mercoledì 5 ottobre 2022

La rivoluzione mimetizzata - Miquel Amoros

 



     Quando i media parlano o scrivono della guerra di Spagna del 1936, fatto che accade di rado, non s’insiste praticamente mai sul fatto che la rivoluzione ha sempre accompagnato la guerra come un'amante indesiderabile. All'epoca, la dissimulazione della rivoluzione sociale nelle città e nelle campagne fu una grande opera di occultamento e deformazione svolta principalmente dallo stalinismo, non senza la complicità dei partiti e delle organizzazioni che collaboravano con esso obbedendo alle sue direttive. L'insabbiamento era conveniente per tutti i lealisti, e soprattutto per la burocrazia sovietica che pretendeva di porre fine al non intervento delle democrazie borghesi. Invano. La guerra fu vinta dai fascisti, e la rivoluzione, già liquidata da parte repubblicana, fu rinchiusa nella soffitta della memoria, dimenticata, a differenza dei suoi responsabili, o accusati di essere tali, che furono massacrati spietatamente dopo la farsa di prove sommarie.

 

     In un tempo ultra accelerato come quello attuale, è facile travestire la rivoluzione, o l'intera guerra, se vogliamo, perché l'evento, pur essendo il più importante del ventesimo secolo, rappresenta per una società civile incapace di autonomia, totalmente implicata nel presente, una piccolissima frazione di tempo sempre più lontana, e quindi sempre più strana e incomprensibile. Il passato è ciò che meno preoccupa gli individui nati durante il tardo periodo franchista e la cosiddetta Transizione, beneficiari in qualche modo della prosperità economica che seguì il dopoguerra europeo. Si tratta di persone che hanno interiorizzato i valori consumistici della borghesia, soddisfatte della loro miseria esistenziale, quindi senza interesse per la storia, dimentiche della memoria, rinchiuse nella loro sfera privata, sottoposte al costante bombardamento dei messaggi unilaterali del dominio, quindi, senza vita pubblica, né pensiero proprio, obbedienti ai disegni delle gerarchie stabilite. La scomparsa del movimento operaio rivoluzionario ha permesso di assimilare volentieri la nuova versione propagandista della guerra civile, quella dell'oblio concordato tra il regime franchista riformatore e l'opposizione morbida, che lamentava "una guerra tra fratelli" felicemente riconciliati e amnistiava i responsabili del genocidio del dopoguerra. C'è stata la guerra, "con errori da entrambe le parti", ma se ci atteniamo allo spirito del patto di silenzio, non c'è più stata.

In un mondo dove nulla è quello che sembra, dove il passato è scritto e riscritto dai vincitori, la verità va cercata al rovescio della storia, dal basso, portando alla luce il punto di vista dei vinti. Solo allora la verità brillerà. Se guardiamo i fatti dal punto di vista dei vincitori, la monarchia liberale di oggi diverrebbe l'erede della repubblica democratica di allora, violentemente epurata da un eccesso di zelo militare che portò alla parentesi del regime franchista. Tuttavia, nessuno potrebbe spiegare in modo comprensibile la passata dittatura considerandola un errore fatale, una tragica eccezione alla norma democratica e progressista corretta fortunatamente per tutti nel 1978. La sanguinosa dittatura franchista era strettamente legata alla profonda crisi capitalista degli anni '30, sia politica che economica, vale a dire, che ha avuto molto a che fare con il fallimento della democrazia parlamentare e con il fiasco del progresso industriale e tecnologico, due enormi errori su cui si basa lo status quo contemporaneo. Fu, quindi, in quanto salvezza estremista dell'ordine, una mossa moderna, necessaria, giustificata dal punto di vista della classe dominante. Tanto quanto lo è stata la sua relativa dissoluzione in un sistema definito democratico da coloro che lo hanno installato.

