Quando i media parlano o
scrivono della guerra di Spagna del 1936, fatto che accade di rado, non
s’insiste praticamente mai sul fatto che la rivoluzione ha sempre accompagnato
la guerra come un'amante indesiderabile. All'epoca, la dissimulazione della
rivoluzione sociale nelle città e nelle campagne fu una grande opera di
occultamento e deformazione svolta principalmente dallo stalinismo, non senza
la complicità dei partiti e delle organizzazioni che collaboravano con esso
obbedendo alle sue direttive. L'insabbiamento era conveniente per tutti i
lealisti, e soprattutto per la burocrazia sovietica che pretendeva di porre
fine al non intervento delle democrazie borghesi. Invano. La guerra fu vinta
dai fascisti, e la rivoluzione, già liquidata da parte repubblicana, fu
rinchiusa nella soffitta della memoria, dimenticata, a differenza dei suoi
responsabili, o accusati di essere tali, che furono massacrati spietatamente
dopo la farsa di prove sommarie.
In un tempo ultra accelerato come
quello attuale, è facile travestire la rivoluzione, o l'intera guerra, se
vogliamo, perché l'evento, pur essendo il più importante del ventesimo secolo,
rappresenta per una società civile incapace di autonomia, totalmente implicata
nel presente, una piccolissima frazione di tempo sempre più lontana, e quindi
sempre più strana e incomprensibile. Il passato è ciò che meno preoccupa gli
individui nati durante il tardo periodo franchista e la cosiddetta Transizione,
beneficiari in qualche modo della prosperità economica che seguì il dopoguerra
europeo. Si tratta di persone che hanno interiorizzato i valori consumistici
della borghesia, soddisfatte della loro miseria esistenziale, quindi senza
interesse per la storia, dimentiche della memoria, rinchiuse nella loro sfera
privata, sottoposte al costante bombardamento dei messaggi unilaterali del
dominio, quindi, senza vita pubblica, né pensiero proprio, obbedienti ai
disegni delle gerarchie stabilite. La scomparsa del movimento operaio
rivoluzionario ha permesso di assimilare volentieri la nuova versione
propagandista della guerra civile, quella dell'oblio concordato tra il regime
franchista riformatore e l'opposizione morbida, che lamentava "una guerra
tra fratelli" felicemente riconciliati e amnistiava i responsabili del
genocidio del dopoguerra. C'è stata la guerra, "con errori da entrambe le
parti", ma se ci atteniamo allo spirito del patto di silenzio, non c'è più
stata.
In un mondo dove nulla è quello che sembra, dove il passato è
scritto e riscritto dai vincitori, la verità va cercata al rovescio della
storia, dal basso, portando alla luce il punto di vista dei vinti. Solo allora la
verità brillerà. Se guardiamo i fatti dal punto di vista dei vincitori, la
monarchia liberale di oggi diverrebbe l'erede della repubblica democratica di allora,
violentemente epurata da un eccesso di zelo militare che portò alla parentesi
del regime franchista. Tuttavia, nessuno potrebbe spiegare in modo
comprensibile la passata dittatura considerandola un errore fatale, una tragica
eccezione alla norma democratica e progressista corretta fortunatamente per
tutti nel 1978. La sanguinosa dittatura franchista era strettamente legata alla
profonda crisi capitalista degli anni '30, sia politica che economica, vale a
dire, che ha avuto molto a che fare con il fallimento della democrazia
parlamentare e con il fiasco del progresso industriale e tecnologico, due
enormi errori su cui si basa lo status quo contemporaneo. Fu, quindi, in quanto
salvezza estremista dell'ordine, una mossa moderna, necessaria, giustificata
dal punto di vista della classe dominante. Tanto quanto lo è stata la sua
relativa dissoluzione in un sistema definito democratico da coloro che lo hanno
installato.
