Dopo aver
inviato in lettura la mia riflessione su complotti, deliri e menzogne all’amico Miquel Amoros, ho ricevuto da lui
questo documento che ho trovato di grande interesse e capace di aggiungere
chiarezza al mio tentativo di abbandonare ogni pazza folla, nessuna esclusa. Ho
dunque deciso di aggiungerlo, traducendolo, al dossier in questione. SGS
Complotti ovunque, complotti da nessuna parte
Commento a Matthieu AIECH, L'INDUSTRIA DEL COMPLOTTISMO Menzogne statali, reti sociali e
distruzione della vita, La Lenteur, 2023.
Greg è un vecchio amico. Uno di quelli che risalgono all'infanzia.
Anche se ognuno di noi ha seguito la propria strada, sopravvivendo alla stupida
formattazione degli anni '80, abbiamo mantenuto un legame quasi fraterno.
Durante i confinamenti ci siamo chiamati. Spesso ho pensato che il vecchio
amico fosse sull'orlo dell'abisso. Greg ha toccato il fondo: angoscia,
isolamento, mix idrossiclorochina/eritromicina, gesti barriera, penuria di
mascherine, San Raoult e i suoi avversari. Il suo cervello ribolliva con 10.000
scenari di disastri raccolti sui socials. La Macronia ci stava mentendo. Ci
assediava. Ci lasciava crepare. È stato poco dopo aver ricevuto la sua seconda
dose di vaccino che i suoi sintomi sono iniziati. Perdita di forza e ipersensibilità
dei piedi e delle mani. Nel corso delle settimane, dolori e stanchezza si sono
manifestati. Greg ha consultato un mucchio di camici bianchi. Oggi parla di
“erranza medica”. A loro volta, i medici lo hanno catalogato come
"psicolabile"[1]. Bell’affare per Greg che già
sapeva di avere tendenza all'ipocondria. Infine, è stato uno stagista a dare un
nome alla sua malattia: neuropatia delle
piccole fibre. Con questa ipotesi annessa: e cioè che il vaccino contro il
Covid, infiammando il suo sistema immunitario, possa aver innescato
precocemente una malattia che sarebbe potuta insorgere in età più avanzata.
La depressione di Greg era condita dalla rabbia. Ha
cominciato a leggere testimonianze di persone vaccinate la cui salute era
improvvisamente peggiorata. Ha letto molti articoli sui laboratori e su come
alcuni hanno ignorato i protocolli.
Greg
si sentiva imbrogliato, contemporaneamente cavia e procuratore di dividendi. Un
articolo di stampa ha fatto i conti: “Dal 16 marzo 2020 il titolo di Moderna
(fino al 2020 sconosciuto al battaglione) è balzato del 466%, quello di Bion
Tech del 226%, quello di Astra Zeneca del 74%, quello di Pfizer del 35% e
quella di Johnson & Johnson del 21%” [capital.fr]. Il “siamo in guerra”
macroniano aveva generato la sua casta di profittatori: l'industria
farmaceutica. Rapidamente, Greg ha preso coscienza che la diffusione della sua
testimonianza stava alimentando la febbre antivax. Ha cercato di chiarire la
sua posizione, fermo restando che era fuori questione per lui dare credito a
certe devianze del genere “vaccinazione di massa uguale genocidio planetario”.
Il percorso su cui si è imbarcato l'amico era pericoloso. Rapidamente, è
arrivato a questa costatazione: sia negando immediatamente l'appartenenza a
qualunque"nebulosa complottista" sia eludendo completamente il
riferimento, il limbo digitale avrebbe metabolizzato la sua piccola storia per
alimentare le proprie isterie.
