domenica 25 dicembre 2022

2084 - Una riflessione personale sullo stato delle cose

 




Amiche e amici, compagni e compagne,

Scrivo tutto questo di getto, per non dimenticarlo, perché potrebbe essere interessante da condividere o inutile e noioso (è sempre il rischio quando si parla o si scrive). Lo farò in modo erratico com’è nella mia natura, impulsiva ma ragionatrice. Quest’ossimoro apparente mi lega, del resto, al concetto di deriva che mi è stato trasmesso e che ho applicato fin dalla giovinezza al mio pensiero quanto alle mie passeggiate psicogeografiche – un po' per scelta radicale, un po' per carattere.

Ho appena terminato di scrivere 2084 - DemoAcrazia o soluzione finale senza sapere ancora chi vorrà gentilmente pubblicare (editori italiani o francesi sensibili alla radicalità possono contattarmi) questa modesta ma sentita sintesi delle mie riflessioni alla Silvio Pellico (ma anche un po' alla Garcia Marquez, senza la minima pretesa di scrivere bene quanto lui): Le mie prigioni al tempo del colera nella sua versione spettacolare e dello scatenamento della peste emozionale a 360 gradi.

Quello che scarabocchio qui non l'ho scritto tale e quale nel recentissimo saggio di fantacoscienza che ho appena citato e che è stato per me un punto rotta salutare per prendere le distanze da tutte le pazze folle scatenate e da tutti i deliri totalitari in fibrillazione accelerata. Tuttavia, quello che sto per aggiungere è assolutamente al cuore della mia riflessione, fosse pure incompiuta ancor più che erratica.

Come dubitare che il capitalismo sia il nemico centrale contro il quale ci si deve confrontare tutto il giorno (e anche di notte)? Questo mostro a due teste (Stato + Mercato) ci costringe a lottare sia per salvarci la pelle sia per vivere una vita degna di questo nome.

Il problema è che questa è solo la parte visibile (anche se spettacolarmente nascosta e falsificata) dell'iceberg in agguato che aspetta la nave (Niña, Pinta, Santa Maria, Titanic o Potëmkin, secondo le ideologie produttiviste in circolazione sul mercato intellettuale) della comunità umana incompiuta. Senza dubbio il progetto di un rinascimento poetico e sociale resta possibile, ma si rivela difficile perché la società umana è stata sfruttata e condizionata per millenni dal produttivismo, molto prima che il capitalismo patologica fase terminale della soluzione finale produttivista risalisse dalle fabbriche, anziché scendere dal cielo, per inquinare definitivamente una civiltà predatrice. Sia chiaro: senza l’hubris patriarcale/produttivista che l’ha creato, non c’è capitalismo concepibile.

La faccenda è certamente più complessa di quanto io possa dirne, ma l'ambiguità attorno alla questione sociale è storicamente legata, a mio avviso, a un errore essenziale della teoria critica radicale (o che cerca di esserlo), influenzata da un marxismo cui Marx stesso pretendeva di non assoggettarsi, pur producendo il ricchissimo materiale teorico che l'ideologia marxista si è affrettata a recuperare. In un tale contesto, l'enorme qualità critica dell'ideatore di questa ideologia ha evidentemente influenzato anche tutto il pensiero libertario, arricchendolo indubbiamente, pur sviandolo, credo, verso scorciatoie insurrezionaliste a titolo di esorcismo autoritario.

Il superamento del marxismo nel senso del Marx più lucido, ma meglio di quello che lui stesso seppe fare a suo tempo e in seguito i suoi eredi autoproclamati è stato cercato da diversi sinceri rivoluzionari e ha trovato in Wilhelm Reich un appassionato ricercatore fuori circuito e fuori dagli standard. Nonostante qualche delirio collaterale senza grande rilevanza in proposito, Reich ha cercato coraggiosamente di sottrarre le più interessanti scoperte freudiane alla psicanalisi borghese, tanto quanto ha denunciato, da militante comunista della sexpol che è stato, l'abuso della teoria del proletariato perpetuato dalle sue avanguardie rosse di stampo fascista. Dopo la sua incessante ricerca sull'energia vitale e sulla peste emozionale, sul carattere e sull'irruzione della morale sessuale coercitiva, la via radicale rimane aperta sulla scia di diversi pensatori di sensibilità situazionista o di altre radicalità, da Anders e Arendt a Vaneigem, passando per Benjamin, Bookchin, Clastres, Debord, Gimbutas, Graeber, Sahlins, Scott. La dimensione orgastica e acratica della rivoluzione sociale rimane, tuttavia, ancora tutta da esplorare senza attardarsi sull’intellettualismo di un’economia libidinale.

Per superare Marx, pur stimandolo molto e nutrendosi della sua lucidità, credo che un passo fondamentale sia il rifiuto del dogma del distinguo tra struttura e sovrastruttura che compare sempre quando ci s’incammina verso la rivoluzione sociale di cui il Moro sognava più di ogni altra cosa. Marx (come Mauss del resto ci tornerò) mi sembra almeno parzialmente prigioniero dell'idea di struttura economica del reale che relega tutto il resto alla sovrastruttura, perché il materialismo di entrambi era ovviamente pre-reichiano. Questi due grandi esploratori appassionati del sociale, ignoravano la teoria dell'orgasmo che più tardi avrebbe aperto la porta (sistematicamente chiusa in seguito, ripetutamente, dall'irruzione della società dello spettacolo e dalla diffusione planetaria dell'ideologia feticista del consumismo) a una nuova radicalità e coscienza, tratteggiate e represse come un singhiozzo dopo il maggio 68.

In altre parole, per dire le cose come stanno, intendo che la struttura sociale non è tanto economica quanto emozionale, psicogeografica nell’ambito di un materialismo dialettico refrattario alle sue volgarizzazioni. Avere fame è soprattutto un'emozione corporea, che sia fame di cibo o fame sessuale, per attenersi all'essenziale, vuoi al primario, senza dimenticare, tuttavia, l'abbondante esuberanza artistica del creativo e dell’immaginario che rendono particolarmente umani gli umani. Al bisogno si risponde, dunque, prima di tutto emozionalmente, oscillando tra due istinti primari opposti: la solidarietà reciproca e la predazione suprematista. La scienza quando viene è benvenuta, ma i metodi di organizzazione della vita e della società che da essa derivano, vengono dopo, più o meno validi e sempre opinabili per la loro stessa natura scientifica che, appunto, ne limita la portata. Si può precisare, in questo senso, contro ogni regressione primitivista, che la funzione della tecnica (come di ogni sapere e saper fare) va dosata in modo che il suo uso dipenda in ultima analisi dal grado di felicità orgastica che essa rende possibile e non dal PIL (prodotto interno lordo) di una società produttivista artificiale e alienante di cui il capitalismo è la macchina che lava i cervelli e intristisce i cuori.

L'economia e la psicoanalisi generano delle ideologie specifiche della stessa pulsione a soddisfare i bisogni che i corpi individuali e sociali affrontano prima emozionalmente, poi razionalmente. Come delimitare la pertinenza dell'una come dell'altra? Il dono (ecco perché ho tirato fuori anche Mauss), e in particolare il dono di sé che è il dono più intimo e profondo (lo si chiama amore), è alla radice di ogni scambio o piuttosto di ogni sovrapposizione energetica che caratterizza la poesia dell’umano – per dirlo meglio con le parole di Reich, sottraendo “la cosa” a una teologia che ci parla sempre di profitto e guadagno, mai di orgasmo e felicità: l'economia politica.

Quest’ideologia del capitalismo è, infatti, il bersaglio critico di tutta l'opera di Marx – Das Kapital compreso, che ha come sottotitolo Per la critica dell'economia politica, come tutte le grandi opere della maturità marxiana –, non dimentichiamolo. Il capitalismo ha ereditato dalle forme economiche precapitaliste, “strutturalmente” religiose, il denaro come equivalente generale del valore (da millenni il denaro, in quanto ricchezza accumulata, è prezioso come l’oro, è “il grano” che rende ricchi), simbolo circolante di una venerazione della crescita economica che feticizza la merce. Il totemismo della quale evoca il potere del padre della civiltà dominante, il produttivismo, spinto poi al parossismo dal figlio, il capitalismo, con l’ausilio dello spirito santo dell'economia politica.

Di fronte a un essere che si desidera ma anche a un oggetto che si brama, ci sono due possibilità di soddisfazione: una è il dono, atto volontario gratuito inscritto in una proposta di reciprocità che rende amabili e amichevoli, acuendo l'istinto fraterno/sororale; l'altro è il furto, appropriazione privativa, atto imposto dall'istinto predatore che esercita aggressività e astuzia, instaurando il conflitto per il dominio. L’economia politica legalizza e decreta legittimo il furto perpetrato dall’appropriazione privativa produttivista così come la violenza di Stato che la protegge. Contro quest’abuso, del resto, mille forme storiche di riappropriazione testimoniano di una resistenza prerivoluzionaria a livello individuale e locale nella vita quotidiana. Il furto riguarda dunque altrettanto lo Stato che i suoi nemici, il dono presuppone invece una società senza Stato, dei rapporti acratici tra soggetti liberi e uguali. Dove lo scambio commerciale dissimula il furto, cancellando il dono, la frustrazione e la rabbia sono acuite dalla rimozione del desiderio intimo la cui soddisfazione non è affatto garantita dall’avere senza l’essere: una tale amputazione frustra il ladro mentre ferisce il derubato.

Quando hai fame, cerca qualcuno con cui mangiare”, diceva Epicuro con la sua lucidità poetica. Il dono è dunque la condizione della comunità umana in fieri che si manifesta socialmente come mutuo soccorso, solidarietà, condivisione. Ecco perché, a una lettura più reichiana, l'obbligo del controdono non mi sembra logico né soprattutto necessario. La risposta umana a un dono non è un controdono (do ut des) ma un dono autonomo privo di vincolo, una replica mossa dal piacere spontaneo che il dono comporta, perché nell'azione di donare liberamente secondo i propri mezzi si soddisfa il reciproco piacere di dare e ricevere. Exit, dunque, la violenza oggettiva del potlatch tanto quanto la violenza subdola dell'elemosina.

