina della resistenza nazionale contro l’invasione dei conquistatori arabi
che riuscirono a impadronirsi del litorale dell’Atlas soltanto dopo la sua
morte. Essa cadde con le armi in pugno, uccisa dal generale arabo Hassan.
Qualche anno fa, la tribù dei Jhéhaouen era governata da una donna, una
sceicca ; ancora oggi le donne che si distinguono per i loro talenti sono
ammesse ai consigli della tribù.
I tuareg
sono i discendenti di quei libici di cui parla Erodoto, che avevano le loro
donne in comune, che non abitavano insieme con loro e i cui figli erano
allevati dalle madri. Pretendevano che Minerva fosse la figlia adottiva di
Giove, perché non potevano ammettere che un uomo partorisse senza l’aiuto
dell’altro sesso: le donne sole erano capaci di un tale miracolo.
Nella valle
del Nilo, quest’antica culla della civiltà, le donne del tempo di Erodoto
godevano di una situazione così privilegiata che i Greci chiamavano l’Egitto
“un paese a rovescio”. Lo storico di Alicarnasso spiegava questo contrasto per
“la natura del Nilo, così diversa da quella degli altri fiumi: così gli usi
degli egizi e le loro leggi diverse delle consuetudini e dei costumi degli altri
popoli... Gli uomini portano il fardello sulla testa e le donne sulle spalle.
Le donne vanno al mercato e trafficano, mentre gli uomini chiusi in casa
lavorano sulla tela... I figli maschi non sono per nulla obbligati dalla legge
a nutrire i loro genitori; quest’incarico incombe d’ufficio alle ragazze”.
Questa
condizione imposta alle ragazze basterebbe da sola per stabilire che i beni
della famiglia appartenevano alle donne, come tra i Nair e i Tuareg: dovunque
la donna possiede questa posizione economica, non è sotto la tutela del marito
ma è capofamiglia. “A causa dei numerosi benefici della dea Iside, scrive
Diodoro Siculo, era stato stabilito che la regina d’Egitto ricevesse maggiore
potenza e rispetto del re; il che spiega perché in casi particolari l’uomo
appartiene alla donna, secondo i termini del contratto dotale ed è stabilito
tra gli sposi che l’uomo ubbidirà alla donna”. Si era archiviata
quest’osservazione di Diodoro tra le storie meravigliose di cui abbondano i
viaggiatori che tornano da lontano: tuttavia, non si poteva evitare di
constatare che l’associazione delle regine al potere è persistita fino ai
Tolomei, a dispetto delle idee greche che conquistavano il paese. Cleopatra
nelle sue cerimonie religiose, rivestiva gli attributi di Iside, la madre
santa, mentre il suo sposo, Antonio, un generale romano, seguiva a piedi il suo
carro trionfale.
Le
iscrizioni funerarie raccolte nella valle del Nilo menzionano frequentemente il
nome della madre, ma non quello del padre. Talvolta, dice M. Révillout,
s’indica per parallelismo che il personaggio in questione era il figlio di un
tale. Questa designazione patronimica, però, era molto rara nella lingua
sacra... Aggiungiamo che la donna sposata, madre o sposa, è sempre nebt pas, signora della casa, padrona
della casa”, M. Révillout ne è tutto scandalizzato.
L’analisi
dei papiri demotici del Louvre ha permesso al sapiente egittologo di costatare
che gli antichi contratti di matrimonio non menzionavano i beni della donna,
per quanto numerosi e importanti fossero, il marito non avendo alcun diritto su
di essi, mentre si specificava la somma che doveva pagare alla moglie, sia come
dono nuziale, come pensione annuale e come ammenda in caso di divorzio. La
sposa è sempre padrona assoluta dei suoi beni che amministra e di cui dispone a
piacimento. Essa vende, compra, presta, impresta; in breve, esercita senza controllo
tutti gli atti di capofamiglia. I fatti riportati da Erodoto e Diodoro,
confermati dai lavori di Champollion-Figeac e degli egittologi, dimostrano che
la donna egiziana occupava nella famiglia la stessa posizione delle signore nair
e targui.
Ci sono,
però, altre prove e di diversa natura.
Le cerimonie
e le leggende religiose preservano mummificati i costumi del passato. La Pasqua
cattolica, questo pasto mistico in cui i fedeli mangiano il loro Dio fatto
uomo, la leggenda ebraica di Abramo che immola un caprone al posto del figlio
Isacco, sono l’eco lontano dei pasti antropofagi e degli olocausti umani. La
testa dell’uomo elabora le religioni con i fatti che lo circondano; ma nel
corso dei secoli i fatti si trasformano, spariscono, mentre la forma religiosa
che è stata la loro manifestazione nell’intelligenza umana, persiste: studiando
la forma religiosa, si possono ritrovare e ricostituire i fenomeni naturali e
sociali che le sono serviti da scheletro.
Iside, la
dea degli antichi egizi, la madre degli dei, è venuta da sola; essa è anche la
dea vergine; i suoi templi a Sais, la città santa, portavano questa fiera
iscrizione: nessuno mi ha mai sollevato la veste, il frutto che ho partorito è
il Sole. L’orgoglio della donna echeggia in queste parole sacre, essa si
proclama indipendente dall’uomo, non ha bisogno di ricorrere alla sua
cooperazione per procreare. La Grecia replicherà a questa insolente asserzione:
Giove, il padre degli dei, partorirà Minerva senza l’aiuto della donna e
Minerva, la dea “che non è stata concepita nelle tenebre del seno materno”,
sarà la nemica della supremazia familiare della donna. Iside, al contrario, è
la dea degli antichi costumi; sposa suo fratello, come ai tempi della
promiscuità sanguigna; sui suoi monumenti essa dichiara: “Io sono la madre del
re Horus, la sorella e la sposa del re Osiride, io sono la regina di tutta la
terra”. Suo marito, più modesto, non si dichiara padre del re Horus. Iside è
immortale, Osiride è mortale ed è ucciso da Seth[6]:
una volta riempita la sua funzione di genitore doveva morire.
Babilonia
festeggiava con cinque giorni di orge popolari, la dea Milita: era la festa
universale della libertà e dell’uguaglianza primitive; il Fallo che rende tutti
gli uomini uguali, era adorato; il re della festa, scelto tra i ranghi degli
schiavi, dopo aver goduto della regina della cerimonia, la più bella delle
etere, era gettato tra le fiamme: così come il dio Osiride, una volta riempita
la sua funzione di genitore, doveva morire. La donna riduceva l’uomo a non
essere che un organo. L’antagonismo dei sessi, nato con l’umanità, dura ancora.
Il disprezzo che dai tempi storici, gli uomini hanno dimostrato per la donna,
messa in tutela e trattata da cortigiana o da domestica, le donne – i riti
religiosi lo provano –, l’hanno mostrato nei confronti degli uomini quando
erano loro eguali e talvolta superiori.
Nelle
società animali comuniste, come le formiche, le api, il maschio è un parassita;
dopo la fecondazione è ucciso.
III
Costumi
della famiglia matriarcale
Non si può
più dubitare che prima di giungere alla forma familiare attuale, l’umanità
abbia attraversato una forma di famiglia a rovescio: la madre determina la
discendenza; il padre, personaggio secondario, non trasmette ai figli né il nome
né i beni né il rango. La famiglia è allora il prolungamento da donna a donna
del cordone ombelicale, segno materiale della maternità. Quest’organo che nelle
famiglie reali d’Europa si taglia alla presenza di testimoni per evitare ogni
contestazione sulla legittimità del neonato, è ancora circondato di un tale
rispetto presso alcuni popoli, che per esempio gli abitanti dell’alto Nilo, i
Figiani e anche i creoli delle Antille li conservano preziosamente e li
seppelliscono cerimonialmente alla morte dell’individuo; è il legame che lo
univa alla stirpe della famiglia, alla madre.
I costumi
che corrispondono a questa forma familiare primitiva scandalizzano la morale
dei civilizzati. La castità monogamica non è per nulla una virtù: la donna, al
contrario, è onorata in funzione del numero dei mariti che si succedono a
giorni fissi o che coabitano con lei il tempo di una rivoluzione lunare,
com’era uso nelle isole Canarie. I mariti di una stessa moglie, secondo
l’osservazione di Herera a proposito dei selvaggi del Venezuela, vivono in
perfetto accordo e senza conoscere la gelosia; questa passione appare
tardivamente nella specie umana.
I figli
ereditano i beni della madre e degli zii materni, mai quelli del padre. Lo zio
ama i propri nipoti più teneramente che i propri figli. Tra i Germani, dice
Tacito, il figlio di una sorella è caro allo zio quanto a suo padre. Alcuni
stimano persino questo grado di consanguineità più santo e più stretto;
ricevendo degli ostaggi, preferiscono dei nipoti che ispirano un attaccamento
più forte e interessano maggiormente la famiglia. Tuttavia, i Germani descritti
dallo storico latino, erano già entrati nella forma familiare paterna, poiché i
figli ereditavano dal padre; conservavano, però, ancora i sentimenti e certe
abitudini della famiglia materna. L’espressione francese “i nostri nipoti” per
designare i discendenti che qualche spirito maligno attribuiva allo scetticismo
sulla fedeltà coniugale della donna di Francia, è senza dubbio un vecchio
ricordo della famiglia matriarcale.
La donna
abita in casa sua o in quella del suo clan, mai in quella del marito.
L’osservazione seguente, citata da Morgan come quella di un pastore protestante
vissuto per anni tra gli Irochesi-Seneca, è tipica: “nel tempo in cui abitavano
nelle loro ampie abitazioni (che potevano contenere centinaia d’individui), un
clan predominava: le donne, però, vi introducevano i mariti appartenenti ad
altri clan. Era uso che le donne governassero la casa; le provviste erano messe
in comune: guai, però, al marito o all’amante troppo pigro o maldestro nel
contribuire alla sua parte di approvvigionamenti della comunità. Qualunque
fosse il numero dei figli e la quantità di beni apportati al focolare, doveva
aspettarsi di ricevere l’ordine di ripiegare la sua coperta e sloggiare:
pericoloso per lui disobbedire. La casa avrebbe cominciato a scottare. Unica
cosa da fare, tornare nel proprio clan o, quel che accadeva più spesso, andare
a cercare un altro focolare in un altro clan. Le donne incarnavano il grande
potere del clan. Esse non esitavano, se necessario, a far saltare le corna
(simbolo del comando) dalla testa dei capi, facendoli rientrare nei ranghi di
semplici guerrieri. L’elezione dei capi dipendeva sempre da loro”.
I racconti
dei viaggiatori rappresentano la donna barbara come oberata di lavoro. La
divisione del lavoro, come nota Karl Marx, comincia con la divisione dei sessi.
Il selvaggio è un guerriero e un cacciatore; vive circondato da nemici e può
essere attaccato in ogni istante; deve essere sempre pronto a battersi, sempre
con le armi a tiro: il suo lavoro consiste nel difendere la tribù e fornire
viveri alla sua donna e ai suoi figli. Tra i popoli civilizzati, il soldato è
dispensato da ogni lavoro. La donna selvaggia, invece, è incaricata di tutti i lavori
del focolare, della coltura dei campi, del trasporto sul dorso dei bambini e
degli oggetti di casa che, del resto, le appartengono. “I popoli barbari che
impongono alle donne un lavoro più duro di quanto sarebbe giusto secondo le
nostre idee, dice Engels, hanno spesso per esse una stima più reale di noialtri
europei. La signora della civiltà, adulata e tenuta lontana da ogni lavoro,
occupa una posizione sociale infinitamente inferiore a quella della donna della
barbarie gravata di lavoro: il suo popolo la considerava una vera signora; essa
lo era, in effetti, per il carattere”.
La donna,
sovrana signora del focolare, esercitava un’azione sugli affari pubblici;
prendeva parte ai consigli della tribù: senza volermi estendere su questo tema,
ricorderò il ruolo di arbitro da essa assunto. In Tasmania, all’inizio delle
battaglie, le donne spingevano ardentemente i guerrieri all’attacco, ma appena
alzavano tre volte le mani, il combattimento cessava e lo sconfitto, pronto per
essere sgozzato, era risparmiato. “Le donne erano inviolabili tra i Trogloditi
che smettevano di tirare le loro frecce appena esse s’interponevano tra i
combattenti”. Le Germane assistevano alle battaglie eccitando i guerrieri con
le loro grida, riportando alla mischia quelli che mollavano, contando e curando
le ferite. I germani non disdegnavano di consultarle e seguire i loro consigli;
temevano di più la prigionia per le loro donne che per loro stessi; questi
barbari credevano che ci fosse in esse qualcosa di santo e di profetico, sanctum aliquid et providum.
Potrei
continuare a citare dei fatti analoghi per intere pagine, provando che tutti i
popoli della terra sono passati per una forma familiare ben diversa da quella
che conosciamo oggi. Questi fatti strani che sconcertano le idee acquisite non
erano stati rilevati che da qualche raro spirito scettico; alcuni se ne
servivano per battere in breccia le nozioni della morale corrente. I filosofi
moralisti che hanno formulato dogmaticamente le leggi della Morale eterna, li
hanno assolutamente ignorati e considerati come non avvenuti, era la cosa più
semplice. Oggi, però, dei pensatori arditi e profondi li hanno classificati e
utilizzati per ritracciare le fasi dell’evoluzione umana.
IV
Teoria
dell’evoluzione della famiglia
Prendiamo
una coppia, creata tutta d’un pezzo come Eva e Adamo della tradizione biblica,
oppure fuoriuscita da un’orda selvaggia, quando l’uomo si distaccava appena
dall’animalità, e vediamo come vanno le cose. Questa coppia con figli e nipoti,
formerà un’orda di trenta o quaranta persone, poiché la difficoltà di
procurarsi cibo non permetteva di oltrepassare questo numero. In seno al gruppo,
le relazioni sessuali saranno assolutamente libere, come tra i gallinacei dei
nostri cortili; ogni donna sarà la sposa degli uomini dell’orda e ogni uomo il
marito di tutte le donne, senza distinzione di padre e di figlia, di madre e di
figlio, di sorella e di fratello. Questa famiglia promiscua non è stata
ritrovata in nessun popolo selvaggio per quanto si osservi nelle grandi
capitali della civiltà: eppure è dovuta esistere allo stato di fatto generale,
quando l’uomo non era ancora, secondo l’espressione latina, un animale partecipe
della ragione, rationis particeps;
quando viveva nudo, si rifugiava sugli alberi o nelle caverne naturali, si
nutriva di frutti, di molluschi e di animali che non sapeva cuocere, distinguendosi
appena dal bruto suo antenato.
Le feste
orgiastiche delle religioni asiatiche, durante le quali regnava la libertà
sessuale più assoluta, sembrano essere reminiscenze della promiscuità
primitiva. Strabone riporta che tra i Magi, la tradizione religiosa prescriveva
il matrimonio tra padre e figlia e del figlio con la madre, allo scopo di
procreare una prole destinata alle funzioni sacerdotali. Invece di riconoscere
un’origine naturale alla promiscuità primitiva, Bachofen la prende per
un’istituzione religiosa. Le feste promiscue e i costumi che tra tanti popoli
obbligavano le donne a prostituirsi al primo arrivato, senza scelta, erano secondo
lui, degli atti d’espiazione per calmare la divinità irritata: contrattando dei
matrimoni individuali più o meno poligamici, gli uomini avrebbero violato i
comandamenti della divinità che prescrivevano la comunità della donne.
La restrizione
della libertà sessuale primitiva ha dovuto cominciare con la separazione degli
individui della tribù selvaggia in compartimenti generazionali e con il divieto
di matrimonio tra gli individui di compartimenti diversi. Il primo compartimento
è quello dei genitori, il secondo quello dei figli, il terzo quello dei nipoti
e così via. Tutti gli individui di un compartimento sono i figli del settore
superiore e i padri e le madri di quello inferiore; si considerano fratelli e
sorelle e si comportano come mariti e mogli; tuttavia è loro vietato avere
relazioni sessuali con i membri del compartimento superiore e inferiore. Non ci
sono matrimoni individuali, quando si nasce maschi in una tribù e si è il
marito di tutte le donne della sua promozione senza distinzione di fratello e
sorella e reciprocamente per la donna. “Nei tempi primitivi, dice Marx, la
sorella era la moglie e ciò era morale”. Le leggende religiose e i costumi dei
popoli antichi ci forniscono numerosi esempi di questi matrimoni consanguinei;
Iside e Osiride, Giunone e Giove, ecc., erano al contempo sorelle e fratelli,
mogli e mariti.
Morgan che
si è dedicato alle più aride ricerche sulla nomenclatura dei termini di
parentela in uso tra i popoli selvaggi, ha incontrato, nelle isole Sandwich,
una serie di termini di parentela non rapportati alla loro organizzazione
sociale, che doveva aver visto la luce al momento in cui gli individui maschi e
femmine di un compartimento generazionale si consideravano i figli del
compartimento superiore e i padri e le madri di quello inferiore, mentre
ignoravano le distinzioni di zio, zia, nipoti e cugini. “La famiglia è
l’elemento attivo che non è mai stazionario, dice Morgan; essa progredisce da
una forma inferiore a una superiore nella misura in cui la società passa da uno
stadio meno sviluppato a uno più sviluppato. I sistemi di parentela sono,
invece, passivi, prendono un tempo eccessivamente lungo per registrare il
progresso compiuto dalla famiglia, non subiscono cambiamenti radicali se non
quando la famiglia si è radicalmente trasformata”. “Lo stesso vale per i
sistemi politici, giuridici, religiosi e filosofici”, aggiunge Marx. Mentre la
famiglia progredisce, il sistema di parentela si ossifica e sebbene continui a
sussistere per la forza dell’abitudine, la famiglia lo supera.