Macchina
di diversione e depoliticizzazione, cattive risposte ad angosce reali, il
complottismo è una dinamica sociale dai molteplici volti e usi. È la prima
squalifica dell'avversario, la pelle elastica dell'estrema destra, la trama
sfocata dei complotti reali che hanno viziato le storie ufficiali, un'infamia di
più gettata in faccia alle classi popolari da una borghesia che si è sempre
percepita come classe "illuminata". Insomma, l'attualizzazione di una
vecchia divisione delle nostre comunità tra persone capaci di dirigere e
raccontare il mondo e quelle che, sicuramente, non ci capiranno mai niente e
sono condannate a delirare la propria sventura. Per sbloccare questo
dispositivo, alcuni cercano di fornirci bocce intellettuali. È il caso di
Matthieu Amiech, uno dei titolari delle edizioni La Lenteur, che ha appena firmato L'Industrie du complotisme. Per chi non lo sa, la produzione de La Lenteur si colloca nell’ambito “anti
industriale” delle librerie politiche. L'etichetta è sommaria e necessariamente
riduttiva. Tuttavia, descrive questo ramo d'ispirazione libertaria che porta
uno sguardo più che critico su oltre due secoli di rivoluzione industriale
sostenuta da un impetuoso mito del Progresso. All'alba di una sesta estinzione
di specie e di un riscaldamento incontrollato del pianeta, si potrebbe pensare
che il suddetto mito sia svanito. Niente affatto. Peggio: mentre nessun segnale
indica un qualunque rallentamento della Mega-Macchina, i nostri sondaggisti
ufficiali lo affermano: più si soffoca, più cresce la schiera dei
climatoscettici[2]. In altre parole: quanto più il disastro in corso estende la
sua morsa, tanto più le fughe in avanti deliranti moltiplicano i loro adepti.
Come spiegare una tale crisi della nostra corteccia cerebrale di bipedi evoluti?
Matthieu Amiech offre un indizio nella sua introduzione: “La diffusione del
complottismo così come l'elevazione dell'anticomplottismo al rango di arma
ideologica essenziale degli strati dirigenti non sono separabili da questa
crisi della ragione politica. A forza di non fare nulla della verità essenziale
degli ultimi cinquant'anni da parte delle popolazioni del mondo industriale – la produzione e il
consumo di massa stanno distruggendo le condizioni di vita sulla Terra –, sono gli industriali
che se ne sono impossessati, loro che sono prima di tutto gli industriali della
menzogna”. Per illustrare la sua frase, l'autore cita i gruppi petroliferi che,
in un primo momento, hanno negato il riscaldamento globale per poi, in un
secondo, rinverdire disonestamente la loro immagine alimentando il miraggio
delle energie decarbonate. Il trucco è ovvio; la nostra incapacità di sviluppare
collettivamente la ragione critica non lo è di meno.
Quel buon vecchio Capitale scavatore
Per
Amiech, "complottisti" e "anti-complottisti" fanno parte
del movimento di uno stesso pendolo" quello della riduzione del cittadino
a un ruolo di osservatore disarmato e intrattenuto da gare oratorie tra
illuminati in pilotaggio automatico ed esperti intrisi di fredda arroganza. La
caricatura è volontaria. Perché gli illuminati non lo sono mai completamente.
Per lo meno, le loro paure, le paure di tutti noi, condividono un fondamento di
verità. Vale a dire che ogni paura irrazionale contiene la sua parte di
razionalità. In un capitolo fattuale e ben documentato intitolato "Le basi
oggettive del complottismo", l'autore ritorna su alcuni recenti scandali
sanitari: nucleare, piombo, amianto. L'industria mente con la complicità dei
poteri pubblici. Quanti morti, quanti malati? Se i bilanci oscillano, gli
"scandali" sono ben noti – fino all’indifferenza dei principali responsabili che tirano i
fili. La lezione potrebbe essere questa: ai complotti chimerici e astorici
inscenati in qualche teatrino delle ombre, si opporrebbero i complotti reali
dell'ordinario, quelli delle complicità legali e pubbliche tra mafie politiche
ed economiche. La devastazione umana ed ecologica causata dall'industria
sarebbe nulla senza il chiaro sostegno dei poteri pubblici. Il mondo dei
possidenti non ha bisogno di fomentare i suoi piani nel buio delle alcove, gli
basta soltanto promulgare una legge universale che sancisca la superiorità dei
suoi interessi su ogni altro. Basta invertire il famoso slogan anticapitalista
della defunta Lega Comunista Rivoluzionaria, e tutto diventa brutalmente chiaro:
“I loro profitti valgono più delle nostre vite”.