Se ci si riferisce all'atto d'amore come prototipo del dono orgastico, gli amanti si donano ciascuno per il proprio piacere che soddisfa reciprocamente, dando e ricevendo senza gerarchie di alcun genere. D'altro canto, fin dalla sua origine, il produttivismo è un furto/stupro organizzato socialmente e individualmente ed esercitato dal più forte o dal più furbo contro il più debole o ingenuo. Ogni scambio redditizio per una delle parti introduce la sofferenza nella soddisfazione e viceversa, creando il signore e lo schiavo, trasformando l'abbraccio genitale orgastico in dominio/sottomissione fallica, fonte di ogni sadismo e di ogni masochismo, etero, omo e più se affinità, tutte e tutti nello stesso ghetto suprematista.

Tuttavia, alla fine del Medioevo dell'Occidente cristiano, il produttivismo arcaico (inventore fin dall'antichità di molteplici forme sociali, culturali e religiose diverse) ha lasciato il posto al produttivismo moderno, di cui il capitalismo è il modo di produzione che ha trasformato le teologie religiose celesti in una religione terrena. Il capitalismo è nato sulle rovine dei vecchi regimi, grazie alla scoperta di un nuovo mondo da sfruttare e di un industrialismo che ha rivoluzionato il modo di produzione accelerandolo costantemente verso la produzione di valore anziché di felicità. Questa modernizzazione progressiva del produttivismo ha invaso la vita organica, passando da un dominio formale sul lavoro umano al dominio reale del capitale (vedi Il sesto capitolo inedito del Capitale di Marx e le opere di J. Camatte). Una tale mutazione ha comportato persino un condizionamento psicosociale e psicogeografico globale di tutte le relazioni degli umani tra loro e con il vivente, in un universo alienato e reificato, dove la circolazione autonoma della merce ha ridotto la società a un supermercato planetario. Da allora, uomini e donne, animali, piante ed energia – di fatto tutta la natura e la vita organica – non sono più che cose con un prezzo e una circolazione mercantile. Tuttavia, è un dato di fatto: per la "produzione" della felicità l'energia del petrolio, dell'elettricità o di qualsiasi altra pratica industriale non potrà mai sostituirsi in modo soddisfacente all'energia vitale.

Per uscire dal capitalismo e non passare tragicamente da un capitalismo all'altro, bisogna lottare contro il produttivismo. Altrimenti siamo condannati al déjà-vu: Stalin, Franco, Mao, Pinochet, Pol Pot, Ben Laden, Putin, macabre messinscene spettacolarmente opposte al totalitarismo democratico che si nutre degli orrori reazionari e fascisti come ultimo alibi per la sua sconfinata hubris predatrice, assassina ma politicamente corretta.

Sono convinto che la nostra complicità radicale dai caratteri differenti ma non inconciliabili sia troppo importante per non cercare di chiarire le sfumature, i dubbi e infine le differenze, per superarle attraverso un dialogo capace di forgiare un immaginario condiviso. Ecco il motivo per cui mi sono avventurato in questo discorso, ancora una volta erratico.

Con amicizia, dalla mia grotta scaldata dal bue e dall’asinello per risparmiare gas ed elettricità, mentre manchiamo soprattutto, collettivamente, di energia vitale.

Sergio Ghirardi Sauvageon 25/12/2022



2084 - Une réflexion personnelle sur l’état des choses

A mes camarades, amies et amis,

J’écris tout ça d’une traite, pour ne pas l’oublier, tout en sachant que ça peut être intéressant à partager ou inutile et ennuyeux (c’est toujours le risque quand on parle ou qu’on écrit). Je vais le faire de manière erratique comme c’est dans ma nature, impulsive mais raisonnante. Cet oxymore apparent me lie d’ailleurs à la notion de dérive qui m’a été transmise et que j'applique, depuis ma jeunesse, à ma pensée comme à mes promenades psychogéographiques dans la vie – un peu par choix radical, un peu par caractère.

Je viens de terminer d’écrire 2084-DemoAcratie ou solution finale sans savoir encore qui voudra bien publier (tout éditeur italien ou français concerné par une sensibilité radicale peut me contacter) cette synthèse modeste mais sincère de mes réflexions à la Silvio Pellico (mais un peu aussi à la Garcia Marquez, sans la moindre prétention d’écrire aussi bien que lui) : Mes prisons au temps du choléra dans sa version spectaculaire et du déferlement de la peste émotionnelle à 360 degrés.

Ce que je griffonne ici je ne l’ai pas écrit tel quel dans mon essai de conscience-fiction tout récent que je viens d’évoquer et qui a été pour moi un point de routage salutaire afin de prendre les distances de toutes les foules déchainées et de tous les délires totalitaires en fibrillation accélérée. Néanmoins, ce que je veux ajouter est absolument au cœur de ma réflexion, fût-elle inachevée plus encore qu’erratique.

Comment douter que le capitalisme soit l’ennemi central contre lequel on est confronté à longueur de journée (et la nuit aussi) ? Ce monstre bicéphale (État+Marché) nous oblige à nous battre pour sauver notre peau autant que pour vivre une vie digne de ce nom.

Le problème est que cela n’est que la partie visible (même si spectaculairement cachée et falsifiée) de l’iceberg qui guette le navire (Niña, Pinta, Santa Maria, Titanic ou Potemkine, au choix des idéologies productivistes qui circulent sur le marché intellectuel) de la communauté humaine inachevée. Sans doute le projet d’une renaissance poétique et sociale reste-t-il possible, mais il s’avère difficile car la société humaine a été exploitée et conditionnée pendant des millénaires par le productivisme, bien avant que le capitalisme phase terminale pathologique de la solution finale productiviste – ne remonte des usines, plutôt qu’il ne descende du ciel, pour polluer définitivement une civilisation prédatrice. Soyons clairs : sans l’hubris patriarcale/productiviste qui l’a créé, il n’y a pas de capitalisme concevable.

Certes, le sujet est certainement plus complexe que ce que je peux en dire, mais l’ambiguïté autour de la question sociale est historiquement liée, selon moi, à une erreur essentielle de la théorie critique radicale (ou qui cherche à l’être), influencée par un marxisme auquel Marx même prétendait ne pas s’assujettir, tout en produisant la richissime matière théorique que l’idéologie marxiste s’est empressée de récupérer. Dans un tel contexte, l’énorme qualité critique du créateur de cette idéologie a évidemment aussi influencé toute la pensée libertaire, l’enrichissant sans doute, tout en la détournant, je crois, vers des raccourcis insurrectionalistes en guise d’exorcisme autoritaire.

Le dépassement du marxisme dans le sens du Marx le plus lucide, mais mieux que ce que lui-même a pu faire à son époque et surtout ses héritiers autoproclamés par la suite a été recherché par plusieurs révolutionnaires sincères et a trouvé en Wilhelm Reich un chercheur passionné hors circuit et hors norme. Malgré quelques délires collatéraux sans grande importance à ce propos, Reich a cherché bravement à soustraire les découvertes freudiennes les plus intéressantes à la psychanalyse bourgeoise, autant qu’il a dénoncé, en militant communiste de la sexpol qu’il fut, l’abus de la théorie du prolétariat par ses avant-gardes rouges fascisantes. Après ses recherches acharnées sur l’énergie vitale et la peste émotionnelle, sur le caractère et sur l’irruption de la morale sexuelle, la voie radicale reste ouverte dans le sillage de plusieurs penseurs de sensibilité situationniste ou d’autres radicalités, de Anders et Arendt à Vaneigem, en passant par Benjamin, Bookchin, Clastres, Debord, Gimbutas, Graeber, Sahlins, Scott. La dimension orgastique et acratique de la révolution sociale reste cependant encore toute à explorer, sans s’attarder sur l’intellectualisme d’une économie libidinale.

Pour dépasser Marx, tout en l’estimant beaucoup et se nourrissant de sa lucidité, je crois qu’une étape fondamentale est le rejet du dogme de la distinction entre structure et superstructure qui apparaît toujours quand on s’achemine sur la voie de la révolution sociale dont le Moor rêvait plus que tout. Marx (comme Mauss d’ailleurs j’y reviendrai) me semble au moins partiellement prisonnier de l’idée de l’infrastructure économique du réel qui relègue tout le reste à la superstructure, parce que son (leur) matérialisme était évidemment pré-reichien. Tous les deux ces grands explorateurs passionnés du social ignoraient la théorie de l’orgasme qui a ensuite ouvert la porte (systématiquement refermée depuis, à répétition, par l’irruption de la société du spectacle et par la diffusion planétaire de l’idéologie fétichiste du consumérisme) à une radicalité et à une conscience nouvelles, ébauchées et refoulées comme un hoquet depuis mai 68.

En d’autres termes, mettant les pieds dans le plat, je veux dire que la structure sociale n’est pas tant économique qu’émotionnelle, psychogéographique, dans le cadre d’un matérialisme dialectique réfractaire à ses vulgarisations. Avoir faim est avant tout une émotion corporelle, soit-elle faim de nourriture ou faim sexuelle, pour s’en tenir à l’essentiel, voire au primaire, sans pour autant oublier la foisonnante exubérance artistique du créatif et de l’imaginaire qui rendent spécialement humains les humains. D’abord, donc, on répond émotionnellement au besoin, oscillant entre deux instincts primaires opposés : la solidarité mutuelle et la prédation suprématiste. La science est la bienvenue quand elle vient, mais les modes d’organisation de la vie et de la société qui en découlent, viennent après, plus ou moins valables et toujours discutables en raison de leur caractère scientifique même qui, justement, limite leur portée. On peut préciser, en ce sens, contre toute régression primitiviste, que la fonction de la technique (comme de tout savoir et savoir-faire) doit être dosée de façon que son utilisation dépende finalement du degré de bonheur orgastique qu’elle rend possible et non pas du PIB (Produit Intérieur Brut) d’une société productiviste artificielle et aliénante dont le capitalisme est la machine à décerveler qui attriste les cœurs.

