Il testo che vi ho qui
tradotto fa parte di uno scambio ricco e proficuo che continua da tempo con
Miquel Amoros.
Sergio Ghirardi
Sauvageon
Le
società fortemente tecniche e finanziarizzate, dove prevalgono le condizioni
postmoderne di produzione e consumo – dove l'economia funziona grazie all'indebitamento, allo
spreco e all'accumulo di rifiuti – attraversano da tempo una fase critica di rendimenti
decrescenti. Ciò significa che devono continuare a ritmo più sostenuto la loro
logica predatoria, sottoponendo sia la popolazione salariata sia il territorio
alle esigenze dell'economia, per raggiungere livelli di crescita in grado di
compensare il calo dei profitti. La corsa alla produttività causata dalle
difficoltà dell'accumulazione capitalistica sta sconvolgendo gravemente il
pianeta, deteriorando i cicli biologici naturali e aggravando le condizioni di
sopravvivenza della popolazione. In questo stesso momento, la distruzione del
territorio è superiore alla sua capacità di recupero. La mercificazione dell’ambiente
implica la sua devastante artificializzazione. La crisi ecologica –
oggi pubblicizzata come riscaldamento globale o
cambiamento climatico –
non è altro che la punta dell'iceberg di una crisi multipla che copre tutte le
sfere dell'attività umana e che annuncia a medio termine quello che alcuni ausiliari
di Stato chiamano collasso, anzi un punto critico oltre il quale il sistema si
degraderà irreversibilmente. Data l'assoluta incompatibilità tra una società
equilibrata e orizzontale e un’altra produttivista e gerarchizzata, o se si preferisce,
tra una civiltà industriale e un ambiente sano, o infine, tra il profitto
privato e la vita, la dinamica dello sviluppo, anche se qualificata di
"sostenibile", non farà che acuire le innumerevoli contraddizioni che
continuano a emergere e approfondire le crisi. Gonfiando le bolle del credito,
accentuando lo sfruttamento delle risorse, raggiungendo i “picchi” di tutto,
inquinando a volontà e dilapidando energia, l'umanità intera sarà
inevitabilmente destinata a subirne le conseguenze. I buchi finanziari, le paralisi
istituzionali e le pericolose alterazioni ambientali, cui si aggiungono penurie
alimentari, epidemie e decomposizione sociale, saranno il nostro pane
quotidiano. Non è necessario guardarsi allo specchio delle guerre in corso per
sapere che ci stiamo avvicinando a uno scenario di collasso sistemico che marca
l'ingresso in un'epoca dura, alla quale adattarsi sarà molto più difficile, che
comporterà regressioni a situazioni insopportabili, squilibri aggravati e crisi
esacerbate.
Tra gli aspiranti leader è emerso un linguaggio apocalittico per
evocare con le parole ciò che non può essere risolto con i fatti. Crescere è
accumulare capitale, cioè convertire sempre più cose – prodotti, terra, tempo libero – in denaro. Di là dalle dichiarazioni retoriche di allarme, il
sistema deve continuare a crescere – ad accumulare – per sfuggire alle sue crisi, anche se la crescita non fa altro
che accentuarle. Ad esempio, in campo ecologico, come crescere senza inquinare?
Cambiare il mix energetico è la soluzione secondo gli esperti intergovernativi.
Il capitale è sempre alla ricerca di una via d'uscita nella tecnologia. Come
ridurre le emissioni di gas serra, principali responsabili del riscaldamento
globale? I consiglieri dei governi consigliano di ridurre progressivamente la
dipendenza dall'energia fossile ricorrendo all'energia rinnovabile industriale,
strettamente associata a quella fossile. La proposta coincide con quella dei
dirigenti delle imprese che promuovono un capitalismo globale “decarbonizzato”.
A partire dal Summit mondiale sullo
sviluppo sostenibile (Johannesburg, 2002), sono emerse lobby transnazionali
che puntano su una "Nuova Economia Climatica" prodotta da una
"terza rivoluzione industriale", cioè la digitalizzazione, di cui la
"transizione energetica" non sarebbe altro che il primo passo. La
finanza si è avventurata da tempo in business "ecologici" e digitali
come gli edifici "intelligenti", i tetti a pannelli solari, l’illuminazione
a LED, le auto e scooter elettrici, le batterie a idrogeno, le aste di energia
o i mercati di emissioni. Nel frattempo si pensa a tasse, pedaggi, azioni e
obbligazioni "verdi", si calcolano posti di lavoro "verdi"
e si promuove un consumismo alternativo "inserito nella matrice
dell'Internet delle cose". Si tratta di un capitalismo "verde"
5G che – incoraggiato dal prezzo sempre più basso delle energie rinnovabili e
dal prezzo sempre più alto dei combustibili fossili e dell'elettricità – si sta
espandendo e promette di moltiplicarsi attraverso la creazione di una
"rete elettrica intelligente" su scala internazionale. Per un settore della classe dirigente, la svolta verso
l'ambientalismo di mercato grazie a una “transizione realistica” che includa
nel pacchetto gas e uranio, altrimenti detto il salto iper-produttivista nel
senso di quella che chiamano “sostenibilità” e non lo è, significa
un'opportunità di cambiare il mondo senza che nulla cambi, cioè mantenendo
intatte le attuali strutture politiche ed economiche e, di conseguenza, non
intaccando di una virgola gli interessi costituiti dietro di esse. Va detto che
altri settori, negazionisti, senza mettere limiti al business, sono più inclini
all'arrocco nazionalista, all'autoritarismo puro e alla corsa agli armamenti.
Se si considera il nefasto stato delle cose da un punto di vista
politico, un numero considerevole di dirigenti, consiglieri e politici propone
un "Nuovo Patto Verde" tra le multinazionali, i governi e "le
parti sociali" (partiti, sindacati e ONG) che passa attraverso la
dichiarazione di uno stato di emergenza climatica. Si tratta di un'ampia
operazione disciplinare volta a tenere sotto controllo blando – che non esclude
coprifuoco, confinamenti e altro – la popolazione, preparandola ad affrontare
le misure di austerità che i governi decreteranno per
"decarbonizzare" o meglio smantellare "lo stato sociale"
delle classi medie quando non può più essere mantenuto. Ad esempio, restrizioni
sui trasporti, sulla fornitura di elettricità e acqua; razionamento di
carburante, zucchero, carne e latticini; aumento generale dei prezzi, ecc.
Sarebbe, di fatto, l'intronizzazione di un'economia d’eccezione senza altro
obiettivo che il rinnovamento del complesso industriale e dello Stato politico
che ne assicura il dominio in condizioni di sopravvivenza estremamente alterate.
