Amiche e amici,
compagni e compagne,
Scrivo tutto questo di getto, per non dimenticarlo, perché potrebbe essere
interessante da condividere o inutile e noioso (è sempre il rischio quando si
parla o si scrive). Lo farò in modo erratico com’è nella mia natura, impulsiva
ma ragionatrice. Quest’ossimoro apparente mi lega, del resto, al concetto di
deriva che mi è stato trasmesso e che ho applicato fin dalla giovinezza al mio
pensiero quanto alle mie passeggiate psicogeografiche – un po' per scelta radicale,
un po' per carattere.
Ho appena terminato di scrivere 2084
- DemoAcrazia o soluzione finale senza
sapere ancora chi vorrà gentilmente pubblicare (editori italiani o francesi
sensibili alla radicalità possono contattarmi) questa modesta ma sentita sintesi
delle mie riflessioni alla Silvio Pellico (ma anche un po' alla Garcia Marquez,
senza la minima pretesa di scrivere bene quanto lui): Le mie prigioni al tempo del colera nella sua versione spettacolare
e dello scatenamento della peste emozionale a 360 gradi.
Quello che scarabocchio qui non l'ho scritto tale e quale nel recentissimo saggio
di fantacoscienza che ho appena
citato e che è stato per me un punto rotta salutare per prendere le distanze da
tutte le pazze folle scatenate e da tutti i deliri totalitari in fibrillazione
accelerata. Tuttavia, quello che sto per aggiungere è assolutamente al cuore
della mia riflessione, fosse pure incompiuta ancor più che erratica.
Come dubitare che il capitalismo sia il nemico centrale contro
il quale ci si deve confrontare tutto il giorno (e anche di notte)? Questo
mostro a due teste (Stato + Mercato) ci costringe a lottare sia per salvarci la
pelle sia per vivere una vita degna di questo nome.
Il problema è che questa è solo la parte visibile (anche se
spettacolarmente nascosta e falsificata) dell'iceberg in agguato che aspetta la
nave (Niña, Pinta,
Santa Maria, Titanic o Potëmkin, secondo le ideologie produttiviste in circolazione
sul mercato intellettuale) della comunità umana incompiuta. Senza dubbio il
progetto di un rinascimento poetico e
sociale resta possibile, ma si rivela difficile perché la società umana è stata
sfruttata e condizionata per millenni dal produttivismo, molto prima che il
capitalismo – patologica fase
terminale della soluzione finale
produttivista – risalisse
dalle fabbriche, anziché scendere dal cielo, per inquinare definitivamente una
civiltà predatrice. Sia chiaro: senza l’hubris patriarcale/produttivista che
l’ha creato, non c’è capitalismo concepibile.
La faccenda è certamente più complessa di quanto io possa dirne,
ma l'ambiguità attorno alla questione sociale è storicamente legata, a mio
avviso, a un errore essenziale della teoria critica radicale (o che cerca di
esserlo), influenzata da un marxismo cui Marx stesso pretendeva di non assoggettarsi,
pur producendo il ricchissimo materiale teorico che l'ideologia marxista si è
affrettata a recuperare. In un tale contesto, l'enorme qualità critica
dell'ideatore di questa ideologia ha evidentemente influenzato anche tutto il
pensiero libertario, arricchendolo indubbiamente, pur sviandolo, credo, verso
scorciatoie insurrezionaliste a titolo di esorcismo autoritario.