“Se il primo
grado di organizzazione, scrive Engels, è consistito nell’escludere i genitori
e i figli dal commercio sessuale, il secondo fu il divieto di matrimonio tra
fratelli e sorelle. Questo progresso, a causa della maggiore uguaglianza d’età
degli interessati, fu infinitamente più importante ma anche più difficile da
realizzare. Non si è compiuto che gradualmente, cominciando con il divieto
delle relazioni sessuali tra fratelli e sorelle carnali, tra figli uterini, per
giungere al divieto del matrimonio tra fratello e sorella di padre e di madre”.
Questa marcia evolutiva della famiglia è un’eccellente illustrazione del
principio della selezione naturale”. Le tribù che vietavano i matrimoni uterini
dovevano svilupparsi più rapidamente e completamente di quelle in cui i
matrimoni tra fratelli e sorelle erano il costume e la regola.
Fison e
Howitt, nel rimarchevole studio sui Kamilaroi e i Kurnai, due popolazioni
australiane, riportano una leggenda che cerca di spiegare il modo in cui si
realizzò la restrizione graduale delle relazioni sessuali: “Dopo la creazione,
i fratelli, le sorelle e i parenti più prossimi si sposarono tra loro senza
distinzione; finché il male proveniente da queste unioni divenne manifesto; i
capi si riunirono allora in consiglio per cercare il modo di rimediarvi. Il
risultato della loro deliberazione fu una supplica indirizzata a Muramura (lo
spirito buono), che ordinò di dividere la tribù in gruppi distinti tra loro da
nomi presi da oggetti animati e inanimati, come cane, topo, emù, pioggia, igname, ecc., proibì espressamente agli
individui con lo stesso nome di sposarsi tra loro, ma permise a un gruppo di
unirsi a un altro”. Questo costume è ancora osservato oggi; la prima domanda di
un australiano a uno straniero è: “Di quale murdou?
Vale a dire: di che gruppo sei?”
La leggenda
murdou contiene tre fatti importanti da notare. Dapprima la tribù forma un
tutto omogeneo, i matrimoni si praticano indistintamente tra fratelli e sorelle
e anche tra genitori e figli; poi la tribù si fraziona in gruppi che scelgono
un totem, cioè il nome di un animale, di un fenomeno naturale; quest’oggetto
animato o inanimato finisce per essere considerato l’antenato del gruppo che
corrisponde al clan celtico, alla gens romana e al génos greco. Il grammatico
Festus Pompeius pretende che la gens Aurelia,
alla quale apparteneva la madre di Cesare derivava il proprio nome dal sole, aurum urere. Diverse famiglie greche
riconoscevano come antenati degli animali; è vero che assicuravano che quegli
animali erano dei travestimenti indossati da Zeus durante le sue scappatelle
amorose sulla terra. Plutarco cita una gens ateniese che riveriva una pianta antica,
l’asparago. La leggenda murdou ci insegna ancora che il buon genio aveva
vietato le relazioni sessuali tra individui con lo stesso nome, lo stesso
totem, vale a dire appartenenti allo stesso gruppo.
Come si
potranno conservare queste divisioni della tribù in gruppi, in clan, in gentes che per procurarsi i mezzi di
sussistenza saranno obbligati a disperdersi? Per mezzo della tutela del nome
dell’antenato che sarà trasmesso di generazione in generazione come un bene
sacro. I membri che lasciano il clan portano con loro il nome; possono andare a
stabilirsi lontano, aldilà dei mari e delle montagne; possono nel corso del
tempo cambiare i loro costumi e trasformare la loro lingua al punto di essere
incapaci di comprendere quella del ceppo materno, restano, tuttavia, membri
dello stesso clan, membri dello stesso gruppo. Poiché il matrimonio è vietato
tra persone dello stesso gruppo, la prima cosa, quando ci si abborda, è
informarsi sul nome, sul totem.
Questo divieto è così formale che in Australia il guerriero che, anche per
ignoranza, si unisse a una donna dello stesso totem, sarebbe braccato come una bestia selvaggia dai membri della
sua stessa tribù.
Come si
trasmetterà il nome dell’antenato? – Attraverso il padre o la madre?
Ai nostri
tempi, dopo secoli di morale monogamica, si ricorre a un sotterfugio legale per
costatare la paternità; il padre non è quello designato dalla natura, ma da una
cerimonia religiosa e civile. Non si può sperare che degli uomini primitivi,
non ancora educati dalla sapiente cavillosità dei legislatori, incaricassero il
padre della sacra funzione di trasmettere il nome, il totem del clan. Il
sentimento paterno non è innato nell’uomo; per manifestarsi, anche qualora
esista, richiede certe condizioni esterne. L’amore materno è, invece,
profondamente radicato nel cuore della donna: essa è preparata per essere
madre, per elaborare il figlio nel suo seno e nutrirlo del suo latte dopo la
nascita. Il sentimento materno è uno dei più importanti bisogni fisiologici per
la conservazione e la perpetuazione della specie. La civiltà che spesso agisce
all’incontro della natura, complicando la vita alla donna al punto di rendere
la gestazione faticosa, il parto laborioso e doloroso, e l’allattamento
pericoloso e persino impossibile, attenua il sentimento materno nel cuore delle
donne civilizzate. Le donne selvagge amano molto i loro figli; li allattano per
due anni, non li battono mai: il bambino che la madre protegge dalla brutalità
degli uomini, si serra contro di lei, come i pulcini si nascondono al minimo
segno di pericolo sotto le ali della gallina. La femmina era dunque
naturalmente designata per assumere la funzione di trasmissione del totem del
clan. “La donna fa il clan”, dicono gli indiani Wyandotts dell’America
settentrionale: è letteralmente esatto; le donne del clan sono incaricate di
riprodurlo; gli uomini vanno a deporre i loro figli negli altri clan. Il figlio
appartiene al clan della madre.
I membri di
un clan, per numerosi e dispersi che siano, formano un’immensa famiglia; lo
stesso sangue circola nelle loro vene; lo stesso cordone ombelicale prolungato
da donna a donna, li riunisce all’antenato, al ceppo materno. Si devono aiuto,
protezione e vendetta in ogni circostanza. Il padre è sconosciuto: il fratello
della madre lo rimpiazza. I legami di sangue e di un’intima affezione uniscono
lo zio e i nipoti. I padri e i figli appartenenti a clan differenti sono invece
considerati come non consanguinei: nessuna affezione li unisce; possono venire
alle mani, ammazzarsi se i due clan in cui sono nati si dichiarano guerra,
mentre versare il sangue del proprio clan, è un crimine spaventoso. I piccoli intellettuali
attuali prendono in giro Omero perché non ha il loro manierismo e ridono dei
suoi eroi che, prima di combattere, si fermano per declinare la loro
genealogia; i rapsodi omerici avevano un senso del reale più fine degli
scrittori della scuola naturalista; riproducevano un uso sopravissuto anche
dopo che la filiazione paterna ha rimpiazzato nel clan la filiazione materna.
Dei guerrieri situati in campi nemici potevano essere membri dello stesso clan;
avevano bisogno di conoscersi prima di attaccarsi, per non commettere il
crimine orribile di versare il sangue del loro steso clan. Mac Lennan nota che
gli eroi dell’Iliade che dettagliano la loro genealogia non risalgono oltre la
terza generazione senza incontrare un dio, cioè un padre sconosciuto; la qual
cosa sembrerebbe indicare che a quell’epoca la filiazione paterna era molto
recente tra gli Elleni.
Il selvaggio
in guerra perpetua con le bestie e con gli uomini non può vivere isolato; non
può concepire di poter esistere separato dal suo gruppo, dal suo clan;
espellerlo dal suo clan è condannarlo a morte: così l’esilio è stato
considerato, per molto tempo, come la pena più terribile che si potesse
infliggere all’uomo delle società antiche. L’uomo primitivo non costituisce
un’entità di per sé; non esiste che come una parte integrante di un tutto che è
il gruppo, il clan: Non è lui individualmente che possiede, ma il suo clan; non
è lui individualmente che si sposa, ma il suo clan. Questa forma di matrimonio
è senza dubbio la più curiosa. Per illustrarla prendo questo esempio nel libro
di Fison e Howitt. I Kamilaroi sono suddivisi in quattro gruppi o clan: Ipai e Kubi, Kumbu e Muri. Le relazioni sessuali sono vietate
in seno a uno stesso clan: tuttavia, il clan Ipai sposa il clan Kubi e il clan
Kumbu sposa il clan Muri, il che significa che tutti gli uomini Ipai sono i
mariti delle donne Kubi e tutte le donne Ipai sono le mogli degli uomini Kubi.
Il matrimonio non è un contratto individuale ma collettivo, uno stato naturale:
il fatto di nascere donna in un gruppo vi dà come mariti tutti gli uomini del
vostro clan matrimoniale: I due clan possono essere dispersi su tutto un
continente come avviene in Australia; tuttavia, quando due individui di sesso
differente si incontrano e si riconoscono come membri di clan matrimoniali,
possono senza altre cerimonie comportarsi da moglie e marito. “Questa forma di
matrimonio, dice Fison, mi sembra il sistema matrimoniale comunista più esteso
che io conosca”.
Per
riassumere: la specie umana, così come le grandi specie animali, ha iniziato
con la promiscuità dei sessi, poi ha gradualmente ristretto le relazioni
sessuali, prima tra genitori e figli poi tra sorelle e fratelli uterini, infine
tra fratelli e sorelle collaterali; in questa marcia evolutiva essa ha prima
adottato la filiazione matrilineare sempre sicura, poi la filiazione patrilineare
sempre problematica.
La
filiazione materna coincide con la forma comunista e collettivista della
proprietà che ha potuto continuare a esistere anche quando la filiazione
paterna l’ha rimpiazzata.
La donna delle
tribù selvagge appartiene teoricamente a un numero illimitato di mariti benché,
in pratica, mettendosi sotto la protezione di stregoni e di capi, essa abbia
saputo limitare questo numero: poco a poco, approfittando di circostanze
diverse, essa li riduce a una dozzina, poi a un solo marito che rinnova
sovente.
La
filiazione matrilineare dà alla donna una posizione elevata nella tribù,
talvolta superiore a quella dell’uomo; essa la perde con la filiazione per via
paterna.
Il passaggio
dalla filiazione matrilineare a quella paterna che ha spogliato la donna dei
suoi beni e delle sue prerogative consacrate nel tempo, nei costumi e nella
religione, non si è sempre compiuto pacificamente: la sua storia è scritta con
lettere di sangue in una leggenda della Grecia che i suoi più grandi poeti
drammatici hanno successivamente portato sulla scena. Vediamo di analizzarla.
V
Trasformazione
del matriarcato in patriarcato
Erodoto e i
greci del suo tempo consideravano l’Egitto un mondo a rovescio a causa della posizione
superiore delle donne; ignoravano che qualche secolo prima, la Grecia aveva
presentato gli stessi fenomeni che sconvolgevano le loro idee acquisite. Una
vecchia leggenda, conservata da Varrone e trasmessa da S. Agostino nella Città
di Dio, rapporta che “sotto il regno di Cecrope avvenne un doppio miracolo ad
Atene. Scaturì da terra un olivo e contemporaneamente una sorgente a qualche
distanza. Il re, terrorizzato, inviò a chiedere all’oracolo di Delfi il
significato di quell’avvenimento e quel che doveva fare. Il dio rispose che
l’olivo significava Minerva e la sorgente Nettuno e che dipendeva da loro ormai
dare alla città il nome di una delle due divinità. Cecrope convocò allora
un’assemblea di cittadini, cioè uomini e donne, perché era allora costume di
ammettere le donne alle deliberazioni pubbliche. Le donne votarono per Minerva
e gli uomini per Nettuno e siccome c’era una donna in più, trionfò Minerva.
Nettuno per vendicarsi inondò immediatamente le campagne degli ateniesi. Per
calmare la collera del Dio, gli uomini si videro obbligati a imporre alle loro
donne una tripla punizione: – prima di tutto esse furono condannate a perdere
il loro diritto di voto; in secondo luogo i loro figli non furono più autorizzati
a portare il nome della madre; infine si videro costrette a rinunciare al loro
nome di Ateniesi”, vale a dire a perdere i loro diritti di cittadinanza, a non
essere più che le donne degli Ateniesi.
Ci volevano
nientedimeno che dei fenomeni soprannaturali e l’intervento di un dio perché le
donne di Atene perdessero le prerogative che facevano di loro delle libere
cittadine.
Altre
leggende rapportano che dei crimini spaventosi insanguinarono le famiglie prima
che la donna si lasciasse spogliare dei diritti che la rendevano rispettabile
nella città e nel clan. Le leggende omeriche sono la storia degli odi, delle
brame, delle rivalità e delle lotte esplosi tra genitori e figli e tra fratelli
appena i beni e il rango cominciarono a essere trasmessi dal padre anziché
dalla madre. L’Orestiade, la grandiosa trilogia di Eschilo, conserva, ancora
palpitanti, le terribili passioni che divorarono i cuori degli uomini e degli
dei omerici.
Se si vuole
ritrovare la storia sotto la leggenda di Oreste, si deve conoscere la
genealogia di suo padre e di sua madre: discendevano entrambi da famiglie
illustri per i loro crimini e le loro azioni eroiche.
Pelope,
figlio di Tantalo, ebbe, insieme con altri figli, i due gemelli Atreo e Tieste
che sposarono la stessa donna Erope; Atreo ebbe come figli Agamennone e Menelao
e Tieste, Tantalo ed Egisto. Agamennone fu il padre di Oreste ed Elettra. –
Clitennestra, nipote di Ebalo e figlia di Tindaro, mise al mondo Oreste,
Elettra ed Erigone.
Tantalo,
l’antenato degli Atridi, servì in pasto agli dei, suo figlio Pelope che Zeus
resuscitò. Atreo e Tieste, figli di Pelope, e Ippocoonte e Tindaro, figli di
Ebalo, si disputarono i beni e l’autorità dei loro padri. Nel momento in cui la
famiglia paterna occupava il posto della famiglia matrilineare e il diritto di
primogenitura non era ancora stabilito, i figli lottavano per impadronirsi
dell’eredità del padre. Eschilo mette queste parole nella bocca di Egisto:
“Atreo esiliò mio padre dalla sua patria. Il povero Tieste tornò al focolare,
invocò l’ospitalità... L’empio Atreo offre a mio padre il festino degli ospiti
e il pasto che serve a Tieste è la carne dei suoi figli! Atreo, seduto nella
parte superiore della stanza, divora le dita dei piedi e delle mani che ha
riservato per sé. Le parti irriconoscibili sono offerte a Tieste”.
Quest’orribile pasto e altre leggende sembrerebbero indicare che poco tempo
prima del periodo omerico, c’erano ancora in Grecia dei casi di antropofagia.
Atreo e
Tieste, i due fratelli, hanno la stessa moglie Erope; Clitennestra sposa in
seguito i tre nipoti di Pelope: Agamennone figlio di Atreo, e Tantalo ed Egisto
figli di Tieste. Elena, sorella di Clitennestra, sposa Menelao, fratello di Agamennone.
Questi matrimoni lasciano supporre che la famiglia di Pelope e quella di
Tindaro appartenevano a due clan coniugali, analoghi a quelli dell’Australia
contemporanea.
Addentriamoci
nell’oscuro dramma di Eschilo. La vendetta, “la sete inestinguibile di sangue”,
tormenta l’anima degli dei e dei mortali.
Clitennestra
ed Egisto uccidono Agamennone, l’una per vendicare sua figlia Ifigenia; l’altro
suo padre Tieste, “e ora la morte mi sembrerebbe bella”, grida Egisto alla
vista del cadavere dell’eroe, imprigionato nella rete in cui l’aveva
avviluppato affinché non potesse difendersi; “vedo il nemico nella rete della
giustizia”. A quei tempi la famiglia era incaricata di vendicare l’ingiuria
fatta a uno dei suoi membri; la vendetta era un dovere sacro, un atto di
giustizia.
Elettra.
sorella di Oreste, non piange sulla tomba del padre, essa viene a ravvivare il
suo odio ed eccitarsi alla vendetta. “Zeus, Zeus, invoca, sei tu che fai
sorgere dal fondo degli inferi la vendetta, lenta a punire, la vendetta che
colpisce il mortale audace e perverso: anche sui genitori tu sai compierla.
Come la rabbia del lupo divoratore, è implacabile l’ira che mia madre ha messo
nel mio cuore... O madre odiosa! O donna empia! Tu hai osato seppellire mio
padre come un nemico, i cittadini non hanno seguito i funerali del loro capo;
lo sposo non ha avuto pianti!”
ORESTE. –
Quale oltraggio, grandi Dei! ... Ella ne pagherà il prezzo. Che io la uccida,
poi morirò contento”.
ELETTRA. –
Grava le mie parole nella tua anima, che penetrino attraverso le tue orecchie
fino in fondo, fino al luogo calmo del pensiero. Ecco quel che hanno fatto:
quel che deve seguire domandalo alla vendetta.