I politici preferiscono parlare di resilienza – arma di adattamento massiccio a
tutti i sacrifici imposti da quello che chiamano “progresso”. Resta, però, da
vedere se questo tipo di provvedimenti riuscirà a superare gli ostacoli che
presenteranno sia la natura del sistema – figlio degli idrocarburi e della
servitù volontaria – sia i meccanismi di blocco inerenti alla sua complessità
strutturale e alle disfunzioni del controllo sociale, oltre alla costruzione ai
suoi margini di economie vigilate di tipo cooperativo destinate a “ridurre il
costo umano del collasso”, o meglio, a neutralizzare il potenziale esplosivo
dell'esclusione sociale.
L'orchestrazione mediatica e politica delle proteste
adolescenziali politicamente corrette contro il cambiamento climatico nasconde
a malapena gli albori di un periodo tardo del capitalismo caratterizzato sia
dalla natura eminentemente distruttiva delle sue forze produttive, sia dalla
sua difficoltà a crescere abbastanza per pagare debiti, pensioni e salari,
creare posti di lavoro, mantenere un'enorme burocrazia e incoraggiare la totale
"elettrificazione" dei trasporti, dell'agricoltura e dell'industria.
I leader plaudono alle richieste che i giovani manifestanti rivolgono loro in
modo pacifico e festoso, poiché non mettono in discussione niente e nessuno,
come se il conflitto sociale e neppure i
“botellones”[1]
disobbedienti e rissosi non esistessero. Non mancherà,
dunque, chi cercherà di approfittare della situazione, propizia all'allarmismo,
per istituire un'intermediazione "verde" attraverso
"osservatori" sovvenzionati e attuare così una "politica maggioritaria"
con argomentazioni catastrofiste. Questa è più una manovra per legittimare il
capitalismo "verde" che altro. Per questa specie opportunista, lo
Stato sarebbe lo strumento ideale della transizione economico-energetica
promossa dalle stesse multinazionali del petrolio, del gas e dell'elettricità.
Approfittare della nuova corrente di transizione del capitalismo globale – manifestatasi
nel New Green Deal, negli Accordi di
Parigi, nei lavori del GIEC, nell'Agenda 2030 o nella crescente offerta di
prodotti finanziari verdi – per convertirsi nei suoi paladini parlamentari, sarebbe
come “fare un autogol”. Contrariamente a che cosa e a chi? Ce lo stiamo
chiedendo. Come c'era da aspettarsi, la “nuova” sinistra apparsa in seguito alle
speculazioni elettoraliste, ai discorsi sulla decrescita e alle sfilate dei
festival, si confonde con la vecchia “sinistra” nella sua difesa del
capitalismo e dello Stato. Ciò risulta abbastanza evidente per il fatto che
rispetta la crescita a tutti i costi e il consumo dilapidatore. Lo dimostrano
il pulsante delle sue politiche di "sviluppo", i suoi piani di rimodellamento
delle metropoli e i suoi progetti di pianificazione territoriale. Quando
l'economia si serve della politica, lo Stato si fonde con il Capitale. Si può
dire, almeno da quando la borghesia ha assunto il potere, che gli Stati sono
stati concepiti per questo e che questo è il loro vero compito, anche se per
gli autoproclamati “eco socialisti democratici” il compito è dipingere di verde
democratico lo sfruttamento capitalista.
Non c'è una vera reazione popolare, ma la si teme, poiché gli
antagonismi tra dominanti e dominati non sono svaniti e si fa in modo che
nessuna quisquilia – una bolla immobiliare, un aumento dei prezzi, un problema
di approvvigionamento, una catastrofe naturale, il ritiro di un sussidio, un
atto brutale delle forze dell'ordine, ecc. – possa scatenarla. Il sistema termo-industriale
è globalizzato, quindi i danni in un'area specifica possono avere ripercussioni
sull'insieme. Questa è la fragilità del suo enorme potere. La decisione deve
continuare a risiedere al vertice della gerarchia, per questo ci si sforzerà di
impedire la comparsa di spazi autonomi dove possa svolgersi un libero confronto
e dove si crei un movimento autorganizzato consapevole dell'incompatibilità tra
lo Stato e la protezione dell'ambiente; un movimento consapevole
dell'irrisolvibile opposizione tra lo sviluppo capitalistico e l’autentica
sostenibilità, tra l’accumulazione e l’uguaglianza; un movimento consapevole
anche della contraddizione tra le economie “circolari” all'interno del mercato
e l’occupazione di zone resistenti al di fuori dell'economia, abili
nell'autodifesa, dove si possano delineare modelli sociali di cooperazione
egualitari, solidali e non industriali. Dove, insomma, nascano pratiche
attraverso le quali gli individui riacquistino la decisione su tutto ciò che
riguarda la loro esistenza, il loro modo di vivere e il tipo di società che
desiderano. "Non c'è tempo per questo", dicono gli eco-cittadini per
spegnere la ribellione. C'è invece, sembra, per promuovere una protesta condizionata,
inoffensiva e superficiale basata sulla mobilitazione spettacolare, sulla
cooptazione a pagamento di personalità cosiddette "indipendenti" e
sull'isolamento dei radicali o "puristi". Lo scopo ultimo di tanti
discorsi survivalisti, di tanta politica a buon mercato e di tante manovre
pubblicitarie non è altro che quello di fungere da ulteriore puntello per lo
Stato del capitale. Questo Stato è il punto d'appoggio dei partiti che cercano
di essere l'espressione politica delle classi medie intimorite dalle crisi del
tardo capitalismo.
La scarsità di risposte popolari alle crisi o, ciò che è lo
stesso, l'inesistenza di un soggetto sociale, storico – di una classe realmente
antagonista – si spiega con il semplice fatto che la maggioranza della popolazione
è ostaggio dell'economia, ne dipende completamente e quindi è prigioniera delle
sue esigenze. Il suo immaginario e tutti i suoi momenti vitali sono stati
colonizzati dal capitale. Sotto una pioggia d’informazioni faziose e una
stupefacente mancanza di comunicazione, non riesce a pensare ad altro che alle
sue faccende quotidiane. In Europa non ci sono gruppi tradizionali ai margini,
come in America, capaci di costituire un'alternativa radicale al sistema. Il
decollo capitalista è avvenuto grazie alla distruzione di quella che Rosa Luxemburg
chiamava “economia naturale” ed E. P. Thompson “economia morale”. D'altra
parte, nella società dei consumi europea, la classe maggioritaria non è il
proletariato industriale, molto ridotto, né il precariato, sprovvisto di mezzi
di difesa, ma la classe media salariata legata al settore terziario non
produttivo: professionisti, dipendenti pubblici e principalmente impiegati.
Questa classe è il pilastro principale del consumismo e la base sociale del
parlamentarismo e della partitocrazia. Non si considera anti-sistema né nemica
dello Stato, per quanto le crisi abbiano ridotto i suoi effettivi e che un
terzo di essa ammetta di trovarsi in una posizione difficile. Quando si
presenta il caso, sceglie il compromesso di fronte all'intransigenza, la
sicurezza di fronte alla libertà, l'obbedienza di fronte alla rivolta.