La sinistra del regime partitocratico imperante si crede audace
quando fa un passo avanti e definisce la passata guerra civile come un
conflitto tra azzurri e rossi, cioè tra democrazia e fascismo. Questa visione,
diciamo ufficiosa, partecipa alla negazione del fatto rivoluzionario, come
fecero in passato gli stalinisti liquidandolo come un eccesso causato dall'assenza
di realismo delle minoranze anarchiche e dal loro colpevole utopismo. Niente
che meriti di essere ricordato se non come un deplorevole eccesso appassionato
di folle incontrollate che diede origine a sfortunati disordini non voluti dai
legittimi rappresentanti dell'autorità. In questo modo, la democrazia cittadina
dei nostri progressisti postmoderni presenta la rivoluzione quasi come un
crimine, e infatti, per la classe rovesciata nel 1936, l'attività
rivoluzionaria fu criminale. Parafrasando il marchese de Sade, aggiungerei che
la rivoluzione è il crimine che contiene tutti i crimini. La rivoluzione aspira
a creare un ordine nuovo, egualitario, più giusto e più libero, ma non c'è vera
creazione senza la preventiva distruzione di ciò che esiste. Attraverso la
guerra civile, la negatività creativa delle masse si è concretizzata in
giustizia rivoluzionaria contro i nemici di classe, incendio di chiese e
oggetti religiosi (simboli ideologici del patriottismo fazioso), distruzione di
archivi, espropri, perquisizioni, formazione di milizie, controllo di fabbriche
e collettivizzazione della terra. Un oppresso del giorno prima diceva dei
ricchi: "Li vedevamo come se fossero il diavolo, e sono come noi".
Qualsiasi azione che neghi l'ordine costituito, è dannosa per i potenti
disarmati, qualcosa come un crimine molto grave, ma anche il peggior misfatto
può essere perdonato. Come? A causa del suo successo. Ogni atto della
rivoluzione è criminale finché non ha trionfato: il trionfo assolve il crimine.
La rivoluzione sarà giudicata per la sua vittoria, per aver imposto i suoi
ideali, per aver realizzato i suoi obiettivi e aver mantenuto le sue promesse. Invece
i rivoluzionari che falliscono sono criminali per i posteri resi tali dalla
loro sconfitta. Ogni calunnia nei loro confronti sarà vera alle orecchie dei
vincitori. Quindi, considerando l'ortodossia del dominio, niente di più
malvagio e criminale della Colonna di Ferro.
La Colonna di Ferro fu la più genuina avanguardia armata del
proletariato urbano e contadino valenciano. Una sua pagina diceva: «uomini
duri, dal cuore traboccante d'amore, paladini della libertà e scudo di esseri
indifesi». Nessuna formazione rappresentava meglio l'idealismo libertario, né alcun'altra
si oppose con maggior veemenza alle contraddizioni della CNT e della FAI, i cui
dirigenti, “nella circostanza”, hanno dimenticato i loro principi, sottomettendosi
a un’alleanza di classe nazionalista, qualificata allegramente di antifascista.
Le decisioni della Colonna di Ferro, prese al di fuori dei comitati organici,
sconvolsero la burocrazia confederale e specifica, mettendola in serie
difficoltà. La quale, di conseguenza, ha lavorato di concerto con i nemici
naturali della colonna - i capi politici, i borghesi camuffati, i ministri e
gli stalinisti - per minare la sua forza e la sua influenza. Nessuna colonna
anarchica ha attaccato altrettanto la borghesia industriale e fondiaria,
calpestando inequivocabilmente i principi sacrosanti della proprietà, del
mercato, della religione e dell'ordine. La sua ostilità verso lo Stato era
proverbiale. La Colonna di Ferro non è mai scesa a compromessi. Fin dall'inizio
ha chiarito che i suoi militanti non stavano combattendo per preservare la
legalità repubblicana, ma per la rivoluzione. Ha resistito fino
all'inesprimibile alla militarizzazione. Lo Stato non era niente per lei e
permettergli di ricostituirsi e di armare un esercito era l'errore più grande
che si potesse fare. Ci furono fattori importanti che fecero pendere la
bilancia a favore dei faziosi, per esempio la debolezza internazionale della
classe operaia e l'aiuto fascista ai ribelli, ma fu soprattutto grazie alla
restaurazione dello Stato che la rivoluzione sociale fu annientata e perse la
guerra, fatto che sarà sempre responsabilità di coloro che non avrebbero dovuto
aiutare i restauratori e invece lo hanno fatto.
La Colonna di Ferro fu la milizia più consistente nella teoria e
nella pratica delle idee, fatto scandaloso che non le fu mai perdonato. È stata
messa dalla sua stessa Organizzazione nella posizione di diventare una brigata
di un esercito statale o di sciogliersi. Scelse la prima opzione, ma alla prima
occasione fu usata come carne da cannone in un'irrazionale e sanguinosa
battaglia di logoramento. Ci furono molte vittime e diserzioni significative.
La brigata si ricostituì con coscritti. Lo spirito della colonna andò
definitivamente perduto e la fama che la circondava fu lasciata in balia delle
maldicenze. Per una sorta d’ironia compensativa, il suo ardore rivoluzionario fu
invece confermato dal fatto di essere il corpo di milizia più denigrato della
storia. Coloro che in un modo o nell'altro la diffamano, quando si vede chi
sono, come si posizionano e che cosa fanno, in realtà le rendono omaggio.