L’économie et la psychanalyse génèrent des idéologies spécifiques de la même pulsion d’assouvissement des besoins auxquels les corps individuels et sociaux sont confrontés d’abord émotionnellement, puis rationnellement. Comment délimiter la pertinence de l’une comme de l’autre ? Le don (c’est pourquoi Mauss aussi est de la partie), et en particulier le don de soi qui est le don le plus intime et profond (on appelle ça l’amour), est à la racine de tout échange ou plutôt de toute superposition énergétique qui caractérise la poésie de l’humain – pour mieux le dire avec les mots de Reich, en soustrayant « la chose » à une théologie qui nous parle toujours de profit et de gain, jamais d’orgasme et de bonheur : l’économie politique.

Car cette idéologie du capitalisme est la cible critique de toute l’œuvre de Marx – y compris Das Kapital, qui a pour sous-titre Pour la critique de l’économie politique, comme toutes les œuvres majeures de la maturité marxienne –, ne l’oublions pas.

Le capitalisme a hérité des formes économiques précapitalistes, « structurellement » religieuses, l’argent comme équivalent général de la valeur (depuis des millénaires, l’argent, en tant que richesse accumulée, est aussi précieux que l’or, c’est « le blé » qui fait l’enrichissement), symbole circulant d’une vénération de la croissance économique qui fétichise la marchandise. Le totémisme de celle-ci évoque le pouvoir du père de la civilisation dominante, le productivisme, poussé ensuite au paroxysme par le fils, le capitalisme, avec l’aide du saint esprit de l’économie politique.

Face à un être qu’on désire, mais aussi à un objet qu’on convoite, il y a deux possibilités pour la satisfaction : l’une est le don, acte volontaire et gratuit inscrit dans une proposition de réciprocité qui rend aimables et amiables, aiguisant l’instinct fraternel/sororal ; l’autre est le vol, appropriation privative, acte imposé par l’instinct prédateur qui exerce l’agressivité et la ruse, instaurant le conflit pour la domination. L’économie politique légalise et décrète légitime le vol perpétré par l’appropriation privative productiviste ainsi que la violence étatique qui la protège. Contre cet abus, d’ailleurs, mille formes historiques de réappropriation témoignent d’une résistance prérévolutionnaire à un niveau individuel et local de la vie quotidienne. Le vol concerne, donc, à la fois l’État et ses ennemis, tandis que le don suppose une société sans État, des rapports acratiques entre sujets libres et égaux. Là ou l’échange marchand dissimule le vol, annulant le don, la frustration et la rage sont exacerbées par le refoulement du désir intime dont l’avoir sans l’être ne garantit en rien la satisfaction : une telle amputation frustre le voleur tout en lésant le spolié.

« Quand tu as faim, cherche quelqu’un avec qui manger » disait Epicure avec sa lucidité poétique. Ainsi le don est la condition de la communauté humaine in fieri qui se manifeste socialement comme entraide, solidarité, partage. C’est pourquoi, dans une lecture plus reichienne, l’obligation d’un contredon ne me paraît pas logique ni surtout nécessaire. La réponse humaine à un don n’est pas un contredon (do ut des) mais un don autonome dépourvu d’obligation, une réplique poussée par le plaisir spontané que le don comporte, car dans l’action de donner librement selon ses moyens on satisfait la jouissance réciproque de donner et recevoir. Exit, donc, la violence objective du potlatch autant que la violence sournoise de l’aumône.

Si l’on se réfère à l’acte d’amour comme prototype du don orgastique, les amants se donnent pour leur propre plaisir qui les satisfait réciproquement, donnant et recevant sans hiérarchie d’aucune sorte. En revanche, depuis ses origines, le productivisme est un vol/viol organisé socialement et individuellement, exercé par les plus forts ou les plus rusés contre les plus faibles ou les plus naïfs. Tout échange profitable pour l’une des parties introduit la souffrance dans la satisfaction et inversement, créant le maître et l’esclave, transformant l’étreinte génitale orgastique en domination/soumission phallique, source de tout sadisme et de tout masochisme, hétéro, homo et plus si affinités, tous et toutes dans le même ghetto suprématiste.

Cependant, à la fin du Moyen Âge de l’Occident chrétien, le productivisme archaïque (inventeur depuis l’antiquité de multiples formes sociales, culturelles et religieuses différentes) a laissé la place au productivisme moderne dont le capitalisme est le mode de production qui a transformé les théologies religieuses célestes en une religion terrestre. Le capitalisme est né sur les ruines des anciens régimes, grâce à la découverte d’un nouveau monde à exploiter et d’un industrialisme qui a révolutionné le mode de production en l’accélérant sans cesse vers la production de valeur et non pas de bonheur. Cette modernisation progressive du productivisme a envahi la vie organique passant d’une domination formelle sur le travail humain à la domination réelle du capital (voir Le sixième chapitre inédit du Capital de Marx et les œuvres de J. Camatte). Une telle mutation a comporté jusqu’au conditionnement psychosocial et psychogéographique global de toutes les relations des humains entre eux et avec le vivant, dans un univers aliéné et réifié où la circulation autonome de la marchandise a réduit la société à un supermarché planétaire. Depuis, hommes et femmes, animaux, plantes et énergie – toute la nature en fait et la vie organique – ne sont plus que des choses avec un prix et une circulation marchande. Pourtant, c’est un fait : pour la « production » du bonheur, l’énergie du pétrole, de l’électricité ou de toute autre pratique industrielle, ne pourra jamais se substituer à l’énergie vitale de manière satisfaisante.

Pour sortir du capitalisme et ne pas passer tragiquement d’un capitalisme à l’autre, il faut se battre contre le productivisme. Sinon on est condamné au déjà-vu : Staline, Franco, Mao, Pinochet, Pol Pot, Ben Laden, Poutine, macabres mises en scène spectaculairement opposées au totalitarisme démocratique qui se nourrit des horreurs réactionnaires et fascistes comme alibi ultime pour son hubris prédatrice sans bornes, meurtrière mais politiquement correcte.

Je suis convaincu qu’une complicité radicale, aux caractères différents mais pas inconciliables, est trop importante pour ne pas chercher à éclaircir les nuances, les doutes et finalement les différences, afin de les dépasser par un dialogue capable de forger un imaginaire partagé. C’est pourquoi je me suis aventuré dans ce discours, encore une fois erratique.

Avec amitié, depuis ma grotte chauffée par le bœuf et l’âne pour économiser le gaz et l’électricité, alors que surtout, collectivement, nous manquons d’énergie vitale.

Sergio Ghirardi Sauvageon 25/12/2022


martedì 13 dicembre 2022

Tener sempre presente il capitalismo quando si parla di crisi ecologica




Il testo che vi ho qui tradotto fa parte di uno scambio ricco e proficuo che continua da tempo con Miquel Amoros.

Sergio Ghirardi Sauvageon

 

Le società fortemente tecniche e finanziarizzate, dove prevalgono le condizioni postmoderne di produzione e consumo dove l'economia funziona grazie all'indebitamento, allo spreco e all'accumulo di rifiuti attraversano da tempo una fase critica di rendimenti decrescenti. Ciò significa che devono continuare a ritmo più sostenuto la loro logica predatoria, sottoponendo sia la popolazione salariata sia il territorio alle esigenze dell'economia, per raggiungere livelli di crescita in grado di compensare il calo dei profitti. La corsa alla produttività causata dalle difficoltà dell'accumulazione capitalistica sta sconvolgendo gravemente il pianeta, deteriorando i cicli biologici naturali e aggravando le condizioni di sopravvivenza della popolazione. In questo stesso momento, la distruzione del territorio è superiore alla sua capacità di recupero. La mercificazione dell’ambiente implica la sua devastante artificializzazione. La crisi ecologica oggi pubblicizzata come riscaldamento globale o cambiamento climatico non è altro che la punta dell'iceberg di una crisi multipla che copre tutte le sfere dell'attività umana e che annuncia a medio termine quello che alcuni ausiliari di Stato chiamano collasso, anzi un punto critico oltre il quale il sistema si degraderà irreversibilmente. Data l'assoluta incompatibilità tra una società equilibrata e orizzontale e un’altra produttivista e gerarchizzata, o se si preferisce, tra una civiltà industriale e un ambiente sano, o infine, tra il profitto privato e la vita, la dinamica dello sviluppo, anche se qualificata di "sostenibile", non farà che acuire le innumerevoli contraddizioni che continuano a emergere e approfondire le crisi. Gonfiando le bolle del credito, accentuando lo sfruttamento delle risorse, raggiungendo i “picchi” di tutto, inquinando a volontà e dilapidando energia, l'umanità intera sarà inevitabilmente destinata a subirne le conseguenze. I buchi finanziari, le paralisi istituzionali e le pericolose alterazioni ambientali, cui si aggiungono penurie alimentari, epidemie e decomposizione sociale, saranno il nostro pane quotidiano. Non è necessario guardarsi allo specchio delle guerre in corso per sapere che ci stiamo avvicinando a uno scenario di collasso sistemico che marca l'ingresso in un'epoca dura, alla quale adattarsi sarà molto più difficile, che comporterà regressioni a situazioni insopportabili, squilibri aggravati e crisi esacerbate.