“E mentre
Elettra, durante questa scena, soffia l’odio e la vendetta nell’anima di
Oreste, il coro, come la voce della coscienza pubblica, si rivolge agli dei e
ricorda i costumi antichi: “O grandi Parche! Fate che la legge d’equità
trionfi! La giustizia reclama quel che le è dovuto, la sua voce risuona e ci
grida: che l’oltraggio sia punito con l’oltraggio! Che l’omicidio vendichi
l’omicidio! Male per male, dice la sentenza dei vecchi tempi... Non è giusto
rendere a un nemico male per male?... La legge lo vuole, il sangue versato
sulla terra domanda un altro sangue... La terra nutrice ha bevuto il sangue
dell’omicidio; è seccato, ma la traccia resta indelebile e grida vendetta”.
Un dio,
Loxias (soprannome di un Apollo ambiguo, equivoco – NdT), impone a Oreste il
dovere della vendetta. “Sento ancora risuonare la voce formidabile di Loxias.
Il cuore riempito di vita, devo subire l’orribile assalto del male se non
perseguito gli assassini di mio padre; se non colpisco, come hanno colpito; se
non vendico su di loro la perdita di tutti i miei beni”.
Solo i
barbari, come i Greci dei tempi omerici, o i pellerossa d’America, sentono il
cuore bruciare violentemente giorno e notte, senza intermittenza, finché non
abbiano versato il sangue per il sangue. Trasmettono di padre in figlio il
ricordo dell’omicidio di un parente, di un membro del clan, fosse anche quello
di una vecchia”.
Si citano
dei selvaggi che non potendo vendicarsi si sono suicidati. I moralisti, gli
economisti e persino i poeti e i romanzieri, che hanno, tuttavia, una
psicologia meno fantasiosa di quella dei filosofi, ripetono da talmente tanto
tempo che l’uomo è sempre stato lo stesso, che si è finito per ammettere che in
ogni epoca le stesse passioni avevano fatto battere il cuore degli esseri
umani. Niente di più falso: il civilizzato prova altre passioni del barbaro; il
desiderio della vendetta non corrode il suo cervello come del vetriolo.
Nessun
crimine spaventa i barbari torturati dal bisogno della vendetta. Per dieci
lunghi anni, Clitennestra attende il momento di vendicare sua figlia:
Assassinato Agamennone, essa è ubriaca e ritraccia con una gioia feroce la
scena dell’omicidio: “Due volte, l’ho colpito due volte, lancia un grido
lamentoso e le sue membra si distendono. Caduto, un terzo colpo lo finisce...
La vittima spira, le convulsioni della morte fanno sprigionare del sangue dalle
ferite e la rugiada dell’omicidio cade in gocce nere su di me, una rugiada
dolce per il mio cuore quanto la pioggia di Zeus sui campi nella stagione in
cui la spiga esce dall’involucro. Ecco quel che è successo. Voi che vedo in
questi luoghi, vecchi di Micene, non m’importa che condividiate o condanniate
la mia gioia: io mi applaudo per la mia azione. Se fosse permesso brindare su
un cadavere, è qui che sarebbe giusto ringraziare gli dei... Ecco Agamennone,
il mio sposo, ed ecco la mano che lo ha ucciso. Il necessario è frutto di una
degna lavoratrice. Ho detto.”
Clitennestra
ignora il rimorso; “mai lo spavento metterà piede sulla soglia del suo
palazzo”, essa ha vendicato il suo sangue, ha ucciso l’uomo che ha “immolato il
frutto beneamato del suo ventre”; sono le dee Ate (la fatalità) e Dike (la
giustizia), sono le Erinni che l’hanno aiutata a sgozzare quest’uomo”. Essa ha
compiuto un dovere sacro e spande la sua gioia. L’opinione pubblica ratifica il
suo atto lasciandola vivere in pace finché il figlio di Agamennone sia in età
di vendicarlo. L’opinione pubblica è potentissima tra i popoli primitivi; è
l’autorità che nessuno domina, che persegue spietatamente quelli che infrangono
i costumi, gli usi; per fuggirla i colpevoli abbandonano il paese, si esiliano
finché i loro crimini siano dimenticati. L’uomo assassinato da Clitennestra era
un guerriero celebre che tornava vincitore da una gloriosa spedizione. La
Grecia omerica si arma per punire il ratto di una donna e l’omicidio del più
grande dei Greci resta impunito.
Uccidere uno
dei suoi mariti, un guerriero illustre, non spaventa Clitennestra. Alzare la
mano su sua madre, anche per vendicare suo padre, sembra invece a Oreste il più
spaventoso dei delitti: eppure non prova il minimo affetto per sua madre; non
l’ha mai conosciuta; l’accusa di averlo spogliato dell’eredità paterna, di
averlo esiliato. Bisogna che Loxias ecciti la sua audacia, gli assicuri che la
sua azione non sarà considerata un crimine; quanto alla punizione se
disobbedisse agli ordini, non osa dirlo, ma sarebbe talmente spaventosa che
nessuna immaginazione saprebbe spingersi a simili orrori”. Apollo, il nuovo
dio, lo spinge a uccidere sua madre per vendicare suo padre, mentre le
Eumenidi, le vecchie dee che vegliavano affinché i crimini contro i genitori
fossero vendicati, lo lasciano tranquillo; esse stimavano l’omicidio di un marito
un crimine ordinario che non le riguarda, poiché il marito non ha lo stesso
sangue di sua moglie.
Clitennestra,
armata de ”l’ascia omicida”, si precipita a combattere l’assassino di Egisto,
suo marito. Infervorato dal suo primo omicidio, la spada alla mano, Oreste si
precipita su sua madre gridando: cerco anche te; lui ha la sua paga”.
Tuttavia
quando si riconoscono, si fermano, esitano. Clitennestra, questa donna
terribile, supplica, non si difende; versare il sangue di suo figlio sarebbe versare
il sangue del suo clan, il grande crimine delle epoche primitive.
CLITENNESTRA.
– Fermati, figlio mio!
L’arma cade
dalle mani di Oreste che si rivolge al suo amico:
ORESTE. –
Pilade, che cosa devo fare? Devo retrocedere dinanzi al crimine di mia madre?
PYLADE. – E
gli oracoli di Loxias! E la fedeltà ai tuoi sermoni.
ORESTE. – Lo
vedo, hai ragione, i tuoi consigli sono giusti.
CLITENNESTRA.
– Non temi la maledizione di una madre, figlio mio... pensaci: guardati dai
cani rabbiosi che vendicano una madre.
Nella
mitologia antica, c’erano dei mostri e delle dee, specialmente incaricate di
punire i matricidi; Zeus, il nuovo dio, sarà il vendicatore dei padri. Il
parricidio è un crimine nuovo che non poteva esistere quando non si conosceva
il proprio padre.
Appena
Oreste commette il crimine, la paura invade la sua anima: invoca il Sole “perché
contempli le opere empie di mia madre. Bisogna che un giorno, se mi si accusa,
si possa testimoniare che ho dato giustamente la morte a mia madre... Non so
come tutto ciò finirà; come dei corrieri ardenti, i miei sensi indocili mi
trasportano mio malgrado; il mio cuore già sospira di paura”.
È pazzo: –
“Ha! Ah! Vedete, schiavi, vedetele come Gorgoni, vestite di nero, circondate dalle
contorsioni di innumerevoli serpenti”.
IL CORO. – Quali
visioni ti sconvolgono, o figlio il più devoto?
ORESTE. –
Delle visioni! Il tremendo supplizio è troppo reale, si tratta proprio dei cani
rabbiosi che vendicano mia madre.
Se dopo
l’omicidio di uno dei suoi mariti, Clitennestra poteva rimanere a Micene senza
essere perseguita dalla collera divina e dall’indignazione pubblica, per
sfuggire alla collera popolare Oreste è obbligato a fuggire, a esiliarsi da Micene,
ad abbandonare i beni del padre che cercava di riconquistare con la morte di
Egisto.
Le due prime
parti della trilogia di Eschilo (Agamennone
e Le Coefore) sono il dramma della
vendetta; la terza parte, Le Eumenidi,
è la lotta del diritto materno e del diritto paterno, del diritto antico e del
diritto nuovo.
Le Eumenidi,
queste figlie della Notte che le ha create per la punizione dei crimini, per il
mantenimento della vendetta familiare e dei costumi antichi, sono il terrore
dei nuovi dei. Apollo le ingiuria: “Sono delle abominevoli vecchie, antiche
vergini la cui stirpe fa orrore agli dei, agli uomini e persino ai bruti: Sono
nate solo per il male”.
Difendono
l’autorità materna: quando esse spariranno o quando il loro potere sarà
annullato dai nuovi dei, la madre non avrà più protezione né tra gli uomini né
tra gli dei, né in terra né agli inferi né nei cieli: Finché esse mantengono la
loro potenza, l’omicidio della madre è il più grave dei crimini: “Il sangue
materno, una volta versato sulla terra, non si riscatta più. Tu devi dare del
sangue per questo sangue, dicono le Eumenidi a Oreste: bisogna che il tuo corpo
ben vivo calmi la nostra sete; bisogna che ci dissetiamo a grandi sorsi con la
rossa e amara bevanda... Ti condurremo in inferno dove subirai il supplizio dei
matricidi”.
Né Omero né
Virgilio né Dante né alcun poeta o visionario cristiano che sia sceso in
inferno ci parla dei supplizi riservati agli assassini di madri: perché sono
scomparsi dal catalogo delle torture infernali appena la madre ha smesso di
essere la base della famiglia. Allora, questa punizione era “la follia, il
delirio, la disperazione: l’inno delle Eumenidi che incatena le anime, l’inno
senza lira il cui veleno consuma i mortali”.
Le Eumenidi
non menzionano mai i loro padri; esse implorano la madre, la Notte; le
denunciano “il figlio di Lattone; ci ha sottratto la nostra preda che ci aveva
dedicato l’omicidio di una madre... Ecco quel che osano i nuovi dei, essi
regnano senza equità. Figlio di Zeus, giovane dio, tu oltraggi delle antiche
dee. Salvare quest’uomo, fatale per quella che l’ha generato; sottrarre alla
nostra vendetta l’assassino di sua madre! E tu sei un dio! Chi dirà che questo
è rendere giustizia?”
Esse
abbandonano Oreste per prendersela con Apollo, è lui il violatore della legge
antica. “Tu non sei il complice del crimine di Oreste, tu hai fatto tutto; sei
il solo autore. Il tuo oracolo gli ha ordinato di uccidere sua madre”.
APOLLO. – Il
mio oracolo gli ha ordinato di vendicare il padre.
IL CORO
DELLE EUMENIDI. – C’’è una violenza che possa forzare un uomo a uccidere sua
madre?
APOLLO. – Suvvia!
Quando una donna uccide suo marito.
IL CORO. –
Perlomeno non versa il suo proprio sangue.
Giacché il
marito non apparteneva allo stesso clan della donna, non toccava ai suoi figli
di vendicarlo poiché, secondo l’idea primitiva, non erano dello stesso sangue.
APOLLO. –
Così tu riduci a niente quei giuramenti nuziali di cui sono garanti Giunone e
Zeus. Insomma! T’irriti per il crimine di Oreste e il crimine di Clitennestra
non ti ha turbato.
IL CORO
DELLE EUMENIDI. – Non era dello stesso sangue dell’uomo che ha ucciso... così
Zeus, secondo te, ha pronunciato quest’oracolo; è lui che ha ordinato a Oreste
di vendicare l’assassinio del padre senza prendere in conto i diritti della
madre! Zeus sarebbe dunque il vendicatore dei padri? Eppure ha incatenato suo
padre, il vecchio Saturno”.
San Basilio
e i padri della Chiesa greca rilevavano con vivacità le incoerenze mitologiche
per sviare l’attenzione da quelle della Bibbia e citavano questo passaggio di
Eschilo. Zeus che ha incatenato suo padre e Saturno che ha tolto il trono a suo
padre Urano, non commettevano delle azioni reprensibili secondo la legge
antica: finché dura la filiazione matrilineare, il padre e il figlio
appartengono a clan diversi: possono venire alle mani, ammazzarsi senza che ci
sia parricidio o infanticidio.
Apollo e le
Eumenidi si rivolgono a Minerva per tranciare il dibattito: la scelta di una
dea come arbitro è una concessione ai costumi antichi.
Minerva e i
nuovi dei vogliono abolire la vendetta; desiderano che la società s’incarichi
della punizione dei crimini, lasciata fino ad allora ai membri della famiglia.
La giustizia civile deve rimpiazzare la giustizia familiare. Per informarsi
sulla causa e giudicarla, Minerva istituisce una giuria, l’Areopago; deve
“durare per sempre... e diventare l’arbitro di Atene. Per la prima volta questa
giuria porterà la sentenza a proposito del sangue versato... e che mai, per
vendicare l’omicidio, un omicida si levi infuriato in Atene”.
Un’altra
leggenda racconta che l’Areopago rese la sua prima sentenza a proposito di
Cefalo che per errore aveva ucciso sua moglie: la condanna fu l’esilio. È
curioso vedere collegato all’omicidio di una donna da parte del marito
l’istituzione dell’Areopago che non dovrà più occuparsi di una tale questione
una volta che la filiazione paterna si sarà radicata nei costumi; la nuova
legge concedendo al marito il diritto di vita e di morte sulla moglie.
Le Eumenidi
danno al dibattito la sua portata sociale: “Se la causa di quest’uomo trionfa,
nuove leggi sconvolgeranno il mondo... il palazzo della giustizia crollerà in
rovina”.
Oreste le
accusa di non aver perseguito con la loro collera colei che aveva ucciso suo
padre e il marito. Esse rispondono ancora: “Lei non era dello stesso sangue
dell’uomo che ha ucciso”.
ORESTE. – Ed
io sono dunque del sangue di mia madre?
IL CORO
DELLE EUMENIDI. – Scellerato! Vuoi rinnegare il proprio sangue di tua madre?
Rinnegare il
sangue della madre! Dei pellerossa hanno preferito essere legati al palo della
tortura piuttosto che essere adottati in un nuovo clan, rinnegando
conseguentemente il sangue della madre. Tuttavia, Oreste è il personaggio
simbolico che deve eliminare tutti i costumi della famiglia materna. Versa il
sangue di sua madre, rinnega quel sangue per scusare il suo crimine; e per
dimostrare che non è del sangue di sua madre, sposa Ermione, la figlia di
Elena, sorella di Clitennestra; sposare la cugina di lato materno era agli
occhi degli uomini primitivi un incesto altrettanto spaventoso che per noi il
matrimonio di un padre con sua figlia: abbiamo visto con qual furore gli
australiani cacciavano quanti, anche per errore, commettevano un tale crimine.
In seguito Oreste sposò Erigone, figlia di sua madre Clitennestra, ma con
Egisto come padre.
Le Eumenidi,
sentendosi condannate dai nuovi dei, invocano la giustizia umana. “Quest’uomo
che ha versato sulla terra il sangue di sua madre, il sangue che lo ha animato,
andrà ad abitare a Micene nella casa paterna! A quale altare pubblico oserà fare
dei sacrifici? Quale fratria vorrà ammetterlo alle sue libagioni”?
Allora
Apollo porta il colpo decisivo; attacca la donna nella sua funzione essenziale,
quella che assicurava la sua superiorità, la sua funzione materna: “Non è la
madre che genera quel che si chiama suo figlio, argomenta, essa non è che la
nutrice del germe versato nel suo seno; colui che genera è il padre. La donna
riceve il germe altrui come un depositario straniero e quando piace agli dei,
lo conserva. La prova di quel che avanzo è che si può diventare padre senza
bisogno di una madre; lo testimonia quella dea, figlia di Zeus, del re
dell’Olimpo. Essa non è stata affatto nutrita nelle tenebre del seno materno e
quale dea avrebbe prodotto una tale prole”?
Minerva,
risposta dell’uomo alle insolenti partenogenesi delle prime dee che si
vantavano di concepire senza il soccorso del maschio, era la protesta vivente
contro la famiglia materna. Essa è convinta in anticipo; confessa cinicamente
la sua parzialità; “Non ho una madre a cui devo la vita; quel che favorisco
dovunque è il sesso virile... Sono completamente per la causa del padre. Non
posso dunque interessarmi alla sorte della donna che ha ucciso il suo sposo, il signore della casa”.
La madre non
è più che una capsula contenente il “germe”, secondo l’espressione egizia. La
donna ha capitolato. Cento anni più tardi, nell’Oreste, Euripide si serve dello stesso argomento antifisiologico
che si ritroverebbe presso tutti i popoli se se ne possedessero tutte le
leggende. Nel diciottesimo secolo, quando si perfezionò il microscopio, dei
sapienti crederono di vedere l’homunculus,
l’essere umano in miniatura microscopica: gli si scopriva una testa, dei membri
e persino degli organi interni.
“Ah!
divinità novelle, urlano le Eumenidi disperate, voi avete calpestato delle
leggi antiche, ci avete strappato di mano tutta la nostra potenza”.
Il ruolo
delle Eumenidi è finito. La donna è scesa dal suo rango superiore. Il figlio
non apparterrà più alla madre Il padre sarà il signore della casa, come dichiara Minerva: il figlio comanderà alla
madre. Telemaco ordinerà a Penelope di uscire dalla stanza del festino e di
ritirarsi nell’appartamento delle donne. Gesù, il nuovo Dio, dirà a Maria:
“Donna, che cosa c’è di comune tra voi e me? ” e aggiungerà che è venuto in
terra per eseguire gli ordini di suo padre e non per occuparsi delle
inquietudini di sua madre. “La famiglia e il culto si perpetueranno attraverso
il padre; rappresenterà da solo tutta la serie dei discendenti, il culto domestico
riposerà su di lui, potrà quasi dire come l’Indù: sono io il Dio. Quando la
morte verrà, sarà un essere divino che i discendenti invocheranno”.