Abbiamo
detto che ogni paura contiene la sua parte di razionalità. Ma le nostre griglie
di lettura peccano quando non permettono più di attribuire a queste
preoccupazioni le loro coordinate socio-economiche in un mondo messo in squadra
dal capitalismo industriale. Ebbene, senza questa registrazione dell'elenco
delle nostre disgrazie e angosce sulla scacchiera di una guerra economica dichiarata
all’insieme del vivente, sarà sempre più difficile aggregare l'arcipelago delle
nostre rabbie.
In
guisa di ostacolo maggiore alle nostre ragioni irreggimentate: il digitale.
Perché L’industria del complottismo è
prima di tutto un'accusa contro la nostra messa in rete internautica. L'alba
degli anni 2000 ha segnato la collisione tra il crollo omicida di due famose
torri americane e l'inizio della dinamica pretesa “sociale” di Internet. Rivisitando
questa genesi traumatica ed esaltata nello stesso tempo, Matthieu Amiech si ricorda
“degli effetti emancipatori prodigiosi” promessi dagli adulatori di Internet:
quanti tecno profeti ci hanno predetto un contagio democratico mondiale con
“caduta delle dittature” e “costruzione di un potente movimento transnazionale
di opposizione al capitalismo”. Una ventina di anni dopo, la doccia fredda è in
grado di far tremare i progressisti più esaltati: sono innanzitutto dei
libertarismi internazionalisti di estrema destra, dei fondamentalisti religiosi
o neoimperiali alla Putin che alimentano (tra gli altri) le letture
complottiste dell'epoca”, diagnostica Amiech. Quello che allora gli apostoli
degli schermi non hanno visto è questa struttura pesante, profondamente
verticale e basata su una divisione internazionale del lavoro sempre più
esasperata, implicita al dispiegamento digitale; dietro la fluidità dei clic del mouse, un buon vecchio Capitale scavatore: dalle corse estrattiviste
che hanno nel mirino le terre rare a più di un milione di chilometri di cavi
sottomarini, passando per la sessantina di milioni di tonnellate di rifiuti
elettronici. Quello che allora hanno taciuto gli apostoli della nostra rete abbrutente
e imbottita di spie, è che la digitalizzazione del mondo era "un fulcro
indispensabile per il perseguimento, bene o male, dell'accumulazione
capitalista", ma anche "il più importante fattore di sconvolgimento
della nostra epoca: […] l'asimmetria di potere tra i comuni cittadini e gli
strati dirigenti”.
Perché
non solo l'ascesa ben materiale dell'economia immateriale contribuisce in modo
incredibile alla “drammatica distruzione dei nostri ambienti di vita”, ma
devitalizza i nostri immaginari capaci di nutrire ogni prospettiva di
emancipazione comune. Vale a dire che, né simbolicamente né concretamente, le
petizioni online e altri hashtag indignati cambieranno nulla nella traiettoria
del rullo compressore che scorre lungo le nostre schiene.
In
questa fiera ai megabit in cui tutto è
ingerito e rigurgitato al ritmo di compulsioni sempre più nevrotiche e a
rischio di raggiungere quel punto di rottura chiamato clinicamente
"stanchezza informativa", la fake
news è il parametro che permette di distinguere il grano sensato dal loglio
definitivamente senza senso. Preoccupati per il nostro equilibrio mentale, i
gruppi di stampa "smascherano" a ripetizione, consegnandoci a palate
il sottotesto certificato e labellato destinato a rendere leggibile un mondo
sempre più sull'orlo del caos generalizzato. In modo scherzoso, Amiech attacca
il nostro piccolo padre della Startup Nation e lo sospetta di occupare un trono
schizoide. Commentando la legge anti fake news, osserva: “La cosa più notevole
è che Macron teme il libero flusso dell’informazione su Internet mentre la
digitalizzazione della società è al centro del suo progetto politico”.
