Vi
ho tradotto con piacere dallo spagnolo quest’analisi rinvigorente per l’intelligenza
dell’epoca in via di sparizione per artificializzazione programmata.
SGS
Che
cos’è l’anarchismo
È
una dottrina, un'ideologia, un metodo, una branca del socialismo, una linea di
condotta, una teoria politica? La risposta, in linea di principio, è semplice:
l’anarchismo è ciò che pensano e fanno gli anarchici e, in generale, coloro che
si definiscono nemici di ogni autorità e imposizione. Coloro che, per vie
diverse, molte veramente antagoniste, perseguono l’“anarchia”, cioè una società
senza governo, un modo di convivenza sociale estraneo alle disposizioni
autoritarie. L’anarchismo non sarebbe altro che la via per raggiungere
quell’anarchia, che il geografo Reclus ha definito “la più alta espressione
dell’ordine”. In cosa consiste? Esistono molteplici e contraddittorie strategie
per raggiungere un ideale basato su una negazione di cui esistono diverse
versioni, ragion per cui si potrebbe parlare più propriamente di anarchismi,
come fa, ad esempio, Tomás Ibáñez. Se si tiene conto anche della situazione
storico-sociale contemporanea, dove l’anarchismo non è più gran cosa – solo un
segno semi-accademico d’identità giovanile che ha ben poco a che fare con
epoche passate più gloriose e che rimane al riparo da ogni critica seria e
obiettiva – le definizioni potrebbero essere estese all’infinito. L’anarchismo
sarebbe dunque una specie di sacco pieno di formule disparate etichettate come
anarchiche. Le porte restano aperte a qualsiasi deriva, sia essa riformista,
individualista, cattolica, comunista, nazionalista, contemplativa, mistica,
cospiratoria, d’avanguardia, ecc. Per quanto riguarda la faciloneria degli
ambienti libertari a proposito di tale diversità, potremmo concludere come
l’autore o gli autori dell’opuscolo “Della
miseria nell’ambiente studentesco” (Internazionale Situazionista, 1966) a
proposito dei componenti della Fédération
Anarchiste: “Questa gente in realtà tollera tutto dal momento che si
tollerano a vicenda.”
Le
prospettive non sono rosee, perché di questi tempi la comprensione dei fenomeni
sociali e delle ideologie che li accompagnano dipende molto da una riflessione
adeguata, cioè dalla prospettiva fornita dalla conoscenza storica. Anche oggi
l’anarchismo non manca d’intellettuali onesti e competenti adatti alla bisogna.
Tuttavia, la caratteristica più comune degli anarchismi postmoderni, che
navigano nella post-verità e ripudiano la coerenza, è il rifiuto di tale
conoscenza. Inoltre, secondo questo tipo di anarchismo, è necessario
intervenire sul passato a partire dal presente, come depositario di risorse
estetiche, in linea con le norme ludiche, la grammatica trans gender e le
abitudini gastronomiche imposte dalla moda. L'impegno, del resto, è effimero.
Adesso, finalmente, con la volonterosa eccezione di alcuni nuclei sindacalisti,
l'anarchismo si riduce a un fenomeno da fiera del libro. Noi, che andiamo nella
direzione opposta, cercheremo di spiegare questa costante aspirazione a
un'organizzazione sociale senza governo, quindi senza Stato, senza autorità
separata, riferendoci alle sue origini laddove si trovano, nei settori radicali
delle rivoluzioni popolari del diciannovesimo secolo.
In
linea di principio bisognerà superare la mania di alcuni ideologi anarchici, a
cominciare da Kropotkin, Reclus, Rocker e lo storico Nettlau, di scoprire
antenati in ogni momento della storia e in ogni luogo. Da questo punto di vista
l’anarchismo non sarebbe un’idea nuova, ma qualcosa di antico quanto l’umanità,
perenne, eterno, inscritto nell’essere biologico della specie umana. Anarchici
sarebbero allora Diogene il cinico e Zenone lo stoico, Lao Tse, Epicuro,
Rabelais, Montaigne o Tolstoj. Tracce libertarie si troverebbero nei comuni
medievali, nei Diggers inglesi, nel liberalismo filosofico di Spencer e Locke,
nell'opera politica di Stuart Mill e William Godwin, in qualsiasi alterazione
dell'ordine costituito... Non abbiamo nulla da obiettare a questo, ma
denunciamo il tentativo latente in questo approccio antistorico di fabbricare
un’ideologia interclassista negando al movimento operaio il suo ruolo decisivo
nella genesi delle idee anarchiche. Ciò ha avuto effetti disastrosi sulla
pratica antiautoritaria. I promotori e difensori di questa tesi cercarono di
trascendere la realtà sociale non attraverso interventi pratici nella sfera
politico-sociale, ma attraverso la propaganda, attraverso un intenso sforzo di
educazione di massa che potesse provocare una graduale evoluzione della
mentalità popolare verso livelli elevati di coscienza. Per i propagandisti
educatori, soprattutto per quelli più immobili e pigri, come Abad de Santillán,
l’anarchismo era semplicemente “un desiderio umanista”, il nuovo nome per “un
atteggiamento e una concezione umanista di base”, una dottrina non specifica né
concreta, un vago ideale etico sempre esistito, che si riscontrava in qualunque
classe sociale e che – aggiungeva Federica Montseny – aveva trovato nella
penisola iberica la tradizione, il temperamento razziale e l'amore fiero per la
libertà in maggiore abbondanza che in ogni altra parte. Nel prologo di un libro
dello statalista Fidel Miró, Santillán afferma con calcolata ambiguità che “l'anarchismo
pretende la difesa, la dignità e la libertà dell'uomo in tutte le circostanze,
in tutti i sistemi politici, di ieri, oggi e domani... [..] non è legato ad
alcun tipo di costruzione politica, né propone un sistema di sostituzione”. Non si trattava quindi di un progetto
omogeneo ma plurale, ibrido, sui cui fondamenti, finalità e strategie di
attuazione, secondo il sospettoso Gaston Leval, che proponeva di dare una “base
scientifica” all’anarchismo rafforzando il realismo “costruttivo” in politica
ed economia, non c'era accordo "tra i teorici più capaci in questo
campo" ("Precisioni sull'anarchismo", 1937). Le speculazioni sui
maggiori riferimenti dell'anarchismo ortodosso in Spagna nel 1936 sboccavano nei
temi topici del liberalismo politico, il che è comprensibile poiché ciò illustrò
l'estrema adattabilità delle sue convinzioni ai principi e alle istituzioni
repubblicane borghesi.
Rudolf
Rocker vedeva nell'anarchismo la confluenza di due correnti intellettuali
promosse dalla Rivoluzione francese: il socialismo e il liberalismo. Facciamo
notare che una corrente era proletaria, l'altra borghese. Tuttavia, questa
confluenza non costituisce un sistema sociale fisso, ma piuttosto “una
chiara tendenza dello sviluppo dell’umanità che […] aspira a che tutte le forze
sociali si sviluppino liberamente nella vita” (Anarco-sindacalismo.
Teoria e pratica). Albert Libertad, direttore della rivista individualista
"L'Anarchie", non era d’accordo con ciò: “Per noi l'anarchico è
colui che ha superato in sé le forme soggettive dell'autorità: religione,
patria, famiglia, rispetto umano o qualunque cosa si voglia, e che non accetta
nulla che non sia passato al vaglio della sua ragione per quanto glielo consente
la sua conoscenza.” L’anarchia non potrebbe essere altro che “la
filosofia del libero esame, che non impone nulla attraverso l’autorità e cerca
di dimostrare tutto con il ragionamento e l’esperienza”.