La sinistra del regime partitocratico imperante si crede audace quando fa un passo avanti e definisce la passata guerra civile come un conflitto tra azzurri e rossi, cioè tra democrazia e fascismo. Questa visione, diciamo ufficiosa, partecipa alla negazione del fatto rivoluzionario, come fecero in passato gli stalinisti liquidandolo come un eccesso causato dall'assenza di realismo delle minoranze anarchiche e dal loro colpevole utopismo. Niente che meriti di essere ricordato se non come un deplorevole eccesso appassionato di folle incontrollate che diede origine a sfortunati disordini non voluti dai legittimi rappresentanti dell'autorità. In questo modo, la democrazia cittadina dei nostri progressisti postmoderni presenta la rivoluzione quasi come un crimine, e infatti, per la classe rovesciata nel 1936, l'attività rivoluzionaria fu criminale. Parafrasando il marchese de Sade, aggiungerei che la rivoluzione è il crimine che contiene tutti i crimini. La rivoluzione aspira a creare un ordine nuovo, egualitario, più giusto e più libero, ma non c'è vera creazione senza la preventiva distruzione di ciò che esiste. Attraverso la guerra civile, la negatività creativa delle masse si è concretizzata in giustizia rivoluzionaria contro i nemici di classe, incendio di chiese e oggetti religiosi (simboli ideologici del patriottismo fazioso), distruzione di archivi, espropri, perquisizioni, formazione di milizie, controllo di fabbriche e collettivizzazione della terra. Un oppresso del giorno prima diceva dei ricchi: "Li vedevamo come se fossero il diavolo, e sono come noi". Qualsiasi azione che neghi l'ordine costituito, è dannosa per i potenti disarmati, qualcosa come un crimine molto grave, ma anche il peggior misfatto può essere perdonato. Come? A causa del suo successo. Ogni atto della rivoluzione è criminale finché non ha trionfato: il trionfo assolve il crimine. La rivoluzione sarà giudicata per la sua vittoria, per aver imposto i suoi ideali, per aver realizzato i suoi obiettivi e aver mantenuto le sue promesse. Invece i rivoluzionari che falliscono sono criminali per i posteri resi tali dalla loro sconfitta. Ogni calunnia nei loro confronti sarà vera alle orecchie dei vincitori. Quindi, considerando l'ortodossia del dominio, niente di più malvagio e criminale della Colonna di Ferro.

La Colonna di Ferro fu la più genuina avanguardia armata del proletariato urbano e contadino valenciano. Una sua pagina diceva: «uomini duri, dal cuore traboccante d'amore, paladini della libertà e scudo di esseri indifesi». Nessuna formazione rappresentava meglio l'idealismo libertario, né alcun'altra si oppose con maggior veemenza alle contraddizioni della CNT e della FAI, i cui dirigenti, “nella circostanza”, hanno dimenticato i loro principi, sottomettendosi a un’alleanza di classe nazionalista, qualificata allegramente di antifascista. Le decisioni della Colonna di Ferro, prese al di fuori dei comitati organici, sconvolsero la burocrazia confederale e specifica, mettendola in serie difficoltà. La quale, di conseguenza, ha lavorato di concerto con i nemici naturali della colonna - i capi politici, i borghesi camuffati, i ministri e gli stalinisti - per minare la sua forza e la sua influenza. Nessuna colonna anarchica ha attaccato altrettanto la borghesia industriale e fondiaria, calpestando inequivocabilmente i principi sacrosanti della proprietà, del mercato, della religione e dell'ordine. La sua ostilità verso lo Stato era proverbiale. La Colonna di Ferro non è mai scesa a compromessi. Fin dall'inizio ha chiarito che i suoi militanti non stavano combattendo per preservare la legalità repubblicana, ma per la rivoluzione. Ha resistito fino all'inesprimibile alla militarizzazione. Lo Stato non era niente per lei e permettergli di ricostituirsi e di armare un esercito era l'errore più grande che si potesse fare. Ci furono fattori importanti che fecero pendere la bilancia a favore dei faziosi, per esempio la debolezza internazionale della classe operaia e l'aiuto fascista ai ribelli, ma fu soprattutto grazie alla restaurazione dello Stato che la rivoluzione sociale fu annientata e perse la guerra, fatto che sarà sempre responsabilità di coloro che non avrebbero dovuto aiutare i restauratori e invece lo hanno fatto.

La Colonna di Ferro fu la milizia più consistente nella teoria e nella pratica delle idee, fatto scandaloso che non le fu mai perdonato. È stata messa dalla sua stessa Organizzazione nella posizione di diventare una brigata di un esercito statale o di sciogliersi. Scelse la prima opzione, ma alla prima occasione fu usata come carne da cannone in un'irrazionale e sanguinosa battaglia di logoramento. Ci furono molte vittime e diserzioni significative. La brigata si ricostituì con coscritti. Lo spirito della colonna andò definitivamente perduto e la fama che la circondava fu lasciata in balia delle maldicenze. Per una sorta d’ironia compensativa, il suo ardore rivoluzionario fu invece confermato dal fatto di essere il corpo di milizia più denigrato della storia. Coloro che in un modo o nell'altro la diffamano, quando si vede chi sono, come si posizionano e che cosa fanno, in realtà le rendono omaggio.

 

Miquel Amorós, Presentazione del libro La colonna di ferro. Fatti reali, gesta e favole sulla famosa milizia rivoluzionaria del proletariato, Casa editrice Milvus, Fiera del libro anarchico di Pedreguer, 12 settembre 2022.