Sostituire la natura con la tecnologia e
la cultura con il commercio
“Meglio
di un complotto, un progetto politico: informatizzare il mondo”. Questo è il
titolo del quarto capitolo de L’industria
del complottismo, capitolo che si apre con una citazione dello scrittore
inglese Paul Kingsnorth che torna su quanto s’è sperimentato, sia tecnicamente
che politicamente, durante la crisi sanitaria. Estratto: “Nessun bisogno
di immaginare che quelli al volante agiscano nell'ombra. Quelli al potere […]
sono lì davanti ai nostri occhi, da anni, e la maggior parte di noi
semplicemente non vi presta attenzione o se ne frega. Siamo troppo occupati a
giocare con i giocattoli che fabbricano per noi. Ciò cui stiamo assistendo è
semplicemente il funzionamento abituale della Macchina. Approfitta degli eventi
per rafforzare il suo dominio. Colonizza le nostre società, i nostri corpi e le
nostre menti. Sostituisce la natura con la tecnologia e la cultura con il
commercio”.
Certo,
questo tipo di sintesi che disegna con l'accetta i contorni del nostro nuovo
servilismo potrebbe irritare chi pensa che le cose siano più sottili di così. Vale
a dire che il digitale è anche questa interfaccia che consente scambi di
analisi o testimonianze il cui raggruppamento potrebbe servire da catalizzatore
per le rivolte popolari. Dalle Primavere arabe ai Gilets Jaunes, non mancano
gli esempi che dimostrano come dalle viscere della macchina emergano zone di
opacità e di libera espressione che sfuggono – almeno momentaneamente – alle maglie
della censura e alle altre carte di moderazione dei social network. Del resto,
il sottoscritto non ha forse scritto queste righe con il naso incollato a uno
schermo di pixel destinato a un pubblico a sua volta più o meno prigioniero
della stessa infrastruttura? Che ci piaccia o no, che si sia uno jogger con un
auricolare Bluetooth a conduzione ossea e fascia da corsa collegata o un
medievalista che ama i vecchi papiri letti a lume di candela, il techno tope (per parlare come PMO) è ormai
l’ambiente in cui siamo tutti immersi. Un presupposto che non impedisce, però,
un minimo di lucidità: e cioè che fomentare delle resistenze in una rete in cui
una delle funzioni essenziali è quella di tracciare e spiare ogni scambio, deriva
da una strategia suicida.
Più
in generale, pensare in termini politici implica di prendere in mano le grandi
tendenze della materia di studio. E il primo impatto delle nuove tecnologie non
è quello di agire per una qualunque emancipazione, ma, al contrario, di
partecipare alla nostra diminuzione, bardandoci di protesi e sensori e
delegando la nostra capacità di decidere il nostro futuro a blocchi algoritmici.
Tra
il 17 marzo 2020 e il 3 maggio 2021, la popolazione francese ha subito un
periodo cumulativo di oltre quattro mesi di confinamento. Durante questo
periodo, per molti di noi, il contatto con l'esterno si è esercitato tramite i fornitori
di servizi Internet. Seguendo la sua intuizione, Matthieu Amiech evoca un
periodo di “privatizzazione” del nostro “accesso al mondo”. Con i danni
politici e psicologici che una simile situazione ha potuto causare – allo stato
attuale, l'amico Greg (e quanti altri?) non si è mai davvero ripreso.
Inscrivendo la dinamica digitale in quella del capitalismo, di cui non è che un'ennesima
variazione e accelerazione, l'autore prosegue: "Siamo forse di fronte a un
nuovo fenomeno di recinzioni, non più attinenti alla sfida materiale
dell'accesso alla terra e ai mezzi di sussistenza, ma alla sfida mentale
dell'accesso alla realtà”.
Sebastien
NAVARRO
– À
contretemps / Recensioni e studi critici/luglio 2023 – [http://acontretemps.org/spip.php?article1000]
[1] Sulla “psichiatrizzazione” delle persone che soffrono di effetti
collaterali dovuti alla vaccinazione, leggi “Covid, vaccini e scienza all'origine della sfiducia”, di Ariane
Denoyel, su Le Monde diplomatique nell'aprile 2023.