Per
Sebastian Faure, l’anarchia “come ideale sociale e come realizzazione
effettiva, risponde a un modus vivendi in cui, libero da ogni soggezione
giuridica e collettiva al servizio della forza pubblica, l’individuo non avrà
altri obblighi di quelli imposti dalla sua coscienza”. Il suo compagno
Janvion dichiarava che l'anarchismo era “la negazione assoluta dell'autorità
dell'uomo sull'uomo”; Emma Goldman è andata oltre consacrando l’individuo
come misura di tutte le cose: “L’anarchismo è l’unica filosofia che
restituisce all’uomo la coscienza di se stesso, che sostiene che Dio, lo Stato
e la Società non esistono, che sono promesse vuote e vane, e che possono essere
perseguite solo attraverso la subordinazione dell’uomo”. Anche se in modo
astratto, si alludeva a questioni come la produzione e il reparto, senza
specificarlo. Nel suo piccolo libro “Anarchismo. Che cosa significa
veramente” diceva: “L’anarchismo è la filosofia di un nuovo ordine
sociale basato sulla libertà illimitata, la teoria secondo cui tutti i governi
si basano sulla violenza e sono quindi fuorvianti e pericolosi, oltre che
inutili […] Esso rappresenta un ordine sociale basato sulla libera aggregazione
di individui con l'obiettivo di produrre ricchezza sociale, un ordine che
garantisca il libero accesso alla terra e il pieno godimento dei bisogni della
vita..." Soledad Gustavo affermò brevemente che l'anarchia era "l'espressione
genuina della libertà totale” e sua figlia Federica Montseny, che non aveva
dimenticato il suo pubblico operaio, sottolineava quanto aveva detto sua madre:
“l’anarchismo è una dottrina fondata sulla libertà dell’uomo, sul patto o
libero accordo di esso con i suoi simili, e sull’organizzazione di una società
in cui non devono esistere classi, né interessi privati, né leggi coercitive di
alcun tipo” (Federica Montseny, “Che cos’è l’anarchismo?”). Data la
pratica federalista dell’idea, José Peirats si chiedeva nel suo piccolo
dizionario dell’anarchismo se l’anarchia “è un’idea che può essere inclusa
nella ricetta politica rivoluzionaria o è una massa vaporosa che si dissolve
quando si cerca di apprenderla?”
Temeva
che non fosse altro che “un principio diluito”, una consegna eterea, e
non, come diceva la sua amata Emma, “la conclusione raggiunta da moltitudini
di uomini e donne determinati da osservazioni dettagliate delle tendenze della
società moderna”, oppure, per dirla con Elisée Reclus, “il fine pratico,
attivamente ricercato da moltitudini di uomini uniti e risolutamente cooperanti
alla nascita di una società dove non ci siano padroni..."
Nonostante
l’innegabile ruolo cruciale delle masse anarchiche nelle rivoluzioni del secolo
scorso, per quanto si cerchi nella letteratura anarchica classica, troveremmo
pochi riferimenti alla rivoluzione come mezzo per trasformare la società. Per
le implicazioni violente che necessariamente contiene, la rivoluzione
contraddiceva i postulati pacifisti dell'ideologia, che, non dimentichiamolo, è
spesso presentata come un ideale etico, non come un’imposizione; o come
ribellione morale (Malatesta), soggettività liberata (Libertad), “una
condotta all’interno di qualsiasi regime” (Alaiz)... Le vanterie
rivoluzionarie erano tipiche degli uomini d'azione, il cui paradigma è Bakunin,
più interessati a sconfiggere il lato oppressivo della reazione che a costruire
un’utopia operando dalla scrivania secondo linee guida impeccabili. Questi
concepivano l'azione fondamentalmente come lotta, combattimento, confronto, non
come pedagogia ed esperimento. Tuttavia, l’epiteto “anarchico” è stato
storicamente utilizzato per descrivere ciò che le fazioni conservatrici
consideravano eccessi rivoluzionari. Durante la Rivoluzione inglese, appare per
la prima volta usato in senso peggiorativo contro i “Livellatori” e chiunque
alterasse l’ordine costituito e non riconoscesse il potere dominante, in
particolare la gerarchia ecclesiastica (anarchico era sinonimo di radicale,
ateo o anabattista). Dopo la Rivoluzione francese, i repubblicani moderati
chiamavano anarchici tutti quelli che volevano continuare il processo
rivoluzionario invece di fermarlo, tanto i giacobini quanto gli enragés e
gli hebertisti. Finalmente, il primo che si definì anarchico, in senso
positivo, fu Pierre-Joseph Proudhon nella sua celebre opera “Che cos’è la
proprietà?” dove chiamava anarchia “l’assenza di padroni e di sovrani,
la forma di governo alla quale ci sentiamo vicini”. Fu anche il primo a rivendicare la classe operaia come
forza sociale autonoma, opposta alla borghesia. In altre questioni fu molto
meno innovatore. Poco dopo, Anselme Bellegarrigue nel suo Manifesto del 1850
affermò che “l’anarchia è ordine, lo Stato è guerra civile”. Nettlau ci
ha fatto conoscere altri rivoluzionari attivi dalla metà del diciannovesimo
secolo, sostenitori di un socialismo senza leader: Joseph Déjacque, Coeurderoy,
Pisacane, Cesar De Paepe, Eugene Varlin, Ramón de la Sagra..., che potremmo ben
considerare anarchici anche se non impiegavano questo termine. Non sbaglieremo,
quindi, nel definire l’anarchismo come una corrente antiautoritaria del
socialismo rivoluzionario, prodotto intellettuale dell’incipiente lotta di
classe tipica della società capitalistica nelle prime fasi
dell’industrializzazione. Nella corrispondenza di Proudhon troviamo
l'enunciazione più completa dell'ideale: “L'anarchia è una forma di governo
o costituzione dove la coscienza pubblica o privata, modellata dallo sviluppo
della scienza e del diritto, è sufficiente da sola a mantenere l'ordine e
garantire tutte le libertà; dove conseguentemente il principio di autorità, gli
istituti di polizia, i mezzi di prevenzione o di repressione, la funzione
pubblica, le tasse, ecc., sono ridotti alla loro minima espressione; dove a
maggior ragione scompaiono le forme monarchiche e l’alto accentramento e
vengono sostituite da istituzioni federative e consuetudini comunitarie”.
L'Associazione
Internazionale dei Lavoratori fu una pietra miliare nell'organizzazione del
proletariato, poiché gli diede obiettivi non solo economici, ma anche politici.
Gli scontri tra le diverse fazioni che la componevano ne determinarono il
declino. Durante il breve e intenso periodo dell'AIT (Associazione
internazionale dei lavoratori, Prima Internazionale, 1864), Bakunin seppe
convertire il socialismo libertario sottosviluppato in una teoria politica
coerente e rivoluzionaria. I venti spiravano a favore della rivoluzione
sociale; Bakunin, in possesso di uno straordinario bagaglio di conoscenze
storiche e filosofiche, non ha fatto altro che tradurlo in idee pratiche. La
classe operaia era il soggetto della rivoluzione e, quindi, l’ariete
dell’antiautoritarismo, per cui aveva bisogno di tracciare linee strategiche
diverse dal riformismo socialdemocratico caratteristico della tendenza
marxista. Il concetto di anarchia riprendeva il significato originario di
tumulto distruttore in una prospettiva creativa. Per Bakunin era “la
manifestazione senza restrizioni della vita liberata dei popoli, da cui
dovevano derivare la libertà, la giustizia, il nuovo ordine e la forza stessa
della rivoluzione." L’anarchia era quindi lo scoppio incontrollato
delle passioni popolari che superavano gli ostacoli dell’ignoranza, della
sottomissione e dello sfruttamento, verso cui gli agitatori presenti al suo
interno avrebbero diretto la distruzione di tutte le istituzioni esistenti. Al
Congresso di Saint Imier (1872) si voterà una sua proposta: “La distruzione
di ogni potere politico è il primo dovere del proletariato”. A differenza
degli ideologi successivi, a Bakunin non interessava descrivere la nuova società
nelle sue diverse sfaccettature, risultato dell’ingresso di tutti i lavoratori
nell’Internazionale. Si tratterebbe di “una società naturale che sosterrebbe
e rafforzerebbe la vita di tutti” e consisterebbe in “una nuova
organizzazione senza altra base che gli interessi, i bisogni e le inclinazioni
naturali dei popoli, né altro principio che la libera federazione degli
individui in comuni, dai comuni alle province, dalle province alle nazioni e
infine da queste agli Stati Uniti d’Europa
in primo luogo, ma poi del mondo intero”
(Programma dei Fratelli internazionali).