 

Tra gli aspiranti leader è emerso un linguaggio apocalittico per evocare con le parole ciò che non può essere risolto con i fatti. Crescere è accumulare capitale, cioè convertire sempre più cose prodotti, terra, tempo libero in denaro. Di là dalle dichiarazioni retoriche di allarme, il sistema deve continuare a crescere – ad accumulare per sfuggire alle sue crisi, anche se la crescita non fa altro che accentuarle. Ad esempio, in campo ecologico, come crescere senza inquinare? Cambiare il mix energetico è la soluzione secondo gli esperti intergovernativi. Il capitale è sempre alla ricerca di una via d'uscita nella tecnologia. Come ridurre le emissioni di gas serra, principali responsabili del riscaldamento globale? I consiglieri dei governi consigliano di ridurre progressivamente la dipendenza dall'energia fossile ricorrendo all'energia rinnovabile industriale, strettamente associata a quella fossile. La proposta coincide con quella dei dirigenti delle imprese che promuovono un capitalismo globale “decarbonizzato”. A partire dal Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile (Johannesburg, 2002), sono emerse lobby transnazionali che puntano su una "Nuova Economia Climatica" prodotta da una "terza rivoluzione industriale", cioè la digitalizzazione, di cui la "transizione energetica" non sarebbe altro che il primo passo. La finanza si è avventurata da tempo in business "ecologici" e digitali come gli edifici "intelligenti", i tetti a pannelli solari, l’illuminazione a LED, le auto e scooter elettrici, le batterie a idrogeno, le aste di energia o i mercati di emissioni. Nel frattempo si pensa a tasse, pedaggi, azioni e obbligazioni "verdi", si calcolano posti di lavoro "verdi" e si promuove un consumismo alternativo "inserito nella matrice dell'Internet delle cose". Si tratta di un capitalismo "verde" 5G che – incoraggiato dal prezzo sempre più basso delle energie rinnovabili e dal prezzo sempre più alto dei combustibili fossili e dell'elettricità – si sta espandendo e promette di moltiplicarsi attraverso la creazione di una "rete elettrica intelligente" su scala internazionale. Per un settore della classe dirigente, la svolta verso l'ambientalismo di mercato grazie a una “transizione realistica” che includa nel pacchetto gas e uranio, altrimenti detto il salto iper-produttivista nel senso di quella che chiamano “sostenibilità” e non lo è, significa un'opportunità di cambiare il mondo senza che nulla cambi, cioè mantenendo intatte le attuali strutture politiche ed economiche e, di conseguenza, non intaccando di una virgola gli interessi costituiti dietro di esse. Va detto che altri settori, negazionisti, senza mettere limiti al business, sono più inclini all'arrocco nazionalista, all'autoritarismo puro e alla corsa agli armamenti.

 

Se si considera il nefasto stato delle cose da un punto di vista politico, un numero considerevole di dirigenti, consiglieri e politici propone un "Nuovo Patto Verde" tra le multinazionali, i governi e "le parti sociali" (partiti, sindacati e ONG) che passa attraverso la dichiarazione di uno stato di emergenza climatica. Si tratta di un'ampia operazione disciplinare volta a tenere sotto controllo blando – che non esclude coprifuoco, confinamenti e altro – la popolazione, preparandola ad affrontare le misure di austerità che i governi decreteranno per "decarbonizzare" o meglio smantellare "lo stato sociale" delle classi medie quando non può più essere mantenuto. Ad esempio, restrizioni sui trasporti, sulla fornitura di elettricità e acqua; razionamento di carburante, zucchero, carne e latticini; aumento generale dei prezzi, ecc. Sarebbe, di fatto, l'intronizzazione di un'economia d’eccezione senza altro obiettivo che il rinnovamento del complesso industriale e dello Stato politico che ne assicura il dominio in condizioni di sopravvivenza estremamente alterate. I politici preferiscono parlare di resilienza – arma di adattamento massiccio a tutti i sacrifici imposti da quello che chiamano “progresso”. Resta, però, da vedere se questo tipo di provvedimenti riuscirà a superare gli ostacoli che presenteranno sia la natura del sistema – figlio degli idrocarburi e della servitù volontaria – sia i meccanismi di blocco inerenti alla sua complessità strutturale e alle disfunzioni del controllo sociale, oltre alla costruzione ai suoi margini di economie vigilate di tipo cooperativo destinate a “ridurre il costo umano del collasso”, o meglio, a neutralizzare il potenziale esplosivo dell'esclusione sociale.

 

L'orchestrazione mediatica e politica delle proteste adolescenziali politicamente corrette contro il cambiamento climatico nasconde a malapena gli albori di un periodo tardo del capitalismo caratterizzato sia dalla natura eminentemente distruttiva delle sue forze produttive, sia dalla sua difficoltà a crescere abbastanza per pagare debiti, pensioni e salari, creare posti di lavoro, mantenere un'enorme burocrazia e incoraggiare la totale "elettrificazione" dei trasporti, dell'agricoltura e dell'industria. I leader plaudono alle richieste che i giovani manifestanti rivolgono loro in modo pacifico e festoso, poiché non mettono in discussione niente e nessuno, come se il conflitto sociale e neppure i “botellones”[1] disobbedienti e rissosi non esistessero. Non mancherà, dunque, chi cercherà di approfittare della situazione, propizia all'allarmismo, per istituire un'intermediazione "verde" attraverso "osservatori" sovvenzionati e attuare così una "politica maggioritaria" con argomentazioni catastrofiste. Questa è più una manovra per legittimare il capitalismo "verde" che altro. Per questa specie opportunista, lo Stato sarebbe lo strumento ideale della transizione economico-energetica promossa dalle stesse multinazionali del petrolio, del gas e dell'elettricità. Approfittare della nuova corrente di transizione del capitalismo globale – manifestatasi nel New Green Deal, negli Accordi di Parigi, nei lavori del GIEC, nell'Agenda 2030 o nella crescente offerta di prodotti finanziari verdi – per convertirsi nei suoi paladini parlamentari, sarebbe come “fare un autogol”. Contrariamente a che cosa e a chi? Ce lo stiamo chiedendo. Come c'era da aspettarsi, la “nuova” sinistra apparsa in seguito alle speculazioni elettoraliste, ai discorsi sulla decrescita e alle sfilate dei festival, si confonde con la vecchia “sinistra” nella sua difesa del capitalismo e dello Stato. Ciò risulta abbastanza evidente per il fatto che rispetta la crescita a tutti i costi e il consumo dilapidatore. Lo dimostrano il pulsante delle sue politiche di "sviluppo", i suoi piani di rimodellamento delle metropoli e i suoi progetti di pianificazione territoriale. Quando l'economia si serve della politica, lo Stato si fonde con il Capitale. Si può dire, almeno da quando la borghesia ha assunto il potere, che gli Stati sono stati concepiti per questo e che questo è il loro vero compito, anche se per gli autoproclamati “eco socialisti democratici” il compito è dipingere di verde democratico lo sfruttamento capitalista.

 

Non c'è una vera reazione popolare, ma la si teme, poiché gli antagonismi tra dominanti e dominati non sono svaniti e si fa in modo che nessuna quisquilia – una bolla immobiliare, un aumento dei prezzi, un problema di approvvigionamento, una catastrofe naturale, il ritiro di un sussidio, un atto brutale delle forze dell'ordine, ecc. – possa scatenarla. Il sistema termo-industriale è globalizzato, quindi i danni in un'area specifica possono avere ripercussioni sull'insieme. Questa è la fragilità del suo enorme potere. La decisione deve continuare a risiedere al vertice della gerarchia, per questo ci si sforzerà di impedire la comparsa di spazi autonomi dove possa svolgersi un libero confronto e dove si crei un movimento autorganizzato consapevole dell'incompatibilità tra lo Stato e la protezione dell'ambiente; un movimento consapevole dell'irrisolvibile opposizione tra lo sviluppo capitalistico e l’autentica sostenibilità, tra l’accumulazione e l’uguaglianza; un movimento consapevole anche della contraddizione tra le economie “circolari” all'interno del mercato e l’occupazione di zone resistenti al di fuori dell'economia, abili nell'autodifesa, dove si possano delineare modelli sociali di cooperazione egualitari, solidali e non industriali. Dove, insomma, nascano pratiche attraverso le quali gli individui riacquistino la decisione su tutto ciò che riguarda la loro esistenza, il loro modo di vivere e il tipo di società che desiderano. "Non c'è tempo per questo", dicono gli eco-cittadini per spegnere la ribellione. C'è invece, sembra, per promuovere una protesta condizionata, inoffensiva e superficiale basata sulla mobilitazione spettacolare, sulla cooptazione a pagamento di personalità cosiddette "indipendenti" e sull'isolamento dei radicali o "puristi". Lo scopo ultimo di tanti discorsi survivalisti, di tanta politica a buon mercato e di tante manovre pubblicitarie non è altro che quello di fungere da ulteriore puntello per lo Stato del capitale. Questo Stato è il punto d'appoggio dei partiti che cercano di essere l'espressione politica delle classi medie intimorite dalle crisi del tardo capitalismo.

