sabato 31 agosto 2024

Che cos’è l’anarchismo - Miquel Amorós


Vi ho tradotto con piacere dallo spagnolo quest’analisi rinvigorente per l’intelligenza dell’epoca in via di sparizione per artificializzazione programmata.  

SGS

 

Che cos’è l’anarchismo

È una dottrina, un'ideologia, un metodo, una branca del socialismo, una linea di condotta, una teoria politica? La risposta, in linea di principio, è semplice: l’anarchismo è ciò che pensano e fanno gli anarchici e, in generale, coloro che si definiscono nemici di ogni autorità e imposizione. Coloro che, per vie diverse, molte veramente antagoniste, perseguono l’“anarchia”, cioè una società senza governo, un modo di convivenza sociale estraneo alle disposizioni autoritarie. L’anarchismo non sarebbe altro che la via per raggiungere quell’anarchia, che il geografo Reclus ha definito “la più alta espressione dell’ordine”. In cosa consiste? Esistono molteplici e contraddittorie strategie per raggiungere un ideale basato su una negazione di cui esistono diverse versioni, ragion per cui si potrebbe parlare più propriamente di anarchismi, come fa, ad esempio, Tomás Ibáñez. Se si tiene conto anche della situazione storico-sociale contemporanea, dove l’anarchismo non è più gran cosa – solo un segno semi-accademico d’identità giovanile che ha ben poco a che fare con epoche passate più gloriose e che rimane al riparo da ogni critica seria e obiettiva – le definizioni potrebbero essere estese all’infinito. L’anarchismo sarebbe dunque una specie di sacco pieno di formule disparate etichettate come anarchiche. Le porte restano aperte a qualsiasi deriva, sia essa riformista, individualista, cattolica, comunista, nazionalista, contemplativa, mistica, cospiratoria, d’avanguardia, ecc. Per quanto riguarda la faciloneria degli ambienti libertari a proposito di tale diversità, potremmo concludere come l’autore o gli autori dell’opuscolo “Della miseria nell’ambiente studentesco” (Internazionale Situazionista, 1966) a proposito dei componenti della Fédération Anarchiste: “Questa gente in realtà tollera tutto dal momento che si tollerano a vicenda.”

Le prospettive non sono rosee, perché di questi tempi la comprensione dei fenomeni sociali e delle ideologie che li accompagnano dipende molto da una riflessione adeguata, cioè dalla prospettiva fornita dalla conoscenza storica. Anche oggi l’anarchismo non manca d’intellettuali onesti e competenti adatti alla bisogna. Tuttavia, la caratteristica più comune degli anarchismi postmoderni, che navigano nella post-verità e ripudiano la coerenza, è il rifiuto di tale conoscenza. Inoltre, secondo questo tipo di anarchismo, è necessario intervenire sul passato a partire dal presente, come depositario di risorse estetiche, in linea con le norme ludiche, la grammatica trans gender e le abitudini gastronomiche imposte dalla moda. L'impegno, del resto, è effimero. Adesso, finalmente, con la volonterosa eccezione di alcuni nuclei sindacalisti, l'anarchismo si riduce a un fenomeno da fiera del libro. Noi, che andiamo nella direzione opposta, cercheremo di spiegare questa costante aspirazione a un'organizzazione sociale senza governo, quindi senza Stato, senza autorità separata, riferendoci alle sue origini laddove si trovano, nei settori radicali delle rivoluzioni popolari del diciannovesimo secolo.

In linea di principio bisognerà superare la mania di alcuni ideologi anarchici, a cominciare da Kropotkin, Reclus, Rocker e lo storico Nettlau, di scoprire antenati in ogni momento della storia e in ogni luogo. Da questo punto di vista l’anarchismo non sarebbe un’idea nuova, ma qualcosa di antico quanto l’umanità, perenne, eterno, inscritto nell’essere biologico della specie umana. Anarchici sarebbero allora Diogene il cinico e Zenone lo stoico, Lao Tse, Epicuro, Rabelais, Montaigne o Tolstoj. Tracce libertarie si troverebbero nei comuni medievali, nei Diggers inglesi, nel liberalismo filosofico di Spencer e Locke, nell'opera politica di Stuart Mill e William Godwin, in qualsiasi alterazione dell'ordine costituito... Non abbiamo nulla da obiettare a questo, ma denunciamo il tentativo latente in questo approccio antistorico di fabbricare un’ideologia interclassista negando al movimento operaio il suo ruolo decisivo nella genesi delle idee anarchiche. Ciò ha avuto effetti disastrosi sulla pratica antiautoritaria. I promotori e difensori di questa tesi cercarono di trascendere la realtà sociale non attraverso interventi pratici nella sfera politico-sociale, ma attraverso la propaganda, attraverso un intenso sforzo di educazione di massa che potesse provocare una graduale evoluzione della mentalità popolare verso livelli elevati di coscienza. Per i propagandisti educatori, soprattutto per quelli più immobili e pigri, come Abad de Santillán, l’anarchismo era semplicemente “un desiderio umanista”, il nuovo nome per “un atteggiamento e una concezione umanista di base”, una dottrina non specifica né concreta, un vago ideale etico sempre esistito, che si riscontrava in qualunque classe sociale e che – aggiungeva Federica Montseny – aveva trovato nella penisola iberica la tradizione, il temperamento razziale e l'amore fiero per la libertà in maggiore abbondanza che in ogni altra parte. Nel prologo di un libro dello statalista Fidel Miró, Santillán afferma con calcolata ambiguità che “l'anarchismo pretende la difesa, la dignità e la libertà dell'uomo in tutte le circostanze, in tutti i sistemi politici, di ieri, oggi e domani... [..] non è legato ad alcun tipo di costruzione politica, né propone un sistema di sostituzione”. Non si trattava quindi di un progetto omogeneo ma plurale, ibrido, sui cui fondamenti, finalità e strategie di attuazione, secondo il sospettoso Gaston Leval, che proponeva di dare una “base scientifica” all’anarchismo rafforzando il realismo “costruttivo” in politica ed economia, non c'era accordo "tra i teorici più capaci in questo campo" ("Precisioni sull'anarchismo", 1937). Le speculazioni sui maggiori riferimenti dell'anarchismo ortodosso in Spagna nel 1936 sboccavano nei temi topici del liberalismo politico, il che è comprensibile poiché ciò illustrò l'estrema adattabilità delle sue convinzioni ai principi e alle istituzioni repubblicane borghesi.

Rudolf Rocker vedeva nell'anarchismo la confluenza di due correnti intellettuali promosse dalla Rivoluzione francese: il socialismo e il liberalismo. Facciamo notare che una corrente era proletaria, l'altra borghese. Tuttavia, questa confluenza non costituisce un sistema sociale fisso, ma piuttosto “una chiara tendenza dello sviluppo dell’umanità che […] aspira a che tutte le forze sociali si sviluppino liberamente nella vita” (Anarco-sindacalismo. Teoria e pratica). Albert Libertad, direttore della rivista individualista "L'Anarchie", non era d’accordo con ciò: “Per noi l'anarchico è colui che ha superato in sé le forme soggettive dell'autorità: religione, patria, famiglia, rispetto umano o qualunque cosa si voglia, e che non accetta nulla che non sia passato al vaglio della sua ragione per quanto glielo consente la sua conoscenza.” L’anarchia non potrebbe essere altro che “la filosofia del libero esame, che non impone nulla attraverso l’autorità e cerca di dimostrare tutto con il ragionamento e l’esperienza”.