 


LA REVOLUCIÓN CAMUFLADA

     Cuando en los medios de comunicación se habla o escribe sobre la guerra española del 36, cosa que ocurre raras veces, prácticamente nunca se insiste sobre el hecho de la revolución que la acompañó siempre como un amante indeseable. En su momento, el disimulo de la revolución social en la ciudad y el campo fue una magna obra de ocultación y desfiguración llevada a cabo principalmente por el estalinismo, no sin la complicidad de los partidos y organizaciones que colaboraron con él y obedecieron sus directrices. A todos los bandos leales les convenía el encubrimiento, y especialmente a la burocracia soviética, pues con él se pretendía poner fin a la no intervención de las democracias burguesas. En vano. La guerra la ganaron los fascistas, y la revolución, liquidada ya en el bando republicano, fue arrinconada en el desván de la memoria, olvidada, aunque no sus responsables, o los que fueron acusados de tales, que fueron implacablemente masacrados tras la farsa de juicios sumarísimos.

 

     En una época hiperacelerada como la actual, el escamoteo de la revolución, o de toda la guerra si se quisiera, es fácil, pues el acontecimiento, a pesar de ser el de mayor importancia en el siglo XX, representa para una sociedad civil incapaz de autonomía, entregada completamente al presente, una fracción muy pequeña de tiempo cada vez más lejano, y por lo tanto, cada vez más extraño e incomprensible. El pasado es lo que menos preocupa a la mayoría de los individuos que nacieron durante el tardofranquismo y la llamada Transición, de alguna forma beneficiarios de la prosperidad económica que siguió a la posguerra europea. Son personas que interiorizaron los valores consumistas de la burguesía, conformes con su miseria existencial, luego sin interés por la historia, desmemoriadas, encerradas en su esfera privada, sometidas al bombardeo constante de mensajes unilaterales de la dominación, y por consiguiente, sin vida pública ni pensamiento propio, obedientes a los designios de las jerarquías establecidas. La desaparición del movimiento obrero revolucionario permitió asimilar de buen grado la nueva versión propagandista de la guerra civil, la del olvido pactado entre el franquismo reformador y la oposición blanda, que lamentaba «una guerra entre hermanos» felizmente reconciliados y amnistiaba a los responsables del genocidio posguerrero. Hubo guerra, «con errores en ambos bandos», pero si nos atenemos al espíritu del pacto de silencio, dejó de haberla.

 

     En un mundo donde nada es lo que parece, donde el pasado lo escriben y reescriben los vencedores, la verdad hay que buscarla en el reverso de la historia, por abajo, desenterrando el punto de vista de los vencidos. Solamente así resplandecerá. Si contemplamos los hechos en la perspectiva de los vencedores, la monarquía liberal de hoy vendría a ser heredera de la república democrática de entonces, violentamente purgada por un exceso de celo militar que trajo el paréntesis del régimen franquista. Sin embargo, nadie podría explicar inteligiblemente la dictadura pasada considerándola un error fatal, una excepción trágica a la norma democrática y progresista corregida por suerte para todos en 1978. La sangrienta Dictadura de Franco anduvo íntimamente ligada a la profunda crisis capitalista de los años treinta, tanto política como económica, es decir, que tuvo mucho que ver con el fracaso de la democracia parlamentaria y el fiasco del progreso industrial y tecnológico, dos falacias enormes sobre las que se sostiene el estatu quo contemporáneo. Fue pues en tanto que salvación extremista del orden, un lance moderno, necesario, justificado desde la óptica de la clase dominante. Tanto como lo ha sido su disolución relativa en un sistema que quienes lo implantaron denominaron democrático.

 

     La izquierda del régimen partitocrático imperante se cree audaz cuando va un paso más allá y define la pasada guerra civil como un confllicto entre azules y rojos, es decir, entre democracia y fascismo. Esa visión, digamos oficiosa, participa en el ninguneo del hecho revolucionario, que, tal como antaño hicieron los estalinistas, lo tacha de exceso causado por el irrealismo de las minorías anarquistas y su utopismo culpable. Nada que valga la pena recordar sino como deplorable extralimitación pasional de turbas incontroladas que dio pie a lamentables desórdenes no deseados por los legítimos representantes de la autoridad. De esta forma, el democratismo ciudadano de nuestros progresistas posmodernos presenta la revolución casi como un crimen, y en efecto, para la clase derrocada en el 36 la actividad revolucionaria fue criminal. Parafraseando al marqués de Sade, añadiríamos que la revolución es el crimen que contiene todos los crímenes. La revolución aspira a crear un orden nuevo, igualitario, más justo y más libre, pero no hay creación verdadera sin destrucción previa de lo existente. Para la guerra civil la negatividad creadora de las masas se concretó en justicia revolucionaria contra los enemigos de clase, incendio de iglesias y objetos religiosos (símbolos ideológicos del patriotismo faccioso), destrucción de archivos, expropiaciones, registros, formación de milicias, control de fábricas y colectivización de tierras. Un oprimido de la víspera decía de los ricos: «nosotros los veíamos como si fueran el diablo, y ellos a nosotros igual». Cualquier acción, al negar el orden establecido, es mala para los poderosos desarmados, algo así como un delito gravísimo, pero hasta la peor fechoría puede perdonarse ¿Cómo? Por su éxito. Todo acto de la revolución es criminal mientras esta no haya triunfado: el triunfo absuelve el crimen. La revolución será juzgada por su victoria, por imponer sus ideales, por realizar sus objetivos y cumplir sus promesas.  Pero los revolucionarios que fracasan son criminales para la posteridad determinada por su derrota. Cualquier calumnia que se les endose será verdadera para los oídos de los vencedores. Entonces, teniendo en cuenta la ortodoxia de la dominación, nada más malvado y criminal que la Columna de Hierro.