 

La scarsità di risposte popolari alle crisi o, ciò che è lo stesso, l'inesistenza di un soggetto sociale, storico – di una classe realmente antagonista – si spiega con il semplice fatto che la maggioranza della popolazione è ostaggio dell'economia, ne dipende completamente e quindi è prigioniera delle sue esigenze. Il suo immaginario e tutti i suoi momenti vitali sono stati colonizzati dal capitale. Sotto una pioggia d’informazioni faziose e una stupefacente mancanza di comunicazione, non riesce a pensare ad altro che alle sue faccende quotidiane. In Europa non ci sono gruppi tradizionali ai margini, come in America, capaci di costituire un'alternativa radicale al sistema. Il decollo capitalista è avvenuto grazie alla distruzione di quella che Rosa Luxemburg chiamava “economia naturale” ed E. P. Thompson “economia morale”. D'altra parte, nella società dei consumi europea, la classe maggioritaria non è il proletariato industriale, molto ridotto, né il precariato, sprovvisto di mezzi di difesa, ma la classe media salariata legata al settore terziario non produttivo: professionisti, dipendenti pubblici e principalmente impiegati. Questa classe è il pilastro principale del consumismo e la base sociale del parlamentarismo e della partitocrazia. Non si considera anti-sistema né nemica dello Stato, per quanto le crisi abbiano ridotto i suoi effettivi e che un terzo di essa ammetta di trovarsi in una posizione difficile. Quando si presenta il caso, sceglie il compromesso di fronte all'intransigenza, la sicurezza di fronte alla libertà, l'obbedienza di fronte alla rivolta. Nonostante la svalutazione delle sue qualifiche, la pressione dei mutui e la soppressione dei posti di lavoro che le corrispondevano, conserva la sua mentalità borghese e le sue aspirazioni di promozione, che ha saputo trasmettere al suo ambiente. La sua fiducia nei governi non è svanita, anche se è diminuita, per cui i partiti non hanno perso troppa legittimità e, di conseguenza, la crisi politica è rimasta stagnante. Insomma, dato che, per il momento, sia il disastro finanziario sia la crisi energetica e il degrado statale sono stati contenuti fino a un certo punto, le dimensioni della crisi (sanitaria, demografica, culturale e sociale), pur essendo diventate visibili, non si sono dispiegate in tutta la loro magnitudine. I servizi pubblici e il trasporto regolare funzionano peggio, ma ci sono ancora. Si può parlare di crisi morale, di perdita di valori, di sfiducia nelle istituzioni, di sintomi anomici, d’irrazionalità e violenza urbana, ma la crisi sociale non ha ancora raggiunto il limite. Per ora resta circoscritta.

 

Sarebbe un errore pensare a un collasso imminente del sistema capitalista, poiché si tratta di un processo di decomposizione non lineare, che può prendere percorsi e velocità diverse secondo gli scenari che incontra e le fasi che supera. Non dimentichiamo quelle che prima del regno della filosofia "della differenza" si chiamavano "condizioni storiche specifiche": poteri di fatto, classi illuminate, polarizzazione sociale, tradizioni di lotta, peso della casta politica, coscienza sociale, diritti acquisiti, organizzazioni non burocratizzate, ecc. Questo tipo di condizioni può accelerare il processo o rallentarlo. In generale, si verifica un collasso quando la soddisfazione dei bisogni primari non è più possibile per la maggioranza e lo Stato è impotente di fronte ai disordini che ciò comporta. Non è il caso per la maggior parte degli Stati. Gli investimenti non crollano e il prezzo dell'energia, per quanto alto, è sostenibile, quindi l'economia può ancora provare a crescere contenendo l'esclusione con misure di assistenza calcolata e mezzi di controllo, sovra sfruttando gli immigrati e percorrendo percorsi "verdi". I motori della civiltà termo industriale – petrolio, gas e credito – continuano indenni. Finché i programmi di protezione ambientale creeranno posti di lavoro, legati all'ecoturismo o a qualsiasi altra attività dipinta di verde capace di industrializzarsi, il crollo della classe media può essere ritardato, la crisi ecologico-sociale non susciterà nelle masse una rabbia troppo forte, e di conseguenza, non emergeranno in numero sufficiente forme collettive di convivenza radicalmente trasformatrici. Le proteste contro la disuguaglianza e lo squilibrio ambientale saranno incapaci di convergere e non oseranno, per conseguenza, mettere in discussione lo Stato, né oseranno derogare alle regole del mercato forzando così un'uscita dall'economia, in seno alla quale non potrà essere eliminata né l'esclusione, né la metropolizzazione, né il riscaldamento globale, né il degrado degli ecosistemi, né la distruzione del territorio.

 

Quel che è più chiaro è che la crescita economica non potrà mai fare a meno dell'energia fossile e nucleare, e quindi non smetterà mai di avvelenare il pianeta. Il ritorno all'equilibrio con la natura e alla stabilità territoriale – sostenibilità –, ammesso che sia ancora possibile, inizia con la fine immediata della produzione e del consumo di energia fossile e nucleare in parallelo con lo smantellamento dell'industria e dell'attività mineraria, in altre parole con il crollo dell’economia di mercato e della civiltà termo industriale. Presuppone, insomma, il completo sovvertimento dell'ordine mondiale e la fine del capitalismo in tutte le sue modalità, compresa quella verde. Non esiste una forza sociale in grado di provocare una fine simile, ma è piuttosto probabile l'implosione del sistema stesso. Il suo prevedibile collasso a fuoco lento permetterebbe di allestire piccole aree autonome – già slegate da un'economia mondiale in rovina – che soddisferebbero i bisogni primari del quartiere. Esperienze di questo tipo sono la parte più promettente delle poche lotte attuali. Senza la conformazione di un soggetto collettivo nato dalle lotte anticapitaliste con chiari obiettivi di deindustrializzazione, anziché una transizione verso un sistema comunalista, autogestito, ecologico e decentralizzato, avremo la barbarie di Stato fascista, la barbarie mafiosa o sicuramente entrambe. Inoltre, nessuna trasformazione di queste caratteristiche potrà essere intrapresa dallo Stato, ultimo rifugio di tutte le classi date per spacciate.

 

Miguel Amoros

Aggiornamento di un testo anteriore. 2 dicembre 2022

 

 



[1] Los botellones sono raduni spontanei di giovani per flirtare, ubriacarsi e fare a botte, preferibilmente con la polizia (NdT).

 

 



Gardez toujours le capitalisme à l'esprit

quand il s'agit de crise écologique

 

Les sociétés hautement techniques et financiarisées, où prévalent les conditions postmodernes de production et de consommation – où l'économie fonctionne sur la dette, le gaspillage et l'accumulation de déchets – sont depuis longtemps dans une phase critique de rendements décroissants. Cela signifie qu'elles doivent poursuivre leur logique prédatrice à un rythme plus soutenu, soumettant à la fois la population salariée et le territoire aux besoins de l'économie, afin d'atteindre des niveaux de croissance capables de compenser la baisse des profits. La course à la productivité provoquée par les difficultés de l'accumulation capitaliste bouleverse gravement la planète, détériore les cycles biologiques naturels et aggrave les conditions de survie de la population. En ce moment même, la destruction de la terre est plus grande que sa capacité de récupération. La marchandisation de l’environnement implique son artificialisation dévastatrice. La crise écologique – aujourd'hui alertée comme réchauffement global ou changement climatique – n'est que la pointe de l'iceberg d'une crise multiple qui touche toutes les sphères de l'activité humaine et qui annonce à moyen terme ce que certains auxiliaires de l'État appellent effondrement, voire point critique au-delà duquel le système se dégradera de manière irréversible. Face à l'incompatibilité absolue entre une société équilibrée et horizontale et une société productiviste et hiérarchisée, ou si l'on préfère, entre une civilisation industrielle et un environnement sain, ou enfin, entre le profit privé et la vie, la dynamique du développement, même qualifié de « durable », ne fera qu'exacerber les innombrables contradictions qui continuent d'émerger et d'approfondir les crises. En gonflant les bulles du crédit, en accentuant l'exploitation des ressources, en atteignant les "pics" de tout, en polluant à volonté et en gaspillant l'énergie, l'humanité entière sera inévitablement destinée à en subir les conséquences. Les trous financiers, la paralysie institutionnelle et les altérations dangereuses de l'environnement, accompagnés de pénuries alimentaires, d'épidémies et de décomposition sociale, seront notre pain quotidien. Il n'est pas nécessaire de se regarder dans le miroir des guerres en cours pour savoir que nous approchons d'un scénario d'effondrement systémique qui souligne l'entrée dans une ère dure, dans laquelle l'adaptation sera beaucoup plus difficile, qui impliquera des régressions vers des situations insupportables, des déséquilibres aggravés et des crises exacerbées.

 

Un langage apocalyptique a émergé parmi les aspirants dirigeants pour évoquer avec des mots ce qui ne peut être résolu par des actes. Croître, c'est accumuler du capital, c'est-à-dire convertir de plus en plus de choses – produits, terres, temps libre – en argent. Au-delà des cris d'alarme rhétoriques, le système doit continuer à croître – à accumuler – pour échapper à ses crises, même si la croissance ne fait que les accentuer. Par exemple, dans le domaine écologique, comment cultiver sans polluer ? Changer le mix énergétique est la solution selon les experts intergouvernementaux. Le capital est toujours à la recherche d'une issue dans la technologie. Comment réduire les émissions de gaz à effet de serre, principales causes du réchauffement climatique ? Les conseillers gouvernementaux recommandent de réduire progressivement la dépendance aux énergies fossiles en recourant aux énergies renouvelables industrielles, étroitement associées aux énergies fossiles. La proposition coïncide avec celle des dirigeants d'entreprises prônant un capitalisme mondial « décarboné ». A partir du Sommet mondial sur le développement durable (Johannesburg, 2002), des lobbies transnationaux ont émergé visant une « nouvelle économie climatique »  issue d'une « troisième révolution industrielle », c'est-à-dire la numérisation, dont la « transition énergétique » ne serait que le premier pas. La finance s'est depuis longtemps aventurée dans des entreprises « vertes » et numériques telles que les bâtiments « intelligents », les toits solaires, l'éclairage LED, les voitures et scooters électriques, les batteries à hydrogène, les enchères d'énergie ou les marchés des émissions. En attendant, on réfléchit aux taxes, péages, actions et obligations « verts », on calcule les emplois « verts » et on promeut un consumérisme alternatif « inséré dans la matrice de l'Internet des objets ». C'est un capitalisme « vert » 5G qui – encouragé par le prix toujours plus bas des énergies renouvelables et le prix toujours plus élevé des énergies fossiles et de l'électricité – se développe et promet de se multiplier à travers la création d'un « réseau électrique intelligent » à l'échelle internationale. Pour un secteur de la classe dirigeante, le basculement vers l'environnementalisme de marché grâce à une « transition réaliste » qui inclut le gaz et l'uranium dans le paquet, autrement dit le saut hyper-productiviste au sens de ce qu'ils appellent la « durabilité » (ce qui n'est pas vrai), signifie une opportunité de changer le monde sans rien changer, c'est-à-dire en gardant intactes les structures politiques et économiques actuelles et, par conséquent, sans affecter d'un iota les intérêts acquis qui les sous-tendent. Il faut dire que d'autres secteurs, négationnistes, sans poser de limites aux affaires, sont plus enclins au roque nationaliste, à l'autoritarisme pur et à la course aux armements.