Il superamento del marxismo – nel senso del Marx più lucido, ma meglio di quello che lui
stesso seppe fare a suo tempo e in seguito i suoi eredi autoproclamati – è stato cercato da diversi sinceri rivoluzionari e ha trovato
in Wilhelm Reich un appassionato ricercatore fuori circuito e fuori dagli
standard. Nonostante qualche delirio collaterale senza grande rilevanza in proposito,
Reich ha cercato coraggiosamente di sottrarre le più interessanti scoperte
freudiane alla psicanalisi borghese, tanto quanto ha denunciato, da militante
comunista della sexpol che è stato, l'abuso della teoria del proletariato perpetuato
dalle sue avanguardie rosse di stampo fascista. Dopo la sua incessante ricerca
sull'energia vitale e sulla peste emozionale, sul carattere e sull'irruzione
della morale sessuale coercitiva, la via radicale rimane aperta sulla scia di diversi
pensatori di sensibilità situazionista o di altre radicalità, da Anders e
Arendt a Vaneigem, passando per Benjamin, Bookchin, Clastres, Debord,
Gimbutas, Graeber, Sahlins, Scott. La dimensione
orgastica e acratica della rivoluzione sociale rimane, tuttavia, ancora tutta
da esplorare senza attardarsi sull’intellettualismo di un’economia libidinale.
Per
superare Marx, pur stimandolo molto e nutrendosi della sua lucidità, credo che
un passo fondamentale sia il rifiuto del dogma del
distinguo tra struttura e sovrastruttura che compare sempre quando ci s’incammina
verso la rivoluzione sociale di cui il Moro
sognava più di ogni altra cosa. Marx (come Mauss del resto –
ci tornerò) mi sembra almeno
parzialmente prigioniero dell'idea di struttura
economica del reale che relega tutto il resto alla sovrastruttura, perché il materialismo di entrambi era ovviamente pre-reichiano. Questi due grandi
esploratori appassionati del sociale, ignoravano la teoria dell'orgasmo che più
tardi avrebbe aperto la porta (sistematicamente chiusa in seguito,
ripetutamente, dall'irruzione della società dello spettacolo e dalla diffusione
planetaria dell'ideologia feticista del consumismo) a una nuova radicalità e
coscienza, tratteggiate e represse come un singhiozzo dopo il maggio 68.
In altre parole, per dire le cose come stanno, intendo che la
struttura sociale non è tanto economica quanto emozionale, psicogeografica nell’ambito
di un materialismo dialettico refrattario alle sue volgarizzazioni. Avere fame
è soprattutto un'emozione corporea, che sia fame di cibo o fame sessuale, per
attenersi all'essenziale, vuoi al primario, senza dimenticare, tuttavia, l'abbondante
esuberanza artistica del creativo e dell’immaginario che rendono
particolarmente umani gli umani. Al bisogno si risponde, dunque, prima di tutto
emozionalmente, oscillando tra due istinti primari opposti: la solidarietà
reciproca e la predazione suprematista. La scienza quando viene è benvenuta, ma
i metodi di organizzazione della vita e della società che da essa derivano, vengono
dopo, più o meno validi e sempre opinabili per la loro stessa natura
scientifica che, appunto, ne limita la portata. Si può precisare, in questo
senso, contro ogni regressione primitivista, che la funzione della tecnica
(come di ogni sapere e saper fare) va dosata in modo che il suo uso dipenda in
ultima analisi dal grado di felicità orgastica che essa rende possibile e non
dal PIL (prodotto interno lordo) di una società produttivista artificiale e
alienante di cui il capitalismo è la macchina che lava i cervelli e intristisce
i cuori.
L'economia e la psicoanalisi generano delle ideologie specifiche
della stessa pulsione a soddisfare i bisogni che i corpi individuali e sociali
affrontano prima emozionalmente, poi razionalmente. Come delimitare la
pertinenza dell'una come dell'altra? Il dono (ecco perché ho tirato fuori anche
Mauss), e in particolare il dono di sé che è il dono più intimo e profondo (lo si
chiama amore), è alla radice di ogni scambio o piuttosto di ogni sovrapposizione
energetica che caratterizza la poesia dell’umano – per dirlo meglio con le
parole di Reich, sottraendo “la cosa” a una teologia che ci parla sempre di
profitto e guadagno, mai di orgasmo e felicità: l'economia politica.