La donna,
trattata da minore, sarà sottomessa al padre, al marito, ai genitori di lui, se
questi dovesse morire. Sarà spogliata dei suoi beni: i maschi e i discendenti
dei maschi escluderanno le donne e i discendenti delle donne dall’eredità della
proprietà di famiglia. Catone il vecchio formulerà così il nuovo codice
coniugale: “Il marito è giudice della donna; il suo potere non ha limiti; può
quel che vuole. Se essa ha commesso qualche colpa, la punisce: se ha bevuto del
vino, la condanna; se ha avuto commercio con un altro uomo, la uccide”. La
legge di Manu[7]
condannava la donna che aveva “ effettivamente violato il suo dovere verso il
suo signore, a essere divorata dai cani in un luogo molto frequentato”.
Un nuovo
crimine era nato: l’adulterio.
La Clitennestra
di Eschilo che, a conoscenza di tutti, vive con Egisto, il cugino di Agamennone
suo secondo marito, potrà dire ai vegliardi di Micene: “Non ho rotto il sigillo
del pudore e della segretezza”. Nelle Eumenidi,
Oreste e Apollo l’accuseranno dell’omicidio di Agamennone, ma non di aver
tradito la fede coniugale. Tuttavia, più di cinque secoli dopo la presa di
Troia, Eschilo drammatizzava una leggenda che aveva dovuto perdere la sua
nettezza al contatto delle idee e dei costumi novelli. Cento anni dopo Eschilo,
Euripide riprendeva lo stesso tema: la sua Clitennestra è assassina e adultera.
Essa ha consumato un’unione colpevole... ha sporcato il letto coniugale. Sulla
piazza pubblica, Oreste trova come difensore “un cittadino dal cuore valente,
integro, dalla vita irreprensibile. Propone d’incoronare il figlio di
Agamennone per aver voluto vendicare suo padre uccidendo una donna cattiva ed
empia, a causa della quale un cittadino non vorrebbe armare il suo braccio e
partire in spedizione lontano dal focolare se quelli che restano corrompono le
guardiane della casa e sporcano il letto coniugale. Nell’Elettra, Clitennestra è fatta scendere della sua altera dignità;
diventa una donna sottomessa che richiede le circostanze attenuanti; essa rigetta
su Agamennone il suo adulterio: “Se lo sposo si dimentica fino a disdegnare il
letto coniugale, la sposa segue volentieri il suo esempio e cerca altrove un
amante”.
La donna
conquistava un nuovo dovere, la fedeltà coniugale; tuttavia, relegata al fondo
del gineceo, sotto l’oppressione maritale, essa perde il suo ruolo storico. Nei
tempi omerici, la donna è il centro delle leggende; dovunque essa mostra la
potenza della sua azione: la tradizione, conservata principalmente dagli
uomini, ha preservato soprattutto il ricordo dei suoi crimini.
Eschilo
l’attacca ne Le Coefore con un tal
furore che si deve supporre che la donna del suo tempo non fosse ancora
completamente sottomessa al giogo degradante del maschio.
IL CORO. –
Chi dirà tutta la rabbia di una donna impudente... L’amore nel cuore di una
donna non è più dell’amore; è un delirio al quale non sono mai arrivati, al
momento dell’accoppiamento, gli animali selvaggi né i bruti:
“Ricordati
della figlia di Testio (la madre di Meleagro)[8],
questa madre fatale a suo figlio... Odio ancora per la sanguinaria Scilla (che
consegnò la città di Megara e suo padre Niso a Minosse, suo amante). Di tutti i
crimini, però, il più tristemente famoso è quello di Lemno (il massacro degli
uomini da parte delle donne).
Mentre la
sposa spariva dalla vita pubblica, degradata, avvilita dalla nuova
organizzazione della famiglia, infangata a teatro dalle insultanti e impudiche
offese di Aristofane che i padri della Chiesa, i moralisti e gli spiritosi di
ogni tempo hanno servilmente ripetuto, la cortigiana, la prostituta corteggiata
dai professionisti, dai ricchi e dai potenti, cantata dai poeti, adulata dai
filosofi, tollerata in fondo al tavolo, s’impadroniva del posto da cui era
stata scacciata la madre di famiglia. Gli ateniesi che ebbero il triste onore
di segnalarsi per un asservimento familiare tanto duro della donna, si
dedicavano, con l’approvazione dei filosofi moralisti, a costumi infami che,
secondo Erodoto esportavano in tutti i paesi in cui passavano. Zeus “il padre
degli Dei”, “il vendicatore dei padri”, “il guardiano della fede coniugale”,
meritava di essere l’amante di Ganimede.
VI
La farsa
dopo la tragedia
La teoria
fabbricata da Apollo per spiegare il ruolo preponderante del padre nell’atto
della generazione, non arrivò a convincere lo spirito positivo della base
popolare che preferisce un fatto tangibile a tutti i ragionamenti della
sofistica. Ha usato un metodo diverso per autorizzare la sostituzione del padre
alla madre nella direzione della famiglia.
Si conosce
la covata basca: la donna partorisce,
il marito si corica, geme e si contorce; i compari e le comari del vicinato
vengono a complimentarsi con gravità per la sua felice liberazione. Questo
curioso costume che Strabone aveva già segnalato tra gli Iberi, s’è conservato
fino ai nostri giorni. Ci si era immaginato che solo i Baschi fossero tanto
amici della farsa da dare ai loro amici e conoscenti lo spettacolo di una scena
così grottesca. Tuttavia, quando gli Europei scoprirono l’America, si accorsero
che i loro correligionari della Biscaglia e della Guipuzcoa non erano i soli a
mettere in scena la covata. “Tra gli Apiponnes,
scrive un missionario, appena la donna ha messo al mondo un bambino, si vede il
marito mettersi a letto: lo si circonda di cure, digiuna per un certo periodo,
giurereste che è lui che ha appena partorito”. – “Presso altri indigeni, scrive
un viaggiatore, il marito si mette tutto nudo nell’amaca; è curato dalle donne
del vicinato, mentre la madre del nuovo nato prepara la cucina, senza che
nessuno si occupi di lei”.
Questo
costume è stato osservato un po’ dappertutto: in Europa, in Africa, in Asia,
nel vecchio e nel nuovo mondo; nel presente e nel passato. Marco Polo l’ha
trovato nello Yunnam, nel tredicesimo secolo. Apollonio, vissuto due secoli
prima della nostra era, racconta che le donne del Ponto Eusino mettono al mondo
i loro figli con la partecipazione degli uomini che si coricano, lanciano delle
grida penetranti, si fasciano la testa, si fanno preparare dei bagni e sono delicatamente
nutriti dalle loro mogli” – “I ciprioti, dice Plutarco, si mettono a letto e
imitano le contorsioni della donna incinta”. Gli ateniesi celebravano il due
del mese gorpeius (settembre), una
festa in onore di Arianna; durante il sacrificio “ un giovane, coricato in un
letto, imitava i movimenti e le grida di una donna partoriente” (PLut. Teseo XVIII). Potrei moltiplicare le
citazioni, ma queste bastano per stabilire che questo ridicolo costume è stato
assai diffuso su tutta la terra.
Gli dei,
queste scimmie dell’uomo, non consideravano la commedia della covata indegna
della loro maestà. Zeus si mise a letto, lanciò dei gemiti e giurò che aveva portato
nella sua coscia il piccolo Bacco che sua madre aveva appena messo in paradiso:
per privilegio raro Bacco era Bimétor, di madre doppia; i civilizzati si accontentano
di essere di diversi padri. Zeus non era al suo primo parto, aveva già
partorito Minerva.
La covata
dei Baschi non era che un divertente soggetto di battute finché la si è creduta
una particolarità di questo popolo così originale; tuttavia, il fatto di
ritrovarla presso popoli tanto diversi e persino nell’Olimpo, merita
considerazione. L’uomo, il più crudele e il più grottesco degli animali,
traveste talvolta i fenomeni sociali più considerevoli con le cerimonie più
ridicole. La covata è una delle soperchierie impiegate dal maschio per
spogliare la donna dei suoi beni e del suo rango. Il parto proclamava il
diritto superiore della donna nella famiglia: l’uomo ha parodiato il parto per
convincersi di essere davvero l’autore del figlio.
La famiglia
patriarcale fece la sua entrata nel mondo scortata dalla discordia, dal crimine
e dalla farsa degradante.
[1] Nella parte settentrionale dello
Stato indiano del Kerala (NdT).
[2] Autore del poema epico I Lusiadi, 1572 (NdT).
[3] Popolazione di etnia Tuareg del
Sahara sudorientale (NdT).
[4] Il termine Hova designa la più
importante suddivisione del popolo dei Mérinas nelle alte terre centrali del
Madagascar (NdT).
[5] Regione del sudovest della Turchia
(NdT).
[6] Lafargue usa qui in francese,
l’identificazione greca di Seth: Typhon (NdT).
[7] Essa fa parte dei dharmaśāstra,
ossia uno dei trattati hindu di diritto che raccolgono le regole del vivere
umano secondo il dharma (NdT).
[8] Si tratta di Altea che causò la
morte del figlio prima di togliersi la vita (NdT).
Le matriarcat
Etude sur les
origines de la famille
Paru en feuilleton dans Le
Socialiste, du 4 septembre au 16 octobre 1886.
Nous vivons sous le régime de la
famille patriarcale : autour du père, reconnu par les mœurs et la loi chef de
la petite société familiale, se groupent la femme et les enfants : son nom seul
descend le cours des générations : autrefois la propriété se transmettait par
les mâles. La Bible, les livres sacrés de l'Orient, la plupart des philosophes,
des historiens et des hommes d'Etat ont admis comme une vérité indiscutable,
que cette forme familiale présida à l'origine des sociétés humaines et qu'elle
traverserait les siècles à venir en ne subissant que d'insignifiantes
modifications. Pour le vulgaire et pour les esprits cultivés la famille
patriarcale est encore la seule forme familiale selon la raison et selon la
nature : les jurisconsultes romains, eux aussi, pensaient que le jus gentium était l'expression juridique
du Droit naturel. Afin de donner une autorité morale à leurs institutions
civiles, politiques et religieuses, à leurs mœurs et à leurs coutumes, les
hommes les ont toujours présentées comme des manifestations de la loi naturelle
et des émanations de la divinité. Les droits et les devoirs religieux, moraux
et politiques de la femme reposent sur cette notion de la famille, qui naît
avec l'histoire.
L'axiome social : – le père est
le chef naturel de la famille monogamique ou polygamique, réputé plus
inébranlable que le roc, s'effrite au souffle impie de la science, aussi bien
que d'autres vérités vénérées de toute antiquité. Il y a beau jour que cette
vérité éternelle aurait été mise en doute, si les faiseurs de philosophie de
l'histoire ne s'étaient pas laissé aveugler par les préjugés sociaux, s'ils
avaient tenu compte des faits connus, s'ils n'avaient pas dédaigné, comme des
fantaisies individuelles et sans portée, les opinions avancées par les cyniques,
les stoïciens, les gymnosophistes et les platoniciens sur la communauté des
femmes et des biens, s'ils n'avaient pas ridiculisé les théories des
socialistes modernes sur la communauté des biens et la liberté de l'amour. Il a
fallu attendre jusqu'à l'année 1861, pour qu'il vint un homme de science vaste
et d'intelligence hardie, démontrant que dans les sociétés primitives d'autres
formes familiales avaient existé : c'est en 1861 que Bachofen publiait Das Mutterrecht (le droit de la mère) .
Son importante découverte, qu'un épais nuage mystique enveloppait, aurait
peut-être passé inaperçue, si, quelques années après, des écrivains anglais,
tels que Mac Lennan, Lubbock, Herbert Spencer, Tylor, etc., groupant
confusément d'après des idées fausses et conçues à la hâte, les nombreux récits
des voyageurs anglais, n'avaient attiré l'attention sur des peuples ne
connaissant pas la famille paternelle. Mais l'honneur d'avoir établi d'une
manière scientifique que les sociétés humaines débutent par la promiscuité sexuelle
et ne parviennent à la famille paternelle qu'après avoir traverse une série graduée
de formes familiales, revient au profond penseur américain, Lewis H. Morgan. Il
est le premier qui ait mis un ordre raisonné dans le fouillis inextricable de
faits curieux, étranges et souvent contradictoires, recueillis par les
historiens de l'antiquité, par les anthropologistes sur l'homme préhistorique,
et par les voyageurs sur les peuples modernes. Son grand ouvrage, Ancient Society, publié à Londres en
1877 est le résumé de travaux parus dans les publications de la Smithsonian Society de Washington,
auxquelles il avait consacré quarante années de recherches arides, patientes et
consciencieuses. Friedrich Engels, complétant les travaux de Morgan par les études
économiques et historiques de Karl Marx et par les siennes propres, a exposé
dans la forme brève, limpide et alerte qui lui est spéciale, les investigations
faites sur l'origine de la famille, de l'Etat et de la propriété privée.
M. Dumas fils, dans une de ses préfaces, que
rachète leur longueur par leur banalité, écrit qu'il est difficile, sinon
impossible de reproduire sur la scène les rapports entre hommes et femmes de la
vie mondaine, de peur d'effaroucher la pudeur timorée des dames qui ne sont
chastes que par les oreilles. Mais la pudeur des messieurs, de M. Dumas tout le
premier, est encore plus corsée. Ils ont des idées si stéréotypées sur la
pudeur native des femmes, des règles si précises pour leur conduite privée et publique,
que tout fait, toute idée qui ne porte pas l'estampille de la morale civile et
usuelle les offusque. Ils ne sauraient admettre qu'il y ait sur terre et dans
le ciel des choses que ne reveut pas leur philosophie, comme disait Hamlet à
Horatio.
Mais les faits recueillis chez tous les peuples
anciens et modernes sont si nombreux, les théories qu'ils ont contribué à
élaborer sont si positives, que si l'on veut comprendre l'évolution de l'espèce
humaine, il faut déposer aux portes de la science historique les idées
prudhommesques qui meublent la tête des civilisés.
I
A la fin du XVº siècle, lorsque Vasco de Gama
aborda sur les côtes de Malabar, les Portugais débarquèrent au milieu d'un
peuple remarquable par l'état avance de sa civilisation, le développement de sa
marine, la force et l'organisation de son armée, la richesse de ses villes, que
chanta Camoens, le luxe des habitants et la politesse de leurs mœurs ; mais la
position sociale de la femme et la forme de la famille bouleversèrent toutes
leurs idées apportées d'Europe. – Bachofen a rassemblé, dans ses Antiquarische Briefe, des documents sur
la famille naïre de sources les plus diverses, d'écrivains arabes, portugais,
hollandais, italiens, français, anglais et allemands, depuis le moyen âge
jusqu'à l'époque moderne.
La famille naïre a donné des preuves
exceptionnelles de vitalité : elle a su résister au christianisme, à l'oppression
de l'aristocratie brahmanique aryenne et à la religion musulmane. Cette tenace
institution familiale se maintint chez les peuples de Malabar jusqu'à
l'invasion de Hyder-Ally en 1766.
Les Naïrs, l'élément aristocratique du pays,
formaient de grandes familles de plusieurs centaines de membres, portant le
même nom, analogues au clan celtique, à la gens romaine, au génos grec. Les
biens immobiliers appartenaient en commun à tous les membres de la gens ;
l'égalité la plus complète régnait entre eux.
Le mari, au lieu de vivre avec sa femme et ses
enfants, demeurait avec ses frères et sœurs dans la maison maternelle ; quand
il l'abandonnait, il était toujours accompagné de sa sœur favorite ; à sa mort,
ses biens mobiliers ne retournaient pas à ses enfants mais étaient distribués
entre les enfants de ses sœurs.
La mère ou à son défaut, sa fille aînée était le
chef de la famille ; son frère aîné, nommé le nourricier, en gérait les biens ;
le mari était un hôte ; il n'entrait dans la maison qu'à des jours déterminés
et ne s'asseyait pas à table à côté de sa femme et de ses enfants. Les Naïrs,
dit Barbosa, ont un respect extraordinaire pour leur mère ; c'est d'elle qu'ils
reçoivent biens et honneurs ; ils honorent également leur sœur aînée, qui, doit
succéder à la mère et prendre la direction de la famille.
La dame naïre possédait plusieurs maris de
rechange, dix et douze et même davantage, si le cœur lui en disait ; ils se
succédaient à tour de rôle, chacun avait son jour conjugal marqué, pendant
lequel il devait subvenir aux frais du ménage ; il pendait à la porte son épée
et son bouclier pour indiquer que la place était occupée. La gloire et le renom
de la dame se mesuraient au nombre de maris coopérant à son entretien. Le
mari pour ne pas jeûner les jours où il n'avait pas accès auprès de sa dame,
faisait partie d'autres sociétés matrimoniales ; il pouvait à son gré se
retirer d'une association conjugale pour entrer dans une autre, et la dame
avait le droit de le répudier s'il lui déplaisait ou remplissait mollement ses devoirs.
La femme naïre était polyandre et l'homme polygyne.
Les enfants appartenaient à la mère, elle se
chargeait de les nourrir. "Aucun Naïr, dit Buchanan, ne connaît son père.