 

     La Columna de Hierro fue la vanguardia armada más genuina del proletariado valenciano urbano y campesino. Decía una de sus hojas: «hombres duros, con corazón desbordante de amor, paladines de la libertad y escudo de seres indefensos». Ninguna formación representó mejor el idealismo libertario, ni hubo otra que se opusiera con más vehemencia a las contradicciones de la CNT y la FAI, cuyos dirigentes debido a «las circunstancias» hacían girones de sus principios y se sometían a una alianza nacionalista de clases calificada, alegremente de antifascista. Sus decisiones tomadas al margen de los comités orgánicos, disgustaron a la burocracia confederal y específica y la pusieron en serios aprietos. En consecuencia, aquella trabajó de consuno con sus enemigos naturales -los caciques políticos, los burgueses camuflados, los ministros y los estalinistas- para socavar su fuerza e influencia. Ninguna columna anarquista arremetió tanto como ella contra la burguesía industrial y terrateniente, pisoteando sin ambages los sacrosantos principios de la propiedad, el mercado, la religión y el orden. Su animadversión hacia el Estado fue proverbial. Nunca contemporizó. Desde un principio dejó claro que sus milicianos no se batían por preservar la legalidad republicana, sino por la revolución. Resistió hasta lo indecible a la militarización. El Estado no era nada para ella y permitir que se reconstituyese y armase un ejército era el mayor desacierto que se podía cometer. Hubo importantes factores que inclinaron la balanza del lado de los facciosos, como por ejemplo la debilidad internacional de la clase obrera y la ayuda fascista a los sublevados, pero fue sobre todo gracias a la restauración del Estado que la revolución social fue aniquilada y se perdió la guerra, algo que figurará siempre en el haber de quienes no debieron ayudar a los restauradores y sin embargo lo hicieron.      

 

     La Columna de Hierro fue la milicia más consecuente en la teoría y la práctica de las ideas, escándalo que nunca le perdonaron. Fue colocada por su propia Organización en la tesitura de convertirse en brigada de un ejército estatal o disolverse. Escogió lo primero, pero a las primeras de cambio, se la utilizó como carne de cañón en una irracional y cruenta batalla de desgaste. Hubo muchas bajas y significativas deserciones. La brigada se reconstruyó con reclutas. El espíritu de la columna se quebró definitivamente y la fama que la envolvió quedó a merced de la maledicencia. Por una suerte de ironía compensatoria, su ardor revolucionario fue confirmado a la contra, gracias a ser la unidad miliciana más denigrada de la historia. Los que de una manera u otra la difaman, viendo lo que son, donde se sitúan y lo que hacen, en realidad le rinden homenaje.

 

Miquel Amorós Presentación del libro «La Columna de Hierro. Hechos reales, hazañas y fabulaciones sobre la célebre milicia revolucionaria del proletariado», de la editorial Milvus, en la Fira del llibre anarquista de Pedreguer, 12 de septiembre de 2022.


Nazione e Stato

 



Per realizzare il dominio al quale aspirano strutturalmente fin dalle origini, i mercanti-guerrieri del produttivismo hanno creato lo Stato come organo di potere per gestire la società sottomessa pastorizzandola e omogeneizzandola. Questo processo intimamente predatorio e suprematista continua senza fine dalle città-Stato agli Stati-nazione, poi agli Stati-continente e ora al progetto apocalittico di un unico Stato planetario il cui totalitarismo perverso si prepara a regnare sulle rovine del mondo e sui sopravvissuti alla catastrofe sistemica in corso.

All’internazionalismo sociale, destinato a passare dalla coscienza di classe alla coscienza di specie da cui dipendono ormai la nostra salvezza e la nostra sopravvivenza (difficili se non improbabili), si oppone da millenni il lento, incessante, inarrestabile avanzare della mondializzazione di un produttivismo il cui modo di produzione capitalista ha ormai mercificato il mondo intero distruggendo la vita organica fino alle sue radici natali.