Per Sebastian Faure, l’anarchia “come ideale sociale e come realizzazione effettiva, risponde a un modus vivendi in cui, libero da ogni soggezione giuridica e collettiva al servizio della forza pubblica, l’individuo non avrà altri obblighi di quelli imposti dalla sua coscienza”. Il suo compagno Janvion dichiarava che l'anarchismo era “la negazione assoluta dell'autorità dell'uomo sull'uomo”; Emma Goldman è andata oltre consacrando l’individuo come misura di tutte le cose: “L’anarchismo è l’unica filosofia che restituisce all’uomo la coscienza di se stesso, che sostiene che Dio, lo Stato e la Società non esistono, che sono promesse vuote e vane, e che possono essere perseguite solo attraverso la subordinazione dell’uomo”. Anche se in modo astratto, si alludeva a questioni come la produzione e il reparto, senza specificarlo. Nel suo piccolo libro “Anarchismo. Che cosa significa veramente” diceva: “L’anarchismo è la filosofia di un nuovo ordine sociale basato sulla libertà illimitata, la teoria secondo cui tutti i governi si basano sulla violenza e sono quindi fuorvianti e pericolosi, oltre che inutili […] Esso rappresenta un ordine sociale basato sulla libera aggregazione di individui con l'obiettivo di produrre ricchezza sociale, un ordine che garantisca il libero accesso alla terra e il pieno godimento dei bisogni della vita..." Soledad Gustavo affermò brevemente che l'anarchia era "l'espressione genuina della libertà totale” e sua figlia Federica Montseny, che non aveva dimenticato il suo pubblico operaio, sottolineava quanto aveva detto sua madre: “l’anarchismo è una dottrina fondata sulla libertà dell’uomo, sul patto o libero accordo di esso con i suoi simili, e sull’organizzazione di una società in cui non devono esistere classi, né interessi privati, né leggi coercitive di alcun tipo” (Federica Montseny, “Che cos’è l’anarchismo?”). Data la pratica federalista dell’idea, José Peirats si chiedeva nel suo piccolo dizionario dell’anarchismo se l’anarchia “è un’idea che può essere inclusa nella ricetta politica rivoluzionaria o è una massa vaporosa che si dissolve quando si cerca di apprenderla?

Temeva che non fosse altro che “un principio diluito”, una consegna eterea, e non, come diceva la sua amata Emma, “la conclusione raggiunta da moltitudini di uomini e donne determinati da osservazioni dettagliate delle tendenze della società moderna”, oppure, per dirla con Elisée Reclus, “il fine pratico, attivamente ricercato da moltitudini di uomini uniti e risolutamente cooperanti alla nascita di una società dove non ci siano padroni..."

Nonostante l’innegabile ruolo cruciale delle masse anarchiche nelle rivoluzioni del secolo scorso, per quanto si cerchi nella letteratura anarchica classica, troveremmo pochi riferimenti alla rivoluzione come mezzo per trasformare la società. Per le implicazioni violente che necessariamente contiene, la rivoluzione contraddiceva i postulati pacifisti dell'ideologia, che, non dimentichiamolo, è spesso presentata come un ideale etico, non come un’imposizione; o come ribellione morale (Malatesta), soggettività liberata (Libertad), “una condotta all’interno di qualsiasi regime” (Alaiz)... Le vanterie rivoluzionarie erano tipiche degli uomini d'azione, il cui paradigma è Bakunin, più interessati a sconfiggere il lato oppressivo della reazione che a costruire un’utopia operando dalla scrivania secondo linee guida impeccabili. Questi concepivano l'azione fondamentalmente come lotta, combattimento, confronto, non come pedagogia ed esperimento. Tuttavia, l’epiteto “anarchico” è stato storicamente utilizzato per descrivere ciò che le fazioni conservatrici consideravano eccessi rivoluzionari. Durante la Rivoluzione inglese, appare per la prima volta usato in senso peggiorativo contro i “Livellatori” e chiunque alterasse l’ordine costituito e non riconoscesse il potere dominante, in particolare la gerarchia ecclesiastica (anarchico era sinonimo di radicale, ateo o anabattista). Dopo la Rivoluzione francese, i repubblicani moderati chiamavano anarchici tutti quelli che volevano continuare il processo rivoluzionario invece di fermarlo, tanto i giacobini quanto gli enragés e gli hebertisti. Finalmente, il primo che si definì anarchico, in senso positivo, fu Pierre-Joseph Proudhon nella sua celebre opera “Che cos’è la proprietà?” dove chiamava anarchia “l’assenza di padroni e di sovrani, la forma di governo alla quale ci sentiamo vicini”. Fu anche il primo a rivendicare la classe operaia come forza sociale autonoma, opposta alla borghesia. In altre questioni fu molto meno innovatore. Poco dopo, Anselme Bellegarrigue nel suo Manifesto del 1850 affermò che “l’anarchia è ordine, lo Stato è guerra civile”. Nettlau ci ha fatto conoscere altri rivoluzionari attivi dalla metà del diciannovesimo secolo, sostenitori di un socialismo senza leader: Joseph Déjacque, Coeurderoy, Pisacane, Cesar De Paepe, Eugene Varlin, Ramón de la Sagra..., che potremmo ben considerare anarchici anche se non impiegavano questo termine. Non sbaglieremo, quindi, nel definire l’anarchismo come una corrente antiautoritaria del socialismo rivoluzionario, prodotto intellettuale dell’incipiente lotta di classe tipica della società capitalistica nelle prime fasi dell’industrializzazione. Nella corrispondenza di Proudhon troviamo l'enunciazione più completa dell'ideale: “L'anarchia è una forma di governo o costituzione dove la coscienza pubblica o privata, modellata dallo sviluppo della scienza e del diritto, è sufficiente da sola a mantenere l'ordine e garantire tutte le libertà; dove conseguentemente il principio di autorità, gli istituti di polizia, i mezzi di prevenzione o di repressione, la funzione pubblica, le tasse, ecc., sono ridotti alla loro minima espressione; dove a maggior ragione scompaiono le forme monarchiche e l’alto accentramento e vengono sostituite da istituzioni federative e consuetudini comunitarie”.

L'Associazione Internazionale dei Lavoratori fu una pietra miliare nell'organizzazione del proletariato, poiché gli diede obiettivi non solo economici, ma anche politici. Gli scontri tra le diverse fazioni che la componevano ne determinarono il declino. Durante il breve e intenso periodo dell'AIT (Associazione internazionale dei lavoratori, Prima Internazionale, 1864), Bakunin seppe convertire il socialismo libertario sottosviluppato in una teoria politica coerente e rivoluzionaria. I venti spiravano a favore della rivoluzione sociale; Bakunin, in possesso di uno straordinario bagaglio di conoscenze storiche e filosofiche, non ha fatto altro che tradurlo in idee pratiche. La classe operaia era il soggetto della rivoluzione e, quindi, l’ariete dell’antiautoritarismo, per cui aveva bisogno di tracciare linee strategiche diverse dal riformismo socialdemocratico caratteristico della tendenza marxista. Il concetto di anarchia riprendeva il significato originario di tumulto distruttore in una prospettiva creativa. Per Bakunin era “la manifestazione senza restrizioni della vita liberata dei popoli, da cui dovevano derivare la libertà, la giustizia, il nuovo ordine e la forza stessa della rivoluzione." L’anarchia era quindi lo scoppio incontrollato delle passioni popolari che superavano gli ostacoli dell’ignoranza, della sottomissione e dello sfruttamento, verso cui gli agitatori presenti al suo interno avrebbero diretto la distruzione di tutte le istituzioni esistenti. Al Congresso di Saint Imier (1872) si voterà una sua proposta: “La distruzione di ogni potere politico è il primo dovere del proletariato”. A differenza degli ideologi successivi, a Bakunin non interessava descrivere la nuova società nelle sue diverse sfaccettature, risultato dell’ingresso di tutti i lavoratori nell’Internazionale. Si tratterebbe di “una società naturale che sosterrebbe e rafforzerebbe la vita di tutti” e consisterebbe in “una nuova organizzazione senza altra base che gli interessi, i bisogni e le inclinazioni naturali dei popoli, né altro principio che la libera federazione degli individui in comuni, dai comuni alle province, dalle province alle nazioni e infine da queste agli Stati Uniti dEuropa in primo luogo, ma poi del mondo intero” (Programma dei Fratelli internazionali).