Miquel Amorós, Presentazione del libro La colonna di ferro. Fatti reali, gesta e favole sulla famosa milizia
rivoluzionaria del proletariato, Casa editrice Milvus, Fiera del libro
anarchico di Pedreguer, 12 settembre 2022.
LA REVOLUCIÓN CAMUFLADA
Cuando en los medios de
comunicación se habla o escribe sobre la guerra española del 36, cosa que
ocurre raras veces, prácticamente nunca se insiste sobre el hecho de la
revolución que la acompañó siempre como un amante indeseable. En su momento, el
disimulo de la revolución social en la ciudad y el campo fue una magna obra de
ocultación y desfiguración llevada a cabo principalmente por el estalinismo, no
sin la complicidad de los partidos y organizaciones que colaboraron con él y
obedecieron sus directrices. A todos los bandos leales les convenía el
encubrimiento, y especialmente a la burocracia soviética, pues con él se
pretendía poner fin a la no intervención de las democracias burguesas. En vano.
La guerra la ganaron los fascistas, y la revolución, liquidada ya en el bando
republicano, fue arrinconada en el desván de la memoria, olvidada, aunque no
sus responsables, o los que fueron acusados de tales, que fueron
implacablemente masacrados tras la farsa de juicios sumarísimos.
En una época hiperacelerada como
la actual, el escamoteo de la revolución, o de toda la guerra si se quisiera,
es fácil, pues el acontecimiento, a pesar de ser el de mayor importancia en el
siglo XX, representa para una sociedad civil incapaz de autonomía, entregada
completamente al presente, una fracción muy pequeña de tiempo cada vez más
lejano, y por lo tanto, cada vez más extraño e incomprensible. El pasado es lo
que menos preocupa a la mayoría de los individuos que nacieron durante el
tardofranquismo y la llamada Transición, de alguna forma beneficiarios de la
prosperidad económica que siguió a la posguerra europea. Son personas que
interiorizaron los valores consumistas de la burguesía, conformes con su
miseria existencial, luego sin interés por la historia, desmemoriadas,
encerradas en su esfera privada, sometidas al bombardeo constante de mensajes
unilaterales de la dominación, y por consiguiente, sin vida pública ni
pensamiento propio, obedientes a los designios de las jerarquías establecidas.
La desaparición del movimiento obrero revolucionario permitió asimilar de buen
grado la nueva versión propagandista de la guerra civil, la del olvido pactado
entre el franquismo reformador y la oposición blanda, que lamentaba «una guerra
entre hermanos» felizmente reconciliados y amnistiaba a los responsables del
genocidio posguerrero. Hubo guerra, «con errores en ambos bandos», pero si nos
atenemos al espíritu del pacto de silencio, dejó de haberla.
En un mundo donde nada es lo que
parece, donde el pasado lo escriben y reescriben los vencedores, la verdad hay
que buscarla en el reverso de la historia, por abajo, desenterrando el punto de
vista de los vencidos. Solamente así resplandecerá. Si contemplamos los hechos
en la perspectiva de los vencedores, la monarquía liberal de hoy vendría a ser
heredera de la república democrática de entonces, violentamente purgada por un
exceso de celo militar que trajo el paréntesis del régimen franquista. Sin
embargo, nadie podría explicar inteligiblemente la dictadura pasada
considerándola un error fatal, una excepción trágica a la norma democrática y
progresista corregida por suerte para todos en 1978. La sangrienta Dictadura de
Franco anduvo íntimamente ligada a la profunda crisis capitalista de los años
treinta, tanto política como económica, es decir, que tuvo mucho que ver con el
fracaso de la democracia parlamentaria y el fiasco del progreso industrial y
tecnológico, dos falacias enormes sobre las que se sostiene el estatu quo
contemporáneo. Fue pues en tanto que salvación extremista del orden, un lance
moderno, necesario, justificado desde la óptica de la clase dominante. Tanto
como lo ha sido su disolución relativa en un sistema que quienes lo implantaron
denominaron democrático.