[2]
Vedi “Scettici sul clima:
perché il 37% dei francesi non aderisce più alle analisi scientifiche
dell'IPCC?”. L'espresso [lexpress.fr].
Pour le dossier : en cherchant au moins
de ne pas mourir idiots
Après avoir envoyé en lecture maréflexion à propos de complots, délires et mensonges à l’ami Miquel
Amoros, j'ai reçu de lui ce document que j'ai trouvé d'un grand intérêt et capable
d'ajouter clarté à ma détermination de fuir toute foule déchainée. J'ai donc
décidé de l’ajouter, en le traduisant, au dossier en
question. SGS
Complots partout, complots nulle part
Commentaire à Matthieu AMIECH, L’INDUSTRIE
DU COMPLOTISME Mensonges d’État, réseaux sociaux et destruction du vivant,
La Lenteur, 2023, 211 p.
Greg est un vieux pote. Un de ceux qui vient de l’enfance. Même si nous
avons suivi chacun nos chemins, survivant au débile formatage des années 80,
nous avons entretenu un lien quasi fraternel. Pendant les confinements, nous
nous sommes téléphoné. Souvent j’ai pensé que le vieil ami était au bord du
gouffre. Greg était à fond : dans l’angoisse, l’isolement, le mix
hydroxychloroquine/azithromycine, les gestes barrières, la pénurie de masques,
Saint-Raoult et ses contradicteurs. Son cerveau bouillait des 10 000
scénarios-catastrophes glanés sur les rézos. La Macronie nous mentait. Nous
assiégeait. Nous laissait crever. C’est juste après s’être fait injecter sa
seconde dose de vaccin que ses symptômes ont commencé. Perte de force et
hypersensibilité des pieds et des mains. Au fil des semaines, douleurs et
fatigue se sont installées. Greg a consulté tout un tas de blouses blanches.
Aujourd’hui il parle d’ « errance médicale ». Tour à tour, les
toubibs l’ont catalogué « psy »[1].
Une belle jambe, ça lui faisait à Greg, lui qui se savait déjà une tendance à
l’hypocondrie. Finalement, c’est un interne qui a mis un nom sur son mal :
neuropathie à petites fibres. Avec
cette hypothèse annexe : à savoir que le vaccin contre le Covid aurait
peut-être, en enflammant son système immunitaire, déclenché précocement une
maladie qui aurait pu surgir à un âge plus avancé.
La déprime de Greg s’est pimentée de colère. Il a commencé à lire des
témoignages de gens vaccinés dont l’état de santé s’était subitement dégradé.
Il a lu quantité d’articles sur les labos et la façon dont certains s’étaient
assis sur des protocoles. Greg s’est senti à la fois floué, cobaye et
extracteur à dividendes. Un article de presse a fait les comptes : « Depuis
le 16 mars 2020, le cours de Bourse de Moderna (jusqu’en 2020 inconnu au
bataillon) a bondi de 466 %, celui de Bion Tech de 226 %, celui d’Astra Zeneca
de 74 %, celui de Pfizer de 35 % et celui de Johnson & Johnson de
21% » [capital.fr]. Le « nous sommes en guerre » macronien avait
généré sa caste de profiteurs : l’industrie pharmaceutique. Rapidement,
Greg a pris conscience que la diffusion de son témoignage alimentait la fièvre
« antivax ». Il a tenté de préciser sa position, étant entendu qu’il
était hors de question pour lui de donner crédit à certaines embardées du genre
« vaccination de masse égale génocide planétaire ». Le fil sur lequel
s’embarquait l’ami était casse-gueule. Rapidement, il a fait ce constat :
qu’il se défende d’emblée d’appartenir à une quelconque « nébuleuse
complotiste » ou qu’il élude totalement la référence, les limbes
numériques sauraient métaboliser sa petite histoire pour nourrir ses propres
hystéries.