Le scissioni e le espulsioni nell'Internazionale, la sconfitta della Comune di Parigi, la repressione delle rivolte internazionaliste in Spagna, il fallimento dell'insurrezione contadina in Italia e le successive persecuzioni bloccarono la spinta del movimento operaio, ridotto a piccoli circoli dedicati principalmente alla diffusione delle idee. In questo si distinsero Kropotkin, Reclus, Malatesta e i loro compagni. La morte di Bakunin significò la quasi scomparsa della sua eredità teorica. Nessuno dei suoi seguaci ha mai letto Hegel, Fitche, Feuerbach o Comte, e pochi si sono soffermati su Babeuf, Weitling o Proudhon. In quel periodo post-rivoluzionario si diffuse il termine “anarchico” e si creò propriamente un’ideologia separata, esterna alle classi oppresse, che doveva essere insegnata attraverso la propaganda dottrinale e un comportamento esemplare. Ciò non costituiva propriamente un sistema. Inoltre, la santificazione di Godwin, Tolstoj, Thoreau e Stirner – autori per niente favorevoli alle rivoluzioni – aggiunse elementi contrastanti alla riflessione ideologica. Si svilupparono correnti subalterne spesso contrastanti e incompatibili: le quali anteponevano la società futura al presente, il comunismo (a ciascuno secondo i suoi bisogni) al collettivismo (a ciascuno secondo il suo lavoro), il comunalismo all'individualismo, l'organizzazione alla spontaneità, la riflessione all'azione, il pacifismo alla violenza, la propaganda all'esproprio o all'attentato, la legalità alla clandestinità, il partito politico all'associazione economica, ecc. La confusione era tale che un intellettuale vicino alle idee anarchiche, Octave Mirbeau, finì per constatare che “gli anarchici hanno le spalle larghe; come la carta, includono tutto.” Per altri, indifferenti sia alla sostanza sia all’azione, tutto era anarchismo. La cosa principale era la finalità; i mezzi, spesso in contraddizione con essa, erano secondari. Tárrida del Mármol inventò “l’anarchismo senza aggettivi”, con il quale la vera espressione del movimento proletario rivoluzionario, riflessa nell’opera di Bakunin e dell’Internazionale antiautoritaria, sarebbe stata sacrificata sull’altare delle interpretazioni dottrinali, nebulose e settarie della realtà. L’anarchismo come ideale di società emancipata e allo stesso tempo metodo d’azione, semplice variante del socialismo rivoluzionario, non sembrava essere sufficiente. Gustav Landauer volle tornare alla base scrivendo: “L’anarchismo è l’obiettivo che perseguiamo, l’assenza di dominio e di Stato; la libertà dell'individuo. Il socialismo è il mezzo attraverso il quale vogliamo raggiungere e garantire questa libertà”. Il principe Kropotkin propose invece di organizzare il corpus teorico anarchico, di trovare una base filosofica diversa da quella di Bakunin, di dargli radici biologiche, di porre come obiettivo finale il comunismo libertario e di diffondere un ottimismo scientista che mise radici più di ogni altra cosa nelle masse oppresse. Fu l'autore più letto e più influente nella storia dell'anarchismo.

Kropotkin rimodellò l'anarchismo come una filosofia materialista, scientista, evoluzionista, atea e progressista, facendolo culminare con un'etica che non riuscì a concretare. I filosofi inglesi e le scoperte scientifiche del diciottesimo secolo, e naturalmente Darwin, gli fornirono il materiale su cui costruì il suo edificio ideologico, dove il progresso scientifico acquisì il rango di forza determinante al posto della lotta di classe. Nel suo opuscolo “Scienza moderna e anarchismo” afferma: “L’anarchismo rappresenta un tentativo di applicare le generalizzazioni ottenute con il metodo deduttivo-induttivo dalle scienze naturali all’apprezzamento della natura delle istituzioni umane, nonché alla previsione sulla base di queste valutazioni, dei probabili aspetti del futuro cammino dell’umanità verso la libertà, l’uguaglianza e la fraternità”. Altrove insiste sulla stessa cosa: “L’anarchismo è una concezione dell’universo basata sull’interpretazione meccanica dei fenomeni che abbracciano tutta la natura, senza escludere la vita sociale”. Nel suo articolo per l’Enciclopedia Britannica si attenne ai classici e definì l’anarchismo come “un principio o teoria di vita la cui condotta concepisce una società senza governo, in cui l’armonia si ottiene non con la sottomissione alla legge, né con l’obbedienza all’autorità, ma con liberi accordi stabiliti tra i diversi gruppi, territoriali e professionali, liberamente attuati per la produzione e il consumo, e per la soddisfazione dell'infinita varietà di bisogni e aspirazioni di un essere civilizzato”. Carlo Cafiero, compagno di Bakunin, aveva una concezione dell'anarchismo più dinamica: “L'anarchia, oggi, è una forza d'attacco; Sì, è la guerra all’autorità, al potere dello Stato. Nella società futura, l’anarchia sarà la garanzia, l’ostacolo al ritorno di ogni autorità e di ogni ordine, di ogni Stato”. Anarchia e comunismo avanzavano uniti, come l’esigenza di libertà e la richiesta di uguaglianza (“Anarchia e comunismo”, 1880). Nonostante ciò, la distinzione metafisica tra comunismo libertario e l’anarchia propriamente detta di alcuni dottrinari impose nuovi chiarimenti. Per Carlos Malato, un discepolo, l'anarchia era il complemento del comunismo, “uno stato in cui la gerarchia governativa sia sostituita dalla libera associazione degli individui e dei loro raggruppamenti; la legge imperativa per tutti e di durata illimitata, mediante contratto volontario; la fine dell'egemonia della fortuna e del rango, per l'universalizzazione del benessere e l'equivalenza delle funzioni, e infine la sostituzione della morale attuale, dalla ferocia ipocrita, con una moralità superiore che scaturirà naturalmente dal nuovo ordine delle cose" ("Filosofia dellAnarchismo.”) Da notare l’assenza di qualsiasi indicazione sulla via per raggiungere questo paradiso della libertà, cosicché l’azione quotidiana, non solo la prospettiva rivoluzionaria, erano ignorate. Agitatori come Pelloutier e Pouget si resero perfettamente conto del pericolo della mancanza di definizione metodologica della lotta quotidiana e invitarono gli anarchici a entrare nei sindacati.

Malatesta scelse una via di mezzo che, oltre allo sciopero, prevedesse l'insurrezione e, oltre al sindacato, tenesse conto di altri fattori di lotta. Nelle pagine de “La Protesta” (Buenos Aires) si riferì alla società del futuro come “una società organizzata razionalmente in cui nessuno ha i mezzi per sottomettere e opprimere gli altri”. E definì l’anarchismo come “il metodo per raggiungere l’anarchia attraverso la libertà, senza governo, senza che nessuno – nemmeno qualcuno con buone intenzioni – imponesse la propria volontà agli altri”. Derivava ciò da un unico principio: l'amore per l'umanità. Secondo la concezione umanista malatestiana si era anarchici per sentimento più che per convinzione ragionata, quindi filosofia e scienza vi avevano poco a che vedere. E neppure lo sviluppo storico o le condizioni economiche. Era una questione di volontà. Chiunque potrebbe essere un anarchico indipendentemente dalle proprie convinzioni filosofiche o conoscenze scientifiche; Bastava volerlo essere. Si dichiarava lui stesso anarco-comunista. Riguardo all'anarchia, la descrisse nell'opuscolo omonimo come “lo stato di un popolo governato senza autorità costituitauna società di uomini liberi ed eguali fondata sull'armonia degli interessi e sul concorso volontario di tutti, per soddisfare i bisogni sociali”. Nel corso della sua vita Malatesta dovette parlare molto dell'ideale, dell'anarchia, “una società fondata sul libero accordo, dove ogni individuo potesse raggiungere il massimo sviluppo possibile”, che non distingueva dal comunismo libertario: “L’organizzazione della vita sociale attraverso libere associazioni e federazioni di produttori e consumatori”. Nei suoi ultimi scritti ha confermato ciò che aveva affermato durante tutta la vita: “L’anarchia è un modo di convivenza sociale in cui gli esseri umani vivono come fratelli, senza che nessuno opprima o sfrutti gli altri e tutti abbiano a disposizione le risorse che la civiltà dellepoca consente per raggiungere il più alto livello di sviluppo morale e materiale”. Contrariamente alla maggior parte dei propagatori dell'ideale, Malatesta insisteva sul fatto che la via per raggiungere l'anarchia passava attraverso l'organizzazione degli anarchici attorno a un programma, ricorrendo all'arsenale rivoluzionario per abolire lo Stato e ogni organizzazione politica basata sull'autorità. I mezzi dovevano essere in linea con i fini. Se questi erano rivoluzionari, anche quelli dovevano esserlo.