Quest’ideologia del capitalismo è, infatti, il bersaglio critico
di tutta l'opera di Marx – Das Kapital
compreso, che ha come sottotitolo Per la
critica dell'economia politica, come tutte le grandi opere della maturità marxiana
–, non dimentichiamolo. Il capitalismo ha ereditato dalle forme economiche
precapitaliste, “strutturalmente” religiose, il denaro come equivalente
generale del valore (da millenni il denaro, in quanto ricchezza accumulata, è
prezioso come l’oro, è “il grano” che rende ricchi), simbolo circolante di una
venerazione della crescita economica che feticizza la merce. Il totemismo della
quale evoca il potere del padre della civiltà dominante, il produttivismo,
spinto poi al parossismo dal figlio, il capitalismo, con l’ausilio dello
spirito santo dell'economia politica.
Di fronte a un essere che si desidera ma anche a un oggetto che
si brama, ci sono due possibilità di soddisfazione: una è il dono, atto
volontario gratuito inscritto in una proposta di reciprocità che rende amabili
e amichevoli, acuendo l'istinto fraterno/sororale; l'altro è il furto,
appropriazione privativa, atto imposto dall'istinto predatore che esercita
aggressività e astuzia, instaurando il conflitto per il dominio. L’economia
politica legalizza e decreta legittimo il furto perpetrato dall’appropriazione
privativa produttivista così come la violenza di Stato che la protegge. Contro quest’abuso,
del resto, mille forme storiche di riappropriazione testimoniano di una resistenza
prerivoluzionaria a livello individuale e locale nella vita quotidiana. Il
furto riguarda dunque altrettanto lo Stato che i suoi nemici, il dono
presuppone invece una società senza Stato, dei rapporti acratici tra soggetti liberi
e uguali. Dove lo scambio commerciale dissimula il furto, cancellando il dono,
la frustrazione e la rabbia sono acuite dalla rimozione del desiderio intimo la
cui soddisfazione non è affatto garantita dall’avere senza l’essere: una tale
amputazione frustra il ladro mentre ferisce il derubato.
“Quando hai fame, cerca
qualcuno con cui mangiare”, diceva Epicuro con la sua lucidità poetica. Il
dono è dunque la condizione della comunità umana in fieri che si manifesta
socialmente come mutuo soccorso, solidarietà, condivisione. Ecco perché, a una
lettura più reichiana, l'obbligo del controdono non mi sembra logico né
soprattutto necessario. La risposta umana a un dono non è un controdono (do ut des) ma un dono autonomo privo di
vincolo, una replica mossa dal piacere spontaneo che il dono comporta, perché
nell'azione di donare liberamente secondo i propri mezzi si soddisfa il
reciproco piacere di dare e ricevere. Exit,
dunque, la violenza oggettiva del potlatch tanto quanto la violenza subdola
dell'elemosina.
Se ci si riferisce all'atto d'amore come prototipo del dono
orgastico, gli amanti si donano ciascuno per il proprio piacere che soddisfa reciprocamente,
dando e ricevendo senza gerarchie di alcun genere. D'altro canto, fin dalla sua
origine, il produttivismo è un furto/stupro organizzato socialmente e
individualmente ed esercitato dal più forte o dal più furbo contro il più
debole o ingenuo. Ogni scambio redditizio per una delle parti introduce la
sofferenza nella soddisfazione e viceversa, creando il signore e lo schiavo,
trasformando l'abbraccio genitale orgastico in dominio/sottomissione fallica,
fonte di ogni sadismo e di ogni masochismo, etero, omo e più se affinità, tutte
e tutti nello stesso ghetto suprematista.