Le
scissioni e le espulsioni nell'Internazionale, la sconfitta della Comune di
Parigi, la repressione delle rivolte internazionaliste in Spagna, il fallimento
dell'insurrezione contadina in Italia e le successive persecuzioni bloccarono
la spinta del movimento operaio, ridotto a piccoli circoli dedicati
principalmente alla diffusione delle idee. In questo si distinsero Kropotkin,
Reclus, Malatesta e i loro compagni. La morte di Bakunin significò la quasi
scomparsa della sua eredità teorica. Nessuno dei suoi seguaci ha mai letto
Hegel, Fitche, Feuerbach o Comte, e pochi si sono soffermati su Babeuf,
Weitling o Proudhon. In quel periodo post-rivoluzionario si diffuse il termine
“anarchico” e si creò propriamente un’ideologia separata, esterna alle classi
oppresse, che doveva essere insegnata attraverso la propaganda dottrinale e un
comportamento esemplare. Ciò non costituiva propriamente un sistema. Inoltre,
la santificazione di Godwin, Tolstoj, Thoreau e Stirner – autori per niente
favorevoli alle rivoluzioni – aggiunse elementi contrastanti alla riflessione
ideologica. Si svilupparono correnti subalterne spesso contrastanti e
incompatibili: le quali anteponevano la società futura al presente, il
comunismo (a ciascuno secondo i suoi bisogni) al collettivismo (a ciascuno
secondo il suo lavoro), il comunalismo all'individualismo, l'organizzazione
alla spontaneità, la riflessione all'azione, il pacifismo alla violenza, la
propaganda all'esproprio o all'attentato, la legalità alla clandestinità, il
partito politico all'associazione economica, ecc. La confusione era tale che un
intellettuale vicino alle idee anarchiche, Octave Mirbeau, finì per
constatare che “gli anarchici hanno le spalle larghe; come la carta,
includono tutto.” Per altri,
indifferenti sia alla sostanza sia all’azione, tutto era anarchismo. La cosa
principale era la finalità; i mezzi, spesso in contraddizione con essa, erano
secondari. Tárrida del Mármol inventò “l’anarchismo senza aggettivi”,
con il quale la vera espressione del movimento proletario rivoluzionario,
riflessa nell’opera di Bakunin e dell’Internazionale antiautoritaria, sarebbe
stata sacrificata sull’altare delle interpretazioni dottrinali, nebulose e
settarie della realtà. L’anarchismo come ideale di società emancipata e allo
stesso tempo metodo d’azione, semplice variante del socialismo rivoluzionario,
non sembrava essere sufficiente. Gustav Landauer volle tornare alla base
scrivendo: “L’anarchismo è l’obiettivo che perseguiamo, l’assenza di dominio
e di Stato; la libertà dell'individuo. Il socialismo è il mezzo attraverso il
quale vogliamo raggiungere e garantire questa libertà”. Il principe
Kropotkin propose invece di organizzare il corpus teorico anarchico, di trovare
una base filosofica diversa da quella di Bakunin, di dargli radici biologiche,
di porre come obiettivo finale il comunismo libertario e di diffondere un
ottimismo scientista che mise radici più di ogni altra cosa nelle masse
oppresse. Fu l'autore più letto e più influente nella storia dell'anarchismo.
Kropotkin
rimodellò l'anarchismo come una filosofia materialista, scientista,
evoluzionista, atea e progressista, facendolo culminare con un'etica che non
riuscì a concretare. I filosofi inglesi e le scoperte scientifiche del
diciottesimo secolo, e naturalmente Darwin, gli fornirono il materiale su cui
costruì il suo edificio ideologico, dove il progresso scientifico acquisì il
rango di forza determinante al posto della lotta di classe. Nel suo opuscolo “Scienza
moderna e anarchismo” afferma: “L’anarchismo rappresenta un tentativo di
applicare le generalizzazioni ottenute con il metodo deduttivo-induttivo dalle
scienze naturali all’apprezzamento della natura delle istituzioni umane, nonché
alla previsione sulla base di queste valutazioni, dei probabili aspetti del
futuro cammino dell’umanità verso la libertà, l’uguaglianza e la fraternità”. Altrove
insiste sulla stessa cosa: “L’anarchismo è una concezione dell’universo
basata sull’interpretazione meccanica dei fenomeni che abbracciano tutta la
natura, senza escludere la vita sociale”. Nel suo articolo per
l’Enciclopedia Britannica si attenne ai classici e definì l’anarchismo come “un
principio o teoria di vita la cui condotta concepisce una società senza
governo, in cui l’armonia si ottiene non con la sottomissione alla legge, né
con l’obbedienza all’autorità, ma con liberi accordi stabiliti tra i
diversi gruppi, territoriali e professionali, liberamente attuati per la
produzione e il consumo, e per la soddisfazione dell'infinita varietà di
bisogni e aspirazioni di un essere civilizzato”. Carlo Cafiero, compagno di Bakunin, aveva una concezione
dell'anarchismo più dinamica: “L'anarchia,
oggi, è una forza d'attacco; Sì, è la guerra all’autorità, al potere dello
Stato. Nella società futura, l’anarchia sarà la garanzia, l’ostacolo al ritorno
di ogni autorità e di ogni ordine, di ogni Stato”. Anarchia e comunismo avanzavano
uniti, come l’esigenza di libertà e la richiesta di uguaglianza (“Anarchia e
comunismo”, 1880). Nonostante ciò, la distinzione metafisica tra comunismo
libertario e l’anarchia propriamente detta di alcuni dottrinari impose nuovi
chiarimenti. Per Carlos Malato, un discepolo, l'anarchia era il
complemento del comunismo, “uno stato in cui la gerarchia governativa sia
sostituita dalla libera associazione degli individui e dei loro raggruppamenti;
la legge imperativa per tutti e di durata illimitata, mediante contratto
volontario; la fine dell'egemonia della fortuna e del rango, per l'universalizzazione
del benessere e l'equivalenza delle funzioni, e infine la sostituzione della
morale attuale, dalla ferocia ipocrita, con una moralità superiore che
scaturirà naturalmente dal nuovo ordine delle cose" ("Filosofia
dell’Anarchismo.”)
Da notare l’assenza di qualsiasi indicazione sulla via per raggiungere questo
paradiso della libertà, cosicché l’azione quotidiana, non solo la prospettiva
rivoluzionaria, erano ignorate. Agitatori come Pelloutier e Pouget si resero
perfettamente conto del pericolo della mancanza di definizione metodologica
della lotta quotidiana e invitarono gli anarchici a entrare nei sindacati.
Malatesta
scelse una via di mezzo che, oltre allo sciopero, prevedesse l'insurrezione e,
oltre al sindacato, tenesse conto di altri fattori di lotta. Nelle pagine de “La
Protesta” (Buenos Aires) si riferì alla società del futuro come “una
società organizzata razionalmente in cui nessuno ha i mezzi per sottomettere e
opprimere gli altri”. E definì l’anarchismo come “il metodo per
raggiungere l’anarchia attraverso la libertà, senza governo, senza che nessuno
– nemmeno qualcuno con buone intenzioni – imponesse la propria volontà agli
altri”. Derivava ciò da un unico principio: l'amore per l'umanità. Secondo
la concezione umanista malatestiana si era anarchici per sentimento più che per
convinzione ragionata, quindi filosofia e scienza vi avevano poco a che vedere.