 

Si l'on regarde la situation désastreuse d'un point de vue politique, un nombre considérable de cadres, de conseillers et d'hommes politiques proposent un « Nouveau Pacte Vert » entre multinationales, gouvernements et « partenaires sociaux » (partis, syndicats et ONG) qui passe par la déclaration de l'état d'urgence climatique. Il s'agit d'une vaste opération disciplinaire visant à maintenir la population sous contrôle douce – ce qui n'exclut pas les couvre-feux, les confinements et autres –, la préparant à affronter les mesures d'austérité que les gouvernements décréteront pour « décarboner » ou plutôt démanteler « l'État-providence » des classes moyennes lorsqu'il ne peut plus être maintenu. Par exemple, les restrictions sur les transports, l'électricité et l'approvisionnement en eau ; le rationnement du carburant, du sucre, de la viande et des produits laitiers ; l’augmentation générale des prix, etc. Ce serait en fait l'intronisation d'une économie d'exception sans autre objectif que le renouvellement du complexe industriel et de l'État politique qui assure sa domination dans des conditions de survie extrêmement altérées. Les politiques préfèrent parler de résilience –  arme d'adaptation massive à tous les sacrifices imposés par ce qu'ils appellent le « progrès ». Reste cependant à savoir si ce type de mesure saura surmonter les obstacles qui résulteront à la fois de la nature du système –  fils des hydrocarbures et de la servitude volontaire –  et des mécanismes de blocage inhérents à sa complexité structurelle et aux dysfonctionnements du contrôle social, ainsi qu'à la construction en marge d'économies supervisées de type coopératif destinées à « réduire le coût humain de l'effondrement », ou plutôt à neutraliser le potentiel explosif de l'exclusion sociale.

 

L'orchestration médiatique et politique des protestations juvéniles politiquement correctes contre le changement climatique cache à peine l'aube d'une période tardive du capitalisme caractérisée à la fois par le caractère éminemment destructeur de ses forces productives et par sa difficulté à croître suffisamment pour payer les dettes, les retraites et les salaires, créer des emplois, maintenir une énorme bureaucratie et encourager « l'électrification » totale des transports, de l'agriculture et de l'industrie. Les dirigeants applaudissent les revendications que les jeunes protestataires leur adressent de manière pacifique et joyeuse, alors qu'ils ne remettent en question rien ni personne, comme si le conflit social et même les désobéissants et frondeurs « botellones »[1] n'existaient pas.

Il y aura donc ceux qui tenteront de profiter de la situation, propice à l'alarmisme, pour mettre en place une intermédiation « verte » à travers des « observatoires » subventionnés et mettre ainsi en œuvre une « politique majoritaire » aux arguments catastrophistes. Il s'agit plus d'un stratagème pour légitimer le capitalisme « vert » qu'autre chose. Pour cette espèce opportuniste, l'État serait l'instrument idéal de la transition économico-énergétique promue par les multinationales du pétrole, du gaz et de l'électricité elles-mêmes. Profiter du nouveau courant de transition du capitalisme mondial – manifesté dans le New Green Deal, dans les Accords de Paris, dans les travaux du GIEC, dans l’Agenda 2030 ou dans l’offre croissante de produits financiers verts – pour en devenir les champions parlementaires, serait comme « marquer un but contre son camp ». Contre quoi et qui ? Nous nous posons la question. Comme il fallait s'y attendre, la « nouvelle » gauche qui a émergé à la suite des spéculations électoralistes, des discours sur la décroissance et des parades festivalières se mêle à l'ancienne « gauche » dans sa défense du capitalisme et de l'État. Cela est plutôt évident parce qu'elle respecte la croissance à tout prix et le gaspillage de la consommation. En témoignent la pulsation de ses politiques de « développement », ses projets de remodelage de la métropole et ses projets d'aménagement du territoire. Quand l'économie se sert de la politique, l'Etat se confond avec le Capital. On peut dire, du moins depuis que la bourgeoisie a pris le pouvoir, que les États ont été conçus pour cela et que c'est leur véritable tâche, même si pour les « éco-socialistes démocrates » autoproclamés, il est question de peindre l'exploitation capitaliste d’un vert démocratique.

 

Il n'y a pas de véritable réaction populaire, mais elle est redoutée, car les antagonismes entre dominants et dominés ne se sont pas évanouis et on ne veut pas que la moindre broutille puisse la déclencher – une bulle immobilière, une hausse des prix, un problème d'approvisionnement, une catastrophe naturelle, le retrait d’un avantage, un acte brutal de la police, etc. Le système thermo-industriel étant globalisé, des dommages dans une zone spécifique peuvent avoir des répercussions sur l'ensemble. C'est la fragilité de son énorme pouvoir. La décision doit continuer à résider au sommet de la hiérarchie, c'est pourquoi des efforts seront faits pour empêcher l'apparition d'espaces autonomes où la confrontation libre puisse avoir lieu et où un mouvement auto-organisé conscient de l'incompatibilité entre l'État et la protection de l'environnement puisse apparaître ; un mouvement conscient de l'opposition insoluble entre développement capitaliste et durabilité authentique, entre accumulation et égalité ; un mouvement également conscient de la contradiction entre les économies « circulaires » au sein du marché et l'occupation de zones résistantes hors de l'économie, capables d'autodéfense, où peuvent s'esquisser des modèles sociaux de coopération égalitaires, solidaires et non industriels. Où, en somme, naissent des pratiques à travers lesquelles les individus reprennent la décision sur tout ce qui concerne leur existence, leur mode de vie et le type de société qu'ils désirent. « Il n'y a pas de temps pour ça », disent les éco-citoyens extincteurs de la rébellion. Il y a le temps, en revanche, semble-t-il, pour promouvoir une contestation conditionnée, inoffensive et superficielle fondée sur la mobilisation spectaculaire, sur la cooptation payante de personnalités dites « indépendantes » et sur l'isolement des radicaux ou « puristes ». Le but ultime de tant de discours survivaliste, de la politique bon marché et des manœuvres publicitaires n'est que de servir de soutien supplémentaire à l'État du capital. Cet État est le pivot des partis qui cherchent à être l'expression politique des classes moyennes intimidées par les crises du capitalisme tardif.

 

La rareté des réponses populaires aux crises ou, ce qui revient au même, l'inexistence d'un sujet social, historique – d'une classe véritablement antagoniste – s'explique par le simple fait que la majorité de la population est l'otage de l'économie, dépend entièrement d'elle et est donc prisonnière de ses besoins. Son imaginaire et tous ses moments vitaux ont été colonisés par le capital. Sous une pluie d'informations biaisées et un étonnant manque de communication, elle ne peut penser qu'à ses affaires quotidiennes. Il n'y a pas en Europe de groupes traditionnels en marge, comme en Amérique, capables de constituer une alternative radicale au système. Le décollage capitaliste s'est produit grâce à la destruction de ce que Rosa Luxemburg appelait « l'économie naturelle » et E. P. Thompson « l'économie morale ». En revanche, dans la société de consommation européenne, la classe majoritaire n'est pas le tout petit prolétariat industriel, ni les précaires, dépourvus de moyens de défense, mais la classe moyenne salariée liée au secteur tertiaire non productif : professions libérales, fonctionnaires et surtout employés de bureau. Cette classe est le principal pilier du consumérisme et la base sociale du parlementarisme et de la partitocratie. Elle ne se considère pas comme antisystème ou ennemie de l'État, bien que les crises aient réduit ses effectifs et qu'un tiers d'entre eux admette qu'il est dans une position difficile. Le cas échéant, elle choisit le compromis face à l'intransigeance, la sécurité face à la liberté, l'obéissance face à la révolte. Malgré la dévalorisation de ses diplômes, la pression des dettes et la suppression des emplois qui lui correspondaient, elle conserve sa mentalité bourgeoise et ses aspirations à la promotion qu'elle a su transmettre à son entourage. Sa confiance dans les gouvernements ne s'est pas émoussée même si elle a diminué, les partis n'ont donc pas perdu trop de légitimité et, par conséquent, la crise politique est restée stagnante. Bref, étant donné que, pour l'instant, tant la catastrophe financière que la crise énergétique et la dégradation de l'État ont été contenues jusqu'à un certain point, les dimensions de la crise (sanitaire, démographique, culturelle et sociale), tout en étant devenues visibles, n’ont pas encore atteint leur ampleur maximale. Les services publics et les transports réguliers fonctionnent moins bien, mais ils sont toujours là. On peut parler de crise morale, de perte des valeurs, de méfiance à l'égard des institutions, de symptômes anomiques, d'irrationalité et de violence urbaine, mais la crise sociale n'a pas encore atteint sa limite. Pour l’instant elle reste circonscrite.