Machine à diversion et à
dépolitisation, mauvaises réponses pour vraies angoisses, le complotisme est
une dynamique sociale à visages et usages pluriels. Il est la disqualification
première de l’adversaire, la peau élastique de l’extrême droite, la trame brouillée
des vrais complots ayant vicié les histoires officielles, une infamie de plus
jetée à la face des classes populaires par une bourgeoisie s’étant toujours
perçue comme classe « éclairée ». Bref, la remise à jour d’un vieux
partage de nos communautés entre les gens capables de diriger et de dire le
monde et ceux qui, décidément, n’y comprendront jamais rien et sont condamnés à
délirer leur malheur. Pour décadenasser ce dispositif, certains tentent de nous
fournir des billes intellectuelles. C’est le cas de Matthieu Amiech, un des
tauliers des éditions La Lenteur, qui
vient de signer L’Industrie du
complotisme. Pour les non-affranchis, la production de La Lenteur se trouve
rangée dans le bac « anti-indus » des librairies politiques.
L’étiquette est sommaire et forcément réductrice. Elle nomme cependant cette
branche d’inspiration libertaire portant un regard plus que critique sur plus
de deux siècles de révolution industrielle adossée à un impétueux mythe du
Progrès. À l’aube d’une sixième extinction des espèces et d’un emballement
calorifère de la planète, on pourrait penser que ledit mythe a fait long feu.
Il n’en est rien. Pire : alors qu’aucun signal n’indique un quelconque
ralentissement de la Méga-Machine, nos sondeurs officiels l’affirment :
plus on étouffe, plus les rangs des climatosceptiques s’étoffent[2].
Autrement dit : plus la catastrophe en cours étend son emprise, plus les
fuites en avant délirantes multiplient leurs adeptes. Comment expliquer une
telle crise de nos cortex de bipèdes évolués ? Matthieu Amiech propose une
piste dans son introduction : « La diffusion du complotisme autant
que l’élévation de l’anticomplotisme au rang d’arme idéologique essentielle des
couches dirigeantes ne sont pas séparables de cette crise de la raison
politique. À force que les populations du monde industriel ne fassent rien de
la vérité essentielle des cinquante dernières années – la production et la
consommation de masse détruisent les conditions de la vie sur Terre –, ce sont
les industriels qui s’en sont emparés, eux qui sont d’abord des industriels du
mensonge ». Pour illustrer sa sentence, l’auteur cite les groupes
pétroliers qui, dans un premier temps nient le réchauffement climatique avant,
dans un second, de verdir crapuleusement leur image en nourrissant le mirage
d’énergies décarbonées. L’entourloupe est manifeste ; notre incapacité à
faire collectivement œuvre de raison critique non moins.
Ce bon vieux Capital de pelleteuse
Pour Amiech, « complotistes » et « anticomplotistes »
relèvent du mouvement d’un même balancier » celui de la réduction du
citoyen à un rôle d’observateur désarmé et diverti par des joutes oratoires
entre illuminés en pilotage automatique et experts pétris de morgue froide.
Nous caricaturons à dessein. Car les illuminés ne le sont jamais tout à fait.
Tout du moins, leurs peurs, nos peurs à tous, partagent un fondement de vérité.
C’est-à-dire que chaque peur irrationnelle contient son lot de rationalité.
Dans un chapitre factuel et solidement documenté intitulé « Les bases
objectives du complotisme », l’auteur revient sur quelques scandales
sanitaires récents : nucléaire, plomb, amiante. Mensonges de l’industrie, complicité
des pouvoirs publics. Combien de morts, combien de malades ? Si les bilans
fluctuent, les « scandales » sont bien connus – jusqu’aux blases des
principaux tireurs de ficelle. La leçon pourrait être celle-ci : aux complots
chimériques et anhistoriques joués dans quelque théâtre d’ombres s’opposeraient
les vrais complots de l’ordinaire, ceux des accointances légales et publiques
entre mafias politique et économique. Les ravages humains et écologiques
provoqués par l’industrie ne seraient rien sans le clair soutien des pouvoirs
publics. Le monde des possédants n’a pas besoin de fomenter ses plans dans la
pénombre des alcôves, il lui suffit juste d’ériger une loi universelle
sanctionnant la supériorité de ses intérêts sur tout autre. Inversons le célèbre
slogan anticapitaliste de feu la LCR, et tout s’éclaire brutalement :
« leurs profits valent plus que nos vies ».