La militanza anarchica nei sindacati ha spostato l’azione collettiva verso la sfera dell’economia, allontanandosi ulteriormente dalla politica. La semina dell'ideale tra gli sfruttati ebbe un figlio spirituale: il sindacalismo rivoluzionario. La Carta di Amiens del 1906, il suo atto di nascita, sanciva la funzione primaria del sindacalismo, non solo nella lotta per il miglioramento del lavoro, ma in preparazione “all’emancipazione integrale, che può essere raggiunta solo attraverso l’esproprio capitalista; il che sostiene lo sciopero generale come mezzo di azione e ritiene che il sindacato, oggi un gruppo di resistenza, sarà in futuro il gruppo di produzione e distribuzione, la base dell'organizzazione sociale. Per non dare adito a equivoci, uno dei principali teorici di questo tipo di sindacalismo, contrario al sindacalismo politico e riformista, Pierre Besnard, si riferiva al sindacato come “la forma organica che l’anarchia acquisisce per lottare contro il capitalismo”. In Spagna, paese in cui il movimento operaio è stato più strettamente legato all’anarchismo, Salvador Seguí ha precisato che il sindacato era “l’arma, lo strumento dell’anarchismo per mettere in pratica gli aspetti più immediati della sua dottrina”. Pertanto, era più coerente parlare di anarcosindacalismo, secondo Rocker, un altro teorico e fondatore dell’AIT nel 1923, come “il risultato della fusione di anarchismo e azione sindacale rivoluzionaria”. Dopo l’adesione di Kropotkin e di altri quindici al bando alleato nella prima guerra mondiale, gli anarchici non ebbero altra scelta se non quella di esacerbare il loro antimilitarismo, e la confederazione sindacale era l’organizzazione di massa più adatta per far uscire le ideologie anarchiche dal mondo metafisico e politico. Obiettivi economici concreti come l’abolizione dei monopoli, l’espropriazione delle terre e dei mezzi di produzione, il lavoro collettivo, la distribuzione socialista, la soppressione del salario e del denaro, ecc. hanno progressivamente soppiantato la retorica liberale e i luoghi comuni dell’individualismo nella propaganda dellidea”. Sfortunatamente, altre questioni come l’influenza dei Magonisti sui contadini messicani, il Consiglio Operaio come organizzazione di classe nella rivoluzione tedesca, la repressione dell’anarchismo in Russia – in particolare la sconfitta del movimento insurrezionale machnovista – o le scissioni bolscevizzanti nel movimento operaio anarchico dell'America Latina, trovarono pochissimo spazio nella stampa libertaria e sindacale. L’anarchismo riuscì a sopravvivere come movimento grazie al suo legame con i lavoratori, ma, tranne che in Spagna, non raggiunse la forza sufficiente per resistere alla pressione del fascismo.

Negli anni venti del secolo scorso ci fu una guerra segreta tra sindacalisti anarchici, comunisti e individualisti che bloccava ogni tentativo di organizzazione specifica. Il rimedio proposto dagli esuli machnovisti, la “piattaforma Archinov”, fu peggiore del male. Un’organizzazione simile a un partito politico suscitò molti dubbi sulla possibilità di farsi strada nei gruppi anarchici. Sébastien Faure propose un'organizzazione “di sintesi”, in cui le cose rimanevano com'erano. Si trattava piuttosto di un patto di non aggressione, di un addolcimento dell’atmosfera rarefatta in stile anarchismo “senza aggettivi”. La sua definizione di anarchismo fu all'altezza della sua proposta: è l'espressione più alta e più pura della reazione dell'individuo contro l'oppressione politica, economica e morale che tutte le istituzioni autoritarie gli impongono, e d'altro canto, la più ferma e precisa affermazione del diritto di ogni individuo al suo sviluppo integrale attraverso la soddisfazione dei bisogni in tutti gli ambiti”. (La sintesi anarchica.) Tuttavia le discussioni più o meno banali non abbandonarono mai l'ambiente libertario. Le polemiche sulla legalità e sul pacifismo erano costanti. Anche i conflitti bizantini tra i puristi del comunismo e i “liberali esasperati” (Georges Darien dixit) non cessarono di verificarsi. L’ideologia tendeva le sue trappole. Spesso si formavano cappelle, s’insisteva su dettagli secondari e aspetti periferici, si apostatava l'io in riunioni che duravano fino alla noia, si elevavano principi con intenti paralizzanti, si boicottava l'organizzazione come oppressiva, ogni accordo vincolante era descritto come autoritario e ogni riflessione storica come inutile.... Troppa confusione mentale, troppo narcisismo, troppi dogmi dottrinali e formule vuote, che negli anni Trenta portarono l’anarchismo al naufragio. In realtà questo tipo di anarchismo detestava l’azione e si accontentava di simulacri. Ci volle Camillo Berneri per denunciare (in L'Adunata dei Refrattari) quello che chiamava “cretinismo anarchico” e dedicarsi a trattare criticamente la realtà sociale al fine di rendere intelligibile l'epoca – anarchismo compreso –, precondizione per tentare di cambiarla. Logicamente, si occupò poco della posterità (“l’anarchia è religione”, arrivò a dire) e più di dare risposte reali a problemi concreti, che si scontrassero o no con l’ortodossia. Ha parlato provocatoriamente di uno “Stato libertario” mostrando la vera anarchia come una struttura amministrativa federale totalmente decentralizzata. Le sue opere trattavano sempre di problemi precisi o di questioni teoriche urgenti, mai o quasi mai di principi o finalità. Purtroppo non ce n’erano molti come lui. L'assassinio di Berneri nel maggio 1937 privò l'anarchismo della sua mente più lucida.

La guerra civile spagnola fu allo stesso tempo il culmine dell’anarchismo (milizie, comitati antifascisti, socializzazione) e l’abisso in cui precipitò (l’idea che le conquiste rivoluzionarie si difendessero meglio andando a ritroso). Molte vacche sacre rimasero in silenzio, mostrandosi comprensive nei confronti del “circostanzialismo” della burocrazia dirigente della CNT-FAI. La vera spaccatura dell’anarchismo avvenne tra i sostenitori incondizionati della politica collaborazionista della direzione del Comitato e i critici solidali con i libertari spagnoli. Dopo la vittoria di Franco, l'ideologia non poteva tornare sull'arena iberica come se nulla fosse successo e senza che i suoi adepti facessero il punto sulla rivoluzione fallita e sul mostruoso anarchismo di Stato che diede origine alle capitolazioni del 1936-37. Non lo fecero e le conseguenze si pagano ancora oggi. Nonostante i rimpianti, l’esaurimento storico dell’anarchismo, così come poteva essere concepito negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, non ha significato la morte dell’ideale, ma piuttosto l’impossibilità della sua riformulazione passatista. Ad esempio, la fiducia di Kropotkin nella scienza e la fede nel progresso morale sono insostenibili. Il sindacalismo vecchio stile è finito fuori gioco. Le visioni futuristiche dell’anarchismo di altri tempi sembrano oggi estremamente puerili. Mentre il tradizionale movimento operaio si dissolve e il capitale penetra in ogni angolo della vita, l’anarchismo riemerge, meno come ideologia postmoderna che come uno stato danimo diffuso, rivolgendosi al femminismo, al mondo del lavoro, alla ruralità, all’antisviluppo, alla cultura popolare e allinsegnamento alternativo. Su questi terreni dovrà coordinarsi, trovare nuove modalità pratiche di lotta anticapitalista e sviluppare le armi teoriche per affrontare la reazione identitaria, con le sue idee nefaste sul potere e la verità, sul genere e il sesso, la religione e la razza, la lingua e il cibo; con la sua essenzializzazione delle differenze, il suo antiuniversalismo, il suo relativismo, i suoi nemici fittizi, la sua tecnofilia... A meno di preferire di sguazzare nella spazzatura offerta da credenze irrazionali e settarie che, per colmo di confusionismo, si definiscono anarchiche sebbene non lo siano.  