La izquierda del régimen
partitocrático imperante se cree audaz cuando va un paso más allá y define la
pasada guerra civil como un confllicto entre azules y rojos, es decir, entre
democracia y fascismo. Esa visión, digamos oficiosa, participa en el ninguneo
del hecho revolucionario, que, tal como antaño hicieron los estalinistas, lo
tacha de exceso causado por el irrealismo de las minorías anarquistas y su
utopismo culpable. Nada que valga la pena recordar sino como deplorable
extralimitación pasional de turbas incontroladas que dio pie a lamentables desórdenes
no deseados por los legítimos representantes de la autoridad. De esta forma, el
democratismo ciudadano de nuestros progresistas posmodernos presenta la
revolución casi como un crimen, y en efecto, para la clase derrocada en el 36
la actividad revolucionaria fue criminal. Parafraseando al marqués de Sade,
añadiríamos que la revolución es el crimen que contiene todos los crímenes. La
revolución aspira a crear un orden nuevo, igualitario, más justo y más libre,
pero no hay creación verdadera sin destrucción previa de lo existente. Para la
guerra civil la negatividad creadora de las masas se concretó en justicia
revolucionaria contra los enemigos de clase, incendio de iglesias y objetos
religiosos (símbolos ideológicos del patriotismo faccioso), destrucción de
archivos, expropiaciones, registros, formación de milicias, control de fábricas
y colectivización de tierras. Un oprimido de la víspera decía de los ricos:
«nosotros los veíamos como si fueran el diablo, y ellos a nosotros igual».
Cualquier acción, al negar el orden establecido, es mala para los poderosos
desarmados, algo así como un delito gravísimo, pero hasta la peor fechoría
puede perdonarse ¿Cómo? Por su éxito. Todo acto de la revolución es criminal
mientras esta no haya triunfado: el triunfo absuelve el crimen. La revolución
será juzgada por su victoria, por imponer sus ideales, por realizar sus
objetivos y cumplir sus promesas. Pero
los revolucionarios que fracasan son criminales para la posteridad determinada
por su derrota. Cualquier calumnia que se les endose será verdadera para los
oídos de los vencedores. Entonces, teniendo en cuenta la ortodoxia de la
dominación, nada más malvado y criminal que la Columna de Hierro.
La Columna de Hierro fue la
vanguardia armada más genuina del proletariado valenciano urbano y campesino.
Decía una de sus hojas: «hombres duros, con corazón desbordante de amor,
paladines de la libertad y escudo de seres indefensos». Ninguna formación
representó mejor el idealismo libertario, ni hubo otra que se opusiera con más
vehemencia a las contradicciones de la CNT y la FAI, cuyos dirigentes debido a
«las circunstancias» hacían girones de sus principios y se sometían a una
alianza nacionalista de clases calificada, alegremente de antifascista. Sus
decisiones tomadas al margen de los comités orgánicos, disgustaron a la
burocracia confederal y específica y la pusieron en serios aprietos. En
consecuencia, aquella trabajó de consuno con sus enemigos naturales -los
caciques políticos, los burgueses camuflados, los ministros y los estalinistas-
para socavar su fuerza e influencia. Ninguna columna anarquista arremetió tanto
como ella contra la burguesía industrial y terrateniente, pisoteando sin
ambages los sacrosantos principios de la propiedad, el mercado, la religión y
el orden. Su animadversión hacia el Estado fue proverbial. Nunca contemporizó.
Desde un principio dejó claro que sus milicianos no se batían por preservar la
legalidad republicana, sino por la revolución. Resistió hasta lo indecible a la
militarización. El Estado no era nada para ella y permitir que se
reconstituyese y armase un ejército era el mayor desacierto que se podía
cometer. Hubo importantes factores que inclinaron la balanza del lado de los
facciosos, como por ejemplo la debilidad internacional de la clase obrera y la
ayuda fascista a los sublevados, pero fue sobre todo gracias a la restauración
del Estado que la revolución social fue aniquilada y se perdió la guerra, algo
que figurará siempre en el haber de quienes no debieron ayudar a los restauradores
y sin embargo lo hicieron.
La Columna de Hierro fue la
milicia más consecuente en la teoría y la práctica de las ideas, escándalo que
nunca le perdonaron. Fue colocada por su propia Organización en la tesitura de
convertirse en brigada de un ejército estatal o disolverse. Escogió lo primero,
pero a las primeras de cambio, se la utilizó como carne de cañón en una
irracional y cruenta batalla de desgaste. Hubo muchas bajas y significativas
deserciones. La brigada se reconstruyó con reclutas. El espíritu de la columna
se quebró definitivamente y la fama que la envolvió quedó a merced de la
maledicencia. Por una suerte de ironía compensatoria, su ardor revolucionario
fue confirmado a la contra, gracias a ser la unidad miliciana más denigrada de la
historia. Los que de una manera u otra la difaman, viendo lo que son, donde se
sitúan y lo que hacen, en realidad le rinden homenaje.
Miquel Amorós Presentación del libro «La Columna de Hierro.
Hechos reales, hazañas y fabulaciones sobre la célebre milicia revolucionaria
del proletariado», de la editorial Milvus, en la Fira del llibre anarquista de
Pedreguer, 12 de septiembre de 2022.