Nonostante la svalutazione delle sue qualifiche, la pressione dei mutui e la
soppressione dei posti di lavoro che le corrispondevano, conserva la sua
mentalità borghese e le sue aspirazioni di promozione, che ha saputo
trasmettere al suo ambiente. La sua fiducia nei governi non è svanita, anche se
è diminuita, per cui i partiti non hanno perso troppa legittimità e, di
conseguenza, la crisi politica è rimasta stagnante. Insomma, dato che, per il
momento, sia il disastro finanziario sia la crisi energetica e il degrado
statale sono stati contenuti fino a un certo punto, le dimensioni della crisi
(sanitaria, demografica, culturale e sociale), pur essendo diventate visibili,
non si sono dispiegate in tutta la loro magnitudine. I servizi pubblici e il
trasporto regolare funzionano peggio, ma ci sono ancora. Si può parlare di
crisi morale, di perdita di valori, di sfiducia nelle istituzioni, di sintomi
anomici, d’irrazionalità e violenza urbana, ma la crisi sociale non ha ancora
raggiunto il limite. Per ora resta circoscritta.
Sarebbe un errore pensare a un collasso imminente del sistema
capitalista, poiché si tratta di un processo di decomposizione non lineare, che
può prendere percorsi e velocità diverse secondo gli scenari che incontra e le
fasi che supera. Non dimentichiamo quelle che prima del regno della filosofia
"della differenza" si chiamavano "condizioni storiche
specifiche": poteri di fatto, classi illuminate, polarizzazione sociale,
tradizioni di lotta, peso della casta politica, coscienza sociale, diritti
acquisiti, organizzazioni non burocratizzate, ecc. Questo tipo di condizioni può
accelerare il processo o rallentarlo. In generale, si verifica un collasso
quando la soddisfazione dei bisogni primari non è più possibile per la
maggioranza e lo Stato è impotente di fronte ai disordini che ciò comporta. Non
è il caso per la maggior parte degli Stati. Gli investimenti non crollano e il
prezzo dell'energia, per quanto alto, è sostenibile, quindi l'economia può
ancora provare a crescere contenendo l'esclusione con misure di assistenza calcolata
e mezzi di controllo, sovra sfruttando gli immigrati e percorrendo percorsi
"verdi". I motori della civiltà termo industriale – petrolio, gas e
credito – continuano indenni. Finché i programmi di protezione ambientale creeranno
posti di lavoro, legati all'ecoturismo o a qualsiasi altra attività dipinta di
verde capace di industrializzarsi, il crollo della classe media può essere
ritardato, la crisi ecologico-sociale non susciterà nelle masse una rabbia
troppo forte, e di conseguenza, non emergeranno in numero sufficiente forme
collettive di convivenza radicalmente trasformatrici. Le proteste contro la
disuguaglianza e lo squilibrio ambientale saranno incapaci di convergere e non
oseranno, per conseguenza, mettere in discussione lo Stato, né oseranno derogare
alle regole del mercato forzando così un'uscita dall'economia, in seno alla
quale non potrà essere eliminata né l'esclusione, né la metropolizzazione, né
il riscaldamento globale, né il degrado degli ecosistemi, né la distruzione del
territorio.
Quel che è più chiaro è che la crescita economica non potrà mai
fare a meno dell'energia fossile e nucleare, e quindi non smetterà mai di
avvelenare il pianeta. Il ritorno all'equilibrio con la natura e alla stabilità
territoriale – sostenibilità –, ammesso che sia ancora possibile, inizia con la
fine immediata della produzione e del consumo di energia fossile e nucleare in
parallelo con lo smantellamento dell'industria e dell'attività mineraria, in
altre parole con il crollo dell’economia di mercato e della civiltà termo
industriale. Presuppone, insomma, il completo sovvertimento dell'ordine
mondiale e la fine del capitalismo in tutte le sue modalità, compresa quella
verde. Non esiste una forza sociale in grado di provocare una fine simile, ma è
piuttosto probabile l'implosione del sistema stesso. Il suo prevedibile
collasso a fuoco lento permetterebbe di allestire piccole aree autonome – già
slegate da un'economia mondiale in rovina – che soddisferebbero i bisogni
primari del quartiere. Esperienze di questo tipo sono la parte più promettente
delle poche lotte attuali. Senza la conformazione di un soggetto collettivo
nato dalle lotte anticapitaliste con chiari obiettivi di deindustrializzazione,
anziché una transizione verso un sistema comunalista, autogestito, ecologico e
decentralizzato, avremo la barbarie di Stato fascista, la barbarie mafiosa o
sicuramente entrambe. Inoltre, nessuna trasformazione di queste caratteristiche
potrà essere intrapresa dallo Stato, ultimo rifugio di tutte le classi date per
spacciate.
Miguel Amoros
Aggiornamento di un testo anteriore. 2 dicembre 2022
[1]
Los botellones sono raduni spontanei di giovani per flirtare, ubriacarsi e fare
a botte, preferibilmente con la polizia (NdT).
Gardez toujours le capitalisme à l'esprit
quand il s'agit de crise écologique
Les sociétés hautement techniques et financiarisées, où prévalent les
conditions postmodernes de production et de consommation – où l'économie
fonctionne sur la dette, le gaspillage et l'accumulation de déchets – sont
depuis longtemps dans une phase critique de rendements décroissants. Cela
signifie qu'elles doivent poursuivre leur logique prédatrice à un rythme plus
soutenu, soumettant à la fois la population salariée et le territoire aux
besoins de l'économie, afin d'atteindre des niveaux de croissance capables de
compenser la baisse des profits. La course à la productivité provoquée par les
difficultés de l'accumulation capitaliste bouleverse gravement la planète,
détériore les cycles biologiques naturels et aggrave les conditions de survie
de la population. En ce moment même, la destruction de la terre est plus grande
que sa capacité de récupération. La marchandisation de l’environnement implique
son artificialisation dévastatrice. La crise écologique – aujourd'hui alertée
comme réchauffement global ou changement climatique – n'est que la pointe de
l'iceberg d'une crise multiple qui touche toutes les sphères de l'activité
humaine et qui annonce à moyen terme ce que certains auxiliaires de l'État appellent
effondrement, voire point critique au-delà duquel le système se dégradera de
manière irréversible. Face à l'incompatibilité absolue entre une société
équilibrée et horizontale et une société productiviste et hiérarchisée, ou si
l'on préfère, entre une civilisation industrielle et un environnement sain, ou
enfin, entre le profit privé et la vie, la dynamique du développement, même
qualifié de « durable », ne fera qu'exacerber les innombrables
contradictions qui continuent d'émerger et d'approfondir les crises. En
gonflant les bulles du crédit, en accentuant l'exploitation des ressources, en
atteignant les "pics" de tout, en polluant à volonté et en gaspillant
l'énergie, l'humanité entière sera inévitablement destinée à en subir les
conséquences. Les trous financiers, la paralysie institutionnelle et les
altérations dangereuses de l'environnement, accompagnés de pénuries
alimentaires, d'épidémies et de décomposition sociale, seront notre pain
quotidien. Il n'est pas nécessaire de se regarder dans le miroir des guerres en
cours pour savoir que nous approchons d'un scénario d'effondrement systémique
qui souligne l'entrée dans une ère dure, dans laquelle l'adaptation sera
beaucoup plus difficile, qui impliquera des régressions vers des situations
insupportables, des déséquilibres aggravés et des crises exacerbées.