Nous disions que toute peur contient son lot de rationalité. Mais nos
grilles de lecture pèchent quand elles ne permettent plus d’attribuer auxdites
inquiétudes leurs coordonnées socio-économiques dans un monde mis en coupe
réglée par le capitalisme industriel. Or, sans cette inscription de la liste de
nos malheurs et angoisses sur le damier d’une guerre économique livrée à
l’ensemble du vivant, il sera toujours plus difficile d’agréger l’archipel de
nos colères.
En guise d’obstacle majeur à nos raisons enrégimentées : le numérique.
Car L’Industrie du complotisme est d’abord une charge contre notre mise en
réseau inter nautique. L’orée des années 2000 est cette collision entre
effondrement meurtrier de deux célèbres tours américaines et début de la
dynamique prétendument « sociale » d’Internet. Revisitant cette
genèse à la fois traumatique et exaltée, Matthieu Amiech se souvient « des
effets émancipateurs prodigieux » promis par les thuriféraires
d’Internet : combien de techno prophètes ne nous ont-ils pas prédit une
contagion démocratique mondiale avec « chute des dictatures » et
« construction d’un puissant mouvement transnational d’opposition au
capitalisme ». Une vingtaine d’années plus tard, la douche froide est à
même de saisir le derme des progressistes les plus exaltés : « Ce
sont d’abord des internationales libertariennes d’extrême droite,
fondamentalistes religieuses ou néo-impériales à la Poutine, qui attisent
(entre autres) les lectures complotistes de l’époque », diagnostique
Amiech. Ce que n’ont pas vu alors les apôtres des écrans, c’est cette structure
lourde, profondément verticale et assise sur une division internationale du
travail toujours plus exacerbée qui sous-tend le déploiement numérique ;
derrière la fluidité des clics de souris, un bon vieux Capital de
pelleteuse : des ruées extractivistes visant les terres rares aux plus
d’un million de kilomètres de câbles sous-marins en passant par la soixantaine
de millions de tonnes de déchets électroniques. Ce qu’ont tu alors les apôtres
de notre maillage abrutissant et farci de mouchards, c’est que la numérisation
du monde était « un point d’appui indispensable à la poursuite, tant bien
que mal, de l’accumulation capitaliste », mais aussi « le facteur de
bouleversement social le plus important de notre époque : […] l’asymétrie
de pouvoir entre les citoyens ordinaires et les couches dirigeantes ».
Car non seulement l’essor bien matériel de l’économie immatérielle participe
à un degré inouï de « la destruction dramatique de nos milieux de
vie », mais il dévitalise nos imaginaires capables de nourrir toute
perspective d’émancipation commune. C’est-à-dire que, ni symboliquement ni
concrètement les pétitions en ligne et autres hashtags indignés ne changeront
quoi que ce soit à la trajectoire du rouleau compresseur déboulant sur nos
échines.
Dans cette foire aux mégabits où tout s’ingurgite et se régurgite au rythme
de compulsions toujours plus névrotiques et au risque d’atteindre ce point de
rupture cliniquement nommé « fatigue informationnelle », la fake new est cet étalon permettant de
trier le bon grain sensé de l’ivraie définitivement égarée. Soucieux de nos
équilibres mentaux, les groupes de presse « débunkent » à tour de
bras, nous livrant par pelletés le sous-texte certifié et labellisé destiné à
rendre lisible un monde toujours plus au bord du chaos généralisé. Taquin,
Amiech tacle notre petit père de la Start-up Nation et le soupçonne d’occuper
un trône schizoïde. Commentant la loi anti-fake news, il note : « Le
plus remarquable, c’est que Macron craint la circulation libre de l’information
sur Internet alors que la numérisation de la société est le cœur de son projet
politique ».