Chaque homme regarde comme ses héritiers les enfants de sa sœur ; il les aime
du même amour que dans les autres parties du monde, les pères aiment leurs
enfants. On regarderait comme un monstre celui qui, à la mort d'un enfant qu'il
supposerait sien à cause de la ressemblance et de la longue cohabitation avec
la mère, montrerait autant de chagrin qu'à la mort d'un enfant de sa sœur".
Les Naïrs semblaient avoir pris à tâche de déranger
les idées morales des braves Européens. Le droit de possession d'une vierge,
réservé aux seigneurs féodaux comme un de leurs plus précieux privilèges, et acheté
par les seigneurs du capital, à fort bas prix il est vrai, était considéré par
les Naïrs comme une corvée. Pour déflorer les vierges, ils employaient des
étrangers, des hommes du port qui recevaient un salaire, préalablement débattu.
Bartema raconte que dans la ville de Tarnassari, les rajahs chargeaient les
étrangers de tenir compagnie à leurs femmes pendant les premières nuits de
noces. Georges IV d'Angleterre partageait l'opinion des Naïrs: il disait que
c'était là un travail de palefrenier. Barbosa qui fait une si leste description
de la cérémonie nuptiale, s'écrie avec une indignation toute chrétienne
:"Dans l'opinion de ces païens, une fille qui mourrait vierge n'irait pas
au paradis". Le cadavre des vierges était violé, la virginité devenant là
un péché mortel !Si ces mœurs étranges eussent été observées chez des sauvages
placés au dernier échelon de l'espèce humaine, on aurait tout prêt le jugement
porté par les Espagnols sur les Peaux-Rouges, qu'ils massacraient sauvagement :
– "Les Naïrs sont des gens sans raison – gentes sin razon". Les chrétiens de nos jours et beaucoup de
savants anthropologistes avec eux, pourraient ajouter : – "Les Naïrs sont
des peuplades dégénérées, leurs mœurs abominables portent témoignage de leur
dégradation". Les Naïrs, au contraire, formaient l'aristocratie indigène
d'un peuple policé, à coup sûr plus civilisé que les Portugais du XVIº siècle.
On pourrait sa poser cette question : la famille
naïre basée sur la communauté des biens dans le sein du clan, sur la polygamie
des deux sexes, sur la suprématie de la mère, maîtresse souveraine de la
maison, son frère aîné n'étant qu'une espèce de majordome, sur la filiation
maternelle, la mère seule transmettant à ses enfants son nom, son rang et ses
biens, serait-elle un de ces faits anormaux, une de ces monstruosités sociales
engendrées par des circonstances tellement exceptionnelles, qu'elle n'ont pas dû
se retrouver ailleurs ? En admettant que chez aucun peuple de la terre on n'eut
observé depuis les temps historiques des mœurs analogues, l'homme de science
hésitant, ne devrait-il pas se dire : – Rien n'est miraculeux. La tératologie
de Geoffroy Saint-Hilaire classe dans la série animale le monstre, qui n'est
qu'un organisme arrêté à une de ses phases de développement et reproduisant un
type inférieur de la série. La famille naïre, ce phénomène social, ne
reproduirait-elle pas une des formes familiales primitives, qu'aurait
traversées l'humanité dans le cours de son évolution ?
Mais les mœurs familiales des Naïrs ne sont pas une
exception unique. Si l'on feuillette les récits des voyageurs sur les peuplades
sauvages de l'ancien et du nouveau monde, si, l'esprit débarrassé des préjugés
civilisés et éveillé par les narrations des explorateurs modernes, on relit les
historiens, les poètes et les philosophes de l'antiquité, si l'on analyse les
rites religieux, et si l'on étudie les livres sacrés, on ramasse une abondante
moisson de faits qui démontrent que tous les peuples de la terre ont eu à un moment
de leur passé des mœurs analogues à celles des Naïrs.
II
La famille
maternelle chez d'autres peuples
Transportons-nous en Afrique, au milieu des Touareg
du Nord, et prenons pour guide un voyageur français, M. Duveyrier.
"Le ventre teint l'enfant", dit un
proverbe targui qui se retrouve chez les Hovas de Madagascar. L'enfant targui
suit la condition de sa mère ; si elle est libre et noble, il est libre et
noble, même si le père est esclave. "Si une femme lycienne de condition
libre épouse un esclave, ses enfants sont réputés nobles, rapporte Hérodote. Si
au contraire un citoyen, même du rang le plus distingué, se marie à une
étrangère ou à une concubine, ses enfants sont avilis ". Partus sequitur ventrem était un vieil
adage latin. "Ventre affranchit et ennoblit", disaient les coutumes
de Champagne et de Brie au XIIº siècle.
Les Touareg ont deux sortes de propriétés : 1º les
biens acquis par le travail de l'individu, tels qu'armes, argent, esclaves
achetés, troupeaux, récoltes et provisions, sont individuels ; – 2º les droits
perçus sur les caravanes et les voyageurs, les droits territoriaux sur terres
de parcours et sur terres de culture, sur les eaux ; les droits sur les
personnes et les tribus réduites en servage, le droit de commander et d'être obéi
sont collectifs: ils ne se transmettent pas par ligne mâle, mais reviennent au
fils aîné de la sœur aînée qui les gère dans l'intérêt de toute la famille.
Anciennement, lorsqu'il s'agissait de distribution
territoriale, les terres attribuées à chaque famille étaient inscrites au nom
de la mère. Le droit berbère accorde aux femmes l'administration de leurs
biens; à Rhât, elles seules disposent des maisons, des jardins, en un mot de
toute la propriété foncière du pays.
Les Touareg ne possèdent qu'une parenté, la parenté
utérine : la généalogie est féminine. Le Targui connaît sa mère et la mère de
sa mère, mais ignore son père. L'enfant appartient à la femme et non au mari ;
c'est le sang de celle-ci et non celui de son époux qui confère à l'enfant le
rang à prendre dans la tribu et dans la famille."S'il est un point sur
lequel la société targuie diffère de la société arabe, c'est par le contraste
de la position élevée qu'y occupe la femme comparée à l'état d'infériorité de
la femme arabe. Non seulement chez les Touareg la femme est l'égale de l'homme,
mais encore elle jouit d'une condition préférable. Elle dispose de sa main, et
dans la communauté conjugale elle gère sa fortune, sans être forcée de contribuer
aux dépenses du ménage. Aussi arrive-t-il que, par le cumul des produits, la
plus grande partie de la fortune est entre les mains des femmes".
La femme targuie est monogame, elle a imposé la
monogamie à son mari, bien que la loi musulmane lui permette plusieurs femmes.
Elle est indépendante vis-à-vis de son époux, qu'elle peut répudier sous le
plus léger prétexte : elle va et vient librement. Ces institutions sociales et
les mœurs qui en découlent ont développé extraordinairement la femme targuie ;
"son intelligence et son esprit d'initiative étonnent au milieu d'une
société musulmane". Elle excelle dans les exercices du corps ; à dos de
dromadaire, elle franchit cent kilomètres pour se rendre à une soirée ; elle
soutient des courses avec les plus hardis cavaliers du désert. Elle se
distingue par sa culture intellectuelle : les dames de la tribu de Jmanan sont célèbres
par leur beauté et leur talent musical ; quand elles donnent des concerts, les
hommes accourent des points les plus éloignés, parés comme des mâles
d'autruches. Les femmes des tribus berbères chantent tous les soirs en
s'accompagnant sur le rebâza (violon) ; elles improvisent : en plein désert, elles
font revivre les cours d'amour de la Provence. La femme mariée est d'autant
plus considérée qu'elle compte plus d'amis parmi les hommes ; mais, pour
conserver sa réputation, elle n'en doit préférer aucun. "L'amie et l'ami,
dit-elle, sont pour les yeux et pour le cœur et non pour le lit seulement, comme
chez les Arabes". Mais les nobles dames targuies ne sont point obligées de
mettre leur conduite en contradiction avec leurs sentiments, ainsi que les
héroïnes de la Fronde, qui platonisaient les rapports de l'amante et de l'amant
et qui, selon l'expression de Saint-Evremond, aimaient tendrement leur amant et
jouissaient solidement de leur mari avec aversion. Le mariage des Touareg n'est
pas indissoluble, les couples peuvent se désunir facilement et les femmes
convoler à de nouvelles unions.
Les femmes jouent le principal rôle dans les
légendes du pays ; le même phénomène s'observe dans la Grèce homérique : à
différentes reprises, elles ont exercé le commandement ; une d'elles, Kahiva,
la Marie-Thérèse du désert, au commencement du VIIIº siècle, réunit sous sa
domination les tribus berbères et fut l'héroïne de la résistance nationale
contre l'invasion des conquérants arabes, qui ne réussirent à s'emparer du
littoral de l'Atlas qu'après sa mort. Elle tomba les armes à la main, tuée par
le général arabe Hassan. Il y a quelques années la tribu des Jhéhaouen était
gouvernée par une femme, une Cheikha ; aujourd'hui encore les femmes qui se
distinguent par leurs talents sont admises aux conseils de la tribu.
Les Touareg sont les descendants de ces Libyens
dont parle Hérodote, qui avaient leurs femmes en commun, qui ne demeuraient pas
avec elles, et dont les enfants étaient élevés par les mères. Ils prétendaient
que Minerve était la fille adoptive de Jupiter, car ils ne pouvaient admettre
qu'un homme engendrât sans le secours de l'autre sexe : les femmes seules
étaient capables d'un tel miracle.
Dans la vallée du Nil, cet antique berceau de la
civilisation, les femmes du temps d'Hérodote avaient une situation si
privilégiée, que les Grecs appelaient l'Egypte "un pays à rebours".
L'historien d'Halicarnasse expliquait ce contraste par "la nature du Nil,
si différente de celle des autres fleuves :ainsi les usages des Egyptiens et
leurs lois diffèrent des mœurs et des coutumes des autres peuples... Les hommes
portent les fardeaux sur la tête et les femmes sur les épaules. Les femmes vont
au marché et trafiquent, tandis que les hommes renfermés dans les maisons
travaillent à la toile... Les enfants mâles ne sont point contraints par la loi
de nourrir leurs parents ; cette charge incombe de droit aux filles".
Cette condition imposée aux filles suffirait à elle
seule pour établir que les biens de la famille appartenaient aux femmes, comme
c'était le cas chez les Naïrs et les Touareg : et partout où la femme possède
cette position économique, elle n'est pas sous la tutelle du mari, elle est
chef de famille."En raison des nombreux bienfaits de la déesse Isis, écrit
Diodore de Sicile, il avait été établi que la reine d'Egypte recevait plus de
puissance et de respect que le roi ; ce qui explique pourquoi chez les particuliers
l'homme appartient à la femme selon les termes du contrat dotal, et qu'il est
stipulé entre les époux que l'homme obéira à la femme" . On avait rangé
cette observation de Diodore parmi les histoires merveilleuses dont abondent
les voyageurs qui reviennent de loin : cependant on ne pouvait s'empêcher de
constater que l'association des reines au pouvoir persista jusqu'aux Ptolémées,
en dépit des idées grecques qui conquéraient le pays. Cléopâtre dans les
cérémonies religieuses, revêtait les attributs d'Isis, la mère sainte, et son
époux Antoine, un général romain, suivait à pied son char triomphal.
Les inscriptions funéraires recueillies dans la
vallée du Nil mentionnent fréquemment le nom de la mère, mais non celui du
père. "Parfois, dit M. Révillout, on indique par parallélisme que le
personnage en question était le fils d'un tel. Mais cette désignation
patronymique était très rare dans la langue sacrée... Ajoutons que la femme
mariée, mère ou épouse, est toujours nebt
pas, dame de maison, maîtresse de maison" , M. Révillout est tout scandalisé.
L'analyse des papyrus démotiques du Louvre a permis
au savant égyptologue de constater que les anciens contrats de mariage ne
mentionnent pas les biens de la femme, quelque nombreux et importants qu'ils
aient été, le mari n'ayant aucun droit dessus, tandis qu'on spécifiait la somme
qu'il devait payer à sa femme, soit comme don nuptial, pension annuelle et
amende en cas de divorce. L'épouse est toujours maîtresse absolue de ses biens
qu'elle administre et dont elle dispose à son vouloir. Elle vend, achète, prête,
emprunte ; bref, fait sans contrôle tous les actes de chef de famille. Les
faits rapportés par Hérodote et Diodore, confirmés par les travaux de
Champollion-Figeac et des égyptologues, démontrent que la femme égyptienne
occupait dans la famille la même position que les dames naïrs et targuies.
Mais on possède d'autres preuves ; celles-ci d'une
autre nature.
Les cérémonies et les légendes religieuses
préservent momifiées les coutumes du passe. La Pâque catholique, ce repas
mystique où les fidèles mangent leur Dieu fait homme, la légende hébraïque d'Abraham
immolant un bouc à la place d'Isaac son fils, sont le lointain écho des repas anthropophagiques
et des holocaustes humains. La tête de l'homme élabore les religions avec les
faits qui l'environnent ; mais dans le cours des siècles les faits se
transforment, disparaissent, tandis que la forme religieuse, qui a été leur
manifestation dans l'intelligence humaine, persiste : en étudiant la forme religieuse,
on peut retrouver et reconstituer les phénomènes naturels et sociaux qui lui
ont servi de squelette.
Isis, la déesse des anciens Egyptiens, la mère des
dieux, est venue d'elle-même ; elle est aussi la déesse vierge ; ses temples à
Saïs, la ville sainte, portaient cette fière inscription : Personne n'a jamais
relevé ma robe, le fruit que j'ai enfanté est le Soleil. L'orgueil de la femme
éclate dans ces paroles sacrées ;elle se proclame indépendante de l'homme, elle
n'a pas besoin de recourir à sa coopération pour procréer. La Grèce répliquera
à cette insolente assertion : Jupiter, le père des dieux, enfantera Minerve sans
le secours de la femme, et Minerve, la déesse "qui n'a pas été conçue dans
les ténèbres du sein maternel", sera l'ennemie de la suprématie familiale
de la femme. Isis, au contraire, est la déesse des anciennes coutumes ; elle
épouse son frère, comme au temps de la promiscuité consanguine ; sur ses monuments,
elle déclare : "Je suis la mère du roi Horus, la sœur et l'épouse du roi
Osiris, je suis la reine de toute la terre". Son mari, plus modeste, ne
s'intitule pas le père du roi Horus. Isis est immortelle, Osiris est mortel, il
est tué par Typhon : sa fonction de géniteur, une fois remplie, il devait mourir.
Babylone célébrait, par cinq jours d'orgie
populaire, la déesse Mylita : c'était la fête universelle de la liberté et de
l'égalité primitives ; le Phallus, qui rend tous les hommes égaux, était adoré
; le roi de la fête, pris dans les rangs des esclaves, après avoir joui de la
reine de la cérémonie, la plus belle des hétaïres, était livré aux flammes :
ainsi que le dieu Osiris, sa fonction de géniteur remplie, il devait mourir. La
femme réduisait l'homme à n'être qu'un organe. L'antagonisme des sexes, né avec
l'humanité, dure encore. Le mépris que, dès les temps historiques, les hommes
ont eu pour la femme, mise en tutelle et traitée en courtisane ou en ménagère,
les femmes – les rites religieux le prouvent -, l'ont témoigné aux hommes alors
qu'elles étaient les égales et parfois les supérieures de l'homme.
Dans les sociétés animales communistes, chez les
fourmis, chez les abeilles, le mâle est un parasite ; après l'acte de la
fécondation, on le tue.
III
Mœurs de la
famille maternelle
On ne peut plus mettre en doute, qu'avant de
parvenir à la forme familiale actuelle, l'humanité n'ait traversé une forme de
famille à rebours : la mère fait souche ; le père, personnage secondaire, ne transmet
à ses enfants ni son nom, ni ses biens, ni son rang. La famille, alors, est la
prolongation de femme à femme du cordon ombilical, ce signe matériel de la
maternité. Cet organe, que dans les familles royales d'Europe on coupe en
présence de témoins, afin d'éviter toute contestation sur la légitimité du
nouveau-né, est encore entouré d'un tel respect chez certains peuples, que par
exemple les habitants du haut Nil, les Fidjiens et même les créoles des
Antilles le conservent précieusement et l'enterrent avec cérémonie, lors de la
mort de l'individu ; il est le lien qui l'unissait à la souche de la famille, à
la mère.
Les mœurs qui correspondent à cette forme familiale
primitive scandalisent la morale des civilisés. La chasteté monogamique n'est
point une vertu : la femme est au contraire honorée d'après le nombre de ses
époux, qui se succèdent à jours fixes, ou qui cohabitent avec elle pendant une
révolution lunaire ;c'était l'usage aux îles Canaries. Les maris d'une même
femme, suivant l'observation de Herera à propos des
sauvages de Venezuela, vivent en parfaite intelligence et sans connaître la
jalousie ; cette passion apparaît tardivement dans l'espèce humaine.
Les enfants héritent des biens de la mère et des
oncles maternels, jamais de ceux du père. L'oncle aime ses neveux plus
tendrement que ses propres fils. "Chez les Germains, dit Tacite, l'enfant
d'une sœur est aussi cher à son oncle qu'à son père. Quelques-uns même estiment
ce degré de consanguinité plus saint et plus étroit ; et en recevant des
otages, ils préfèrent des neveux, comme inspirant un attachement plus fort et
intéressant davantage la famille". Cependant les Germains que décrit
l'historien latin étaient déjà entrés dans la forme familiale paternelle,
puisque les enfants héritaient de leur père ; mais ils conservaient encore les
sentiments et certains usages de la famille maternelle. L'expression française nos neveux, employée pour désigner nos descendants,
que des mauvais plaisants attribuaient au scepticisme sur la fidélité conjugale
de la femme de France, est sans doute un vieux souvenir de la famille
maternelle.