 

Miquel Amorós 25 agosto 2024.

 



¿QUÉ ES EL ANARQUISMO?

 

¿Es una doctrina, una ideología, un método, una rama del socialismo, una línea de conducta, una teoría política? La respuesta, en principio, es fácil: anarquismo es lo que piensan y hacen los anarquistas, y, en general, los que se definen como enemigos de toda autoridad e imposición. Aquellos que por diversos caminos, muchos realmente antagónicos, persiguen la “anarquía”, es decir, una sociedad sin gobierno, un modo de convivencia social ajeno a las disposiciones autoritarias. El anarquismo no sería más que la manera de realizar esa anarquía, que el geógrafo Reclús calificó de “la más alta expresión del orden.” ¿En qué consiste? Son múltiples y contradictorias las estrategias para alcanzar un ideal aposentado en una negación del que existen varias versiones, por lo cual, se podría hablar con más propiedad, de anarquismos, como por ejemplo hace Tomás Ibáñez. Si además tenemos en cuenta la situación histórico-social contemporánea, donde el anarquismo ya no es gran cosa, apenas un signo de identidad juvenil y semi-académico que guarda muy poca relación con épocas pasadas más gloriosas y se mantiene al abrigo de cualquier crítica seria y objetiva, las definiciones podrían prolongarse al infinito. Anarquismo sería entonces una especie de saco lleno de fórmulas dispares etiquetadas como anarquistas. Las puertas quedan abiertas a cualquier deriva, bien sea reformista, individualista, católica, comunista, nacionalista, contemplativa, mística, conspirativa, vanguardista, etc. Sobre el atolondramiento buenrollista en los medios libertarios consecuente con tal diversidad podíamos concluir igual que el autor o los autores del folleto “De la miseria en el medio estudiantil” (1966) sobre los componentes de la Fédération Anarchiste: “Esa gente lo tolera efectivamente todo, puesto que se toleran entre sí.” El panorama no es halagüeño, pues en los tiempos que corren la comprensión de los fenómenos sociales y las ideologías que los acompañan depende mucho de pensarlos adecuadamente, o sea, desde la perspectiva que proporciona el conocimiento histórico. Aún hoy, el anarquismo no carece de intelectuales honestos y competentes aptos para la tarea. Sin embargo, la característica más común de los anarquismos posmodernos, los que navegan en la posverdad y repudian la coherencia, es el rechazo de dicho conocimiento. Es más, según tal tipo de anarquismo, el pasado ha de ser intervenido desde el presente, en tanto que baúl de recursos estéticos, en consonancia con la normativa lúdica, la gramática transgénero y los hábitos gastronómicos que impone la moda. El compromiso, por lo demás, es efímero. En fin, hete aquí, con la voluntariosa excepción de algunos núcleos sindicalistas, al anarquismo reducido a fenómeno de feria de libro. Nosotros, que bogamos en dirección contraria, intentaremos explicar esa constante aspiración a una organización social sin gobierno, luego sin Estado, sin autoridad separada, remitiéndonos a sus orígenes allá donde se encuentran, en los sectores radicales de las revoluciones populares del siglo XIX.

 

En principio, habremos de superar la manía de algunos ideólogos anarquistas, empezando por Kropotkin, Reclus, Rocker y el historiador Nettlau, de descubrir ancestros en todos los momentos de la historia y en todos los lugares. Bajo ese punto de vista el anarquismo no sería una idea nueva, sino algo tan antiguo como la humanidad, perenne, eterno, inscrito en el ser biológico de la especie humana. Anarquistas serían pues Diógenes el cínico y Zenón el Estoico, Lao Tse, Epicuro, Rabelais, Montaigne o Tolstoi. Trazos libertarios se encontrarían en las comunas medievales, en los Diggers ingleses, en el liberalismo filosófico de Spencer y Locke, en la obra política de Stuart Mill y William Godwin, en cualquier alteración del orden establecido... No tenemos nada que objetar a ello, pero denunciamos el intento latente en este planteamiento anti-histórico de fabricar una ideología interclasista, y negar al movimiento obrero su papel decisivo en la génesis de las ideas anarquistas. Eso tenía efectos desastrosos en la práctica antiautoritaria. Los promotores y defensores de esta tesis trataban de trascender la realidad social no mediante intervenciones prácticas en la esfera político-social, sino a través de la propaganda, mediante un intenso esfuerzo de educación de masas que pudiera suscitar una evolución gradual de la mentalidad popular hacia niveles de conciencia elevados. Para los propagandistas educacionistas, sobre todo para los más inmovilistas y apoltronados, -pongamos por ejemplo Abad de Santillán- el anarquismo era simplemente “un anhelo humanista”, la denominación nueva de “una actitud y una concepción humanista básica”, una doctrina no específica ni concreta, un vago ideal ético que siempre había existido, que se daba en cualquier clase social y que –añadía Federica Montseny- había encontrado en la Península Ibérica la tradición, el temperamento racial y el amor fiero por la libertad en mayor abundancia que en ninguna otra parte. En el prólogo a un libro del estatalista Fidel Miró, decía Santillán con calculada ambigüedad que “el anarquismo pretende la defensa, la dignidad y la libertad del hombre en todas las circunstancias, en todos los sistemas políticos, de ayer, hoy y mañana [...] no está ligado a ningún tipo de construcción política, ni propone sistema que los sustituya.” Así pues, no era un proyecto homogéneo sino plural, híbrido, sobre cuyos fundamentos, fines y estrategias de realización, si hemos de creer al sospechoso Gaston Leval, que proponía dar una “base científica” al anarquismo reforzando el realismo “constructivo” en política y economía, no existía acuerdo alguno “en los teóricos más capaces de este ramo” (“Precisiones del Anarquismo”, 1937.) Las especulaciones de los mayores referentes del anarquismo ortodoxo en la España de 1936 desembocaban en los tópicos del liberalismo político, lo cual es comprensible tal como ilustró la extrema adaptabilidad de sus convicciones a los principios y las instituciones burguesas republicanas.