La comunità umana da cui scaturisce la civiltà produttivista ha visto la costante evoluzione della burocratizzazione della sua natura antropologica. Le nazioni psicogeografiche acratiche che compongono la comunità umana, dalla più semplice coppia al gruppo, fino alle etnie e ai popoli, sono state progressivamente trasformate in strutture di dominio sottomesse burocraticamente e militarmente alla logica schiavistica del lavoro coatto, necessario al produttivismo per esistere e dominare producendo valore economico in crescita costante.

La nazione psicogeografica spontanea, affettiva, molteplice e varia è alla radice della comunità umana e degli individui che la compongono. Dalle Città-Stato agli Stati-nazione essa è stata dappertutto trasformata ideologicamente in gregge economico, religioso e sociale sotto il controllo militare e poliziesco di un esercito di sbirri e di burocrati. Questo Stato onnipresente è da sempre al cuore della civiltà produttivista nel cui nome ha inventato il nazionalismo che dello Stato e non della nazione psicogeografica è figlio.

Negando la nazione perché incapace di guardare oltre il nazionalismo (ricordiamoci di Stalin, il cui delirio ridicolo e mostruoso si esprime attraverso un ossimoro esemplare blaterante di comunismo in un solo paese), l’internazionalismo ideologico dell’imborghesito proletariato gauchista fa un amalgama idiota tra il nazionalismo fascista dello Stato e la nazione psicogeografica, la cui democrazia diretta è incompatibile con lo Stato. Il ribellismo autoritario e reazionario dei rivoluzionari spettacolari (fascismo rosso, bruno o nero, stessa lotta per il potere) nega la nazione psicogeografica per fare dell’internazionalismo una religione mentre esso incarna la propensione acratica del vivente, e dell’umano in particolare, alla sovrapposizione orgastica di energie vitali autonome e differenti per genere e storia, tanto nei rapporti individuali che sociali.

Come sempre, l’ideologia dimentica la realtà in nome di un realismo spettacolare che sta alla radice di quel fascismo rosso, erede dello zarismo, la cui radice intimamente reazionaria ha contaminato l’idea russo bolscevica del comunismo fin dall’inizio. Senza nazione psicogeografica acratica non esiste internazionalismo possibile. L’hanno ben capito gli zapatisti il cui indubbio internazionalismo passa per l’EZLN (Esercito zapatista di liberazione nazionale).

La nazione che l’ideologia rivoluzionaria contemplativa abbandona con sdegno benpensante agli sciacalli fascisti appestati dal produttivismo, non ha nulla a che vedere con il nazionalismo, con stupidi e odiosi inni guerrieri, con bandiere vessillo di una guerra dichiarata o almeno sempre minacciata agli altri popoli, ad altre nazioni, ad altri esseri umani non riconosciuti come tali: selvaggi, incivili, untermenchen o controrivoluzionari secondo i gusti ideologici e il grado di disumanità raggiunti e coltivati dallo Stato padrone (poco importa se di destra o di sinistra) che bolla sempre e comunque i liberi cittadini come nemici della patria – riferimento chiaro e netto al suprematismo patriarcale.

La nazione psicogeografica partecipa al costante movimento dal locale al planetario aggiungendosi come una nuova fonte di energia vitale collettiva agli amori individuali e unendo ogni libero individuo della specie all’Internazionale dei popoli in piena autonomia, ognuno con le proprie specificità locali e un desiderio comune di libertà e di gioia di vivere. L’umanità esisterà veramente soltanto quando l’opera d’arte della comunità umana in fieri avrà umanizzato la natura non con la violenza, non imponendole una condizione, dei costumi, delle gerarchie, una civiltà – così il maschio produttivista ha imposto alla femmina il patriarcato –, ma con la libera creazione artistica di un mondo relativamente ma sostanzialmente pacificato e in questo senso umanizzato.

In nome di una libertà senza eccezioni, l’atto fondatore di ogni comunità umana è la diserzione pacifica da ogni guerra tra Stati. Il fascismo caratteriale, sintomo maggiore della peste emozionale produttivista, è uno strumento di predazione che trasforma in guerra per il dominio ogni differenza, ogni specificità. L’elemento predatore accompagna l’umanità in fieri fin dalle origini impedendole di nascere. Il pericolo naturale che circola nella giungla primitiva[1] ha sempre spinto le prime comunità di ominidi a definire non umani o meno umani gli altri gruppi poco conosciuti o sconosciuti. Molti nomi di tribù esistenti o esistite si autodefiniscono uomini, umani, implicando il timore, a volte verificato, che altri non lo siano. Perché la predazione, inflitta o subita, è la componente disumana dell’umanità mentre il suo superamento è la realizzazione della natura umana. Natura costantemente in fieri, che soltanto un’opera d’arte evoluzionista può realizzare, non una morale obbligatoria, né una fredda tecnologia o un delirio transumanista.