E neppure lo sviluppo storico o le condizioni economiche. Era una questione di
volontà. Chiunque potrebbe essere un anarchico indipendentemente dalle proprie
convinzioni filosofiche o conoscenze scientifiche; Bastava volerlo essere. Si
dichiarava lui stesso anarco-comunista. Riguardo all'anarchia, la descrisse
nell'opuscolo omonimo come “lo stato di un popolo governato senza autorità
costituita, una società di uomini liberi ed eguali fondata
sull'armonia degli interessi e sul concorso volontario di tutti, per soddisfare
i bisogni sociali”. Nel corso della sua vita Malatesta dovette parlare
molto dell'ideale, dell'anarchia, “una società fondata sul libero accordo,
dove ogni individuo potesse raggiungere il massimo sviluppo possibile”, che
non distingueva dal comunismo libertario: “L’organizzazione della vita
sociale attraverso libere associazioni e federazioni di produttori e
consumatori”. Nei suoi ultimi
scritti ha confermato ciò che aveva affermato durante tutta la vita: “L’anarchia
è un modo di convivenza sociale in cui gli esseri umani vivono come fratelli,
senza che nessuno opprima o sfrutti gli altri e tutti abbiano a disposizione le
risorse che la civiltà dell’epoca
consente per raggiungere il più alto livello di sviluppo morale e materiale”. Contrariamente alla maggior parte dei propagatori
dell'ideale, Malatesta insisteva sul fatto che la via per raggiungere l'anarchia
passava attraverso l'organizzazione degli anarchici attorno a un programma,
ricorrendo all'arsenale rivoluzionario per abolire lo Stato e “ogni organizzazione politica basata sull'autorità”. I mezzi dovevano essere in linea con i fini. Se
questi erano rivoluzionari, anche quelli dovevano esserlo.
La
militanza anarchica nei sindacati ha spostato l’azione collettiva verso la
sfera dell’economia, allontanandosi ulteriormente dalla politica. La semina
dell'ideale tra gli sfruttati ebbe un figlio spirituale: il sindacalismo
rivoluzionario. La Carta di Amiens del 1906, il suo atto di nascita, sanciva la
funzione primaria del sindacalismo, non solo nella lotta per il miglioramento
del lavoro, ma in preparazione “all’emancipazione integrale, che può essere
raggiunta solo attraverso l’esproprio capitalista; il che sostiene lo sciopero
generale come mezzo di azione e ritiene che il sindacato, oggi un gruppo di
resistenza, sarà in futuro il gruppo di produzione e distribuzione, la base
dell'organizzazione sociale”. Per non dare adito
a equivoci, uno dei principali teorici di questo tipo di sindacalismo,
contrario al sindacalismo politico e riformista, Pierre Besnard, si riferiva al
sindacato come “la forma organica che l’anarchia acquisisce per lottare
contro il capitalismo”. In Spagna, paese in cui il movimento operaio è
stato più strettamente legato all’anarchismo, Salvador Seguí ha precisato che
il sindacato era “l’arma, lo strumento dell’anarchismo per mettere in
pratica gli aspetti più immediati della sua dottrina”. Pertanto, era più
coerente parlare di anarcosindacalismo, secondo Rocker, un altro teorico e
fondatore dell’AIT nel 1923, come “il risultato della fusione di anarchismo
e azione sindacale rivoluzionaria”. Dopo l’adesione di Kropotkin e di altri
quindici al bando alleato nella prima guerra mondiale, gli anarchici non ebbero
altra scelta se non quella di esacerbare il loro antimilitarismo, e la
confederazione sindacale era l’organizzazione di massa più adatta per far
uscire le ideologie anarchiche dal mondo metafisico e politico. Obiettivi
economici concreti come l’abolizione dei monopoli, l’espropriazione delle terre
e dei mezzi di produzione, il lavoro collettivo, la distribuzione socialista,
la soppressione del salario e del denaro, ecc. hanno progressivamente
soppiantato la retorica liberale e i luoghi comuni dell’individualismo nella
propaganda “dell’idea”.
Sfortunatamente, altre questioni come l’influenza dei Magonisti sui contadini
messicani, il Consiglio Operaio come organizzazione di classe nella rivoluzione
tedesca, la repressione dell’anarchismo in Russia – in particolare la sconfitta
del movimento insurrezionale machnovista – o le scissioni bolscevizzanti nel
movimento operaio anarchico dell'America Latina, trovarono pochissimo spazio
nella stampa libertaria e sindacale. L’anarchismo riuscì a sopravvivere come
movimento grazie al suo legame con i lavoratori, ma, tranne che in Spagna, non
raggiunse la forza sufficiente per resistere alla pressione del fascismo.
Negli
anni venti del secolo scorso ci fu una guerra segreta tra sindacalisti
anarchici, comunisti e individualisti che bloccava ogni tentativo di
organizzazione specifica. Il rimedio proposto dagli esuli machnovisti, la
“piattaforma Archinov”, fu peggiore del male. Un’organizzazione simile a un
partito politico suscitò molti dubbi sulla possibilità di farsi strada nei
gruppi anarchici. Sébastien Faure propose un'organizzazione “di sintesi”,
in cui le cose rimanevano com'erano. Si trattava piuttosto di un patto di non
aggressione, di un addolcimento dell’atmosfera rarefatta in stile anarchismo
“senza aggettivi”. La sua definizione di anarchismo fu all'altezza della sua
proposta: “è l'espressione più alta e più pura della reazione
dell'individuo contro l'oppressione politica, economica e morale che tutte le
istituzioni autoritarie gli impongono, e d'altro canto, la più ferma e precisa
affermazione del diritto di ogni individuo al suo sviluppo integrale attraverso
la soddisfazione dei bisogni in tutti gli ambiti”. (La sintesi anarchica.) Tuttavia le
discussioni più o meno banali non abbandonarono mai l'ambiente libertario. Le
polemiche sulla legalità e sul pacifismo erano costanti. Anche i conflitti
bizantini tra i puristi del comunismo e i “liberali esasperati” (Georges
Darien dixit) non cessarono di verificarsi. L’ideologia tendeva le
sue trappole. Spesso si formavano cappelle, s’insisteva su dettagli secondari e
aspetti periferici, si apostatava l'io in riunioni che duravano fino alla noia,
si elevavano principi con intenti paralizzanti, si boicottava l'organizzazione
come oppressiva, ogni accordo vincolante era descritto come autoritario e ogni
riflessione storica come inutile.... Troppa confusione mentale, troppo
narcisismo, troppi dogmi dottrinali e formule vuote, che negli anni Trenta
portarono l’anarchismo al naufragio. In realtà questo tipo di anarchismo
detestava l’azione e si accontentava di simulacri. Ci volle Camillo Berneri per
denunciare (in L'Adunata dei Refrattari) quello che chiamava “cretinismo
anarchico” e dedicarsi a trattare criticamente la realtà sociale al fine di
rendere intelligibile l'epoca – anarchismo compreso –, precondizione per
tentare di cambiarla. Logicamente, si occupò poco della posterità (“l’anarchia
è religione”, arrivò a dire) e più di dare risposte reali a problemi
concreti, che si scontrassero o no con l’ortodossia. Ha parlato
provocatoriamente di uno “Stato libertario” mostrando la vera anarchia
come una struttura amministrativa federale totalmente decentralizzata. Le sue
opere trattavano sempre di problemi precisi o di questioni teoriche urgenti,
mai o quasi mai di principi o finalità. Purtroppo non ce n’erano molti come
lui. L'assassinio di Berneri nel maggio 1937 privò l'anarchismo della sua mente
più lucida.
La guerra civile spagnola fu allo stesso tempo il
culmine dell’anarchismo (milizie, comitati antifascisti, socializzazione) e
l’abisso in cui precipitò (l’idea che le conquiste rivoluzionarie si
difendessero meglio andando a ritroso). Molte vacche sacre rimasero in
silenzio, mostrandosi comprensive nei confronti del “circostanzialismo”
della burocrazia dirigente della CNT-FAI. La vera spaccatura dell’anarchismo
avvenne tra i sostenitori incondizionati della politica collaborazionista della
direzione del Comitato e i critici solidali con i libertari spagnoli. Dopo la
vittoria di Franco, l'ideologia non poteva tornare sull'arena iberica come se
nulla fosse successo e senza che i suoi adepti facessero il punto sulla
rivoluzione fallita e sul mostruoso anarchismo di Stato che diede origine alle
capitolazioni del 1936-37. Non lo fecero e le conseguenze si pagano ancora
oggi. Nonostante i rimpianti, l’esaurimento storico dell’anarchismo, così come
poteva essere concepito negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, non
ha significato la morte dell’ideale, ma piuttosto l’impossibilità della sua
riformulazione passatista. Ad esempio, la fiducia di Kropotkin nella scienza e
la fede nel progresso morale sono insostenibili. Il sindacalismo vecchio stile
è finito fuori gioco. Le visioni futuristiche dell’anarchismo di altri tempi
sembrano oggi estremamente puerili. Mentre il tradizionale movimento operaio si
dissolve e il capitale penetra in ogni angolo della vita, l’anarchismo
riemerge, meno come ideologia postmoderna che come uno stato d’animo diffuso, rivolgendosi al femminismo, al mondo
del lavoro, alla ruralità, all’antisviluppo, alla cultura popolare e all’insegnamento alternativo. Su
questi terreni dovrà coordinarsi, trovare nuove modalità pratiche di lotta
anticapitalista e sviluppare le armi teoriche per affrontare la reazione
identitaria, con le sue idee nefaste sul potere e la verità, sul genere e il
sesso, la religione e la razza, la lingua e il cibo; con la sua
essenzializzazione delle differenze, il suo antiuniversalismo, il suo
relativismo, i suoi nemici fittizi, la sua tecnofilia... A meno di preferire di
sguazzare nella spazzatura offerta da credenze irrazionali e settarie che, per
colmo di confusionismo, si definiscono anarchiche sebbene non lo siano.