Tuttavia, alla fine del Medioevo dell'Occidente cristiano, il
produttivismo arcaico (inventore fin dall'antichità di molteplici forme sociali,
culturali e religiose diverse) ha lasciato il posto al produttivismo moderno,
di cui il capitalismo è il modo di produzione che ha trasformato le teologie religiose
celesti in una religione terrena. Il capitalismo è nato sulle rovine dei vecchi
regimi, grazie alla scoperta di un nuovo mondo da sfruttare e di un
industrialismo che ha rivoluzionato il modo di produzione accelerandolo
costantemente verso la produzione di valore anziché di felicità. Questa
modernizzazione progressiva del produttivismo ha invaso la vita organica,
passando da un dominio formale sul lavoro umano al dominio reale del capitale
(vedi Il sesto capitolo inedito del
Capitale di Marx e le opere di J. Camatte). Una tale mutazione ha comportato
persino un condizionamento psicosociale e psicogeografico globale di tutte le
relazioni degli umani tra loro e con il vivente, in un universo alienato e reificato,
dove la circolazione autonoma della merce ha ridotto la società a un supermercato
planetario. Da allora, uomini e donne, animali, piante ed energia – di fatto
tutta la natura e la vita organica – non sono più che cose con un prezzo e una
circolazione mercantile. Tuttavia, è un dato di fatto: per la
"produzione" della felicità l'energia del petrolio, dell'elettricità
o di qualsiasi altra pratica industriale non potrà mai sostituirsi in modo
soddisfacente all'energia vitale.
Per uscire dal capitalismo e non passare tragicamente da un
capitalismo all'altro, bisogna lottare contro il produttivismo. Altrimenti
siamo condannati al déjà-vu: Stalin, Franco, Mao, Pinochet, Pol Pot, Ben Laden,
Putin, macabre messinscene spettacolarmente opposte al totalitarismo
democratico che si nutre degli orrori reazionari e fascisti come ultimo alibi
per la sua sconfinata hubris predatrice, assassina ma politicamente corretta.
Sono convinto che la nostra complicità radicale dai caratteri
differenti ma non inconciliabili sia troppo importante per non cercare di
chiarire le sfumature, i dubbi e infine le differenze, per superarle attraverso
un dialogo capace di forgiare un immaginario condiviso. Ecco il motivo per cui mi
sono avventurato in questo discorso, ancora una volta erratico.
Con amicizia, dalla mia grotta scaldata
dal bue e dall’asinello per risparmiare gas ed elettricità, mentre manchiamo soprattutto,
collettivamente, di energia vitale.
Sergio Ghirardi Sauvageon 25/12/2022
2084 - Une réflexion personnelle sur l’état des choses
A mes camarades, amies et amis,
J’écris tout ça d’une traite, pour
ne pas l’oublier, tout en sachant que ça peut être intéressant à partager ou inutile
et ennuyeux (c’est toujours le risque quand on parle ou qu’on écrit). Je vais
le faire de manière erratique comme c’est dans ma nature, impulsive mais raisonnante.
Cet oxymore apparent me lie d’ailleurs à la notion de dérive qui m’a été
transmise et que j'applique, depuis ma jeunesse, à ma pensée comme à mes
promenades psychogéographiques dans la vie – un peu par choix radical, un peu
par caractère.
Je viens de terminer d’écrire 2084-DemoAcratie ou solution finale sans
savoir encore qui voudra bien publier (tout éditeur italien ou français
concerné par une sensibilité radicale peut me contacter) cette synthèse modeste
mais sincère de mes réflexions à la Silvio Pellico (mais un peu aussi à la
Garcia Marquez, sans la moindre prétention d’écrire aussi bien que lui) : Mes prisons au temps du choléra dans sa version
spectaculaire et du déferlement de la peste émotionnelle à 360 degrés.
Ce que je griffonne ici je ne
l’ai pas écrit tel quel dans mon essai de conscience-fiction
tout récent que je viens d’évoquer et qui a été pour moi un point de routage salutaire
afin de prendre les distances de toutes les foules déchainées et de tous les
délires totalitaires en fibrillation accélérée. Néanmoins, ce que je veux
ajouter est absolument au cœur de ma réflexion, fût-elle inachevée plus encore
qu’erratique.
Comment douter que le capitalisme
soit l’ennemi central contre lequel on est confronté à longueur de journée (et
la nuit aussi) ? Ce monstre bicéphale (État+Marché) nous oblige à nous
battre pour sauver notre peau autant que pour vivre une vie digne de ce nom.