Un langage apocalyptique a émergé parmi les aspirants dirigeants pour
évoquer avec des mots ce qui ne peut être résolu par des actes. Croître, c'est
accumuler du capital, c'est-à-dire convertir de plus en plus de choses –
produits, terres, temps libre – en argent. Au-delà des cris d'alarme
rhétoriques, le système doit continuer à croître – à accumuler – pour échapper
à ses crises, même si la croissance ne fait que les accentuer. Par exemple,
dans le domaine écologique, comment cultiver sans polluer ? Changer le mix
énergétique est la solution selon les experts intergouvernementaux. Le capital
est toujours à la recherche d'une issue dans la technologie. Comment réduire
les émissions de gaz à effet de serre, principales causes du réchauffement
climatique ? Les conseillers gouvernementaux recommandent de réduire
progressivement la dépendance aux énergies fossiles en recourant aux énergies
renouvelables industrielles, étroitement associées aux énergies fossiles. La
proposition coïncide avec celle des dirigeants d'entreprises prônant un
capitalisme mondial « décarboné ». A partir du Sommet mondial sur le développement durable (Johannesburg, 2002),
des lobbies transnationaux ont émergé visant une « nouvelle économie
climatique » issue d'une « troisième
révolution industrielle », c'est-à-dire la numérisation, dont la
« transition énergétique » ne serait que le premier pas. La finance
s'est depuis longtemps aventurée dans des entreprises « vertes » et
numériques telles que les bâtiments « intelligents », les toits
solaires, l'éclairage LED, les voitures et scooters électriques, les batteries
à hydrogène, les enchères d'énergie ou les marchés des émissions. En attendant,
on réfléchit aux taxes, péages, actions et obligations « verts », on
calcule les emplois « verts » et on promeut un consumérisme
alternatif « inséré dans la matrice de l'Internet des objets ». C'est
un capitalisme « vert » 5G qui – encouragé par le prix toujours plus
bas des énergies renouvelables et le prix toujours plus élevé des énergies
fossiles et de l'électricité – se développe et promet de se multiplier à
travers la création d'un « réseau électrique intelligent » à
l'échelle internationale. Pour un secteur de la classe dirigeante, le basculement
vers l'environnementalisme de marché grâce à une « transition
réaliste » qui inclut le gaz et l'uranium dans le paquet, autrement dit le
saut hyper-productiviste au sens de ce qu'ils appellent la
« durabilité » (ce qui n'est pas vrai), signifie une opportunité de
changer le monde sans rien changer, c'est-à-dire en gardant intactes les
structures politiques et économiques actuelles et, par conséquent, sans
affecter d'un iota les intérêts acquis qui les sous-tendent. Il faut dire que
d'autres secteurs, négationnistes, sans poser de limites aux affaires, sont
plus enclins au roque nationaliste, à l'autoritarisme pur et à la course aux
armements.
Si l'on regarde la situation désastreuse d'un point de vue politique, un
nombre considérable de cadres, de conseillers et d'hommes politiques proposent
un « Nouveau Pacte Vert » entre multinationales, gouvernements et
« partenaires sociaux » (partis, syndicats et ONG) qui passe par la
déclaration de l'état d'urgence climatique. Il s'agit d'une vaste opération
disciplinaire visant à maintenir la population sous contrôle douce – ce qui
n'exclut pas les couvre-feux, les confinements et autres –, la préparant à
affronter les mesures d'austérité que les gouvernements décréteront pour « décarboner »
ou plutôt démanteler « l'État-providence » des classes moyennes
lorsqu'il ne peut plus être maintenu. Par exemple, les restrictions sur les
transports, l'électricité et l'approvisionnement en eau ; le rationnement
du carburant, du sucre, de la viande et des produits laitiers ; l’augmentation
générale des prix, etc. Ce serait en fait l'intronisation d'une économie
d'exception sans autre objectif que le renouvellement du complexe industriel et
de l'État politique qui assure sa domination dans des conditions de survie
extrêmement altérées. Les politiques préfèrent parler de résilience – arme d'adaptation massive à tous les
sacrifices imposés par ce qu'ils appellent le « progrès ». Reste
cependant à savoir si ce type de mesure saura surmonter les obstacles qui
résulteront à la fois de la nature du système – fils des hydrocarbures et de la servitude
volontaire – et des mécanismes de
blocage inhérents à sa complexité structurelle et aux dysfonctionnements du
contrôle social, ainsi qu'à la construction en marge d'économies supervisées de
type coopératif destinées à « réduire le coût humain de l'effondrement »,
ou plutôt à neutraliser le potentiel explosif de l'exclusion sociale.
L'orchestration médiatique et politique des protestations juvéniles politiquement
correctes contre le changement climatique cache à peine l'aube d'une période
tardive du capitalisme caractérisée à la fois par le caractère éminemment
destructeur de ses forces productives et par sa difficulté à croître
suffisamment pour payer les dettes, les retraites et les salaires, créer des emplois,
maintenir une énorme bureaucratie et encourager « l'électrification »
totale des transports, de l'agriculture et de l'industrie. Les dirigeants
applaudissent les revendications que les jeunes protestataires leur adressent
de manière pacifique et joyeuse, alors qu'ils ne remettent en question rien ni
personne, comme
si le conflit social et même les désobéissants et frondeurs « botellones »[1] n'existaient
pas.