Miquel
Amorós 25 agosto 2024.
¿QUÉ ES EL ANARQUISMO?
¿Es una doctrina,
una ideología, un método, una rama del socialismo, una línea de conducta, una
teoría política? La respuesta, en principio, es fácil: anarquismo es lo que
piensan y hacen los anarquistas, y, en general, los que se definen como
enemigos de toda autoridad e imposición. Aquellos que por diversos caminos,
muchos realmente antagónicos, persiguen la “anarquía”, es decir, una sociedad
sin gobierno, un modo de convivencia social ajeno a las disposiciones
autoritarias. El anarquismo no sería más que la manera de realizar esa
anarquía, que el geógrafo Reclús calificó de “la más alta expresión del orden.”
¿En qué consiste? Son múltiples y contradictorias las estrategias para alcanzar
un ideal aposentado en una negación del que existen varias versiones, por lo
cual, se podría hablar con más propiedad, de anarquismos, como por ejemplo hace
Tomás Ibáñez. Si además tenemos en cuenta la situación histórico-social
contemporánea, donde el anarquismo ya no es gran cosa, apenas un signo de
identidad juvenil y semi-académico que guarda muy poca relación con épocas
pasadas más gloriosas y se mantiene al abrigo de cualquier crítica seria y
objetiva, las definiciones podrían prolongarse al infinito. Anarquismo sería
entonces una especie de saco lleno de fórmulas dispares etiquetadas como
anarquistas. Las puertas quedan abiertas a cualquier deriva, bien sea
reformista, individualista, católica, comunista, nacionalista, contemplativa,
mística, conspirativa, vanguardista, etc. Sobre el atolondramiento buenrollista
en los medios libertarios consecuente con tal diversidad podíamos concluir
igual que el autor o los autores del folleto “De la miseria en el medio
estudiantil” (1966) sobre los componentes de la Fédération Anarchiste: “Esa
gente lo tolera efectivamente todo, puesto que se toleran entre sí.” El
panorama no es halagüeño, pues en los tiempos que corren la comprensión de los
fenómenos sociales y las ideologías que los acompañan depende mucho de
pensarlos adecuadamente, o sea, desde la perspectiva que proporciona el conocimiento
histórico. Aún hoy, el anarquismo no carece de intelectuales honestos y
competentes aptos para la tarea. Sin embargo, la característica más común de
los anarquismos posmodernos, los que navegan en la posverdad y repudian la
coherencia, es el rechazo de dicho conocimiento. Es más, según tal tipo de
anarquismo, el pasado ha de ser intervenido desde el presente, en tanto que
baúl de recursos estéticos, en consonancia con la normativa lúdica, la
gramática transgénero y los hábitos gastronómicos que impone la moda. El
compromiso, por lo demás, es efímero. En fin, hete aquí, con la voluntariosa
excepción de algunos núcleos sindicalistas, al anarquismo reducido a fenómeno
de feria de libro. Nosotros, que bogamos en dirección contraria, intentaremos
explicar esa constante aspiración a una organización social sin gobierno, luego
sin Estado, sin autoridad separada, remitiéndonos a sus orígenes allá donde se
encuentran, en los sectores radicales de las revoluciones populares del siglo
XIX.
En principio,
habremos de superar la manía de algunos ideólogos anarquistas, empezando por
Kropotkin, Reclus, Rocker y el historiador Nettlau, de descubrir ancestros en
todos los momentos de la historia y en todos los lugares. Bajo ese punto de
vista el anarquismo no sería una idea nueva, sino algo tan antiguo como la
humanidad, perenne, eterno, inscrito en el ser biológico de la especie humana.
Anarquistas serían pues Diógenes el cínico y Zenón el Estoico, Lao Tse,
Epicuro, Rabelais, Montaigne o Tolstoi. Trazos libertarios se encontrarían en
las comunas medievales, en los Diggers ingleses, en el liberalismo filosófico
de Spencer y Locke, en la obra política de Stuart Mill y William Godwin, en
cualquier alteración del orden establecido... No tenemos nada que objetar a
ello, pero denunciamos el intento latente en este planteamiento anti-histórico
de fabricar una ideología interclasista, y negar al movimiento obrero su papel
decisivo en la génesis de las ideas anarquistas. Eso tenía efectos desastrosos
en la práctica antiautoritaria. Los promotores y defensores de esta tesis
trataban de trascender la realidad social no mediante intervenciones prácticas
en la esfera político-social, sino a través de la propaganda, mediante un
intenso esfuerzo de educación de masas que pudiera suscitar una evolución
gradual de la mentalidad popular hacia niveles de conciencia elevados. Para los
propagandistas educacionistas, sobre todo para los más inmovilistas y
apoltronados, -pongamos por ejemplo Abad de Santillán- el anarquismo era
simplemente “un anhelo humanista”, la denominación nueva de “una actitud y una
concepción humanista básica”, una doctrina no específica ni concreta, un vago
ideal ético que siempre había existido, que se daba en cualquier clase social y
que –añadía Federica Montseny- había encontrado en la Península Ibérica la
tradición, el temperamento racial y el amor fiero por la libertad en mayor
abundancia que en ninguna otra parte. En el prólogo a un libro del estatalista
Fidel Miró, decía Santillán con calculada ambigüedad que “el anarquismo
pretende la defensa, la dignidad y la libertad del hombre en todas las
circunstancias, en todos los sistemas políticos, de ayer, hoy y mañana
[...] no está ligado a ningún tipo de construcción política, ni propone
sistema que los sustituya.” Así pues, no era un proyecto homogéneo sino
plural, híbrido, sobre cuyos fundamentos, fines y estrategias de realización,
si hemos de creer al sospechoso Gaston Leval, que proponía dar una “base
científica” al anarquismo reforzando el realismo “constructivo” en política y
economía, no existía acuerdo alguno “en los teóricos más capaces de este ramo”
(“Precisiones del Anarquismo”, 1937.) Las especulaciones de los mayores
referentes del anarquismo ortodoxo en la España de 1936 desembocaban en los
tópicos del liberalismo político, lo cual es comprensible tal como ilustró la
extrema adaptabilidad de sus convicciones a los principios y las instituciones
burguesas republicanas.