L’attuale nazione italica, per esempio, è un processo recente. Non esiste senza il contenuto culturale vissuto e diversamente espresso dal modo di parlare, nutrirsi, fare l’amore, la musica, la poesia, l’arte. Sono, infatti, molte le nazioni psicogeografiche regionali che compongono questo Stato-nazione frutto contingente del colonialismo sabaudo ma anche di un autentico processo spontaneo d’internazionalizzazione che abita tutti i popoli fin dalla nascita, senza urgenze né obblighi. Perché lo stivale è italiano, ma il pesto con il basilico del sud non ha lo stesso gusto del pesto genovese e il pecorino sardo non è frutto della stessa nazione d’origine di quello romano o, ancora più localmente, di Amatrice. Eppure, dal Piemonte alla Sicilia, da Quarto a Marsala si mangia la pasta e il parassitismo imperialista dei Savoia non ne è la causa.

Tra gli ominidi di un tempo, più umani degli attuali sopravvissuti all’industrialismo e alla sua civiltà tecno-cancerogena planetaria, gli stranieri erano considerati estranei se non barbari finché l’ospitalità reciproca non trasformava in festa condivisa tra uguali il rischio sempre presente della guerra per la predazione sessuale e sociale. Guerra e pace sono sempre possibili e se non è l’una, è l’altra. L’umanizzazione del mondo presuppone la creazione di condizioni in cui la pace sia la norma e la guerra l’eccezione definitivamente sconfitta da una società di donne e uomini liberi e uguali in diritto, per i quali la morte si riduca a un tragico fatto naturale.

Il sogno gilanico[2] la cui sperimentazione storica è stata provata, è l’unico antidoto all’incubo pestilenziale che avanza, l’unica civiltà altra rispetto alla civiltà produttivista che ha invaso il pianeta con le sue diverse culture religiose e politiche, tutte indistintamente suprematiste. Si tratta finalmente di prendere coscienza che l’ipotesi gilanica è una tendenza pacifica e non necessariamente pacifista perché in ogni situazione la diffidenza precauzionale contro ogni violenza imposta invita a valutare strategicamente e non moralmente la dose di violenza difensiva necessaria e utilizzabile dalla comunità.

Il gauchismo rappresenta forse l’ultima forma ideologica di dittatura in nome della libertà. Un ultimo ossimoro. Laddove le destre, tutte le destre fasciste o parlamentariste, impongono cinicamente il loro diktat a chiunque con tutta la loro violenza suprematista, il gauchismo s’impone in nome dell’etica laica di un comunismo da chiesa (di qualunque chiesa si tratti, anche la più libertaria) con il suo misticismo virale, i suoi rituali comunitari, la sua inquisizione di casta che si pretende di classe e il suo clero burocratico e moralizzatore (preti e suore di ogni superstizione religiosa, politica o sanitaria!).

Il comunismo si è presentato come l’ultima religione possibile, favorendo in realtà il ritorno grottesco delle credenze precedenti che avevano trovato nei monoteismi il loro più orribile splendore mistico. Quanti morti in terra in nome di fittizi paradisi celesti. Quanti campi di concentramento per reprobi ideologici in nome della libertà e dell’emancipazione dei popoli. Molto prima di S. Pietro e ben dopo Pol-Pot, è tutto l’universo produttivista, ormai vecchio di sette millenni almeno, che aspetta di essere sepolto dal nascere di una civiltà umana senza dei né piccoli padri dei popoli, senza capi né capesse, senza caporali né caporalesse, senza padroni/e né schiavi/e in un unico grandioso rispetto, gioioso e gaudente del vivente e di una libera danza con l’amore, con la gioia e la volontà di vivere.

Sergio Ghirardi Sauvageon, 2 ottobre 2022



[1] Giungla reale ma anche fantasticata come tale sia dall’homo stanziale che da quello nomade che compongono la specie umana fin dall’antichità. La giungla è un concetto necessario al principio di precauzione per fare attenzione al pericolo presente dovunque nei rapporti interspecifici del mondo primitivo. Un mondo che gli ominidi moderni hanno reso totalmente artificiale ma non meno pericoloso, anzi!

[2] I più curiosi che ne siano ignari possono approfittare di Internet, anziché per comprare su Amazon, per capire il senso e conoscere la (prei)storia di questo concetto misterioso che  ho ripreso più volte nelle mie riflessioni: civiltà gilanica.




Nation et État

Pour parvenir à la domination à laquelle ils aspirent structurellement depuis le début, les marchands-guerriers du productivisme ont créé l'État comme organe de pouvoir pour gérer la société assujettie en la pasteurisant et en l'homogénéisant. Ce processus intimement prédateur et suprematiste se poursuit sans fin des cités-États aux États-nations, puis aux États-continents et maintenant au projet apocalyptique d'un seul État planétaire dont le totalitarisme pervers se prépare à régner sur les ruines du monde et sur les rescapés à la catastrophe systémique en cours.