Le problème est que cela n’est
que la partie visible (même si spectaculairement cachée et falsifiée) de
l’iceberg qui guette le navire (Niña, Pinta, Santa Maria, Titanic ou Potemkine,
au choix des idéologies productivistes qui circulent sur le marché intellectuel)
de la communauté humaine inachevée. Sans doute le projet d’une renaissance poétique et sociale reste-t-il
possible, mais il s’avère difficile car la société humaine a été exploitée et conditionnée
pendant des millénaires par le productivisme, bien avant que le capitalisme – phase
terminale pathologique de la solution
finale productiviste – ne remonte des
usines, plutôt qu’il ne descende du ciel, pour polluer définitivement une
civilisation prédatrice. Soyons clairs : sans l’hubris patriarcale/productiviste
qui l’a créé, il n’y a pas de capitalisme concevable.
Certes, le sujet est certainement
plus complexe que ce que je peux en dire, mais l’ambiguïté autour de la
question sociale est historiquement liée, selon moi, à une erreur essentielle de
la théorie critique radicale (ou qui cherche à l’être), influencée par un
marxisme auquel Marx même prétendait ne pas s’assujettir, tout en produisant la
richissime matière théorique que l’idéologie marxiste s’est empressée de
récupérer. Dans un tel contexte, l’énorme qualité critique du créateur de cette
idéologie a évidemment aussi influencé toute la pensée libertaire, l’enrichissant
sans doute, tout en la détournant, je crois, vers des raccourcis insurrectionalistes
en guise d’exorcisme autoritaire.
Le dépassement du marxisme – dans le
sens du Marx le plus lucide, mais mieux que ce que lui-même a pu faire à son
époque et surtout ses héritiers autoproclamés par la suite – a été recherché
par plusieurs révolutionnaires sincères et a trouvé en Wilhelm Reich un
chercheur passionné hors circuit et hors norme. Malgré quelques délires
collatéraux sans grande importance à ce propos, Reich a cherché bravement à
soustraire les découvertes freudiennes les plus intéressantes à la psychanalyse
bourgeoise, autant qu’il a dénoncé, en militant communiste de la sexpol qu’il
fut, l’abus de la théorie du prolétariat par ses avant-gardes rouges fascisantes.
Après ses recherches acharnées sur l’énergie vitale et la peste émotionnelle,
sur le caractère et sur l’irruption de la morale sexuelle, la voie radicale reste
ouverte dans le sillage de plusieurs penseurs de sensibilité situationniste ou
d’autres radicalités, de Anders et Arendt à Vaneigem, en passant par Benjamin, Bookchin, Clastres,
Debord, Gimbutas, Graeber, Sahlins, Scott. La dimension orgastique et acratique
de la révolution sociale reste cependant encore toute à explorer, sans s’attarder
sur l’intellectualisme d’une économie
libidinale.
Pour dépasser Marx, tout en
l’estimant beaucoup et se nourrissant de sa lucidité, je crois qu’une étape fondamentale
est le rejet du dogme de la distinction entre structure et superstructure qui
apparaît toujours quand on s’achemine sur la voie de la révolution sociale dont
le Moor rêvait plus que tout. Marx
(comme Mauss d’ailleurs – j’y reviendrai) me
semble au moins partiellement prisonnier de l’idée de l’infrastructure économique du réel qui relègue tout le reste à la superstructure, parce que son (leur)
matérialisme était évidemment pré-reichien.
Tous les deux ces grands explorateurs passionnés du social ignoraient la
théorie de l’orgasme qui a ensuite ouvert la porte (systématiquement refermée
depuis, à répétition, par l’irruption de la société du spectacle et par la
diffusion planétaire de l’idéologie fétichiste du consumérisme) à une
radicalité et à une conscience nouvelles, ébauchées et refoulées comme un
hoquet depuis mai 68.