Rudolf Rocker veía
en el anarquismo la confluencia de dos corrientes intelectuales propulsadas por
la Revolución Francesa: el socialismo y el liberalismo. Señalemos que una era proletaria, la otra, burguesa. No
obstante, dicha confluencia no constituía un sistema social fijo sino “una
tendencia clara del desarrollo de la humanidad que [...] aspira a que
todas las fuerzas sociales se desenvuelvan libremente en la vida” (“El
anarcosindicalismo. Teoría y práctica.”) Albert Libertad, el editor de la
revista individualista “L’Anarchie”, no se conformaba con eso: “Para
nosotros, el anarquista es quien ha vencido en él las formas subjetivas de la
autoridad: religión, patria, familia, respeto humano o lo que se quiera, y que
no acepta nada que no haya pasado por el tamiz de su razón tanto como sus
conocimientos le permitan.” La anarquía no podía ser más que “la
filosofía del libre examen, la que no impone nada por la autoridad, y que busca
probar todo por el razonamiento y la experiencia.” Para Sebastián Faure, la
anarquía “como ideal social y como realización efectiva, responde a un modus
vivendi en el cual, desembarazado de toda sujeción legal y colectiva que tenga
a su servicio la fuerza pública, el individuo no tendrá más obligaciones que
las que le imponga su propia conciencia.” Su compadre Janvion declaraba que
el anarquismo era “la negación absoluta
de la autoridad del hombre sobre el hombre”; Emma Goldman llegó más lejos
consagrando al individuo como medida de todas las cosas: “El anarquismo es
la única filosofía que devuelve al hombre la conciencia de sí mismo, la cual
mantiene que Dios, el Estado y la Sociedad no existen, que son promesas vacías
y sin valor, ya que pueden ser logradas solo a través de la subordinación del
hombre.” Aunque de manera abstracta, aludìa a temas como la producción y el
reparto, sin concretar. En su librito “Anarquismo. Lo que significa
realmente” decía: “Anarquismo es la filosofía de un nuevo orden social
basado en la libertad sin restricción, la teoría de que todos los gobiernos descansan
sobre la violencia y por lo tanto son equívocos y peligrosos, al igual que
innecesarios […] Representa un orden social basado en la agrupación
libre de individuos con el objetivo de producir riqueza social, un orden que
garantizará el libre acceso a la tierra y el pleno goce de las necesidades de
la vida...” Soledad Gustavo afirmó escuetamente que la anarquía era “la
genuina expresión de la libertad total” y Federica, que no olvidaba a su
público obrero, puntualizó lo dicho por su madre: “el anarquismo es una
doctrina basada en la libertad del hombre, en el pacto o libre acuerdo de este
con sus semejantes, y en la organización de una sociedad en la que no deben
existir clases ni intereses privados, ni leyes coercitivas de ninguna especie”
(“¿Qué es el anarquismo?”) Vista la práctica federiquista de la idea, José
Peirats se preguntaba en su pequeño diccionario del anarquismo si la anarquía “¿es
una idea encuadrable en el recetario político revolucionario o es una masa
vaporosa que se diluye al tratar de aprehenderla?” Temía que no fuera más
que “un principio diluido”, una consigna etérea, y no, como decía su apreciada
Emma, “la conclusión a la que han llegado multitud de hombres y mujeres
resueltos por las observaciones detalladas de las tendencias de la sociedad
moderna”, o en palabras de Eliseo Reclus, “el fin práctico, buscado
activamente por multitudes de hombres unidos colaborando resueltamente en el
nacimiento de una sociedad donde no haya amos...”
A pesar del
innegable papel crucial de las masas anarquistas en las revoluciones del siglo
pasado, por más que rebusquemos en la literatura anarquista clásica, pocas
serán las referencias que encontremos a la revolución como medio para
transformar la sociedad. Por las implicaciones violentas que forzosamente
contienen, entraban en contradicción con los postulados pacifistas de la
ideología, que, no lo olvidemos, a menudo es presentada como un ideal ético, no
impositivo; o como una rebelión moral (Malatesta), una subjetividad liberada
(Libertad), “una conducta dentro de cualquier régimen” (Alaiz)... Los alardes
revolucionarios eran propios de los hombres de acción, cuyo paradigma es
Bakunin, más interesados en derrotar al bando opresor de la reacción que en
edificar una utopía operando desde el escritorio según pautas impolutas. Estos
concebían la acción fundamentalmente como lucha, combate, confrontación, no
como pedagogía y experimento. No obstante, el epíteto de “anarquista” fue usado
históricamente para calificar lo que las facciones conservadoras suponían
excesos revolucionarios. Durante la Revolución Inglesa, aparece por primera vez
usado peyorativamente contra los “Niveladores” y cualquiera que alterase el
orden establecido y no reconociera al poder dominante, particularmente a la
jerarquía eclesiástica (era sinónimo de radical, ateo o anabaptista.) En la
Revolución Francesa, los republicanos moderados llamaban anarquistas a todos
los que querían proseguir el proceso revolucionario en lugar de detenerlo, tanto
a los jacobinos, como a los enragés y hebertistas. En fín, quien primero
se definió como anarquista, en sentido positivo, fue Pierre-Joseph Proudhon en
su célebre obra “¿Qué es la propiedad?” y llamó anarquía a “la ausencia de
amos y de soberanos, la forma de gobierno a la que nos aproximamos.”
También fue el primero en reivindicar a la clase obrera como fuerza social
autónoma, opuesta a la burguesía. En otros asuntos fue mucho menos innovador.
Poco después, Anselme Bellegarrigue en su Manifiesto de 1850 afirmó que “la
anarquía es el orden, el Estado es la guerra civil.” Nettlau nos dio a conocer
a otros revolucionarios activos desde mediado siglo XIX partidarios de un
socialismo sin jefes: Joseph Déjacque, Coeurderoy, Pisacane, Cesar De Paepe,
Eugene Varlin, Ramón de la Sagra..., que bien podríamos considerar anarquistas
aunque ellos no empleasen ese término. Por consiguiente, no andaremos errados
al definir el anarquismo como una corriente antiautoritaria del socialismo
revolucionario, producto intelectual de la incipiente lucha de clases típica de
la sociedad capitalista en las primeras fases de la industrialización. En la
correspondencia de Proudhon hallamos el enunciado del ideal más completo: “Anarquía
es una forma de gobierno o constitución donde la conciencia pública o privada,
moldeada por el desarrollo de la ciencia y el derecho, es suficiente por sí
sola para mantener el orden y garantizar todas las libertades; en donde
consecuentemente el principio de autoridad, las instituciones de policía, los
medios de prevención o de represión, el funcionariado, los impuestos, etc., se
encuentran reducidos a su expresión mínima; en donde con mayor razón, las
formas monárquicas y la alta centralización desaparecen y son reemplazadas por
instituciones federativas y costumbres comunitarias.”
La Asociación
Internacional de Trabajadores fue un hito en la organización del proletariado,
pues le dotó de objetivos no solo económicos, sino políticos. Los
enfrentamientos entre las distintas facciones que la componían provocaron su
declive. Durante el breve e intenso periodo de la AIT, Bakunin supo convertir
el infradesarrollado socialismo libertario en una teoría política coherente y
revolucionaria. Los vientos soplaban a favor de la revolución social; Bakunin,
en posesión de un bagaje extraordinario de conocimientos históricos y
filosóficos, no hizo más que traducirlos en ideas prácticas. La clase obrera
era el sujeto de la revolución, y por lo tanto, el ariete del
antiautoritarismo, por lo que necesitaba perfilar unas líneas estratégicas
diferenciadas del reformismo socialdemócrata característico de la tendencia
marxista. El concepto de anarquía retomaba el sentido originario de alboroto
destructor bajo una óptica creativa, Para Bakunin, era “la manifestación sin
restricciones de la vida liberada de los pueblos, de donde han de salir la
libertad, la justicia, el orden nuevo y la fuerza misma de la revolución.”
Así pues, anarquía era el estallido incontrolado de las pasiones populares
venciendo los obstáculos de la ignorancia, la sumisión y la explotación, a las
que los agitadores presentes en su seno orientarían hacia la destrucción de
todas las instituciones existentes. En el Congreso de Saint Imier de 1872 se
votaría una proposición suya: “La destrucción de todo poder político es el
primer deber del proletariado.” Al revés que los ideólogos posteriores, no
se interesaba en describir la nueva sociedad en sus distintas facetas, fruto
del ingreso de todos los trabajadores en la Internacional. Seria “una sociedad
natural que apoyaría y reforzaría la vida de todos” y consistiría en “una
organización nueva que no tuviera otra base que los intereses, las necesidades
y las inclinaciones naturales de los pueblos, ni otro principio que la
federación libre de los individuos en las comunas, de las comunas en las provincias,
de las provincias en las naciones, en fin, de estas en los Estados Unidos de
Europa primero, y más tarde, del mundo entero.”(Programa de Los Hermanos
Internacionales.)
Las escisiones y expulsiones en la Internacional,
la derrota de La Comuna de París, el aplastamiento de las revueltas
internacionalistas en España, el fracaso de la insurrección campesina en Italia
y las persecuciones subsiguientes quebraron el empuje del movimiento obrero,
que quedó reducido a pequeños círculos dedicados principalmente a la difusión
de las ideas. En ello destacaron Kropotkin, Reclus, Malatesta y sus compañeros.