 

Rudolf Rocker veía en el anarquismo la confluencia de dos corrientes intelectuales propulsadas por la Revolución Francesa: el socialismo y el liberalismo. Señalemos que  una era proletaria, la otra, burguesa. No obstante, dicha confluencia no constituía un sistema social fijo sino “una tendencia clara del desarrollo de la humanidad que [...] aspira a que todas las fuerzas sociales se desenvuelvan libremente en la vida” (“El anarcosindicalismo. Teoría y práctica.”) Albert Libertad, el editor de la revista individualista “L’Anarchie”, no se conformaba con eso: “Para nosotros, el anarquista es quien ha vencido en él las formas subjetivas de la autoridad: religión, patria, familia, respeto humano o lo que se quiera, y que no acepta nada que no haya pasado por el tamiz de su razón tanto como sus conocimientos le permitan.” La anarquía no podía ser más que “la filosofía del libre examen, la que no impone nada por la autoridad, y que busca probar todo por el razonamiento y la experiencia.” Para Sebastián Faure, la anarquía “como ideal social y como realización efectiva, responde a un modus vivendi en el cual, desembarazado de toda sujeción legal y colectiva que tenga a su servicio la fuerza pública, el individuo no tendrá más obligaciones que las que le imponga su propia conciencia.” Su compadre Janvion declaraba que el anarquismo era “la negación absoluta de la autoridad del hombre sobre el hombre”; Emma Goldman llegó más lejos consagrando al individuo como medida de todas las cosas: “El anarquismo es la única filosofía que devuelve al hombre la conciencia de sí mismo, la cual mantiene que Dios, el Estado y la Sociedad no existen, que son promesas vacías y sin valor, ya que pueden ser logradas solo a través de la subordinación del hombre.” Aunque de manera abstracta, aludìa a temas como la producción y el reparto, sin concretar. En su librito “Anarquismo. Lo que significa realmente” decía: “Anarquismo es la filosofía de un nuevo orden social basado en la libertad sin restricción, la teoría de que todos los gobiernos descansan sobre la violencia y por lo tanto son equívocos y peligrosos, al igual que innecesarios […] Representa un orden social basado en la agrupación libre de individuos con el objetivo de producir riqueza social, un orden que garantizará el libre acceso a la tierra y el pleno goce de las necesidades de la vida...” Soledad Gustavo afirmó escuetamente que la anarquía era “la genuina expresión de la libertad total” y Federica, que no olvidaba a su público obrero, puntualizó lo dicho por su madre: “el anarquismo es una doctrina basada en la libertad del hombre, en el pacto o libre acuerdo de este con sus semejantes, y en la organización de una sociedad en la que no deben existir clases ni intereses privados, ni leyes coercitivas de ninguna especie” (“¿Qué es el anarquismo?”) Vista la práctica federiquista de la idea, José Peirats se preguntaba en su pequeño diccionario del anarquismo si la anarquía “¿es una idea encuadrable en el recetario político revolucionario o es una masa vaporosa que se diluye al tratar de aprehenderla?” Temía que no fuera más que “un principio diluido”, una consigna etérea, y no, como decía su apreciada Emma, “la conclusión a la que han llegado multitud de hombres y mujeres resueltos por las observaciones detalladas de las tendencias de la sociedad moderna”, o en palabras de Eliseo Reclus, “el fin práctico, buscado activamente por multitudes de hombres unidos colaborando resueltamente en el nacimiento de una sociedad donde no haya amos...”

 

A pesar del innegable papel crucial de las masas anarquistas en las revoluciones del siglo pasado, por más que rebusquemos en la literatura anarquista clásica, pocas serán las referencias que encontremos a la revolución como medio para transformar la sociedad. Por las implicaciones violentas que forzosamente contienen, entraban en contradicción con los postulados pacifistas de la ideología, que, no lo olvidemos, a menudo es presentada como un ideal ético, no impositivo; o como una rebelión moral (Malatesta), una subjetividad liberada (Libertad), “una conducta dentro de cualquier régimen” (Alaiz)... Los alardes revolucionarios eran propios de los hombres de acción, cuyo paradigma es Bakunin, más interesados en derrotar al bando opresor de la reacción que en edificar una utopía operando desde el escritorio según pautas impolutas. Estos concebían la acción fundamentalmente como lucha, combate, confrontación, no como pedagogía y experimento. No obstante, el epíteto de “anarquista” fue usado históricamente para calificar lo que las facciones conservadoras suponían excesos revolucionarios. Durante la Revolución Inglesa, aparece por primera vez usado peyorativamente contra los “Niveladores” y cualquiera que alterase el orden establecido y no reconociera al poder dominante, particularmente a la jerarquía eclesiástica (era sinónimo de radical, ateo o anabaptista.) En la Revolución Francesa, los republicanos moderados llamaban anarquistas a todos los que querían proseguir el proceso revolucionario en lugar de detenerlo, tanto a los jacobinos, como a los enragés y hebertistas. En fín, quien primero se definió como anarquista, en sentido positivo, fue Pierre-Joseph Proudhon en su célebre obra “¿Qué es la propiedad?” y llamó anarquía a “la ausencia de amos y de soberanos, la forma de gobierno a la que nos aproximamos.” También fue el primero en reivindicar a la clase obrera como fuerza social autónoma, opuesta a la burguesía. En otros asuntos fue mucho menos innovador. Poco después, Anselme Bellegarrigue en su Manifiesto de 1850 afirmó que “la anarquía es el orden, el Estado es la guerra civil.” Nettlau nos dio a conocer a otros revolucionarios activos desde mediado siglo XIX partidarios de un socialismo sin jefes: Joseph Déjacque, Coeurderoy, Pisacane, Cesar De Paepe, Eugene Varlin, Ramón de la Sagra..., que bien podríamos considerar anarquistas aunque ellos no empleasen ese término. Por consiguiente, no andaremos errados al definir el anarquismo como una corriente antiautoritaria del socialismo revolucionario, producto intelectual de la incipiente lucha de clases típica de la sociedad capitalista en las primeras fases de la industrialización. En la correspondencia de Proudhon hallamos el enunciado del ideal más completo: “Anarquía es una forma de gobierno o constitución donde la conciencia pública o privada, moldeada por el desarrollo de la ciencia y el derecho, es suficiente por sí sola para mantener el orden y garantizar todas las libertades; en donde consecuentemente el principio de autoridad, las instituciones de policía, los medios de prevención o de represión, el funcionariado, los impuestos, etc., se encuentran reducidos a su expresión mínima; en donde con mayor razón, las formas monárquicas y la alta centralización desaparecen y son reemplazadas por instituciones federativas y costumbres comunitarias.”

 

La Asociación Internacional de Trabajadores fue un hito en la organización del proletariado, pues le dotó de objetivos no solo económicos, sino políticos. Los enfrentamientos entre las distintas facciones que la componían provocaron su declive. Durante el breve e intenso periodo de la AIT, Bakunin supo convertir el infradesarrollado socialismo libertario en una teoría política coherente y revolucionaria. Los vientos soplaban a favor de la revolución social; Bakunin, en posesión de un bagaje extraordinario de conocimientos históricos y filosóficos, no hizo más que traducirlos en ideas prácticas. La clase obrera era el sujeto de la revolución, y por lo tanto, el ariete del antiautoritarismo, por lo que necesitaba perfilar unas líneas estratégicas diferenciadas del reformismo socialdemócrata característico de la tendencia marxista. El concepto de anarquía retomaba el sentido originario de alboroto destructor bajo una óptica creativa, Para Bakunin, era “la manifestación sin restricciones de la vida liberada de los pueblos, de donde han de salir la libertad, la justicia, el orden nuevo y la fuerza misma de la revolución.” Así pues, anarquía era el estallido incontrolado de las pasiones populares venciendo los obstáculos de la ignorancia, la sumisión y la explotación, a las que los agitadores presentes en su seno orientarían hacia la destrucción de todas las instituciones existentes. En el Congreso de Saint Imier de 1872 se votaría una proposición suya: “La destrucción de todo poder político es el primer deber del proletariado.” Al revés que los ideólogos posteriores, no se interesaba en describir la nueva sociedad en sus distintas facetas, fruto del ingreso de todos los trabajadores en la Internacional. Seria “una sociedad natural que apoyaría y reforzaría la vida de todos” y consistiría en “una organización nueva que no tuviera otra base que los intereses, las necesidades y las inclinaciones naturales de los pueblos, ni otro principio que la federación libre de los individuos en las comunas, de las comunas en las provincias, de las provincias en las naciones, en fin, de estas en los Estados Unidos de Europa primero, y más tarde, del mundo entero.”(Programa de Los Hermanos Internacionales.)