La femme demeure dans sa maison ou dans celle de
son clan, et jamais dans celle de son mari.
L'observation suivante, citée par Morgan, d'après
un pasteur protestant qui vécut pendant des années au milieu des
Iroquois-Seneca, est typique : "Du temps qu'ils habitaient dans leurs longues
maisons (qui pouvaient contenir plusieurs centaines d'individus), un clan
prédominait : mais les femmes y introduisaient leurs maris appartenant à
d'autres clans. Il était d'usage que les femmes gouvernassent la maison ; les
provisions étaient mises en commun : mais malheur au mari ou à l'amant trop
paresseux ou trop maladroit pour ne pas contribuer pour sa part aux provisions
de la communauté. Quel que fut le nombre de ses enfants et la quantité de biens
apportés dans le ménage, il devait s'attendre à recevoir l'ordre de plier sa
couverture et de déloger : il serait pour lui dangereux de désobéir. La maison deviendrait
trop chaude. Il ne lui restait que de retourner dans son propre clan, ou, ce
qui arrivait le plus souvent, il allait chercher un nouveau ménage dans un
autre clan. Les femmes étaient le grand pouvoir des clans. Elles n'hésitaient
pas, lorsque la circonstance le requérait, à faire sauter les cornes (le signe du
commandement) de la tête des chefs et à les faire rentrer dans les rangs des simples
guerriers.
L'élection des chefs dépendait toujours
d'elles".
Les récits des voyageurs représentent la femme
barbare comme accablée de travaux. La division du travail, ainsi que le
remarque Karl Marx, commence avec la division des sexes. Le sauvage est un guerrier
et un chasseur ; il vit entouré d'ennemis et peut être attaqué à tout instant ;
il doit être toujours prêt à se battre, toujours sous les armes : son travail
consiste à défendre sa tribu et à pourvoir de vivres sa femme et les enfants de
sa femme. Chez les peuples civilisés, le soldat est dispensé de tout travail. La
femme sauvage, par contre, est chargée de tous les travaux du ménage, de la
culture des champs, du transport sur son dos des enfants et des objets
mobiliers, qui d'ailleurs lui appartiennent. "Les peuples barbares qui
imposent aux femmes plus de travail qu'il ne conviendrait selon nos idées, dit
Engels, ont souvent pour elles une estime plus réelle que nous autres
Européens. La dame de la civilisation adulée et éloignée de tout travail,
occupe une position sociale infiniment inférieure à celle de la femme de la barbarie
accablée de travail : son peuple la considérait comme une vraie dame ; elle
l'était en effet par le caractère" .
La femme souveraine maîtresse dans son ménage exerçait
une action sur les affaires publiques ; elle prenait part aux conseils de la
tribu : sans vouloir m'étendre sur ce sujet, je mentionnerai le rôle d'arbitre
qu'elle remplissait. En Tasmanie, au début des batailles, les femmes poussaient
ardemment les guerriers à l'attaque, mais sitôt qu'elles levaient trois fois
les mains, le combat cessait, et le vaincu, prêt à être égorgé, était épargné .
"Les femmes étaient inviolables chez les Troglodytes des qu'elles s'interposaient
entre les combattants, ils cessaient de tirer leur flèche" . Les Germaines
assistaient aux batailles, excitant les guerriers par leurs cris, ramenant à la
mêlée ceux qui lâchaient pied, comptant et pansant les blessures. Les Germains
ne dédaignaient pas de les consulter et de suivre leurs conseils ; ils redoutaient
plus vivement la captivité pour leurs femmes que pour eux-mêmes ; ces barbares
croyaient qu'ils y avait en elles quelque chose de saint et de prophétique, sanctum aliquid et providum.
Je pourrais pendant de longues pages continuer à
citer des faits analogues, prouvant que tous les peuples de la terre ont passé
par une forme familiale bien différente de celle que nous connaissons aujourd'hui.
Ces faits étranges, qui déroutent les idées reçues, n'avaient été relevées que
par de rares esprits sceptiques ; ils s'en servaient pour battre en brèche les
notions de la morale courante . Les philosophes moralistes qui ont formulé
dogmatiquement les lois de la Morale éternelle, les ont absolument ignorés et
considérés comme non advenus, c'était le plus simple . Mais de nos jours, des penseurs
hardis et profonds les ont classés et utilisés pour retracer les phases de
l'évolution humaine.
IV
Théorie de
l'évolution de la famille
Prenons un couple, créé tout d'une pièce, comme Eve
et Adam, de la tradition biblique, ou bien détaché d'une horde sauvage, alors
que l'homme émergeait à peine de l'animalité, et voyons comment les choses vont
se passer. Ce couple, avec ses fils et ses petits-fils, formera une horde de
trente à quarante personnes, la difficulté de se procurer des vivres ne leur
permettant pas de dépasser ce nombre. Dans le sein de ce groupe, les relations
sexuelles seront absolument libres, ainsi que dans les familles des gallinacés
de nos basses-cours : chaque femme sera l'épouse des hommes de la horde, et
chaque homme le mari de toutes les femmes, sans distinction de père et de
fille, de mère et de fils, de sœur et de frère. Cette famille promiscue n'a été
retrouvée chez aucun peuple sauvage, bien qu'on l'observe dans les grandes
capitales de la civilisation : elle a dû cependant exister à l'état de fait
général, alors que l'homme n'était pas encore, selon l'expression latine, un
animal qui participe à la raison, rationis
particeps ; alors qu'il vivait nu, gîtait sur les arbres ou dans les
cavernes naturelles, se nourrissait de fruits, de coquillages et d'animaux
qu'il ne savait cuire, se distinguait à peine de la brute son ancêtre.
Les fêtes orgiaques des religions asiatiques, durant
lesquelles régnait la liberté sexuelle la plus absolue, semblent être des
réminiscences de la promiscuité primitive. Strabon rapporte que, chez les
Mages, la tradition religieuse prescrivait le mariage du père et de la fille,
du fils et de la mère, dans le but de procréer des enfants destinés aux
fonctions sacerdotales. Au lieu de reconnaître une origine naturelle à la
promiscuité primitive, Bachofen la prend pour une institution religieuse. Les
fêtes promiscues et les coutumes qui, chez tant de peuples, obligeaient les
femmes à se prostituer, sans choix, à tout venant, étaient selon lui, des actes
d'expiation pour apaiser la divinité irritée : les hommes, en contractant des mariages
individuels plus ou moins polygamiques, auraient violé les commandements de la
divinité qui prescrivaient la communauté des femmes.
La restriction de la liberté sexuelle primitive a
dû commencer par la séparation des individus de la tribu sauvage en couches de
générations et par l'interdiction du mariage entre les individus des
différentes couches. La première couche est celle des géniteurs, la deuxième
celle des enfants, la troisième celle des petits-enfants, et ainsi de suite.
Tous les individus d'une couche sont les enfants de la couche supérieure et les
pères et mères de la couche inférieure ; ils se considèrent comme frères et sœurs
et se conduisent en maris et femmes ; mais il leur est interdit d'avoir des
relations sexuelles avec les membres de la couche au-dessus et au-dessous. Il
n'y a pas de mariages individuels, de ce que l'on naît mâle dans une tribu on
est le mari de toutes les femmes de sa promotion sans distinction de frère et
de sœur, et réciproquement pour la femme. "Dans les temps primitifs, dit
Marx, la sœur était la femme et cela était moral". Les légendes
religieuses et les coutumes des peuples anciens nous fournissent de nombreux
exemples de ces mariages consanguins ; Isis et Osiris, Junon et Jupiter, etc.,
étaient à la fois sœurs et frères, et femmes et maris.
Morgan qui s'est livré aux plus arides recherches
sur la nomenclature des termes de parenté en usage chez les peuplades sauvages,
a rencontré, dans les îles Sandwich, une série de termes de parenté ne se rapportant
pas à leur organisation sociale, qui avait dû prendre naissance au moment où les
individus mâles et femelles d'une couche de génération se considéraient les enfants
de la couche supérieure et les pères et mères de l'inférieure et ignoraient les
distinctions d'oncle, de tante, de neveu, de nièce et de cousin. "La
famille est l'élément actif, qui n'est jamais stationnaire, dit Morgan ; elle
progresse d'une forme inférieure à une supérieure, à mesure que la société
passe d'un état moins développé à un état plus développé. Les systèmes de
parenté sont au contraire passifs, ils prennent un temps excessivement long
pour enregistrer les progrès accomplis par la famille, ils ne subissent des
changements radicaux que lorsque la famille s'est radicalement
transformée". – "Il en est de même pour les systèmes politiques,
juridiques. religieux et philosophiques", ajoute Marx. Tandis que la
famille progresse, le système de parenté s'ossifie et, tandis qu'il continue à
subsister par la force de l'habitude, la famille le dépasse.
"Si le premier degré d'organisation, écrit
Engels, consista à exclure les géniteurs et les enfants du commerce sexuel, le
second fut l'interdiction des mariages entre frères et sœurs. Ce progrès, à
cause de la plus grande égalité d'âge des intéressés, fut infiniment plus
important, mais aussi plus difficile à réaliser. Il ne s'accomplit que
graduellement, débutant par l'interdiction des relations sexuelles entre frères
et sœurs charnels, entre enfants utérins, pour aboutir à la défense du mariage
entre frères et sœurs de père et de mère". Cette marche évolutive de la
famille est "une excellente illustration du principe de la sélection
naturelle". Les tribus qui interdisaient les mariages utérins devaient se développer
plus rapidement et plus complètement que celles où les mariages entre frères et
sœurs étaient la coutume et la règle.
Fison et Howitt, dans leur remarquable étude sur
les Kamilaroi et les Kurnai, deux peuplades australiennes, rapportent une
légende qui essaye d'expliquer la façon dont se fit la restriction graduelle des
relations sexuelles : "Après la création, les frères et les sœurs et les
plus proches parents se mariaient entre eux, sans distinction ; jusqu'à ce que
le mal provenant de ces alliances devint manifeste ; les chefs s'assemblèrent
alors en conseil, afin de rechercher la manière d'y remédier. Le résultat de
leur délibération fut une supplique adressée à Muramura (le bon esprit), qui ordonna de diviser la tribu en
groupes se distinguant entre eux par des noms pris parmi les objets animés et inanimés,
tels que chien, souris, ému, pluie,
igname, etc., il défendit expressément aux individus portant le même nom de
se marier entre eux, mais il permit à un groupe de s'unir à un autre".
Cette coutume est encore observée de nos jours ; la première question d'un
Australien à un étranger est : "De quel murdou ? c'est-à-dire : de quel groupe es-tu ? "
La légende murdou contient trois faits importants à
noter. D'abord la tribu forme un tout homogène, les mariages se pratiquent
indistinctement entre frères et sœurs et même entre parents et enfants ; puis
la tribu se fractionne en groupes, qui prennent un totem, c'est-à-dire le nom
d'un animal, d'un phénomène naturel : cet objet animé ou inanimé finit par être
considéré l'ancêtre du groupe, qui correspond au clan celtique, à la gens
romaine et au génos grec. Le grammairien Festus Pompeius prétend que la gens Aurelia, à laquelle appartenait la mère
de César, tirait son nom du soleil, aurum
urere. Différentes familles grecques reconnaissaient pour ancêtres des
animaux ; il est vrai qu'elles assuraient que ces animaux étaient des
déguisements revêtus par Jupiter durant ses escapades amoureuses sur terre. Plutarque
cite une gens athénienne qui révérait une plante ancestrale, l'asperge. La
légende murdou nous apprend encore que le bon génie défendit les relations
sexuelles entre individus portant le même nom, le même totem, c'est-à-dire appartenant au même groupe.
Comment ces divisions de la tribu en groupes, en
clans, en gentes, qui, pour se
procurer des moyens de subsistance, seront obligés de se disperser,
pourront-elles se conserver ? Par la préservation du nom de l'ancêtre, qui sera
transmis de génération en génération ainsi qu'un bien sacré. Les membres qui
quittent le clan emportent avec eux le nom ; ils peuvent aller s'établir au
loin, au-delà des mers et des montagnes; ils peuvent dans le cours du temps
changer leurs coutumes et transformer leur langue au point d'être incapables de
comprendre celle de la souche mère, ils restent cependant membres du même clan, membres du même groupe. Et le mariage étant interdit entre personnes du
même groupe, la première chose, lorsque l'on s'aborde, est de s'enquérir du
nom, du totem. Cette interdiction est
si formelle qu'en Australie le guerrier qui, même par ignorance, s'unirait à
une femme du même totem, serait
traqué comme une bête fauve par les membres de sa propre tribu.
Comment le nom de l'ancêtre se transmettra-t-il ? –
Par le père, ou par la mère ?
De nos jours, après des siècles de morale
monogamique, on recourt à un subterfuge légal pour constater la paternité ; le
père n'est pas celui que désigne la nature, mais une cérémonie religieuse et
civile. On ne peut espérer que des hommes primitifs, non encore éduques par la
savante ergoterie des légistes, chargeraient le père de la fonction sacrée de
transmettre le nom, le totem du clan. Le sentiment paternel n'est pas inné chez
l'homme ; pour se manifester, même lorsqu'il existe, il requiert certaines
conditions externes. L'amour maternel est, au contraire, profondément enraciné
dans le cœur de la femme : elle est organisée pour être mère, pour élaborer
l'enfant dans son sein et le nourrir de son lait, une fois né. Le sentiment
maternel est un des plus importants besoins physiologiques, pour la
conservation et la perpétuation de l'espèce. La civilisation, qui souvent agit
à l'encontre de la nature, en désorganisant la femme au point de rendre la
gestation fatigante, la parturition laborieuse et douloureuse, et l'allaitement
dangereux et même impossible, atténue le sentiment maternel dans le cœur des
femmes civilisées. Les femmes sauvages aiment beaucoup leurs enfants ; elles
les allaitent pendant deux ans, elles ne les frappent jamais : l'enfant, que la
mère protège contra la brutalité des hommes, se serre auprès d'elle, comme les
poussins se cachent au moindre danger sous les ailes de la poule. La femme
était donc naturellement toute désignée pour remplir la fonction de transmettre
le totem du clan. "La femme fait le clan", disent les Indiens
Wyandotts de l'Amérique Septentrionale : c'est littéralement exact ; les femmes
du clan sont chargées de le reproduire ; les hommes vont déposer leurs enfants
dans les autres clans. L'enfant appartient au clan de la mère.
Les membres d'un clan, quelque nombreux et
dispersés qu'ils soient, forment une immense famille ; le même sang circule
dans leurs veines ; la même chaîne ombilicale, prolongée de femme à femme, les rattache
à l'ancêtre, à la souche mère. Ils se doivent aide, protection et vengeance en
toute circonstance. Le père est inconnu : le frère de la mère le remplace. Les
liens du sang et d'une étroite affection unissent l'oncle et les neveux. Les
pères et les enfants appartenant à des clans différents, sont au contraire considérés
comme n'étant pas consanguins : aucune affection ne les unit ; ils peuvent en
venir aux mains, s'entretuer, si les deux clans où ils sont nés se déclarent la
guerre, tandis que verser le sang de son clan est un crime épouvantable. Les
petits gens de lettres de l'heure présente se moquent d'Homère, parce qu'il n'a
pas leur maniérisme et rient de ses héros qui, avant de se combattre,
s'arrêtent pour décliner leur généalogie : les rhapsodes homériques avaient un
sens du réel plus fin que les écrivains de l'école naturaliste ; ils
reproduisaient un usage qui persista même après que la filiation paternelle eût
remplacé dans le clan la filiation maternelle. Des guerriers placés en des
camps ennemis pouvaient être membres du même clan ; ils avaient besoin de se
connaître avant de s'attaquer, pour ne pas commettre le crime horrible de
verser le sang de leur propre clan. Mac Lennan remarque que les héros de l'Iliade, qui détaillent leur généalogie,
ne remontent pas au-delà de la troisième génération sans rencontrer un dieu,
c'est-à-dire un père inconnu ; ce qui semblerait indiquer qu'à cette époque la
filiation par le père était très récente chez les Hellènes.
Le sauvage en guerre continuelle avec les bêtes et
les hommes ne peut vivre isolé ; il ne peut comprendre qu'il puisse exister
séparé de son groupe, de son clan ; l'expulser de son clan, c'est le condamner
à mort : aussi l'exil a été considéré pendant longtemps comme la peine la plus
terrible que l'on pût infliger à l'homme des sociétés antiques. L'homme
primitif ne constitue pas une entité par lui-même ; il n'existe que comme
partie intégrante d'un tout, qui est le groupe, le clan : ce n'est pas lui individu
qui possède, mais son clan ; ce n'est pas lui individu qui se marie, mais son
clan. Cette forme de mariage est sans contredit la plus curieuse. Pour
l'illustrer je prends cet exemple dans le livre de Fison et Howitt. Les
Kamilaroi sont subdivisés en quatre groupes ou clans : Ipai et Kubi, Kumbu et Muri. Les relations sexuelles sont interdites dans le sein d'un
même clan : mais le clan Ipai épouse le clan Kubi, et le clan Kumbu épouse le
clan Muri, ce qui signifie que tous les hommes Ipai sont les maris des femmes
Kubi, et toutes les femmes Ipai sont les épouses des hommes Kubi. Le mariage
n'est pas un contrat individuel, mais collectif, un état naturel : le fait de
naître femme dans un groupe vous donne pour mari tous les hommes de votre clan
matrimonial. Les deux clans peuvent être dispersés sur tout un continent, et c'est le cas en
Australie ; mais quand deux individus de sexe différent se rencontrent et se
reconnaissent comme membres de clans matrimoniaux, ils peuvent sans autre cérémonie
se traiter en mari et femme. "Cette forme de mariage, dit Fison, me semble
le système de mariage communiste le plus étendu que l'on connaisse".