Il y aura donc ceux qui tenteront de profiter de la situation, propice à
l'alarmisme, pour mettre en place une intermédiation « verte » à
travers des « observatoires » subventionnés et mettre ainsi en œuvre
une « politique majoritaire » aux arguments catastrophistes. Il
s'agit plus d'un stratagème pour légitimer le capitalisme « vert »
qu'autre chose. Pour cette espèce opportuniste, l'État serait l'instrument
idéal de la transition économico-énergétique promue par les multinationales du
pétrole, du gaz et de l'électricité elles-mêmes. Profiter du nouveau courant de
transition du capitalisme mondial – manifesté dans le New Green Deal, dans les Accords de Paris, dans les travaux du
GIEC, dans l’Agenda 2030 ou dans l’offre croissante de produits financiers
verts – pour en devenir les champions parlementaires, serait comme
« marquer un but contre son camp ». Contre quoi et qui ? Nous
nous posons la question. Comme il fallait s'y attendre, la
« nouvelle » gauche qui a émergé à la suite des spéculations
électoralistes, des discours sur la décroissance et des parades festivalières
se mêle à l'ancienne « gauche » dans sa défense du capitalisme et de
l'État. Cela est plutôt évident parce qu'elle respecte la croissance à tout
prix et le gaspillage de la consommation. En témoignent la pulsation de ses
politiques de « développement », ses projets de remodelage de la
métropole et ses projets d'aménagement du territoire. Quand l'économie se sert
de la politique, l'Etat se confond avec le Capital. On peut dire, du moins
depuis que la bourgeoisie a pris le pouvoir, que les États ont été conçus pour
cela et que c'est leur véritable tâche, même si pour les « éco-socialistes
démocrates » autoproclamés, il est question de peindre l'exploitation capitaliste
d’un vert démocratique.
Il n'y a pas de véritable réaction populaire, mais elle est redoutée, car
les antagonismes entre dominants et dominés ne se sont pas évanouis et on ne
veut pas que la moindre broutille puisse la déclencher – une bulle immobilière,
une hausse des prix, un problème d'approvisionnement, une catastrophe
naturelle, le retrait d’un avantage, un acte brutal de la police, etc. Le
système thermo-industriel étant globalisé, des dommages dans une zone
spécifique peuvent avoir des répercussions sur l'ensemble. C'est la fragilité
de son énorme pouvoir. La décision doit continuer à résider au sommet de la
hiérarchie, c'est pourquoi des efforts seront faits pour empêcher l'apparition
d'espaces autonomes où la confrontation libre puisse avoir lieu et où un
mouvement auto-organisé conscient de l'incompatibilité entre l'État et la
protection de l'environnement puisse apparaître ; un mouvement conscient
de l'opposition insoluble entre développement capitaliste et durabilité
authentique, entre accumulation et égalité ; un mouvement également
conscient de la contradiction entre les économies « circulaires » au
sein du marché et l'occupation de zones résistantes hors de l'économie,
capables d'autodéfense, où peuvent s'esquisser des modèles sociaux de
coopération égalitaires, solidaires et non industriels. Où, en somme, naissent
des pratiques à travers lesquelles les individus reprennent la décision sur
tout ce qui concerne leur existence, leur mode de vie et le type de société
qu'ils désirent. « Il n'y a pas de temps pour ça », disent les
éco-citoyens extincteurs de la rébellion. Il y a le temps, en revanche,
semble-t-il, pour promouvoir une contestation conditionnée, inoffensive et
superficielle fondée sur la mobilisation spectaculaire, sur la cooptation payante
de personnalités dites « indépendantes » et sur l'isolement des
radicaux ou « puristes ». Le but ultime de tant de discours survivaliste,
de la politique bon marché et des manœuvres publicitaires n'est que de servir
de soutien supplémentaire à l'État du capital. Cet État est le pivot des partis
qui cherchent à être l'expression politique des classes moyennes intimidées par
les crises du capitalisme tardif.
La rareté des réponses populaires aux crises ou, ce qui revient au même,
l'inexistence d'un sujet social, historique – d'une classe véritablement
antagoniste – s'explique par le simple fait que la majorité de la population
est l'otage de l'économie, dépend entièrement d'elle et est donc prisonnière de
ses besoins. Son imaginaire et tous ses moments vitaux ont été colonisés par le
capital. Sous une pluie d'informations biaisées et un étonnant manque de
communication, elle ne peut penser qu'à ses affaires quotidiennes. Il n'y a pas
en Europe de groupes traditionnels en marge, comme en Amérique, capables de
constituer une alternative radicale au système. Le décollage capitaliste s'est
produit grâce à la destruction de ce que Rosa Luxemburg appelait
« l'économie naturelle » et E. P. Thompson « l'économie
morale ». En revanche, dans la société de consommation européenne, la
classe majoritaire n'est pas le tout petit prolétariat industriel, ni les
précaires, dépourvus de moyens de défense, mais la classe moyenne salariée liée
au secteur tertiaire non productif : professions libérales, fonctionnaires
et surtout employés de bureau. Cette classe est le principal pilier du
consumérisme et la base sociale du parlementarisme et de la partitocratie. Elle
ne se considère pas comme antisystème ou ennemie de l'État, bien que les crises
aient réduit ses effectifs et qu'un tiers d'entre eux admette qu'il est dans
une position difficile. Le cas échéant, elle choisit le compromis face à
l'intransigeance, la sécurité face à la liberté, l'obéissance face à la révolte.
Malgré la dévalorisation de ses diplômes, la pression des dettes et la
suppression des emplois qui lui correspondaient, elle conserve sa mentalité
bourgeoise et ses aspirations à la promotion qu'elle a su transmettre à son
entourage. Sa confiance dans les gouvernements ne s'est pas émoussée même si
elle a diminué, les partis n'ont donc pas perdu trop de légitimité et, par
conséquent, la crise politique est restée stagnante. Bref, étant donné que,
pour l'instant, tant la catastrophe financière que la crise énergétique et la
dégradation de l'État ont été contenues jusqu'à un certain point, les
dimensions de la crise (sanitaire, démographique, culturelle et sociale), tout
en étant devenues visibles, n’ont pas encore atteint leur ampleur maximale. Les
services publics et les transports réguliers fonctionnent moins bien, mais ils
sont toujours là. On peut parler de crise morale, de perte des valeurs, de
méfiance à l'égard des institutions, de symptômes anomiques, d'irrationalité et
de violence urbaine, mais la crise sociale n'a pas encore atteint sa limite.
Pour l’instant elle reste circonscrite.
Ce serait une erreur de croire à un effondrement imminent du système
capitaliste, car il s'agit d'un processus de décomposition non linéaire, qui
peut prendre des chemins et des vitesses différents selon les scénarios qu'il
rencontre et les phases qu'il surmonte. N'oublions pas ce qu'avant le règne de
la philosophie de la « différence » on appelait des « conditions
historiques particulières » : pouvoirs de fait, classes éclairées,
polarisation sociale, traditions de lutte, poids de la caste politique,
conscience sociale, droits acquis, organisations non bureaucratisées, etc. Ce genre
de conditions peut accélérer le processus ou le ralentir. En général, un effondrement
se produit lorsque la satisfaction des besoins de base n'est plus possible pour
la majorité et que l'État est impuissant face aux troubles que cela entraîne.