 

Las escisiones y expulsiones en la Internacional, la derrota de La Comuna de París, el aplastamiento de las revueltas internacionalistas en España, el fracaso de la insurrección campesina en Italia y las persecuciones subsiguientes quebraron el empuje del movimiento obrero, que quedó reducido a pequeños círculos dedicados principalmente a la difusión de las ideas. En ello destacaron Kropotkin, Reclus, Malatesta y sus compañeros. La muerte de Bakunin significó la casi desaparición de su legado teórico. Ninguno de sus seguidores leyó jamás a Hegel, Fitche, Feuerbach o Comte, y pocos se entretuvieron con Babeuf, Weitling o Proudhon. En ese periodo posrevolucionario se generalizó el término “anarquista” y se confeccionó propiamente una ideología separada, exterior a las clases oprimidas, a las que se había de aleccionar mediante la propaganda doctrinal y la ejemplaridad del comportamiento. No constituía propiamente un sistema en el caso del marxismo. Además, la subida al santoral de Godwin, Tolstoi, Thoreau y Stirner -autores nada partidarios de las revoluciones- añadieron elementos conflictivos a la reflexión ideológica. Se desarrollaron corrientes subalternas a menudo enfrentadas e incompatibles: las que anteponían la sociedad futura al presente, el comunismo (a cada cual según sus necesidades) al colectivismo (a cada cual según su trabajo), el comunalismo al individualismo, la organización a la espontaneidad, la reflexión a la acción, el pacifismo a la violencia, la propaganda a la expropiación o el atentado, la legalidad a la clandestinidad, el partido político a la asociación económica, etc. Era tal la confusión que un intelectual próximo, Octave Mirbeau, hizo constar que “los anarquistas tienen las espaldas anchas; al igual que el papel, lo aguantan todo.” Para otros, indiferentes a la sustancia tanto como a la acción, todo era anarquismo. Lo principal era la finalidad; los medios, con frecuencia contradictorios con ella, eran secundarios. Tárrida del Mármol se sacó de la manga lo del “anarquismo sin adjetivos”, con lo cual la expresión verídica del movimiento proletario revolucionario reflejada en la obra de Bakunin y la Internacional antiautoritaria, sería sacrificada en el altar de las interpretaciones doctrinarias, nebulosas y sectarias de la realidad. El anarquismo como ideal de sociedad emancipada y a la vez método de acción, simple variante del socialismo revolucionario, no parecía ser suficiente. Gustav Landauer quiso volver a la base al escribir: “Anarquismo es la finalidad que perseguimos, la ausencia de dominación y de Estado; la libertad del individuo. Socialismo es el medio mediante el cual queremos alcanzar y asegurar esa libertad.” En cambio, el príncipe Kropotkin se propuso ordenar el corpus teórico anarquista, buscarle una base filosófica distinta de la bakuniniana, dotarle de raíces biológicas, fijar el comunismo libertario como objetivo final y propagar un optimismo cientista que arraigó más que ninguna otra cosa en las masas oprimidas. Fue el autor más leído y más influyente en la historia del anarquismo.

 

Kropotkin remodeló el anarquismo como filosofía materialista, cientista, evolucionista, atea y progresista, culminándolo con una ética que no llegó a terminar. Los filósofos ingleses y los hallazgos de la ciencia del siglo XVIII, y naturalmente Darwin, le proporcionaron el material sobre el que construyó su edificio ideológico, donde el progreso científico adquirió rango de fuerza determinante en lugar de la lucha de clases. En su folleto “La ciencia moderna y el anarquismo” decía: “Representa el anarquismo un ensayo de aplicación de las generalizaciones obtenidas por el método deductivo-inductivo de las ciencias naturales a la apreciación de la naturaleza de las instituciones humanas, así como también la predicción sobre la base de estas apreciaciones, de los aspectos probables en la marcha futura de la humanidad hacia la libertad, la igualdad y la fraternidad.” En otra parte, insistía en lo mismo: “el anarquismo es una concepción del universo basada en la interpretación mecánica de los fenómenos que abrazan toda la naturaleza, sin excluir la vida en la sociedad.” En su artículo para la Enciclopedia Británica se atuvo a lo clásico y definió al anarquismo como “un principio o teoría de la vida y la conducta que concibe una sociedad sin gobierno, en la que se obtiene la armonía no por sometimiento a la ley, ni obediencia a la autoridad, sino por acuerdos libres establecidos entre los diferentes grupos, territoriales y profesionales, libremente realizados para la producción y el consumo, y para satisfacción de la infinita variedad de necesidades y aspiraciones de un ser civilizado.” Carlo Cafiero, compañero de Bakunin, tenía un concepto de anarquísmo más dinámico: “La anarquía, en la actualidad, es una fuerza de ataque; si, es la guerra a la autoridad, al poder del Estado. En la sociedad futura, la anarquía será la garantía, el obstáculo a la vuelta de cualquier autoridad y de cualquier orden, de cualquier Estado.” Anarquía y comunismo iban unidos, como la exigencia de libertad y la demanda de igualdad (“Anarquía y comunismo”, 1880.) A pesar de ello, la distinción metafísica entre el comunismo libertario y la anarquía propiamente dicha de algunos doctrinarios obligó a nuevas precisiones. Para Carlos Malato, un discípulo, la anarquía era el complemento del comunismo, “un estado en el que la jerarquía gubernamental sea reemplazada por la libre asociación de los individuos y de las agrupaciones; la ley imperiosa para todos y de duración ilimitada, por el contrato voluntario; la hegemonía de la fortuna y del rango, por la universalización y el bienestar y la equivalencia de las funciones, y por último, la moral presente, de hipócrita ferocidad, por una moral superior que dimanará naturalmente del nuevo orden de cosas” (“Filosofía del Anarquismo.”) Nótese la ausencia de cualquier indicación de la manera de llegar a este paraíso de la libertad, la forma con la que la acción cotidiana, no ya la perspectiva revolucionaria, eran soslayadas. Agitadores como Pelloutier y Pouget se dieron perfecta cuenta del peligro de la indefinición metodológica concerniente a la lucha diaria e invitaron a los anarquistas a entrar en los sindicatos.

 

Malatesta escogió una vía intermedia que además de la huelga, contara con la insurrección, y además del sindicato, tuviera en cuenta otros factores de lucha. En las páginas de “La Protesta” (Buenos Aires) se refirió a la sociedad del porvenir como “una sociedad racionalmente organizada en la que ninguno tiene los medios de someter y oprimir a los demás.” Y definió el anarquismo como “el método para alcanzar la anarquía por la vía de la libertad, sin gobierno, sin que nadie –incluso alguien provisto de buenas intenciones- imponga a los demás su voluntad.” Lo derivaba de un único principio: el amor a la humanidad. De acuerdo con la concepción humanista malatestiana, se era anarquista por sentimiento más que por convicción razonada, por consiguiente, la filosofía y la ciencia tenían poco que ver. Tampoco el desarrollo histórico o las condiciones económicas. Era una cuestión de voluntad. Cualquiera podía ser anarquista fuesen cuales fuesen sus creencias filosóficas o sus conocimientos científicos; bastaba con querer serlo. Él mismo se declaraba anarcocomunista. En lo relativo a la anarquía, en el folleto del mismo nombre la describía como “el estado de un pueblo que se rige sin autoridad constituida”, “una sociedad de hombres libres e iguales fundada sobre la armonía de los intereses y el concurso voluntario de todos, a fin de satisfacer las necesidades sociales.” A lo largo de su vida, Malatesta tuvo que hablar mucho del ideal, de la anarquía, “una sociedad fundada en el libre acuerdo, donde cada individuo pudiera lograr el máximo desarrollo posible”, a la que no distinguía del comunismo libertario: “la organización de la vida social por obra de libres asociaciones y federaciones de productores y consumidores.” En sus últimos escritos corroboró lo que venía diciendo a lo largo de su vida: “anarquía es un modo de convivencia social en el que los seres humanos viven como hermanos, sin que nadie oprima o explote a los demás y todos tengan a su disposición los medios que la civilización de la época otorga para alcanzar el más alto nivel de desarrollo moral y material.” Contrariamente a la mayoría de propagadores del ideal, Malatesta insistía en que la manera de alcanzar la anarquía pasaba por la organización de los anarquistas alrededor de un programa, recurriendo al arsenal revolucionario para abolir el Estado y “toda organización política fundada en la autoridad”. Los medios debían estar en consonancia con los fines. Si estos eran revolucionarios, aquellos también habrían de  serlo.