En d’autres termes, mettant les
pieds dans le plat, je veux dire que la structure sociale n’est pas tant économique
qu’émotionnelle, psychogéographique, dans le cadre d’un matérialisme
dialectique réfractaire à ses vulgarisations. Avoir faim est avant tout une
émotion corporelle, soit-elle faim de nourriture ou faim sexuelle, pour s’en
tenir à l’essentiel, voire au primaire, sans pour autant oublier la foisonnante
exubérance artistique du créatif et de l’imaginaire qui rendent spécialement humains
les humains. D’abord, donc, on répond émotionnellement au besoin, oscillant
entre deux instincts primaires opposés : la solidarité mutuelle et la
prédation suprématiste. La science est la bienvenue quand elle vient, mais les
modes d’organisation de la vie et de la société qui en découlent, viennent
après, plus ou moins valables et toujours discutables en raison de leur caractère
scientifique même qui, justement, limite leur portée. On peut préciser, en ce
sens, contre toute régression primitiviste, que la fonction de la technique
(comme de tout savoir et savoir-faire) doit être dosée de façon que son
utilisation dépende finalement du degré de bonheur orgastique qu’elle rend
possible et non pas du PIB (Produit Intérieur Brut) d’une société productiviste
artificielle et aliénante dont le capitalisme est la machine à décerveler qui
attriste les cœurs.
L’économie et la psychanalyse génèrent
des idéologies spécifiques de la même pulsion d’assouvissement des besoins
auxquels les corps individuels et sociaux sont confrontés d’abord émotionnellement,
puis rationnellement. Comment délimiter la pertinence de l’une comme de
l’autre ? Le don (c’est pourquoi Mauss aussi est de la partie), et en
particulier le don de soi qui est le don le plus intime et profond (on appelle
ça l’amour), est à la racine de tout échange ou plutôt de toute superposition énergétique
qui caractérise la poésie de l’humain – pour mieux le dire avec les mots de Reich,
en soustrayant « la chose » à une théologie qui nous parle toujours
de profit et de gain, jamais d’orgasme et de bonheur : l’économie
politique.
Car cette idéologie du
capitalisme est la cible critique de toute l’œuvre de Marx – y compris Das Kapital, qui a pour sous-titre Pour la critique de l’économie politique,
comme toutes les œuvres majeures de la maturité marxienne –, ne l’oublions pas.
Le capitalisme a hérité des formes
économiques précapitalistes, « structurellement » religieuses, l’argent
comme équivalent général de la valeur (depuis des millénaires, l’argent, en
tant que richesse accumulée, est aussi précieux que l’or, c’est « le blé »
qui fait l’enrichissement), symbole circulant d’une vénération de la croissance
économique qui fétichise la marchandise. Le totémisme de celle-ci évoque le pouvoir
du père de la civilisation dominante, le productivisme, poussé ensuite au
paroxysme par le fils, le capitalisme, avec l’aide du saint esprit de
l’économie politique.
Face à un être qu’on désire, mais
aussi à un objet qu’on convoite, il y a deux possibilités pour la satisfaction :
l’une est le don, acte volontaire et gratuit inscrit dans une proposition de
réciprocité qui rend aimables et amiables, aiguisant l’instinct fraternel/sororal ;
l’autre est le vol, appropriation privative, acte imposé par l’instinct
prédateur qui exerce l’agressivité et la ruse, instaurant le conflit pour la
domination. L’économie politique légalise et décrète légitime le vol perpétré
par l’appropriation privative productiviste ainsi que la violence étatique qui
la protège. Contre cet abus, d’ailleurs, mille formes historiques de
réappropriation témoignent d’une résistance prérévolutionnaire à un niveau
individuel et local de la vie quotidienne. Le vol concerne, donc, à la fois
l’État et ses ennemis, tandis que le don suppose une société sans État, des rapports
acratiques entre sujets libres et égaux. Là ou l’échange marchand dissimule le
vol, annulant le don, la frustration et la rage sont exacerbées par le
refoulement du désir intime dont l’avoir sans l’être ne garantit en rien la
satisfaction : une telle amputation frustre le voleur tout en lésant le spolié.