Ce n'est pas le cas pour la plupart des États. L'investissement ne faiblit pas
et le prix de l'énergie, aussi élevé soit-il, est soutenable, de sorte que
l'économie peut encore essayer de croître en contenant l'exclusion avec des
mesures d'aide et des moyens de contrôle calculés, en surexploitant les immigrés
et en poursuivant des voies « vertes ». Les moteurs de la
civilisation thermo-industrielle – pétrole, gaz et crédit – continuent
indemnes. Tant que les programmes de protection de l'environnement créeront des
emplois, dus à l'écotourisme ou à toute autre activité peinte en vert capable
de s'industrialiser, l'effondrement de la classe moyenne pourra être retardé,
la crise socio-écologique ne suscitera pas une colère trop forte dans les
masses, et par conséquent, n'émergeront pas assez de formes collectives de
coexistence radicalement transformatrices. Les protestations contre les
inégalités et les déséquilibres environnementaux ne pourront pas converger et
n'oseront donc pas remettre en cause l'État, ni déroger aux règles du marché
forçant ainsi une sortie de l'économie, au sein de laquelle ne peuvent être
éliminés ni l’exclusion, ni la métropolisation, ni le réchauffement global, ni
la dégradation des écosystèmes, ni la destruction du territoire.
Ce qui est plus clair, c'est que la croissance économique ne pourra jamais
se passer des énergies fossiles et nucléaires, et ne cessera donc jamais
d'empoisonner la planète. Le retour à l'équilibre avec la nature et à la
stabilité territoriale – la durabilité – s’il est encore possible, commence par
l'arrêt immédiat de la production et de la consommation d'énergie fossile et
nucléaire en parallèle avec le démantèlement de l'industrie et de
l'exploitation minière, c’est à dire avec l'effondrement de l’économie de marché
et de la civilisation thermo-industrielle. En bref, cela suppose le
renversement complet de l'ordre mondial et la fin du capitalisme sous toutes
ses formes, y compris le capitalisme vert. Il n'y a pas une force sociale
capable de provoquer une fin pareil, mais l'implosion du système lui-même est
tout à fait probable. Son effondrement prévisible à combustion lente
permettrait de créer de petites zones autonomes – déjà déconnectées d'une
économie mondiale en ruine – qui satisferaient les besoins primaires du
quartier. Les expériences de ce genre sont la partie la plus prometteuse des
quelques luttes actuelles. Sans la conformation d'un sujet collectif né des
luttes anticapitalistes avec des objectifs clairs de désindustrialisation, au
lieu d'une transition vers un système communal, autogéré, écologique et
décentralisé, nous aurons la barbarie étatique fasciste, la barbarie mafieuse
ou certainement les deux. De plus, aucune transformation de ces
caractéristiques ne peut être entreprise par l'Etat, dernier refuge de toutes
les classes livrées à la ruine.
Miguel Amoros
Mise à jour d'un texte antérieur. 2 décembre 2022
[1] Los botellones sont des rassemblements
spontanés de jeunes pour draguer, s'enivrer et se casser la gueule, de
préférence avec les flics (NdT).
TENER SIEMPRE PRESENTE EL CAPITALISMO
al hablar de crisis ecológica
Las sociedades altamente tecnificadas y
financiarizadas, donde imperan las condiciones posmodernas de producción y
consumo -donde la economía funciona gracias al endeudamiento, el despilfarro y
la acumulación de residuos- llevan tiempo en una fase crítica de rendimientos
decrecientes. Eso significa que han de proseguir a mayor velocidad su lógica
depredadora, sometiendo a las exigencias de la economía tanto la población
asalariada como el territorio, con el fin de llegar a niveles de crecimiento
capaces de compensar la bajada ganancial. La carrera de la productividad
ocasionada por las dificultades de la acumulación capitalista está perturbando
seriamente el planeta, deteriorando los ciclos biológicos naturales y agravando
las condiciones de supervivencia de la población. Ahora mismo, la destrucción
del territorio es superior a su capacidad de recuperación. La mercantilización
del medio implica su devastadora artifialización. La crisis ecológica -hoy
publicitada como calentamiento global o cambio climático- no es más que la
punta del iceberg de una crisis múltiple que abarca todas las esferas de la
actividad humana y que anuncia a medio plazo lo que algunos mamporreros del
Estado llaman colapso, más bien un punto de inflexión a raíz del cual el
sistema se degradará de manera irreversible. Dada la incompatibilidad absoluta
entre una sociedad equilibrada y horizontal con otra desarrollista y
jerarquizada, o si se quiere, entre una civilización industrial con un medio
ambiente saludable, o en fin, entre el beneficio privado con la vida, la
dinámica del desarrollismo, aunque sea calificada de “sostenible”, no hará más
que agudizar las innumerables contradicciones que siguen aflorando y
profundizando las crisis. Al inflar globos crediticios, acentuar la explotación
de recursos, alcanzar “picos” de todo, contaminar a discreción y dilapidar
energía, la humanidad entera se verá abocada inevitablemente a sufrir las
consecuencias. Las agujeros financieros, parálisis institucionales y
alteraciones ambientales peligrosas, en compañía de escasez de alimentos,
epidemias y descomposición social, serán nuestro pan cotidiano. No hace falta
mirarse en el espejo de las guerras actuales para saber que nos acercamos a un
escenario de derrumbe sistémico que subraya la entrada en una época dura, de
mucha más difícil adaptación, que comportará retrocesos hacia situaciones
insoportables, desequilibrios agravados y crisis exacerbadas.
Un lenguaje apocalíptico ha surgido en los
aspirantes a dirigentes para conjurar con palabras lo que no puede arreglarse
con hechos. Crecer es acumular capital, es decir, convertir cada vez más cosas
-los productos, la tierra, el ocio- en dinero. Por encima de las retóricas
declaraciones de alarma, el sistema ha de seguir creciendo -acumulando- para escapar
a sus crisis, pero el crecimiento no hace más que acentuarlas. Por ejemplo, en
el campo ecológico, ¿Cómo crecer sin contaminar? El cambio del mix energético
es la solución según los expertos intergubernamentales. El capital siempre
busca la salida en la tecnología ¿Cómo se podría reducir la emisión de gases de
efecto invernadero, los principales responsables del calentamiento global? Los
asesores de los gobiernos aconsejan disminuir progresivamente la dependencia de
la energía fósil mediante el recurso a la energía renovable industrial,
íntimamente asociada a la fósil. La propuesta coincide con la de los ejecutivos
de las empresas que promueven un capitalismo global “descarbonizado”. Desde la
Cumbre de la Tierra (Johannesburg, 2002) han surgido lobbies transnacionales
que apuestan por una “Nueva Economía Climática” producto de una “tercera
revolución industrial”, o sea, de la digitalización, de la que la “transición
energética” no sería más que el primer peldaño. Hace tiempo ya que las finanzas
se aventuran por los negocios “ecológicos” y digitales como por ejemplo, los
inmuebles “inteligentes”, los techos de paneles solares, el alumbrado LED, los
coches y patinetes eléctricos, las pilas de hidrógeno, las subastas de energía
o los mercados de emisiones. Y entre tanto, se piensa en tasas, peajes,
acciones y bonos “verdes”, se calculan puestos de trabajo “verdes” y se
promociona un consumismo alternativo “inserto en la matriz del Internet de las
cosas”. Se trata de un capitalismo “verde” 5G que -alentado por el precio cada
vez más bajo de las energías renovables y el cada vez mayor precio de las
fósiles y de la electricidad- se está expandiendo y promete multiplicarse
mediante la creación de una “red eléctrica inteligente” a escala internacional.