 

La militancia anarquista en los sindicatos desplazó la acción colectiva hacia la esfera de la economía, ahuyentándose aún más de la política. La siembra del ideal entre los explotados tuvo un hijo espiritual: el sindicalismo revolucionario. La Carta de Amiens de 1906, su partida de nacimiento, consagraba la función primordial del sindicalismo, no solo en la lucha por las mejoras laborales, sino en la preparación “para la emancipación integral, que solo puede lograrse a través de la expropiación capitalista; aboga este por la huelga general como medio de acción y concidera que el sindicato, hoy grupo de resistencia, será en el futuro el grupo de producción y distribución, base de la organización social.” Con el fin de no prestarse a equívocos, uno de los principales teóricos de esta clase de sindicalismo, opuesto al sindicalismo político y reformista, Pierre Besnard, se refería al sindicato como “la forma orgánica que adquiere la Anarquía para luchar contra el capitalismo.” En España, país donde el movimiento obrero más se había vinculado al anarquismo, Salvador Seguí concretaba que el sindicato era “el arma, el instrumento del anarquismo para llevar a la práctica lo más inmediato de su doctrina.” Así pues, era más congruente hablar de anarcosindicalismo, según Rocker, otro teórico y fundador de la AIT de 1923, como “el resultado de la fusión del anarquismo y la acción sindical revolucionaria.” Tras la adhesión de Kropotkin y otros quince al bando aliado en la Primera Guerra Mundial, a los anarquistas no les quedó otra que exacerbar su antimilitarismo, y la confederación sindical era la organización de masas más idónea para sacar del hoyo metafísico y guerrero a las ideologías anarquistas. Objetivos económicos concretos como la abolición de los monopolios, la expropiación de la tierra y los medios de producción, el trabajo colectivo, la distribución socialista, la supresión del salario y del dinero, etc. desplazaron progesivamente a la retórica liberal y a los lugares comunes del individualismo en la propaganda “de la idea.” Desgraciadamente, otros temas como la influencia magonista en el campesinado mejicano, el Consejo Obrero como organización de clase en la revolución alemana, el aplastamiento del anarquismo en Rusia -particularmente la derrota del movimiento insurreccional machknovista- o las escisiones bolchevizantes en el movimiento obrero anarquista de America Latina, tuvieron muy poca presencia en la prensa libertaria y sindicalista. El anarquismo pudo sobrevivir como movimiento gracias a su conexión con los trabajadores, pero salvo en España, no logró la fuerza suficiente para resistir al empuje del fascismo.

 

En la década del veinte del siglo pasado reinaba una guerra encubierta entre los anarquistas sindicalistas, comunistas e individualistas que bloqueaba todo intento de organización específica. El remedio que propusieron los exilados makhnovistas, la “plataforma Archinov”, fue peor que la enfermedad. Una organización semejante a un partido político inspiraba muchos recelos para abrirse camino en los grupos anarquistas. Sébastien Faure propuso una organización “de síntesis”, con lo cual las cosas quedaban como estaban. Fue más bien un pacto de no agresión, una edulcoración del ambiente enrarecido estilo anarquismo “sin adjetivos.” Su definición de anarquismo estuvo a la altura de su propuesta: “es la expresión más alta y más pura de la reacción del individuo contra la opresión política, económica y moral que hacen pesar sobre él todas las instituciones autoritarias, y por otra parte, la afirmación más firme y precisa del derecho de todo individuo a su desarrollo integral por la satisfacción de las necesidades en todos los terrenos.” (“La Síntesis anarquista.”) Pero las discusiones más o menos banales nunca abandonaron el medio libertario. Las polémicas en torno a la legalidad y el pacifismo fueron constantes. Los conflictos bizantinos entre los puristas del comunismo y los “liberales exasperados” (Georges Darien dixit) tampoco dejaron de producirse. La ideología tendía sus trampas. A menudo se formaban capillas, se insistía en detalles secundarios y aspectos periféricos, se apostasiaba el yo en reuniones que se prolongaban hasta el aburrimiento, se enarbolaban principios con intención paralizante, se boicoteaba la organización tildándola de opresora, se calificaba de autoritario cualquier acuerdo vinculante y de inútil cualquier reflexión histórica.... Demasiado embrollo mental, demasiado narcisismo, demasiados dogmas doctrinales y fórmulas vacías, que por los años treinta llevaban el anarquismo al naufragio. En realidad, ese tipo de anarquismo detestaba la acción y se contentaba con simulacros. Tendría que aparecer Camilo Berneri para denunciar (en “L'Adunata dei Refrattari”) lo que llamó “cretinismo anarquista” y dedicarse a tratar críticamente la realidad social con el fin volver inteligible la época -anarquismo incluido-, condición previa para intentar cambiarla. Lógicamente se ocupó poco de la posteridad, (“la anarquía es religión” llegó a decir) y más de dar respuestas reales a problemas concretos, chocaran o no con la ortodoxia. Habló provocadoramente de un “Estado libertario” al mostrar la anarquía real como una estructura administrativa federal totalmente descentralizada. Sus trabajos, trataron siempre de problemas precisos o cuestiones teóricas urgentes, nunca o casi nunca de principios o finalidades. Por desgracia, no hubo muchos como él. El asesinato de Berneri en mayo del 37 privó al anarquismo de su mente más lúcida.

 

La guerra civil española fue a la vez el punto álgido del anarquismo (las milicias, los comités antifascistas, la socialización) y el abismo por el que se precipitó (la idea de que las conquistas revolucionarias se defendían mejor dando marcha atrás). Muchas vacas sagradas callaron, incluso se mostraron comprensivas con el “circunstancialismo” de la burocracia dirigente de la CNT-FAI. La verdadera escisión del anarquismo sucedió entre incondicionales de la política colaboracionista de la dirección comiteril y los solidarios críticos con los libertarios españoles. Tras la victoria de Franco, la ideología no podía regresar al ruedo ibérico como si nada si sus adeptos no hacían antes inventario de la revolución fallida y del monstruoso anarquismo de Estado que alumbraron las capitulaciones de 1936-37. No lo hicieron y todavía hoy se siguen pagando las consecuencias. A pesar de los pesares, el agotamiento histórico del anarquismo, tal como podía concebirse en los años previos a la Segunda Guerra Mundial, no ha significado la muerte del ideal, sino la imposibilidad de su reformulación pasadista. Por ejemplo, la confianza kropotkiniana en la ciencia y la fe en progreso moral son inasumibles. El sindicalismo a la antigua ha quedado fuera de juego. Las visiones futuristas del anarquismo de otras épocas resultan hoy tremendamente pueriles. Al disolverse el movimiento obrero tradicional y penetrar el capital en todos los rincones de la vida, el anarquismo resurge, menos como ideología posmoderna que como estado de ánimo difuso, volcándose en el feminismo, el medio laboral, la ruralidad, el antidesarrollismo, la cultura popular y la enseñanza alternativa. En esos terrenos tendrá que coordinarse, hallar las nuevas modalidades prácticas de combate anticapitalista y confeccionar las armas teóricas para confrontar la reacción identitaria, con sus ideas nefastas sobre el poder y la verdad, el género y el sexo, la religión y la raza, el lenguaje y la comida; con su esencialización de las diferencias, su antiuniversalismo, su relativismo, sus enemigos ficticios, su tecnofilia... A no ser que prefiera revolcarse en la basura que le ofrecen los credos irracionales y sectarios que, para colmo del confusionismo, también se denominan anarquistas aunque no lo sean.

 

Miquel Amorós, 25 de agosto de 2024.