Pour nous résumer : l'espèce humaine, ainsi que les
autres espèces animales, débute par la promiscuité des sexes, puis restreint
graduellement les relations sexuelles, d'abord entre parents et enfants ensuite
entre frères et sœurs utérins, enfin entre frères et sœurs collatéraux ; et
dans cette marche évolutive, elle adopte d'abord la filiation par la mère
toujours certaine, puis la filiation par le père, toujours problématique.
La filiation maternelle coïncide avec la forme
communiste et la forme collectiviste de la propriété qui cependant peuvent
continuer à subsister alors même que la filiation paternelle remplace la
filiation maternelle.
La femme dans les tribus sauvages appartient
théoriquement à un nombre illimité de maris bien que pratiquement, en se
mettant sous la protection des sorciers et des chefs, elle sache limiter ce
nombre :peu à peu, profitant de circonstances diverses, elle le réduit à une
douzaine, enfin à un seul mari qu'elle renouvelle souvent.
La filiation par la mère donne à la femme dans la
tribu une position élevée, parfois supérieure à celle de l'homme ; elle la perd
dès que la filiation se fait par le père.
Le passage de la filiation par la mère à celle par
le père, qui dépouillait la femme de ses biens et de ses prérogatives
consacrées par le temps, les usages et la religion, ne s'est pas toujours
effectués à l'amiable : son histoire est écrite en lettres de sang dans une
légende de la Grèce, que ses plus grands poètes dramatiques ont tour à tour
transportée sur la scène. Nous allons l'analyser.
V
Transformation
du matriarcat en patriarcat
Hérodote et les Grecs de son temps trouvaient
l'Egypte un monde à l'envers, à cause de la position supérieure des femmes ;
ils ignoraient que, quelques siècles auparavant, la Grèce avait présenté les mêmes
phénomènes qui bouleversaient leurs idées acquises. Une vieille légende,
conservée par Varron et transmise par Saint-Augustin dans la Cité de Dieu, rapporte
que "sous le règne de Cécrops arriva un double miracle à Athènes. Il
sortit en même temps de terre un olivier et une source, à quelque distance. Le
roi effrayé envoya demander à l'oracle de Delphes ce que signifiait cet
événement et ce qu'il y avait à faire. Le dieu répondit que l'olivier
signifiait Minerve et la source Neptune, et qu'il dépendait d'eux de nommer
désormais la ville d'après l'une des deux divinités. Cécrops convoqua alors une
assemblée de citoyens, à savoir les hommes et les femmes, car c'était alors la
coutume d'admettre les femmes aux délibérations publiques. Les femmes votèrent pour
Minerve et les hommes pour Neptune, et, comme il se trouva une femme de plus,
Minerve triompha. Neptune, pour se venger, inonda aussitôt les campagnes des
Athéniens. Pour apaiser la colère du Dieu, les hommes se virent obligés
d'imposer à leurs femmes une triple punition : – premièrement, elles furent
condamnées à perdre leur droit de vote ; secondement, leurs enfants ne furent
plus autorisés à porter le nom de leurs mères ; enfin elles se virent
contraintes à renoncer à leur nom d'Athéniennes", c'est-à-dire à perdre
leurs droits de citoyennes, à n'être plus que les femmes des Athéniens.
Il ne fallait rien moins que des phénomènes
surnaturels et l'intervention d'un dieu, pour que les femmes d'Athènes
abandonnassent les prérogatives qui les rendaient libres et citoyennes.
D'autres légendes rapportent que des crimes épouvantables ensanglantèrent les
familles avant que la femme se laissât dépouiller des droits qui la faisaient
respecter dans la Cité et dans le clan. Les légendes homériques sont l'histoire
des haines, des convoitises, des rivalités et des luttes qui éclatèrent entre
parents et enfants et entre frères, dès que les biens et le rang, au lieu
d'être transmis par la mère, commencèrent à l'être par le père. L'Orestie, la
grandiose trilogie d'Eschyle, conserve palpitantes encore les terribles
passions qui dévorèrent les cœurs des hommes et des dieux homériques.
Si l'on veut retrouver l'histoire sous la légende
d'Oreste, on doit connaître la généalogie de son père et de sa mère : ils
descendaient tous les deux de familles illustres par leurs crimes et leurs
actions héroïques.
Pélops, fils de Tantale, eut entre autres enfants
Atrée et Thyeste, qui épousèrent la même femme Erope ; Atrée donna le jour à
Agamemnon et à Ménélas, et Thyeste à Tantale et à Egisthe. Agamemnon fut le
père d'Oreste et d'Electre. – Clytemnestre petite-fille d'Oebalus et fille de
Tyndare, enfanta Oreste, Electre et Erigone.
Tantale, l'ancêtre des Atrides, servit aux dieux,
dans un repas, son propre fils, Pélops, que Jupiter ressuscita. Atrée et
Thyeste, fils de Pélops, et Hippocoon et Tyndare, fils d'Oebalus, se
disputèrent les biens et l'autorité de leurs pères. Alors que la famille
paternelle déplaçait la famille maternelle et que le droit d'aînesse n'était
pas encore établi, les enfants luttaient pour s'emparer de l'héritage du père. Eschyle
met ces paroles dans la bouche d'Egisthe : "Atrée exila de sa patrie mon
père. Le malheureux Thyeste revint au foyer, invoqua l'hospitalité... L'impie
Atrée offre à mon père le festin des hôtes et le mets qu'il sert à Thyeste,
c'est la chair de ses fils ! Atrée, assis au haut bout de la salle, dévore
les doigts des pieds et des mains qu'il s'est réservés pour sa part. Les
morceaux méconnaissables sont offerts à Thyeste". Cet horrible repas et
d'autres légendes sembleraient indiquer que, peu de temps avant la période
homérique, il y avait encore en Grèce des cas d'anthropophagie.
Atrée et Thyeste, les deux frères, ont la même
femme, Erope ; Clytemnestre épouse successivement les trois petits-fils de Pélops
: Agamemnon fils d'Atrée, et Tantale et Egisthe fils de Thyeste. Hélène, sœur de
Clytemnestre, épouse Ménélas, frère d'Agamemnon. Ces mariages laissent supposer
que la famille de Pélops et celle de Tyndare appartenaient à deux clans
conjugaux, analogues à ceux de l'Australie contemporaine.
Pénétrons dans le sombre drame d'Eschyle. La
vengeance, "la soif inextinguible du sang", tourmente l'âme des dieux
et des mortels.
Clytemnestre et Egisthe tuent Agamemnon, l'une pour
venger sa fille, Iphigénie ; l'autre son père, Thyeste, "et maintenant la
mort me semblerait belle, s'écrie Egisthe à la vue du cadavre du héros, emprisonné
dans le filet dont il l'avait enveloppé pour qu'il ne pût se défendre ; je vois
l'ennemi dans le filet de la justice". En ces temps la famille était
chargée de venger l'injure faite à l'un de ses membres ;la vendetta était un
devoir sacré, un acte de justice.
Electre, la sœur d'Oreste, ne pleure pas sur le
tombeau de son père, elle vient y raviver sa haine et s'exciter à la vengeance.
"Jupiter, Jupiter, invoque-t-elle, c'est toi qui fais surgir du fond des
enfers la vengeance, lente à punir, la vengeance qui frappe le mortel audacieux
et pervers : même sur les parents, tu sais l'accomplir. Ainsi que la rage du
loup dévorant, il est implacable le courroux que ma mère a mis dans mon cœur...
0 mère odieuse ! ô femme impie ! tu as osé ensevelir mon père comme un ennemi, les
citoyens n'ont pas suivi les funérailles de leur chef ; l'époux n'a point eu de
pleurs !"
ORESTE. – Quel outrage, grands Dieux !... Elle en
payera le prix. Que je la tue, après je meurs
content."
ELECTRE. – Grave mes paroles dans ton âme, qu'elles
pénètrent par ton oreille jusqu'au fond, jusqu'à l'endroit calme de la pensée.
Voilà ce qu'ils ont fait : ce qui doit suivre, demande-le à la vengeance.
"Et tandis que, durant cette scène, Electre
souffle la haine et la vengeance dans l'âme d'Oreste, le chœur, ainsi que la
voix de la conscience publique, s'adresse aux dieux et rappelle les anciennes coutumes
: "O grandes Parques ! fasse que la loi d'équité triomphe ! La justice
réclame ce qui lui est dû, sa voix retentit et nous crie : Que l'outrage soit
puni par l'outrage ! Que le meurtre venge le meurtre ! Mal pour mal, dit la
sentence du vieux temps... N'est-il pas juste de rendre à un ennemi mal pour
mal ?... La loi le veut, le sang versé sur la terre demande un autre sang... La
terre nourricière a bu le sang du meurtre ; il a séché ; mais la trace reste
ineffaçable et crie vengeance."
Un dieu, Loxias , impose à Oreste le devoir de la
vengeance. "J'entends retentir encore la voix formidable de Loxias. Le cœur
tout plein de vie, je dois subir l'affreux assaut du mal, si je ne poursuis les
meurtriers de mon père ; si je ne frappe, comme ils ont frappé ; si je ne me
venge sur eux de la perte de tous mes biens."
Il n'y a que des barbares, comme les Grecs des
temps homériques, ou les Peaux-Rouges de l'Amérique, pour "sentir leur cœur
brûler violemment jour et nuit, sans intermittence, jusqu'à ce qu'ils aient
versé le sang pour le sang. Ils transmettent de père en fils le souvenir du
meurtre d'un parent, d'un membre du clan, alors même que ce serait celui d'une
vieille femme".
On cite des sauvages qui, ne pouvant se venger, se
sont suicidés. Les moralistes, les économistes et même les poètes et les
romanciers, qui ont cependant une psychologie moins fantaisiste qua celle des philosophes,
répètent depuis si longtemps que l'homme est toujours resté le même, que l'on a
fini par admettre que de tout temps les mêmes passions avaient fait battre le cœur
des humains. Rien de plus faux : le civilisé éprouve d'autres passions que le
barbare ; le désir de la vengeance ainsi que du vitriol ne corrode pas son
cerveau.
Aucun crime n'épouvante les barbares torturés par
le besoin de la vengeance. Pendant dix longues années, Clytemnestre attend le
moment de venger sa fille. Agamemnon assassiné, elle est ivre, elle retrace
avec une joie féroce la scène du meurtre : "Deux fois, je le frappe deux
fois, il pousse un cri plaintif et ses membres se détendent. Tombé, un
troisième coup l'achève... La victime expire, les convulsions de la mort font
jaillir du sang de ses blessures ; et la rosée du meurtre tombe en noires gouttes
sur moi, rosée aussi douce à mon cœur que l'est pour les champs la pluie de
Jupiter, dans la saison où l'épi sort de l'enveloppe. Voilà, ce qui s'est
passé. Vous que je vois en ces lieux, vieillards d'Argos, partagez ou condamnez
ma joie, peu m'importe : moi je m'applaudis de mon action. S'il était permis de
verser des libations sur un cadavre, c'est ici qu'il serait juste de remercier
les dieux... Voilà Agamemnon, mon époux, et voici la main qui l'a tué. La
besogne est d'une digne ouvrière. J'ai dit."
Clytemnestre ignore le remords ; "jamais la
crainte ne mettra le pied sur le seuil de son palais", elle a vengé son
sang, elle a tué l'homme qui a "immolé le fruit bien-aimé de ses
entrailles" ; ce sont des déesses c'est Até, c'est Dicé, ce sont les
Erinnys, qui "l'ont aidée à égorger cet homme". Elle vient de remplir
un devoir sacré, elle étale sa joie. L'opinion publique ratifie son acte, en la
laissant vivre en paix jusqu'à ce que le fils d'Agamemnon soit en âge de le
venger. L'opinion publique est toute-puissante chez les peuples primitifs ;
elle est l'autorité que personne ne brave, elle poursuit impitoyablement ceux
qui enfreignent les coutumes, les usages ; pour la fuir, les coupables
abandonnent le pays, ils s'exilent jusqu'à ce que leurs crimes soient oubliés.
L'homme assassiné par Clytemnestre était un guerrier célèbre, qui revenait
vainqueur d'une glorieuse expédition. La Grèce homérique s'arma pour punir le rapt
d'une femme, et le meurtre du plus grand des Grecs reste impuni.
Tuer un de ses maris, un guerrier illustre
n'effraye pas Clytemnestre. Mais porter la main sur sa mère, même pour venger
son père, semble à Oreste le plus épouvantable des crimes : cependant il n'a
nulle affection pour sa mère ; il ne l'a jamais connue ; il l'accuse de l'avoir
dépouillé de l'héritage paternel, de l'avoir exilé. Il faut que "Loxias
excite son audace, qu'il lui assure que son action ne lui sera pas imputée à
crime ; quant au châtiment, s'il désobéissait à ses ordres, il n'ose le dire,
mais il serait tellement épouvantable que nulle imagination ne saurait
atteindre à de telles horreurs". Apollon, le dieu nouveau, le pousse à
tuer sa mère pour venger son père, taudis que les Euménides, les vieilles
déesses, qui veillaient à ce que les crimes contre les parents fussent vengés,
le laissent tranquille ; elles estimaient que le meurtre d'un mari était un
crime ordinaire, qui ne les regarde pas, le mari n'étant pas du même sang que
sa femme.
Clytemnestre armée de "la hache homicide"
s'élance pour combattre le meurtrier d'Egisthe son mari. Enfiévré par son
premier meurtre et l'épée à la main, Oreste se précipite sur sa mère, en criant
: "Toi aussi, je te cherche ; lui, il a son salaire."
Cependant quand ils se reconnaissent, ils
s'arrêtent, ils hésitent. Clytemnestre, cette femme terrible supplie, elle ne
se défend pas ; verser le sang de son fils, serait verser le sang de son clan,
le grand crime des âges primitifs.
CLYTEMNESTRE. – Arrête, ô mon fils !
L'arme tombe des mains d'Oreste, il se tourne vers
son ami :
ORESTE. – Pylade, que ferai-je ? Faut-il que je
recule devant le crime de ma mère ?
PYLADE. – Et les oracles de Loxias !... et la foi
de tes serments.
ORESTE. – Je le vois, tu l'emportes, tes conseils
sont justes.
CLYTEMNESTRE. – Ne redoutes-tu pas la malédiction
d'une mère, ô mon enfant... songes-y : garde-toi des chiens irrités qui vengent
une mère.
Dans l'ancienne mythologie, il y avait des monstres
et des déesses, spécialement chargés de punir les matricides ; Jupiter, le dieu
nouveau, sera le vengeur des pères. Le parricide est un crime nouveau, qui ne
pouvait exister alors qu'on ne connaissait pas son père.
Dès que Oreste commet le crime, la peur envahit son
âme : il invoque le Soleil "pour qu'il contemple les œuvres impies de ma
mère. Il faut qu'un jour, si l'on m'accuse, je l'aie pour témoin que c'est avec
justice que j'ai donné la mort à ma mère... Je ne sais à quoi ceci doit aboutir
; comme des coursiers fougueux, mes sens indociles m'emportent malgré moi ; mon
cœur déjà soupire de crainte."
Il est fou : – "Ah! Ah ! voyez, esclaves,
voyez-les comme des Gorgones, vêtues de noir, entourées des replis de serpents
innombrables."
LE CHOEUR. – Quelles imaginations te bouleversent,
ô le plus dévoué des fils ?
ORESTE. – Des imaginations ! l'affreux supplice est
trop réel, ce sont bien là les chiens irrités qui vengent ma mère.
Si après le meurtre d'un de ses maris, Clytemnestre
pouvait demeurer à Argos sans être poursuivie par la colère divine et
l'indignation publique, pour échapper à la colère populaire Oreste est obligé
de fuir, de s'exiler d'Argos, d'abandonner les biens du son père, qu'il
cherchait à reconquérir par le meurtre d'Egisthe.
Les deux premières parties de la trilogie d'Eschyle
(Agamemnon et les Choéphores) sont le drame de la vendetta ; la troisième
partie, les Euménides, est la lutte du droit maternel et du droit paternel, du
droit ancien et du droit nouveau.
Les Euménides, ces filles de la Nuit, qui les
enfanta pour le châtiment des crimes, pour le maintien de la vendetta familiale
et des anciennes coutumes, sont l'épouvante des dieux nouveaux. Apollon les injurie :
"Elles sont d'abominables vieilles, d'antiques vierges, dont la couche est
en horreur aux dieux ,aux hommes et aux brutes mêmes. Elles ne sont nées que
pour le mal."