À l'internationalisme social, destiné à passer de la conscience de classe à la conscience d'espèce dont dépendent désormais notre salut et notre survie (difficiles sinon improbables), s’oppose depuis des millénaires l'avancée lente, implacable, imparable de la mondialisation d'un productivisme dont le mode de production capitaliste a désormais marchandisé le monde entier en détruisant la vie organique jusqu'à ses racines natales.

La communauté humaine dont est issue la civilisation productiviste a vu l'évolution constante de la bureaucratisation de sa nature anthropologique. Les nations psychogéographiques acratiques qui composent la communauté humaine, du plus simple couple au groupe, jusqu’aux ethnies puis aux peuples, se sont progressivement transformées en structures de domination soumises bureaucratiquement et militairement à la logique esclavagiste du travail forcé nécessaire au productivisme afin d’exister et dominer en produisant une valeur économique sans cesse croissante.

La nation psychogéographique spontanée, affective, multiple et variée est à la racine de la communauté humaine et des individus qui la composent. Des Cités-États aux États-nations, elle s'est partout transformée idéologiquement en un troupeau économique, religieux et social sous le contrôle militaire et policier d'une armée de flics et de bureaucrates. Cet État omniprésent a toujours été au cœur de la civilisation productiviste au nom de laquelle il a inventé le nationalisme, enfant de l'État et non de la nation psychogéographique.

En niant la nation, incapable qu'il est de regarder au-delà du nationalisme (rappelons-nous de Staline, dont le délire ridicule et monstrueux s’exprime par un oxymore exemplaire blatérant de communisme dans un seul pays), l'internationalisme idéologique du prolétariat gauchiste embourgeoisé fait un amalgame idiot entre le nationalisme fasciste d'État et la nation psychogéographique dont la démocratie directe est incompatible avec l’État. La rébellion autoritaire et réactionnaire des révolutionnaires spectaculaires (fascisme rouge, brun ou noir, même combat pour le pouvoir) nie la nation psychogéographique pour faire de l'internationalisme une religion alors que celui-ci incarne la propension acratique du vivant, et de l'humain en particulier, à la superposition orgastique d’énergies vitales autonomes et différentes par genre et histoire, tant dans les relations individuelles que sociales.

Comme toujours, l'idéologie oublie la réalité au nom d'un réalisme spectaculaire qui est à la racine de ce fascisme rouge, héritier du tsarisme, dont la racine profondément réactionnaire a contaminé l'idée russe-bolchevique du communisme dès le début. Sans nation psychogéographique acratique, pas d'internationalisme possible. Les zapatistes, dont l'internationalisme incontestable passe par l'EZLN (Armée de libération nationale zapatiste), l'ont bien compris.

La nation que l'idéologie révolutionnaire contemplative abandonne avec indignation bienpensante aux chacals fascistes pestiférés par le productivisme, n'a rien à voir avec le nationalisme, avec des hymnes guerriers stupides et haineux, avec des drapeaux étendard d'une guerre déclarée ou du moins toujours menacée aux autres peuples, à d'autres nations, à d'autres êtres humains non reconnus comme tels : sauvages, non civilisés, untermenchen ou contre-révolutionnaires selon les goûts idéologiques et le degré d'inhumanité atteint et cultivé par l'État maître (de droite ou de gauche, peu importe) qui accable toujours et en tout cas les citoyens libres comme des ennemis de la patrie – reference claire et nette au suprématisme patriarcal.

La nation psychogéographique participe au mouvement constant du local au planétaire s’ajoutant comme une nouvelle source d’énergie vitale collective aux amours individuels et unissant chaque libre individu de l'espèce à l'Internationale des peuples en toute autonomie, chacun avec ses propres spécificités locales et un désir partagé pour la liberté et la joie de vivre. L'humanité n'existera vraiment que lorsque l'œuvre d'art de la communauté humaine in fieri aura humanisé la nature non pas par la violence ni lui imposant une condition, des coutumes, des hiérarchies, une civilisation comme le mâle productiviste a imposé à la femelle le patriarcat , mais par la libre création artistique d'un monde relativement mais substantiellement pacifié et en ce sens humanisé.

Au nom d’une liberté sans exceptions, l’acte fondateur de toute communauté humaine est la désertion pacifique de toute guerre entre États. Le fascisme caractériel, symptôme majeur de la peste émotionnelle productiviste, est un instrument de prédation qui transforme toute différence, toute spécificité en guerre pour la domination. L'élément prédateur accompagne l'humanité en devenir depuis ses origines l’empêchant de naître. Le danger naturel qui circule dans la jungle primitive[1] a toujours incité les premières communautés d'hominidés à définir d'autres groupes méconnus ou inconnus comme non humains ou moins humains. De nombreux noms de tribus existantes ou ayant existé s'appellent hommes, humains, impliquant la crainte, parfois vérifiée, que d'autres ne le soient pas. Car la prédation, infligée ou subie, est la composante inhumaine de l'humanité alors que son dépassement est la réalisation de la nature humaine. Nature constamment in fieri, ce que seule une œuvre d'art évolutionniste peut réaliser, pas une morale imposée, ni une technologie froide ou un délire transhumaniste.