Para un sector de la clase dirigente, el viraje hacia el ecologismo de mercado
gracias a una “transición realista” que incluya al gas y el uranio en el
paquete, o dicho de otro modo, el salto hiperdesarrollista en la línea de lo
que llaman “sostenibilidad” y no lo es, significa una oportunidad para cambiar
el mundo sin que nada cambie, es decir, conservando intactas las estructuras
políticas y económicas actuales, y por consiguiente, no afectando un ápice los
intereses creados que están tras ellas. Cabe decir que otros sectores,
negacionistas, sin poner puertas al negocio, se inclinan más por el enroque
nacionalista, el autoritarismo puro y la carrera armamentista.
Si consideramos el estado nefasto de las
cosas desde su vertiente política, un número considerable de ejecutivos,
consejeros y políticos proponen un “Nuevo Pacto Verde” entre las
multinacionales, los gobiernos y “la parte social” (partidos, sindicatos y
ONGs) que pase por la declaración de un estado de emergencia climática. Se
trata de una amplia operación disciplinaria destinada a mantener bajo control
suave a la población -que no descarta los toques de queda, confinamientos y
demás-, preparándola para afrontar las medidas de austeridad que decretarán los
gobiernos para “descarbonizar” o más bien desmantelar “el estado de bienestar”
de las clases medias cuando este ya no pueda conservarse. Por ejemplo,
restricciones del transporte, del suministro eléctrico y del agua;
racionamiento del combustible, del azúcar, de la carne y de los productos
lácteos; subida general de precios, etc.. De hecho equivaldría a la
entronización de una economía de excepción sin más objetivo que el de renovar
en condiciones extremadamente alteradas de supervivencia el complejo industrial
y el Estado político que asegura su dominio. Los políticos prefieren hablar de
resiliencia, esa arma de adaptación masiva a todos los sacrificios que impone
lo que llaman “progreso”. No obstante, está por ver si esa clase de
disposiciones remontará los obstáculos que presentarán tanto la naturaleza del
sistema -hijo de los hidrocarburos y de la servidumbre voluntaria- como los
mecanismos de bloqueo propios de su complejidad estructural y las averías del
control social, más allá de la construcción en sus márgenes de economías
tuteladas de tipo cooperativo destinadas a “reducir el coste humano del
colapso”, o mejor, a neutralizar el potencial explosivo de la exclusión social.
La orquestación mediática y política de
las protestas adolescentes políticamente correctas contra el cambio climático apenas
disimula los albores de un periodo tardío del capitalismo caracterizado tanto
por el carácter eminentemente destructivo de sus fuerzas productivas, como por
su dificultad en crecer lo suficiente para pagar deudas, pensiones y salarios,
crear empleos, mantener una enorme burocracia y fomentar la “electrificación”
total del transporte, la agricultura y la industria. Los dirigentes aplauden las demandas que los jóvenes
manifestantes les dirigen de forma pacífica y festiva, pues no cuestionan nada
ni a nadie, como si el conflicto social o incluso los desobedientes botellones
cañeros no existieran. Así pues, no faltará quien trate de aprovechar la
coyuntura, propicia al alarmismo, para montar una intermediación “verde” a
través de “observatorios” subvencionados y de esta forma llevar a cabo una
“política de mayorías” con argumentos catastrofistas. Eso es más una maniobra
de legitimación del capitalismo “verde” que cualquier otra cosa. Para esa
especie oportunista, el Estado sería el instrumento ideal de la transición
económico-energética que impulsan las mismísimas multinacionales del petróleo,
del gas y de la electricidad. Aprovechar la nueva corriente transicionista del
capitalismo global -manifiesta en el New Green Deal, en los Acuerdos de París,
en los trabajos del GIEC, la Agenda 2030 o en la oferta creciente de productos
financieros verdes- para convertirse en su adalid parlamentario, sería como
“marcar un gol en campo contrario”. ¿Contrario a qué y a quién? Nos
preguntamos. Como era de esperar, la “nueva” izquierda que se asoma tras
especulaciones electoralistas, discursos decrecentistas y desfiles
festivaleros, se confunde con la vieja “izquierda” en su defensa del
capitalismo y del Estado. Esta resulta bastante transparente en lo que respecta
al crecimiento a toda costa y al consumo dilapidador. Como muestra, el botón de
sus políticas de “desarrollo”, sus planes de remodelación de las metrópolis y
sus proyectos de ordenación del territorio. Cuando la economía se sirve de la
política, el Estado se funde con el Capital. Se puede decir, al menos desde que
la burguesía tomó el poder, que los Estados fueron concebidos para ello y que
esa es su verdadera tarea, por más que para los autoproclamados “demócratas
ecosocialistas” esta consista mejor en maquillar de verde democrático la
explotación capitalista.
No existe una verdadera reacción popular,
pero se la teme, ya que los antagonismos entre dirigentes y dirigidos no se han
esfumado, y se procura que ninguna nimiedad -una burbuja inmobiliaria, una subida
de precios, un problema de abastecimiento, una catástrofe natural, la retirada
de un subsidio, un acto brutal de las fuerzas del orden, etc.- la desencadene.
El sistema termo-industrial está globalizado, así que los desperfectos en una
zona concreta pueden repercutir en todo el conjunto. Esa es la fragilidad de su
enorme poderío. La decisión ha de seguir residiendo en la cúspide jerárquica,
por lo que se procurará impedir la aparición de espacios autónomos donde pueda
darse una discusión libre y crearse un movimiento auto-organizado consciente de
la incompatibilidad entre el Estado y la protección del entorno; un movimiento
al tanto de la oposición irresoluble entre el desarrollo capitalista y la
auténtica sostenibilidad, entre la acumulación y la igualdad; consciente además
de la contradicción entre las economías “circulares” dentro del mercado y la
ocupación de zonas resistentes fuera de la economía, diestras en la
autodefensa, donde se puedan esbozar modelos sociales de cooperación
igualitarios, solidarios y no industriales. En fin, donde nazcan prácticas a
través de las cuales recobren los individuos la decisión sobre todo lo
concerniente a su existencia, a su modo de vida y al tipo de sociedad que
deseen. “No hay tiempo para eso”, dicen los ecociudadanistas extintores de la
rebelión. Sí que lo hay, parece, para fomentar una protesta cautiva, inofensiva
y superficial basada en la movilización espectacular, en la cooptación
remunerada de personalidades llamense “independientes” y en el aislamiento de los
radicales o “puristas”. La finalidad última de tanto discurso supervivencial,
tanto politiqueo barato y tanta maniobra publicitaria no es otra que ejercer de
puntal extra del Estado del capital. Ese Estado es el asidero de los partidos
que intentan ser la expresión política de las clases medias acobardadas por las
crisis bajo el capitalismo tardío.