Elles défendent l'autorité maternelle : quand elles
disparaîtront ou quand leur pouvoir sera annulé par les dieux nouveaux, la mère
n'aura plus de protection ni parmi les hommes, ni parmi les dieux, ni sur terre,
ni aux enfers, ni dans les cieux. Tant qu'elles conservent leur puissance, le
meurtre de la mère est le plus grand des crimes : "Le sang maternel, quand
on l'a versé sur la terre, ne se rachète plus. Tu dois donner du sang pour ce
sang, disent-elles à Oreste : il faut que ton corps tout vivant fournisse à
notre soif ; il faut que nous nous désaltérions à longs traits dans le rouge et
amer breuvage... nous t'entraînerons aux enfers. Là tu subiras le supplice des
matricides."
Ni Homère, ni Virgile, ni Dante, ni aucun des
poètes, ni aucun des visionnaires chrétiens qui sont descendus aux enfers, ne
nous parlent des supplices réservés aux meurtriers des mères : car ils ont
disparu du catalogue des tortures infernales dès que la mère cessa d'être
souche de la famille. Alors ce châtiment était "la folie, le délire, le
désespoir :l'hymne des Euménides qui enchaîne les âmes, l'hymne sans lyre, dont
le poison consume les mortels."
Les Euménides ne mentionnent jamais leurs pères ;
elles n'implorent que leur mère, la Nuit ; elles lui dénoncent "le fils de
Latone ; il nous a ravi notre proie, que nous avait vouée le meurtre d'une
mère...Voilà ce qu'osent les dieux nouveaux, ils règnent sans équité... Fils de
Jupiter, dieu jeune, tu outrages d'antiques déesses. Sauver cet homme fatal à
celle qui l'enfanta ; dérober à notre vengeance l'assassin de sa mère ! Et tu
es un dieu ! Qui dira que c'est là faire justice ?"
Elles abandonnent Oreste pour s'en prendre à
Apollon, c'est lui le violateur de la loi antique. "Tu n'es pas le
complice du crime d'Oreste, tu as tout commis ; tu en es le seul auteur. Ton
oracle lui a ordonné de tuer sa mère."
APOLLON. – Mon oracle lui a ordonné de venger son
père.
LE CHOEUR DES EUMENIDES. – Est-il violence qui
puisse forcer un homme à tuer sa mère ?
APOLLON. – Et quoi ! lorsqu'une femme tue son
époux.
LE CHOEUR. – Ce n'est pas du moins son propre sang
qu'elle verse.
Le mari n'étant pas du même clan que la femme, ce
n'était pas, à ses enfants à le venger, puisque, selon l'idée primitive, ils
n'étaient pas du même sang.
APOLLON. – Ainsi tu avilis à rien ces serments
d'hyménée dont les garants sont Junon et Jupiter. Quoi donc ! tu t'irrites du
crime d'Oreste, et le crime de Clytemnestre n'a pu t'émouvoir.
LE CHOEUR DES EUMENIDES. – Elle n'était pas du même
sang que l'homme qu'elle a tué... Ainsi Jupiter, suivant toi, a prononcé cet
oracle ; c'est lui qui a commandé à Oreste de venger le meurtre de son père, de
compter pour rien les droits de la mère !... Jupiter serait donc le vengeur des
pères ? Mais il a enchaîné son père, la vieux Saturne."
Saint Basile et les pères de l'Eglise grecque
relevaient avec vivacité les inconséquences mythologiques, pour détourner
l'attention de celles de la Bible et citaient ce passage d'Eschyle. Jupiter enchaînant
son père, et Saturne détrônant son père Uranus, ne commettaient pas des actes
répréhensibles d'après la loi antique : tant que dure la filiation maternelle,
le père et le fils appartiennent à des clans différents : ils peuvent en venir
aux mains, s'entretuer, sans qu'il y ait parricide ou infanticide.
Apollon et les Euménides s'adressent à Minerve pour
trancher le débat : le choix d'une déesse pour arbitre est une concession aux
anciens usages.
Minerve et les dieux nouveaux veulent abolir la
vendetta ; ils désirent que la société se charge de la punition des crimes,
laissée jusqu'alors aux membres de la famille. La justice civile doit remplacer
la justice familiale. Pour prendre connaissance de la cause et la juger,
Minerve institue un jury, l'Aréopage; il doit "durer à jamais... et
devenir l'arbitre d'Athènes. Pour la première fois ce jury portera la sentence à
propos de sang versé... et que jamais, pour venger le meurtre, un meurtrier ne
se dresse en courroux dans Athènes."
Une autre légende raconte que l'Aréopage rendit son
premier jugement à propos de Céphale, qui par mégarde avait tué sa femme : il
le condamna au bannissement. Il est curieux de voir rapporter au meurtre d'une
femme par son mari l'institution de l'Aréopage qui, une fois la filiation par
le père bien enracinée dans les mœurs, n'aura plus à s'occuper d'une telle
question ; la loi nouvelle octroyant au mari le droit de vie et de mort sur sa
femme.
Les Euménides donnent au débat sa portée sociale :
"Si la cause de cet homme triomphe, des lois
nouvelles vont bouleverser le monde... le palais de la justice s'écroulera en
ruines."
Oreste les accuse de n'avoir pas poursuivi de leur
colère celle qui avait tué son père et son époux. Elles répondent encore : "Elle n'était pas du
même sang que l'homme qu'elle a tué."
ORESTE. – Et moi, je suis donc du sang de ma mère ?
LE CHOEUR DES EUMENIDES. – Scélérat ! tu veux
renier le propre sang de ta mère ?
Renier le sang de sa mère ! – Des Peaux-Rouges ont
préféré être attachés au poteau de torture que d'être adoptés dans un nouveau
clan, que de renier par conséquent le sang de leur mère. Mais Oreste, est le personnage
symbolique qui doit fouler aux pieds toutes les coutumes de la famille
maternelle. Il verse le sang de sa mère, il renie ce sang pour excuser son
crime ; et afin de démontrer qu'il n'est pas du sang de sa mère, il épouse
Hermione, la fille d'Hélène, sœur de Clytemnestre ; épouser sa cousine du côté maternel
était aux yeux des hommes primitifs un inceste aussi épouvantable que pour nous
le mariage d'un père avec sa fille : on a vu avec quelle fureur les Australiens
pourchassaient ceux qui, même par mégarde, commettaient un tel crime. Plus tard
Oreste épousa Erigone, fille de sa propre mère Clytemnestre, mais issue
d'Egisthe.
Les Euménides, se sentant condamnées par les dieux
nouveaux, invoquent la justice humaine. "Cet homme qui a versé sur la
terre le sang de sa mère, le sang qui l'anima, il ira dans Argos habiter la maison
paternelle ! A quels autels publics osera-t-il faire des sacrifices ? Quelle
phratrie voudra l'admettre à ses libations ?"
Alors Apollon porte le coup décisif ; il attaque la
femme dans sa fonction essentielle, celle qui assurait sa supériorité, dans sa
fonction maternelle : "Ce n'est pas la mère qui engendre ce qu'on appelle
son enfant, argumente-t-il ; elle n'est que la nourrice du germe versé dans son
sein ; celui qui engendre, c'est le père. La femme, comme un dépositaire
étranger reçoit d'autrui le germe ; et quand il plaît aux dieux, elle le
conserve. La preuve de ce que j'avance, c'est qu'on peut devenir père sans
qu'il y ait besoin d'une mère ; témoin cette déesse, la fille de Jupiter, du
roi de l'Olympe. Elle n'a point été nourrie dans les ténèbres du sein maternel
et quelle déesse eût produit un pareil rejeton ?"
Minerve, la réponse de l'homme aux insolentes
parthénogenèses des premières déesses, qui se vantaient de concevoir sans le
secours du mâle, était la vivante protestation contre la famille maternelle.
Elle est conquise d'avance ; elle avoue cyniquement sa partialité : "Je
n'ai pas de mère à qui je doive la vie ; ce que je favorise partout c'est le
sexe viril... Je suis complètement pour la cause du père. Je ne puis donc m'intéresser
au sort de la femme, qui a tué son époux, le maître de la maison."
La mère n'est plus qu'une capsule enfermant le "germe",
selon l'expression égyptienne. La femme est déchue. Cent ans plus tard,
Euripide dans Oreste se sert du même argument anti physiologique, que l'on retrouverait
chez tous les peuples si l'on possédait toutes leurs légendes. Au dix-huitième
siècle, quand on perfectionna le microscope, des savants crurent voir l'homunculus, l'être humain en miniature microscopique
: on lui découvrait une tête, des membres et même des organes internes.
"Ah ! divinités nouvelles, s'écrient les
Euménides désespérées, vous avez foulé aux pieds d'antiques lois, vous nous
avez arraché des mains toute notre puissance."
Le rôle des Euménides est fini. La femme est
descendue de son rang supérieur. Le fils n'appartiendra plus à la mère. Le père
sera le maître de la maison, comme le
déclare Minerve : le fils commandera à la mère. Télémaque ordonnera à Pénélope
de quitter la salle du festin et de se retirer dans l'appartement des femmes .
Jésus, le Dieu nouveau, dira à Marie : "Femme, qu'y a-t-il de commun entre
vous et moi ?" et ajoutera qu'il est venu sur la terre pour remplir les
ordres de son père et non pour s'occuper des inquiétudes de sa mère. "La
famille et le culte se perpétueront par le père ; il représentera à lui seul toute
la série des descendants, sur lui reposera le culte domestique, il pourra
presque dire comme l'Hindou : C'est moi qui suis le Dieu. Quand la mort
viendra, il sera un être divin, que les descendants invoqueront".
La femme, traitée en mineure, sera soumise à son
père, à son mari, aux parents de son mari s'il vient à mourir. Elle sera
dépouillée de ses biens : les mâles et les descendants des mâles excluront les
femmes et les descendants des femmes de l'héritage de la propriété familiale.
Caton l'Ancien formulera ainsi le nouveau code conjugal : "Le mari est
juge de la femme ; son pouvoir n'a pas de limites ; il peut ce qu'il veut. Si
elle a commis quelque faute, il la punit ; si elle a bu du vin, il la condamne
; si elle a eu commerce avec un autre homme, il la tue." La loi de Manou
condamnait la femme qui avait "violé effectivement son devoir envers son
seigneur, à être dévorée par des chiens dans un lieu très fréquenté".
Un crime nouveau était né : l'adultère.
La Clytemnestre d'Eschyle, qui au su de toute la
population vit avec Egisthe, le cousin germain d'Agamemnon, son second mari,
pourra dire aux vieillards d'Argos : "Je n'ai pas violé le sceau de la pudeur
et du secret." Dans les Euménides, Oreste et Apollon l'accuseront du
meurtre d'Agamemnon, mais non d'avoir trahi la foi conjugale. Cependant Eschyle
dramatisait la légende plus de cinq siècles après la prise de Troie et elle
avait dû perdre de sa netteté au frottement des idées et des mœurs nouvelles.
Cent ans après Eschyle, Euripide reprenait le même thème : sa Clytemnestre est
meurtrière et adultère. Elle "a contracté une union coupable... elle a
souillé le lit conjugal." Sur la place publique, Oreste trouve pour
défenseur "un citoyen au cœur vaillant, intègre, d'une vie irréprochable.
Il propose de couronner le fils d'Agamemnon, pour avoir voulu venger son père
en tuant une femme méchante et impie, qui était cause qu'un citoyen ne voudrait
armer son bras ni partir en expédition loin de ses foyers, si ceux qui restent,
corrompent les gardiennes de la maison et souillent le lit conjugal." Dans
Electre, Clytemnestre est descendue
de sa hautaine dignité ; elle devient une femme soumise, qui plaide les circonstances
atténuantes ; elle rejette sur Agamemnon son adultère : "Si l'époux
s'oublie jusqu'à dédaigner le lit conjugal, l'épouse suit volontiers son
exemple et cherche ailleurs un amant."
La femme conquérait un nouveau devoir, la fidélité
conjugale ; mais reléguée au fond du gynécée, sous l'oppression maritale, elle
perd son rôle historique. Dans les temps homériques, la femme, est le centre des
légendes ; partout elle montre la puissance de son action : la tradition,
conservée principalement par les hommes, n'a préservé surtout que le souvenir de
ses crimes. Eschyle l'attaque dans les Choéphores avec une telle fureur, que
l'on doit supposer que la femme de son temps n'était pas encore complètement
assouplie au joug dégradant du mâle.
LE CHOEUR. – Qui dira tout l'emportement d'une
femme impudente... L'amour dans le cœur d'une femme, ce n'est plus de l'amour ;
c'est un délire, où n'atteignirent jamais, aux jours de l'accouplement, les
bêtes sauvages et les brutes :
"... Rappelle-toi la fille de Thestius (la
mère de Méléagre), cette mère fatale à son enfant... Haine encore à la
sanguinaire Scylla (qui livra la ville de Mégare et son père Nisus à Minos son
amant). Mais de tous les forfaits le plus tristement fameux c'est celui de
Lemnos (le massacre des hommes par les femmes)."
Tandis que l'épouse dégradée, avilie par la
nouvelle organisation de la famille, salie au théâtre par les insultantes et
impudiques railleries d'Aristophane que les pères de l'Eglise, les moralistes
et les beaux esprits de tous les temps ont servilement répétées, disparaissait
de la vie publique, l'hétaïre, la prostituée, courtisée par les praticiens, les
riches et les puissants, chantée par les poètes, adulée par les philosophes,
tolérés au bout de sa table, s'emparait de la place d'où avait été chassée la
mère de famille .Les Athéniens qui eurent le triste honneur de se signaler par
un si dur asservissement familial de la femme, se livraient, avec l'approbation
des philosophes moralistes, à des mœurs infâmes que, selon Hérodote, ils
importaient dans tous les pays où ils passaient . Jupiter "le père des
Dieux", "le vengeur des pères", "le gardien de la foi
conjugale", méritait d'être l'amant de Ganymède.
VI
La farce après
la tragédie
La théorie fabriquée par Apollon, pour expliquer le
rôle prépondérant du père dans l'acte de la génération, ne parvint pas à
convaincre l'esprit positif du populaire, qui préfère un fait tangible à tous les
raisonnements de la sophistique. Il s'y prit d'une autre façon pour autoriser
la substitution du père à la mère dans la direction de la famille.
On connaît la couvade
basque : la femme accouche, le mari se couche, geint et se contorsionne ; les compères
et les commères du voisinage viennent gravement le complimenter de son heureuse
délivrance. Cette curieuse coutume, que Strabon avait déjà signalée chez les
Ibères, s'est conservée jusqu'à nos jours. On s'était imaginé qu'il n'y avait
que les Basques assez amis de la farce pour donner à leurs amis et
connaissances le spectacle d'une scène aussi grotesque. Mais quand les
Européens découvrirent l'Amérique, ils s'aperçurent que leurs coreligionnaires
de la Biscaye et de la Guipozcoa n'étaient pas les seuls à jouer la couvade.
"Aussitôt que chez les Apiponnes, écrit un missionnaire, la femme a mis au
monde un enfant, on voit le mari se mettre au lit : on l'entoure de soins, il
jeûne pendant un certain temps, vous jureriez que c'est lui qui vient
d'accoucher." – "Chez d'autres indigènes, écrit un voyageur, le mari
se met tout nu dans son hamac ; il est soigné par les femmes du voisinage, tandis
que la mère du nouveau-né prépare la cuisine, sans que personne s'occupe
d'elle."
Cet usage a été observé un peu partout : en Europe,
en Afrique, en Asie, dans le vieux et dans le nouveau monde ; dans le présent
et dans le passé. Marco-Polo le trouvait dans le Yunnam, au XIIIº siècle.
Apollonius qui vivait deux siècles avant notre ère, raconte que "les
femmes du Pont-Euxin mettent au monde leurs enfants avec la participation des
hommes, qui se couchent, poussent des cris perçants, s'enveloppent la tête, se
font préparer des bains et nourrir délicatement par leurs femmes."
–"Les Cypriens, dit Plutarque, se mettent au lit et imitent les
contorsions de la femme en couches." Les Athéniens célébraient le 2 du
mois gorpeius (septembre), une fête
en l'honneur d'Ariadne ; pendant le sacrifice "un jeune homme, couché dans
un lit, imitait les mouvements et les cris d'une femme en travail." (Plut.
Thésée XVIII). Je pourrais multiplier les citations, mais celles-ci suffisent
pour établir que cette ridicule coutume a été assez générale sur toute la
terre.
Les dieux, ces singes de l'homme, ne croyaient pas
la comédie de la couvade au-dessous de leur majesté. Jupiter se mit au lit,
poussa des gémissements et jura qu'il avait porté dans sa cuisse le petit Bacchus
que sa mère venait de mettre aux cieux : par privilège rare, Bacchus était
Bimétor, à double mère ; les civilisés se contentent d'être à plusieurs pères.
Jupiter n'était pas à son premier accouchement, déjà il avait enfanté Minerve.
La couvade des Basques n'était qu'un amusant sujet
de plaisanteries, tant qu'on la crut une particularité de ce peuple si original
; mais le fait de la retrouver chez des peuples si divers et jusque dans
l'Olympe, mérite considération. L'homme, le plus cruel et le plus grotesque des
animaux, travestit parfois les phénomènes sociaux les plus considérables en des
cérémonies les plus ridicules. La couvade est une des supercheries qu'employa
l'homme pour déposséder la femme de ses biens et de son rang. La parturition proclamait le droit
supérieur de la femme dans la famille : l'homme parodia l'enfantement pour se convaincre
qu'il était bien le faiseur de l'enfant.
La famille patriarcale fit son entrée dans le monde
escortée par la discorde, le crime et la farce dégradante.