La nation italienne actuelle, par exemple, est un processus récent. Elle n'existe pas sans le contenu culturel vécu et différemment exprimé par la manière de parler, de manger, de faire l'amour, la musique, la poésie, l'art. Nombreuses, en fait, sont les nations psychogéographiques régionales qui composent cet État-nation, fruit contingent du colonialisme savoyard, mais aussi d'un authentique processus spontané d'internationalisation qui habite tous les peuples depuis leur naissance, sans urgence ni obligations. Car la botte est italienne, mais le pesto avec le basilic méridional n'a pas le même goût que le pesto génois et le pecorino sarde n'est pas le fruit de la même nation d'origine que le pecorino romain ou, encore plus localement, celui d'Amatrice. Et pourtant, du Piémont à la Sicile, de Quarto à Marsala on mange des pâtes et le parasitisme impérialiste des Savoie n'en est pas la cause.

Parmi les hominidés d'autrefois, plus humains que les survivants actuels de l'industrialisme et de sa civilisation techno-cancérigène planétaire, les étrangers étaient considérés comme étranges sinon barbares jusqu'à ce que l'hospitalité mutuelle transforme le risque omniprésent de guerre pour la prédation sexuelle et sociale en une fête partagée entre égaux. La guerre et la paix sont toujours possibles et si ce n'est pas l'une, c'est l'autre. L'humanisation du monde suppose la création de conditions dans lesquelles la paix est la norme et la guerre l'exception définitivement vaincue par une société d'hommes et de femmes libres et égaux en droit, pour qui la mort est réduite à un fait naturel tragique.

Le rêve gylanique[2] dont l’expérimentation historique a été prouvée, est le seul antidote au cauchemar pestilentiel qui avance, l’unique civilisation autre que la civilisation productiviste qui a envahi la planète avec ses diverses cultures religieuses et politiques, toutes indistinctement suprématistes. Enfin, il s'agit de prendre conscience que l’hypothèse gylanique est une tendance pacifique et pas forcément pacifiste car en toute situation la méfiance précautionneuse contre toute violence imposée invite à évaluer stratégiquement et non moralement la dose de violence défensive nécessaire et utilisable par la communauté.

Le gauchisme est peut-être la dernière forme idéologique de dictature au nom de la liberté. Un dernier oxymore. Là où les droites, toutes les droites fascistes ou parlementaristes, imposent cyniquement leur diktat à n'importe qui avec toute leur violence suprématiste, le gauchisme s'impose au nom de l'éthique laïque d'un communisme d'église (quelle qu'elle soit, même l’église la plus libertaire) avec son mysticisme viral, ses rituels communautaires, son inquisition de caste qui se prétend de classe et son clergé bureaucratique et moralisateur (prêtres et bonnes-sœurs de toutes superstitions religieuses, politiques ou sanitaires !).

Le communisme s’est présenté comme la dernière religion possible, favorisant en fait le retour grotesque des croyances précédentes qui avaient trouvé leur plus horrible splendeur mystique dans les monothéismes. Combien de morts sur terre au nom de paradis célestes fictifs. Combien de camps de concentration pour anathématisés idéologiques au nom de la liberté et de l'émancipation des peuples. Bien avant Saint-Pierre et bien après Pol-Pot, c'est tout l'univers productiviste, aujourd'hui vieux de sept millénaires au moins, qui attend d'être enterré par la naissance d'une civilisation humaine sans dieux ni petits pères des peuples, sans chefs ni chéfesses, sans caporaux ni caporalesses, sans maîtres ou esclaves en tout genre, dans un seul respect grandiose, joyeux et jouissif du vivant et d’une libre danse avec l'amour, avec la joie et la volonté de vivre.

 

Sergio Ghirardi Sauvageon, 2 octobre 2022



[1] Véritable jungle mais aussi fantasmée comme telle tant par l’homo sédentaire que par l’homo nomade qui composent l'espèce humaine depuis la nuit des temps. La jungle est un concept nécessaire au principe de précaution pour prêter attention au danger présent partout dans les relations interspécifiques du monde primitif. Un monde que les hominidés modernes ont rendu totalement artificiel mais non moins dangereux, loin de là !

[2] Les plus curieux qui l'ignorent peuvent profiter d'Internet, plutôt que pour acheter sur Amazon, pour comprendre le sens et connaître la (pré)histoire de ce concept mystérieux dont j'ai parlé à plusieurs reprises dans mes réflexions : la civilisation gylanique