Remplacer la nature par la technologie et la culture par le commerce
« Mieux qu’un complot, un projet politique : informatiser le
monde ». Tel est le titre du quatrième chapitre de L’Industrie du
complotisme, chapitre qui s’ouvre sur une citation de l’écrivain anglais Paul
Kingsnorth revenant sur ce qui s’est expérimenté, autant techniquement que
politiquement, durant la crise sanitaire. Extrait : « Nul besoin
d’imaginer que ceux qui sont aux manettes agissent dans l’ombre. Ceux qui sont
au pouvoir […] sont là sous nos yeux, depuis des années, et la plupart d’entre
nous n’y prête tout simplement pas attention ou s’en fiche. Nous sommes trop occupés
à jouer avec les joujoux qu’ils fabriquent pour nous. Ce à quoi nous assistons,
c’est tout simplement au fonctionnement habituel de la Machine. Elle profite
des événements pour renforcer sa domination. Elle colonise nos sociétés, nos
corps et nos esprits. Elle remplace la nature par la technologie et la culture
par le commerce ».
Certes ce genre de synthèse dessinant à coups de hache les contours de nos
nouvelles servilités pourrait irriter ceux qui pensent que les choses sont plus
subtiles que ça. À savoir que le numérique est aussi cette interface permettant
des échanges d’analyses ou de témoignages dont l’agrégation pourrait servir de
catalyseurs aux révoltes populaires. Des printemps arabes aux Gilets jaunes,
les exemples ne manquent pas prouvant que des entrailles de la machine émergent
des zones d’opacité et de libre expression échappant – du moins momentanément –
aux baillons de la censure et autres chartes de modération des réseaux sociaux.
Après tout, le soussigné n’a-t-il pas lui-même rédigé ces lignes le nez collé à
un écran de pixels à destination d’un public lui-même plus ou moins captif de
la même infrastructure ? Qu’on le veuille ou non, qu’on soit joggeur à
casque Bluetooth à conduction osseuse et brassard de running connecté ou
médiéviste amateur de vieux grimoires lus à la lueur d’une bougie, le techno
tope (pour parler comme PMO) est désormais ce milieu dans lequel nous baignons
tous. Un préalable qui n’obère cependant pas un minimum de lucidité : à
savoir que fomenter des résistances dans un réseau dont l’une des fonctions
essentielles est de tracer et de fliquer tout échange relève d’une stratégie
suicidaire.
Plus globalement, réfléchir en termes politiques implique de s’emparer des
tendances lourdes du sujet d’étude. Et la première incidence des nouvelles
technologies est non pas de travailler à une quelconque émancipation, mais au
contraire de participer à notre diminution en nous bardant de prothèses et de
capteurs et en déléguant notre capacité à décider de notre avenir à des verrouillages
algorithmiques.
Entre le 17 mars 2020 et le 3 mai 2021, la population française a subi en
cumulé une période de plus de quatre mois de confinement. Pendant ce laps de
temps, pour beaucoup d’entre nous, le contact avec l’extérieur s’est fait via
les fournisseurs d’accès à Internet. Suivant son intuition, Matthieu Amiech
évoque une période de « privatisation » de notre « accès au
monde ». Avec les dégâts tant politiques que psychiques qu’une telle
situation a pu engendrer – à l’heure actuelle, l’ami Greg (et combien
d’autre ?) ne s’en sont jamais réellement remis. Inscrivant la dynamique
numérique dans celle du capitalisme dont il n’est qu’une énième déclinaison et accélération,
l’auteur poursuit : « Nous sommes peut-être face à un nouveau
phénomène d’enclosures, portant non plus sur l’enjeu matériel de l’accès aux
terres et aux moyens de subsistance, mais sur l’enjeu mental de l’accès au réel ».
Sébastien NAVARRO
– À contretemps/Recensions et études critiques/juillet 2023 –
[http://acontretemps.org/spip.php?article1000]
[1] Sur la «
psychiatrisation » de personnes souffrant d’effets secondaires dus à la
vaccination, lire « Covid, vaccins
et science aux origines d’une défiance », d’Ariane Denoyel, dans Le
Monde diplomatique d’avril 2023.
[2] Voir « Climatosceptiques : pourquoi 37 % des
Français n’adhèrent plus aux analyses scientifiques du Giec ? »,
L'Express [lexpress.fr].