La muerte de Bakunin significó la casi desaparición de su legado teórico. Ninguno
de sus seguidores leyó jamás a Hegel, Fitche, Feuerbach o Comte, y pocos se
entretuvieron con Babeuf, Weitling o Proudhon. En ese periodo posrevolucionario
se generalizó el término “anarquista” y se confeccionó propiamente una
ideología separada, exterior a las clases oprimidas, a las que se había de
aleccionar mediante la propaganda doctrinal y la ejemplaridad del
comportamiento. No constituía propiamente un sistema en el caso del marxismo.
Además, la subida al santoral de Godwin, Tolstoi, Thoreau y Stirner -autores
nada partidarios de las revoluciones- añadieron elementos conflictivos a la
reflexión ideológica. Se desarrollaron corrientes subalternas a menudo
enfrentadas e incompatibles: las que anteponían la sociedad futura al presente,
el comunismo (a cada cual según sus necesidades) al colectivismo (a cada cual
según su trabajo), el comunalismo al individualismo, la organización a la
espontaneidad, la reflexión a la acción, el pacifismo a la violencia, la
propaganda a la expropiación o el atentado, la legalidad a la clandestinidad,
el partido político a la asociación económica, etc. Era tal la confusión que un
intelectual próximo, Octave Mirbeau, hizo constar que “los anarquistas
tienen las espaldas anchas; al igual que el papel, lo aguantan todo.” Para
otros, indiferentes a la sustancia tanto como a la acción, todo era anarquismo.
Lo principal era la finalidad; los medios, con frecuencia contradictorios con
ella, eran secundarios. Tárrida del Mármol se sacó de la manga lo del
“anarquismo sin adjetivos”, con lo cual la expresión verídica del movimiento
proletario revolucionario reflejada en la obra de Bakunin y la Internacional
antiautoritaria, sería sacrificada en el altar de las interpretaciones
doctrinarias, nebulosas y sectarias de la realidad. El anarquismo como ideal de
sociedad emancipada y a la vez método de acción, simple variante del socialismo
revolucionario, no parecía ser suficiente. Gustav Landauer quiso volver a la
base al escribir: “Anarquismo es la finalidad que perseguimos, la ausencia de
dominación y de Estado; la libertad del individuo. Socialismo es el medio
mediante el cual queremos alcanzar y asegurar esa libertad.” En cambio, el
príncipe Kropotkin se propuso ordenar el corpus teórico anarquista, buscarle
una base filosófica distinta de la bakuniniana, dotarle de raíces biológicas,
fijar el comunismo libertario como objetivo final y propagar un optimismo
cientista que arraigó más que ninguna otra cosa en las masas oprimidas. Fue el
autor más leído y más influyente en la historia del anarquismo.
Kropotkin remodeló el anarquismo como filosofía
materialista, cientista, evolucionista, atea y progresista, culminándolo con
una ética que no llegó a terminar. Los filósofos ingleses y los hallazgos de la
ciencia del siglo XVIII, y naturalmente Darwin, le proporcionaron el material
sobre el que construyó su edificio ideológico, donde el progreso científico
adquirió rango de fuerza determinante en lugar de la lucha de clases. En su
folleto “La ciencia moderna y el anarquismo” decía: “Representa el
anarquismo un ensayo de aplicación de las generalizaciones obtenidas por el
método deductivo-inductivo de las ciencias naturales a la apreciación de la
naturaleza de las instituciones humanas, así como también la predicción sobre
la base de estas apreciaciones, de los aspectos probables en la marcha futura
de la humanidad hacia la libertad, la igualdad y la fraternidad.” En otra
parte, insistía en lo mismo: “el anarquismo es una concepción del universo
basada en la interpretación mecánica de los fenómenos que abrazan toda la
naturaleza, sin excluir la vida en la sociedad.” En su artículo para la
Enciclopedia Británica se atuvo a lo clásico y definió al anarquismo como “un
principio o teoría de la vida y la conducta que concibe una sociedad sin
gobierno, en la que se obtiene la armonía no por sometimiento a la ley, ni
obediencia a la autoridad, sino por acuerdos libres establecidos entre los
diferentes grupos, territoriales y profesionales, libremente realizados para la
producción y el consumo, y para satisfacción de la infinita variedad de
necesidades y aspiraciones de un ser civilizado.” Carlo Cafiero, compañero
de Bakunin, tenía un concepto de anarquísmo más dinámico: “La anarquía, en
la actualidad, es una fuerza de ataque; si, es la guerra a la autoridad, al
poder del Estado. En la sociedad futura, la anarquía será la garantía, el
obstáculo a la vuelta de cualquier autoridad y de cualquier orden, de cualquier
Estado.” Anarquía y comunismo iban unidos, como la exigencia de libertad y
la demanda de igualdad (“Anarquía y comunismo”, 1880.) A pesar de ello,
la distinción metafísica entre el comunismo libertario y la anarquía
propiamente dicha de algunos doctrinarios obligó a nuevas precisiones. Para
Carlos Malato, un discípulo, la anarquía era el complemento del comunismo, “un
estado en el que la jerarquía gubernamental sea reemplazada por la libre
asociación de los individuos y de las agrupaciones; la ley imperiosa para todos
y de duración ilimitada, por el contrato voluntario; la hegemonía de la fortuna
y del rango, por la universalización y el bienestar y la equivalencia de las
funciones, y por último, la moral presente, de hipócrita ferocidad, por una
moral superior que dimanará naturalmente del nuevo orden de cosas”
(“Filosofía del Anarquismo.”) Nótese la ausencia de cualquier indicación de la
manera de llegar a este paraíso de la libertad, la forma con la que la acción
cotidiana, no ya la perspectiva revolucionaria, eran soslayadas. Agitadores
como Pelloutier y Pouget se dieron perfecta cuenta del peligro de la
indefinición metodológica concerniente a la lucha diaria e invitaron a los
anarquistas a entrar en los sindicatos.
Malatesta escogió una vía intermedia que además de
la huelga, contara con la insurrección, y además del sindicato, tuviera en
cuenta otros factores de lucha. En las páginas de “La Protesta” (Buenos Aires)
se refirió a la sociedad del porvenir como “una sociedad
racionalmente organizada en la que ninguno tiene los medios de someter y
oprimir a los demás.” Y definió el anarquismo como “el método para
alcanzar la anarquía por la vía de la libertad, sin gobierno, sin que nadie
–incluso alguien provisto de buenas intenciones- imponga a los demás su
voluntad.” Lo derivaba de un único principio: el amor a la humanidad. De
acuerdo con la concepción humanista malatestiana, se era anarquista por
sentimiento más que por convicción razonada, por consiguiente, la filosofía y
la ciencia tenían poco que ver. Tampoco el desarrollo histórico o las
condiciones económicas. Era una cuestión de voluntad. Cualquiera podía ser
anarquista fuesen cuales fuesen sus creencias filosóficas o sus conocimientos
científicos; bastaba con querer serlo. Él mismo se declaraba anarcocomunista.
En lo relativo a la anarquía, en el folleto del mismo nombre la describía como
“el estado de un pueblo que se rige sin autoridad constituida”, “una
sociedad de hombres libres e iguales fundada sobre la armonía de los intereses
y el concurso voluntario de todos, a fin de satisfacer las necesidades
sociales.” A lo largo de su vida, Malatesta tuvo que hablar mucho del
ideal, de la anarquía, “una sociedad fundada en el libre acuerdo, donde cada
individuo pudiera lograr el máximo desarrollo posible”, a la que no
distinguía del comunismo libertario: “la organización de la vida social por
obra de libres asociaciones y federaciones de productores y consumidores.” En
sus últimos escritos corroboró lo que venía diciendo a lo largo de su vida: “anarquía
es un modo de convivencia social en el que los seres humanos viven como
hermanos, sin que nadie oprima o explote a los demás y todos tengan a su
disposición los medios que la civilización de la época otorga para alcanzar el
más alto nivel de desarrollo moral y material.” Contrariamente a la mayoría
de propagadores del ideal, Malatesta insistía en que la manera de alcanzar la
anarquía pasaba por la organización de los anarquistas alrededor de un
programa, recurriendo al arsenal revolucionario para abolir el Estado y “toda
organización política fundada en la autoridad”. Los medios debían estar en
consonancia con los fines. Si estos eran revolucionarios, aquellos también
habrían de serlo.