 

Ce serait une erreur de croire à un effondrement imminent du système capitaliste, car il s'agit d'un processus de décomposition non linéaire, qui peut prendre des chemins et des vitesses différents selon les scénarios qu'il rencontre et les phases qu'il surmonte. N'oublions pas ce qu'avant le règne de la philosophie de la « différence » on appelait des « conditions historiques particulières » : pouvoirs de fait, classes éclairées, polarisation sociale, traditions de lutte, poids de la caste politique, conscience sociale, droits acquis, organisations non bureaucratisées, etc. Ce genre de conditions peut accélérer le processus ou le ralentir. En général, un effondrement se produit lorsque la satisfaction des besoins de base n'est plus possible pour la majorité et que l'État est impuissant face aux troubles que cela entraîne. Ce n'est pas le cas pour la plupart des États. L'investissement ne faiblit pas et le prix de l'énergie, aussi élevé soit-il, est soutenable, de sorte que l'économie peut encore essayer de croître en contenant l'exclusion avec des mesures d'aide et des moyens de contrôle calculés, en surexploitant les immigrés et en poursuivant des voies « vertes ». Les moteurs de la civilisation thermo-industrielle – pétrole, gaz et crédit – continuent indemnes. Tant que les programmes de protection de l'environnement créeront des emplois, dus à l'écotourisme ou à toute autre activité peinte en vert capable de s'industrialiser, l'effondrement de la classe moyenne pourra être retardé, la crise socio-écologique ne suscitera pas une colère trop forte dans les masses, et par conséquent, n'émergeront pas assez de formes collectives de coexistence radicalement transformatrices. Les protestations contre les inégalités et les déséquilibres environnementaux ne pourront pas converger et n'oseront donc pas remettre en cause l'État, ni déroger aux règles du marché forçant ainsi une sortie de l'économie, au sein de laquelle ne peuvent être éliminés ni l’exclusion, ni la métropolisation, ni le réchauffement global, ni la dégradation des écosystèmes, ni la destruction du territoire.

 

Ce qui est plus clair, c'est que la croissance économique ne pourra jamais se passer des énergies fossiles et nucléaires, et ne cessera donc jamais d'empoisonner la planète. Le retour à l'équilibre avec la nature et à la stabilité territoriale – la durabilité – s’il est encore possible, commence par l'arrêt immédiat de la production et de la consommation d'énergie fossile et nucléaire en parallèle avec le démantèlement de l'industrie et de l'exploitation minière, c’est à dire avec l'effondrement de l’économie de marché et de la civilisation thermo-industrielle. En bref, cela suppose le renversement complet de l'ordre mondial et la fin du capitalisme sous toutes ses formes, y compris le capitalisme vert. Il n'y a pas une force sociale capable de provoquer une fin pareil, mais l'implosion du système lui-même est tout à fait probable. Son effondrement prévisible à combustion lente permettrait de créer de petites zones autonomes – déjà déconnectées d'une économie mondiale en ruine – qui satisferaient les besoins primaires du quartier. Les expériences de ce genre sont la partie la plus prometteuse des quelques luttes actuelles. Sans la conformation d'un sujet collectif né des luttes anticapitalistes avec des objectifs clairs de désindustrialisation, au lieu d'une transition vers un système communal, autogéré, écologique et décentralisé, nous aurons la barbarie étatique fasciste, la barbarie mafieuse ou certainement les deux. De plus, aucune transformation de ces caractéristiques ne peut être entreprise par l'Etat, dernier refuge de toutes les classes livrées à la ruine.

 

Miguel Amoros

Mise à jour d'un texte antérieur. 2 décembre 2022

 



[1] Los botellones sont des rassemblements spontanés de jeunes pour draguer, s'enivrer et se casser la gueule, de préférence avec les flics (NdT).

 

 


 


TENER SIEMPRE PRESENTE EL CAPITALISMO

al hablar de crisis ecológica

 

 

     Las sociedades altamente tecnificadas y financiarizadas, donde imperan las condiciones posmodernas de producción y consumo -donde la economía funciona gracias al endeudamiento, el despilfarro y la acumulación de residuos- llevan tiempo en una fase crítica de rendimientos decrecientes. Eso significa que han de proseguir a mayor velocidad su lógica depredadora, sometiendo a las exigencias de la economía tanto la población asalariada como el territorio, con el fin de llegar a niveles de crecimiento capaces de compensar la bajada ganancial. La carrera de la productividad ocasionada por las dificultades de la acumulación capitalista está perturbando seriamente el planeta, deteriorando los ciclos biológicos naturales y agravando las condiciones de supervivencia de la población. Ahora mismo, la destrucción del territorio es superior a su capacidad de recuperación. La mercantilización del medio implica su devastadora artifialización. La crisis ecológica -hoy publicitada como calentamiento global o cambio climático- no es más que la punta del iceberg de una crisis múltiple que abarca todas las esferas de la actividad humana y que anuncia a medio plazo lo que algunos mamporreros del Estado llaman colapso, más bien un punto de inflexión a raíz del cual el sistema se degradará de manera irreversible. Dada la incompatibilidad absoluta entre una sociedad equilibrada y horizontal con otra desarrollista y jerarquizada, o si se quiere, entre una civilización industrial con un medio ambiente saludable, o en fin, entre el beneficio privado con la vida, la dinámica del desarrollismo, aunque sea calificada de “sostenible”, no hará más que agudizar las innumerables contradicciones que siguen aflorando y profundizando las crisis. Al inflar globos crediticios, acentuar la explotación de recursos, alcanzar “picos” de todo, contaminar a discreción y dilapidar energía, la humanidad entera se verá abocada inevitablemente a sufrir las consecuencias. Las agujeros financieros, parálisis institucionales y alteraciones ambientales peligrosas, en compañía de escasez de alimentos, epidemias y descomposición social, serán nuestro pan cotidiano. No hace falta mirarse en el espejo de las guerras actuales para saber que nos acercamos a un escenario de derrumbe sistémico que subraya la entrada en una época dura, de mucha más difícil adaptación, que comportará retrocesos hacia situaciones insoportables, desequilibrios agravados y crisis exacerbadas.

 

     Un lenguaje apocalíptico ha surgido en los aspirantes a dirigentes para conjurar con palabras lo que no puede arreglarse con hechos. Crecer es acumular capital, es decir, convertir cada vez más cosas -los productos, la tierra, el ocio- en dinero. Por encima de las retóricas declaraciones de alarma, el sistema ha de seguir creciendo -acumulando- para escapar a sus crisis, pero el crecimiento no hace más que acentuarlas. Por ejemplo, en el campo ecológico, ¿Cómo crecer sin contaminar? El cambio del mix energético es la solución según los expertos intergubernamentales. El capital siempre busca la salida en la tecnología ¿Cómo se podría reducir la emisión de gases de efecto invernadero, los principales responsables del calentamiento global? Los asesores de los gobiernos aconsejan disminuir progresivamente la dependencia de la energía fósil mediante el recurso a la energía renovable industrial, íntimamente asociada a la fósil. La propuesta coincide con la de los ejecutivos de las empresas que promueven un capitalismo global “descarbonizado”. Desde la Cumbre de la Tierra (Johannesburg, 2002) han surgido lobbies transnacionales que apuestan por una “Nueva Economía Climática” producto de una “tercera revolución industrial”, o sea, de la digitalización, de la que la “transición energética” no sería más que el primer peldaño. Hace tiempo ya que las finanzas se aventuran por los negocios “ecológicos” y digitales como por ejemplo, los inmuebles “inteligentes”, los techos de paneles solares, el alumbrado LED, los coches y patinetes eléctricos, las pilas de hidrógeno, las subastas de energía o los mercados de emisiones. Y entre tanto, se piensa en tasas, peajes, acciones y bonos “verdes”, se calculan puestos de trabajo “verdes” y se promociona un consumismo alternativo “inserto en la matriz del Internet de las cosas”. Se trata de un capitalismo “verde” 5G que -alentado por el precio cada vez más bajo de las energías renovables y el cada vez mayor precio de las fósiles y de la electricidad- se está expandiendo y promete multiplicarse mediante la creación de una “red eléctrica inteligente” a escala internacional. Para un sector de la clase dirigente, el viraje hacia el ecologismo de mercado gracias a una “transición realista” que incluya al gas y el uranio en el paquete, o dicho de otro modo, el salto hiperdesarrollista en la línea de lo que llaman “sostenibilidad” y no lo es, significa una oportunidad para cambiar el mundo sin que nada cambie, es decir, conservando intactas las estructuras políticas y económicas actuales, y por consiguiente, no afectando un ápice los intereses creados que están tras ellas. Cabe decir que otros sectores, negacionistas, sin poner puertas al negocio, se inclinan más por el enroque nacionalista, el autoritarismo puro y la carrera armamentista.

 

     Si consideramos el estado nefasto de las cosas desde su vertiente política, un número considerable de ejecutivos, consejeros y políticos proponen un “Nuevo Pacto Verde” entre las multinacionales, los gobiernos y “la parte social” (partidos, sindicatos y ONGs) que pase por la declaración de un estado de emergencia climática. Se trata de una amplia operación disciplinaria destinada a mantener bajo control suave a la población -que no descarta los toques de queda, confinamientos y demás-, preparándola para afrontar las medidas de austeridad que decretarán los gobiernos para “descarbonizar” o más bien desmantelar “el estado de bienestar” de las clases medias cuando este ya no pueda conservarse. Por ejemplo, restricciones del transporte, del suministro eléctrico y del agua; racionamiento del combustible, del azúcar, de la carne y de los productos lácteos; subida general de precios, etc.. De hecho equivaldría a la entronización de una economía de excepción sin más objetivo que el de renovar en condiciones extremadamente alteradas de supervivencia el complejo industrial y el Estado político que asegura su dominio. Los políticos prefieren hablar de resiliencia, esa arma de adaptación masiva a todos los sacrificios que impone lo que llaman “progreso”. No obstante, está por ver si esa clase de disposiciones remontará los obstáculos que presentarán tanto la naturaleza del sistema -hijo de los hidrocarburos y de la servidumbre voluntaria- como los mecanismos de bloqueo propios de su complejidad estructural y las averías del control social, más allá de la construcción en sus márgenes de economías tuteladas de tipo cooperativo destinadas a “reducir el coste humano del colapso”, o mejor, a neutralizar el potencial explosivo de la exclusión social.