La escasez de respuestas populares a las
crisis, o lo que es lo mismo, la inexistencia de un sujeto social, histórico -de
una clase realmente antagónica- es explicable por el sencillo hecho de que la
mayoría de la población es rehén de la economía, depende completamente de ella
y por lo tanto, es prisionera de sus exigencias. Su imaginario y todos sus
momentos vitales han sido colonizados por el capital. Bajo una lluvia de
información sesgada y una incomunicación embrutecedora, no puede pensar en otra
cosa que no sea su quehacer diario. En Europa, no quedan grupos tradicionales
al margen como, por ejemplo, en América, capaces de constituir una alternativa radical
al sistema. El despegue capitalista se produjo gracias a la destrucción de lo
que Rosa Luxemburg denominaba “economía natural” y E. P. Thompson “economía
moral”. Por otro lado, en la sociedad de consumo europea la clase mayoritaria
no es el proletariado de la industria, muy reducido, ni el precariado, sin
apenas medios de defensa, sino la clase media asalariada ligada al sector
terciario no productivo: profesionales, funcionarios y empleados
principalmente. Dicha clase es el pilar mayor del consumismo y la base social
del parlamentarismo y de la partitocracia. No se considera antisistema ni
enemiga del Estado, por más que las crisis hayan reducido sus efectivos y que
la tercera parte de ellos admita encontrarse en una posición difícil. Llegado
el caso, escoge la transacción frente a la intransigencia, la seguridad frente
a la libertad, la obediencia frente a la revuelta. A pesar de la
desvalorización de sus titulaciones, de la presión de las hipotecas y de la
supresión de los puestos de trabajo que les correspondían, conserva su
mentalidad burguesa y sus aspiraciones de ascenso, que ha sabido transmitir a
su entorno. Su confianza en los gobiernos no se ha esfumado aunque haya
disminuido, con lo cual los partidos no han perdido demasiada legitimidad, y por
consiguiente, la crisis política se ha estancado. En fin, dado que, de momento,
tanto el desastre financiero como la crisis energética y el declive estatal han
podido contenerse hasta cierto punto, las dimensiones sanitaria, demográfica,
cultural y social de la crisis, aunque se hayan dejado ver, no se han
desplegado en toda su magnitud. Los servicios públicos y los transportes
regulares funcionan peor, pero están ahí. Podemos hablar de crisis moral, de
pérdida de valores, de desconfianza en las instituciones, de síntomas anómicos,
de irracionalidad y violencia urbana, pero la crisis social todavía no ha
llegado al límite. Se está en ello.
Sería un error pensar en un próximo
hundimiento del sistema capitalista, puesto que se trata de un proceso de descomposición
no lineal, que puede tomar distintos derroteros y distintas velocidades en
función de los escenarios que vaya encontrando y de las etapas que vaya
superando. No olvidemos lo que antes del reinado de la filosofía “de la
diferencia” se llamaba “condiciones históricas específicas”: poderes fácticos,
clases ilustradas, polarización social, tradiciones de lucha, peso de la casta
política, conciencia social, derechos adquiridos, organizaciones populares no
burocratizadas, etc. Esa clase de condiciones puede acelerar el proceso o
frenarlo. En general, un colapso ocurre cuando la satisfacción de las
necesidades básicas ya no es posible para la mayoría y el Estado se muestra
impotente ante los disturbios que ello comporta. No es ese el caso para la mayoría
de Estados. La inversión no desfallece y el precio de la energía aunque alto es
asumible, por lo que la economía aún puede tratar de crecer conteniendo la
exclusión con asistencia calculada y medidas de control, sobre-explotando a los
inmigrantes y pisando sendas “verdes”. Los motores de la civilización
termo-industrial -el petróleo, el gas y el crédito- siguen incólumes. Mientras
los programas de protección medioambiental creen empleos, los cree el turismo
ecológico o cualquier otra actividad pintada de verde capaz de
industrializarse, el derrumbe de la clase media puede retrasarse, la crisis
ecológico-social no despertará en las masas una cólera demasiado enérgica, y,
por consiguiente, no surgirán en número suficiente formas colectivas de
convivencia radicalmente transformadoras. Las protestas contra la desigualdad y
el desequilibrio ambiental serán incapaces de confluir, y por consiguiente, no
osarán cuestionar el Estado, ni se atreverán a apartarse de las reglas del
mercado y forzar así una salida de la economía, con lo cual no se podrá
revertir la exclusión, ni la metropolitanización, ni el calentamiento global,
ni la degradación de los ecosistemas, ni la destrucción del territorio.
Lo que queda más claro, es que el
crecimiento económico nunca podrá prescindir de la energía fósil y la nuclear,
y por lo tanto, nunca dejará de envenenar el planeta. La vuelta al equilibrio
con la naturaleza y la estabilidad territorial -la sostenibilidad- si todavía
es posible, empieza con el fin inmediato de la producción y el consumo de
energía fósil y nuclear en paralelo con el desmantelamiento de la industria y
la minería, es decir el hundimiento de la economía de mercado y de la
civilización termo-industrial. En definitiva, supone la subversión completa del
orden mundial y el fin del capitalismo en todas sus modalidades, incluida la
verde. No hay fuerza social capaz de conducir a un final de tal naturaleza,
pero en cambio, la implosión del propio sistema es bastante probable. Su
previsible desmoronamiento a fuego lento posibilitaría la puesta en marcha de
pequeñas zonas autónomas -ya desconectadas de una economía mundial en ruina-
que satisfacieran las necesidades elementales del vecindario. Experiencias de
ese tipo son la parte más prometedora de los escasos combates actuales. Sin la
conformación de un sujeto colectivo nacido de las luchas anticapitalistas con
objetivos desindustrializadores claros, en lugar de una transición hacia un
sistema comunal, autogestionado, ecológico y descentralizado, tendremos la barbarie
estatal fascista, la barbarie mafiosa o seguramente ambas. Además, ninguna
transformación de esas características podrá emprenderse desde el Estado, el
último refugio de todas las clases desahuciadas.
Miguel Amorós
Actualización de un
texto anterior descartado. 2 de diciembre de 2022