« Quand tu as faim, cherche quelqu’un avec qui manger » disait
Epicure avec sa lucidité poétique. Ainsi le don est la condition de la
communauté humaine in fieri qui se
manifeste socialement comme entraide, solidarité, partage. C’est pourquoi, dans
une lecture plus reichienne, l’obligation d’un contredon ne me paraît pas
logique ni surtout nécessaire. La réponse humaine à un don n’est pas un
contredon (do ut des) mais un don
autonome dépourvu d’obligation, une réplique poussée par le plaisir spontané que
le don comporte, car dans l’action de donner librement selon ses moyens on
satisfait la jouissance réciproque de donner et recevoir. Exit, donc, la violence objective du potlatch autant que la
violence sournoise de l’aumône.
Si l’on se réfère à l’acte d’amour
comme prototype du don orgastique, les amants se donnent pour leur propre plaisir
qui les satisfait réciproquement, donnant et recevant sans hiérarchie d’aucune
sorte. En revanche, depuis ses origines, le productivisme est un vol/viol
organisé socialement et individuellement, exercé par les plus forts ou les plus
rusés contre les plus faibles ou les plus naïfs. Tout échange profitable pour l’une
des parties introduit la souffrance dans la satisfaction et inversement, créant
le maître et l’esclave, transformant l’étreinte génitale orgastique en
domination/soumission phallique, source de tout sadisme et de tout masochisme,
hétéro, homo et plus si affinités, tous et toutes dans le même ghetto
suprématiste.
Cependant, à la fin du Moyen Âge
de l’Occident chrétien, le productivisme archaïque (inventeur depuis
l’antiquité de multiples formes sociales, culturelles et religieuses différentes)
a laissé la place au productivisme moderne dont le capitalisme est le mode de
production qui a transformé les théologies religieuses célestes en une religion
terrestre. Le capitalisme est né sur les ruines des anciens régimes, grâce à la
découverte d’un nouveau monde à exploiter et d’un industrialisme qui a
révolutionné le mode de production en l’accélérant sans cesse vers la
production de valeur et non pas de bonheur. Cette modernisation progressive du
productivisme a envahi la vie organique passant d’une domination formelle sur
le travail humain à la domination réelle du capital (voir Le sixième chapitre inédit du Capital de Marx et les œuvres de J.
Camatte). Une telle mutation a comporté jusqu’au conditionnement psychosocial
et psychogéographique global de toutes les relations des humains entre eux et
avec le vivant, dans un univers aliéné et réifié où la circulation autonome de
la marchandise a réduit la société à un supermarché planétaire. Depuis, hommes
et femmes, animaux, plantes et énergie – toute la nature en fait et la vie
organique – ne sont plus que des choses avec un prix et une circulation
marchande. Pourtant, c’est un fait : pour la « production » du
bonheur, l’énergie du pétrole, de l’électricité ou de toute autre pratique
industrielle, ne pourra jamais se substituer à l’énergie vitale de manière
satisfaisante.
Pour sortir du capitalisme et ne
pas passer tragiquement d’un capitalisme à l’autre, il faut se battre contre le
productivisme. Sinon on est condamné au déjà-vu : Staline, Franco, Mao, Pinochet,
Pol Pot, Ben Laden, Poutine, macabres mises en scène spectaculairement opposées
au totalitarisme démocratique qui se nourrit des horreurs réactionnaires et
fascistes comme alibi ultime pour son hubris prédatrice sans bornes, meurtrière
mais politiquement correcte.
Je suis convaincu qu’une complicité
radicale, aux caractères différents mais pas inconciliables, est trop importante
pour ne pas chercher à éclaircir les nuances, les doutes et finalement les
différences, afin de les dépasser par un dialogue capable de forger un
imaginaire partagé. C’est pourquoi je me suis aventuré dans ce discours, encore
une fois erratique.
Avec amitié, depuis ma grotte
chauffée par le bœuf et l’âne pour économiser le gaz et l’électricité, alors
que surtout, collectivement, nous manquons d’énergie vitale.
Sergio Ghirardi
Sauvageon 25/12/2022