 

     La orquestación mediática y política de las protestas adolescentes políticamente correctas contra el cambio climático apenas disimula los albores de un periodo tardío del capitalismo caracterizado tanto por el carácter eminentemente destructivo de sus fuerzas productivas, como por su dificultad en crecer lo suficiente para pagar deudas, pensiones y salarios, crear empleos, mantener una enorme burocracia y fomentar la “electrificación” total del transporte, la agricultura y la industria. Los dirigentes  aplauden las demandas que los jóvenes manifestantes les dirigen de forma pacífica y festiva, pues no cuestionan nada ni a nadie, como si el conflicto social o incluso los desobedientes botellones cañeros no existieran. Así pues, no faltará quien trate de aprovechar la coyuntura, propicia al alarmismo, para montar una intermediación “verde” a través de “observatorios” subvencionados y de esta forma llevar a cabo una “política de mayorías” con argumentos catastrofistas. Eso es más una maniobra de legitimación del capitalismo “verde” que cualquier otra cosa. Para esa especie oportunista, el Estado sería el instrumento ideal de la transición económico-energética que impulsan las mismísimas multinacionales del petróleo, del gas y de la electricidad. Aprovechar la nueva corriente transicionista del capitalismo global -manifiesta en el New Green Deal, en los Acuerdos de París, en los trabajos del GIEC, la Agenda 2030 o en la oferta creciente de productos financieros verdes- para convertirse en su adalid parlamentario, sería como “marcar un gol en campo contrario”. ¿Contrario a qué y a quién? Nos preguntamos. Como era de esperar, la “nueva” izquierda que se asoma tras especulaciones electoralistas, discursos decrecentistas y desfiles festivaleros, se confunde con la vieja “izquierda” en su defensa del capitalismo y del Estado. Esta resulta bastante transparente en lo que respecta al crecimiento a toda costa y al consumo dilapidador. Como muestra, el botón de sus políticas de “desarrollo”, sus planes de remodelación de las metrópolis y sus proyectos de ordenación del territorio. Cuando la economía se sirve de la política, el Estado se funde con el Capital. Se puede decir, al menos desde que la burguesía tomó el poder, que los Estados fueron concebidos para ello y que esa es su verdadera tarea, por más que para los autoproclamados “demócratas ecosocialistas” esta consista mejor en maquillar de verde democrático la explotación capitalista.

 

     No existe una verdadera reacción popular, pero se la teme, ya que los antagonismos entre dirigentes y dirigidos no se han esfumado, y se procura que ninguna nimiedad -una burbuja inmobiliaria, una subida de precios, un problema de abastecimiento, una catástrofe natural, la retirada de un subsidio, un acto brutal de las fuerzas del orden, etc.- la desencadene. El sistema termo-industrial está globalizado, así que los desperfectos en una zona concreta pueden repercutir en todo el conjunto. Esa es la fragilidad de su enorme poderío. La decisión ha de seguir residiendo en la cúspide jerárquica, por lo que se procurará impedir la aparición de espacios autónomos donde pueda darse una discusión libre y crearse un movimiento auto-organizado consciente de la incompatibilidad entre el Estado y la protección del entorno; un movimiento al tanto de la oposición irresoluble entre el desarrollo capitalista y la auténtica sostenibilidad, entre la acumulación y la igualdad; consciente además de la contradicción entre las economías “circulares” dentro del mercado y la ocupación de zonas resistentes fuera de la economía, diestras en la autodefensa, donde se puedan esbozar modelos sociales de cooperación igualitarios, solidarios y no industriales. En fin, donde nazcan prácticas a través de las cuales recobren los individuos la decisión sobre todo lo concerniente a su existencia, a su modo de vida y al tipo de sociedad que deseen. “No hay tiempo para eso”, dicen los ecociudadanistas extintores de la rebelión. Sí que lo hay, parece, para fomentar una protesta cautiva, inofensiva y superficial basada en la movilización espectacular, en la cooptación remunerada de personalidades llamense “independientes” y en el aislamiento de los radicales o “puristas”. La finalidad última de tanto discurso supervivencial, tanto politiqueo barato y tanta maniobra publicitaria no es otra que ejercer de puntal extra del Estado del capital. Ese Estado es el asidero de los partidos que intentan ser la expresión política de las clases medias acobardadas por las crisis bajo el capitalismo tardío.

 

     La escasez de respuestas populares a las crisis, o lo que es lo mismo, la inexistencia de un sujeto social, histórico -de una clase realmente antagónica- es explicable por el sencillo hecho de que la mayoría de la población es rehén de la economía, depende completamente de ella y por lo tanto, es prisionera de sus exigencias. Su imaginario y todos sus momentos vitales han sido colonizados por el capital. Bajo una lluvia de información sesgada y una incomunicación embrutecedora, no puede pensar en otra cosa que no sea su quehacer diario. En Europa, no quedan grupos tradicionales al margen como, por ejemplo, en América, capaces de constituir una alternativa radical al sistema. El despegue capitalista se produjo gracias a la destrucción de lo que Rosa Luxemburg denominaba “economía natural” y E. P. Thompson “economía moral”. Por otro lado, en la sociedad de consumo europea la clase mayoritaria no es el proletariado de la industria, muy reducido, ni el precariado, sin apenas medios de defensa, sino la clase media asalariada ligada al sector terciario no productivo: profesionales, funcionarios y empleados principalmente. Dicha clase es el pilar mayor del consumismo y la base social del parlamentarismo y de la partitocracia. No se considera antisistema ni enemiga del Estado, por más que las crisis hayan reducido sus efectivos y que la tercera parte de ellos admita encontrarse en una posición difícil. Llegado el caso, escoge la transacción frente a la intransigencia, la seguridad frente a la libertad, la obediencia frente a la revuelta. A pesar de la desvalorización de sus titulaciones, de la presión de las hipotecas y de la supresión de los puestos de trabajo que les correspondían, conserva su mentalidad burguesa y sus aspiraciones de ascenso, que ha sabido transmitir a su entorno. Su confianza en los gobiernos no se ha esfumado aunque haya disminuido, con lo cual los partidos no han perdido demasiada legitimidad, y por consiguiente, la crisis política se ha estancado. En fin, dado que, de momento, tanto el desastre financiero como la crisis energética y el declive estatal han podido contenerse hasta cierto punto, las dimensiones sanitaria, demográfica, cultural y social de la crisis, aunque se hayan dejado ver, no se han desplegado en toda su magnitud. Los servicios públicos y los transportes regulares funcionan peor, pero están ahí. Podemos hablar de crisis moral, de pérdida de valores, de desconfianza en las instituciones, de síntomas anómicos, de irracionalidad y violencia urbana, pero la crisis social todavía no ha llegado al límite. Se está en ello.

 

     Sería un error pensar en un próximo hundimiento del sistema capitalista, puesto que se trata de un proceso de descomposición no lineal, que puede tomar distintos derroteros y distintas velocidades en función de los escenarios que vaya encontrando y de las etapas que vaya superando. No olvidemos lo que antes del reinado de la filosofía “de la diferencia” se llamaba “condiciones históricas específicas”: poderes fácticos, clases ilustradas, polarización social, tradiciones de lucha, peso de la casta política, conciencia social, derechos adquiridos, organizaciones populares no burocratizadas, etc. Esa clase de condiciones puede acelerar el proceso o frenarlo. En general, un colapso ocurre cuando la satisfacción de las necesidades básicas ya no es posible para la mayoría y el Estado se muestra impotente ante los disturbios que ello comporta. No es ese el caso para la mayoría de Estados. La inversión no desfallece y el precio de la energía aunque alto es asumible, por lo que la economía aún puede tratar de crecer conteniendo la exclusión con asistencia calculada y medidas de control, sobre-explotando a los inmigrantes y pisando sendas “verdes”. Los motores de la civilización termo-industrial -el petróleo, el gas y el crédito- siguen incólumes. Mientras los programas de protección medioambiental creen empleos, los cree el turismo ecológico o cualquier otra actividad pintada de verde capaz de industrializarse, el derrumbe de la clase media puede retrasarse, la crisis ecológico-social no despertará en las masas una cólera demasiado enérgica, y, por consiguiente, no surgirán en número suficiente formas colectivas de convivencia radicalmente transformadoras. Las protestas contra la desigualdad y el desequilibrio ambiental serán incapaces de confluir, y por consiguiente, no osarán cuestionar el Estado, ni se atreverán a apartarse de las reglas del mercado y forzar así una salida de la economía, con lo cual no se podrá revertir la exclusión, ni la metropolitanización, ni el calentamiento global, ni la degradación de los ecosistemas, ni la destrucción del territorio.

 

    Lo que queda más claro, es que el crecimiento económico nunca podrá prescindir de la energía fósil y la nuclear, y por lo tanto, nunca dejará de envenenar el planeta. La vuelta al equilibrio con la naturaleza y la estabilidad territorial -la sostenibilidad- si todavía es posible, empieza con el fin inmediato de la producción y el consumo de energía fósil y nuclear en paralelo con el desmantelamiento de la industria y la minería, es decir el hundimiento de la economía de mercado y de la civilización termo-industrial. En definitiva, supone la subversión completa del orden mundial y el fin del capitalismo en todas sus modalidades, incluida la verde. No hay fuerza social capaz de conducir a un final de tal naturaleza, pero en cambio, la implosión del propio sistema es bastante probable. Su previsible desmoronamiento a fuego lento posibilitaría la puesta en marcha de pequeñas zonas autónomas -ya desconectadas de una economía mundial en ruina- que satisfacieran las necesidades elementales del vecindario. Experiencias de ese tipo son la parte más prometedora de los escasos combates actuales. Sin la conformación de un sujeto colectivo nacido de las luchas anticapitalistas con objetivos desindustrializadores claros, en lugar de una transición hacia un sistema comunal, autogestionado, ecológico y descentralizado, tendremos la barbarie estatal fascista, la barbarie mafiosa o seguramente ambas. Además, ninguna transformación de esas características podrá emprenderse desde el Estado, el último refugio de todas las clases desahuciadas. 

 

Miguel Amorós

Actualización de un texto anterior descartado. 2 de diciembre de 2022