La militancia anarquista en los sindicatos
desplazó la acción colectiva hacia la esfera de la economía, ahuyentándose aún
más de la política. La siembra del ideal entre los explotados tuvo un hijo
espiritual: el sindicalismo revolucionario. La Carta de Amiens de 1906, su
partida de nacimiento, consagraba la función primordial del sindicalismo, no
solo en la lucha por las mejoras laborales, sino en la preparación “para la
emancipación integral, que solo puede lograrse a través de la expropiación
capitalista; aboga este por la huelga general como medio de acción y concidera
que el sindicato, hoy grupo de resistencia, será en el futuro el grupo de
producción y distribución, base de la organización social.” Con el fin de
no prestarse a equívocos, uno de los principales teóricos de esta clase de
sindicalismo, opuesto al sindicalismo político y reformista, Pierre Besnard, se
refería al sindicato como “la forma orgánica que adquiere la Anarquía para
luchar contra el capitalismo.” En España, país donde el movimiento obrero
más se había vinculado al anarquismo, Salvador Seguí concretaba que el
sindicato era “el arma, el instrumento del anarquismo para llevar a la
práctica lo más inmediato de su doctrina.” Así pues, era más congruente
hablar de anarcosindicalismo, según Rocker, otro teórico y fundador de la AIT
de 1923, como “el resultado de la fusión del anarquismo y la acción sindical
revolucionaria.” Tras la adhesión de Kropotkin y otros quince al bando aliado
en la Primera Guerra Mundial, a los anarquistas no les quedó otra que exacerbar
su antimilitarismo, y la confederación sindical era la organización de masas
más idónea para sacar del hoyo metafísico y guerrero a las ideologías
anarquistas. Objetivos económicos concretos como la abolición de los
monopolios, la expropiación de la tierra y los medios de producción, el trabajo
colectivo, la distribución socialista, la supresión del salario y del dinero,
etc. desplazaron progesivamente a la retórica liberal y a los lugares comunes
del individualismo en la propaganda “de la idea.” Desgraciadamente, otros temas
como la influencia magonista en el campesinado mejicano, el Consejo Obrero como
organización de clase en la revolución alemana, el aplastamiento del anarquismo
en Rusia -particularmente la derrota del movimiento insurreccional
machknovista- o las escisiones bolchevizantes en el movimiento obrero
anarquista de America Latina, tuvieron muy poca presencia en la prensa
libertaria y sindicalista. El anarquismo pudo sobrevivir como movimiento
gracias a su conexión con los trabajadores, pero salvo en España, no logró la
fuerza suficiente para resistir al empuje del fascismo.
En la década del veinte del siglo pasado reinaba
una guerra encubierta entre los anarquistas sindicalistas, comunistas e
individualistas que bloqueaba todo intento de organización específica. El
remedio que propusieron los exilados makhnovistas, la “plataforma Archinov”,
fue peor que la enfermedad. Una organización semejante a un partido político
inspiraba muchos recelos para abrirse camino en los grupos anarquistas.
Sébastien Faure propuso una organización “de síntesis”, con lo cual las cosas
quedaban como estaban. Fue más bien un pacto de no agresión, una edulcoración
del ambiente enrarecido estilo anarquismo “sin adjetivos.” Su definición de
anarquismo estuvo a la altura de su propuesta: “es la expresión más alta y
más pura de la reacción del individuo contra la opresión política, económica y
moral que hacen pesar sobre él todas las instituciones autoritarias, y por otra
parte, la afirmación más firme y precisa del derecho de todo individuo a su
desarrollo integral por la satisfacción de las necesidades en todos los
terrenos.” (“La Síntesis anarquista.”) Pero las discusiones más o menos
banales nunca abandonaron el medio libertario. Las polémicas en torno a la
legalidad y el pacifismo fueron constantes. Los conflictos bizantinos entre los
puristas del comunismo y los “liberales exasperados” (Georges Darien dixit)
tampoco dejaron de producirse. La ideología tendía sus trampas. A menudo se
formaban capillas, se insistía en detalles secundarios y aspectos periféricos,
se apostasiaba el yo en reuniones que se prolongaban hasta el aburrimiento, se
enarbolaban principios con intención paralizante, se boicoteaba la organización
tildándola de opresora, se calificaba de autoritario cualquier acuerdo
vinculante y de inútil cualquier reflexión histórica.... Demasiado embrollo
mental, demasiado narcisismo, demasiados dogmas doctrinales y fórmulas vacías,
que por los años treinta llevaban el anarquismo al naufragio. En realidad, ese
tipo de anarquismo detestaba la acción y se contentaba con simulacros. Tendría
que aparecer Camilo Berneri para denunciar (en “L'Adunata dei Refrattari”) lo
que llamó “cretinismo anarquista” y dedicarse a tratar críticamente la realidad
social con el fin volver inteligible la época -anarquismo incluido-, condición
previa para intentar cambiarla. Lógicamente se ocupó poco de la posteridad,
(“la anarquía es religión” llegó a decir) y más de dar respuestas reales a
problemas concretos, chocaran o no con la ortodoxia. Habló provocadoramente de
un “Estado libertario” al mostrar la anarquía real como una estructura
administrativa federal totalmente descentralizada. Sus trabajos, trataron
siempre de problemas precisos o cuestiones teóricas urgentes, nunca o casi
nunca de principios o finalidades. Por desgracia, no hubo muchos como él. El
asesinato de Berneri en mayo del 37 privó al anarquismo de su mente más lúcida.
La guerra civil española fue a la vez el punto
álgido del anarquismo (las milicias, los comités antifascistas, la
socialización) y el abismo por el que se precipitó (la idea de que las
conquistas revolucionarias se defendían mejor dando marcha atrás). Muchas vacas
sagradas callaron, incluso se mostraron comprensivas con el
“circunstancialismo” de la burocracia dirigente de la CNT-FAI. La verdadera
escisión del anarquismo sucedió entre incondicionales de la política
colaboracionista de la dirección comiteril y los solidarios críticos con los
libertarios españoles. Tras la victoria de Franco, la ideología no podía
regresar al ruedo ibérico como si nada si sus adeptos no hacían antes
inventario de la revolución fallida y del monstruoso anarquismo de Estado que
alumbraron las capitulaciones de 1936-37. No lo hicieron y todavía hoy se
siguen pagando las consecuencias. A pesar de los pesares, el agotamiento
histórico del anarquismo, tal como podía concebirse en los años previos a la
Segunda Guerra Mundial, no ha significado la muerte del ideal, sino la
imposibilidad de su reformulación pasadista. Por ejemplo, la confianza
kropotkiniana en la ciencia y la fe en progreso moral son inasumibles. El
sindicalismo a la antigua ha quedado fuera de juego. Las visiones futuristas
del anarquismo de otras épocas resultan hoy tremendamente pueriles. Al
disolverse el movimiento obrero tradicional y penetrar el capital en todos los
rincones de la vida, el anarquismo resurge, menos como ideología posmoderna que
como estado de ánimo difuso, volcándose en el feminismo, el medio laboral, la
ruralidad, el antidesarrollismo, la cultura popular y la enseñanza alternativa.
En esos terrenos tendrá que coordinarse, hallar las nuevas modalidades
prácticas de combate anticapitalista y confeccionar las armas teóricas para
confrontar la reacción identitaria, con sus ideas nefastas sobre el poder y la
verdad, el género y el sexo, la religión y la raza, el lenguaje y la comida;
con su esencialización de las diferencias, su antiuniversalismo, su relativismo,
sus enemigos ficticios, su tecnofilia... A no ser que prefiera revolcarse en la
basura que le ofrecen los credos irracionales y sectarios que, para colmo del
confusionismo, también se denominan anarquistas aunque no lo sean.
Miquel Amorós, 25 de agosto de
2024.