"È giunto
il momento di specificare e definire il sindacalismo del nostro tempo,
collocandolo esattamente nella posizione che gli corrisponde di fronte al suo
avversario, il capitalismo."
Pierre Besnard, I
sindacati operai e la rivoluzione sociale, 1930.
Alla
fine della seconda guerra mondiale, l'anarcosindacalismo non era altro che una
reliquia storica, testimonianza dei giorni migliori di un proletariato orgoglioso,
estraneo alla normativa della società capitalista. La sua ricomparsa nello
Stato spagnolo durante i passati anni Settanta è stata una conseguenza dello
sviluppo, durante la tarda era franchista, di un movimento operaio autonomo,
che si organizzava in assemblee, nominava delegati con mandato imperativo e
utilizzava picchetti per informare e difendersi. Ignorando tutta la legislazione
anti-operaia della dittatura, l’anarcosindacalismo ha esercitato i suoi diritti
attraverso l’azione diretta, l’occupazione di fabbriche, picchetti e scioperi
selvaggi. Nonostante tutto, la controffensiva congiunta dello Stato, dei
partiti politici e del mondo imprenditoriale è riuscita a imporre un nuovo
sindacalismo di concertazione verticale, che ha ereditato sia le strutture
sindacali del regime di Franco sia la sua funzione neutralizzante e
immobilizzante. Proprio per impedire che le organizzazioni centrali
burocratiche autoproclamatesi "maggioritarie", sostenute dal
patronato, monopolizzassero e usurpassero la rappresentazione della classe
operaia, la maggior parte del movimento assembleare si è organizzato in
sindacati indipendenti, alcuni dei quali hanno adottato le tattiche e gli
obiettivi dell'ideologia anarco-sindacalista. Le cause del fallimento di questa
mossa strategica vanno ricercate nel lavoro d’indebolimento delle sopra menzionate
centrali sindacali, nella fallita ricostruzione della CNT e, soprattutto, nel
proletariato stesso.
Se è
certo che, secondo una nota massima, il drammatico passato del sindacalismo
rivoluzionario si sarebbe ripetuto in futuro come farsa, non era meno vero che
durante la transizione politica verso la partitocrazia post-franchista, la
maggioranza dei lavoratori non aspirava a un brusco cambiamento sociale, il cui
costo era stato dimostrato dai morti di Vitoria, e si accontentava di un
immediato miglioramento della propria situazione economica e di un'assistenza
legale a basso costo in casi particolari. Riorganizzare una CNT in quelle
condizioni non è stata un'idea molto brillante. Le forze del vecchio regime e quelle
di ricambio hanno saputo approfittare meglio del momento critico per rafforzare
lo Stato e stabilizzare il capitalismo nazionale, sabotando la minima
iniziativa indipendente del proletariato. Furono gli anni dei Patti della
Moncloa, dell'incendio della Scala e dello Statuto dei Lavoratori. In pratica,
i lavoratori non solo rinunciavano a gestire i cambiamenti politici e sociali
in atto, ma anche a tenere libere assemblee per discutere i loro accordi ed
eleggere i propri rappresentanti. I pochi comitati aziendali, commissioni
rappresentative e consigli di fabbrica esistenti non riuscirono a consolidarsi,
né i sindacati da essi promossi sono riusciti a diffondersi. Con un
atteggiamento passivo difficilmente comprensibile, la classe operaia della
transizione, stanca e senza spina dorsale, pressata dalla disoccupazione e dai
licenziamenti, non è rimasta nemmeno sulla difensiva. I piccoli gruppi anarcosindacalisti
sopravvissuti sono stati costretti a concentrarsi sulla difesa del lavoro in un
mercato del lavoro sempre più rigido. Era la fine dell’utopia e l’epifania
della cosiddetta “democrazia”. Il principio fondamentale
dell'anarcosindacalismo, secondo cui i sindacati avrebbero costituito lo
strumento principale della rivoluzione e dell'emancipazione integrale della
classe, lo strumento organico con cui si sarebbe evitata una dittatura di partito
– e uno Stato –, l'organo con cui si sarebbe edificata una società comunista
libertaria, è rimasto in sospeso. A questi fattori circostanziali se ne sono
aggiunti altri di natura strutturale.
Il
capitalismo nazionale è uscito dalla crisi causata dall'aumento dei prezzi del
petrolio e dagli scioperi appoggiandosi a un processo di ristrutturazione e
riconversione industriale che ha portato alla chiusura di molte fabbriche. La
"modernizzazione" degli anni '80 non fu altro che l'adattamento
dell'economia spagnola al mercato capitalista europeo ed è consistita
fondamentalmente nell'espulsione della forza lavoro dal processo produttivo e
nel suo spostamento verso l’impiego improduttivo. In meno di un decennio, il
proletariato industriale ha perso quasi tutto il suo peso economico a favore
dei salariati nei settori dell'edilizia, dei trasporti, dell'agroalimentare,
della finanza, del commercio, del turismo e della pubblica amministrazione,
settori molto meno organizzati e combattivi, privi di egualitarismo e poco propensi
all'autonomia. Le limitazioni estreme al diritto di sciopero e il divieto
espresso di altre forme di lotta, in precedenza consuete, hanno potuto stabilirsi
senza problemi. Le idee dominanti nei circoli operai hanno subito una regressione
completa. Il senso di appartenenza a una classe si è rapidamente dissolto nel
calore di una situazione complessa e difficile. La scomparsa degli scioperi di
solidarietà sarebbe un segnale di maltempo. Negli anni '80, tutti i sindacati
si sono concentrati sulla tutela dei posti di lavoro, sul mantenimento del
potere d'acquisto e sul reclutamento di dipendenti e funzionari. Lo Stato,
immerso in un processo di crescita senza precedenti, è stato chiamato dalle
parti a svolgere il ruolo di mediatore tra capitale e lavoro, gran creatore di
posti di lavoro e regolatore del mercato. L'occupazione generata dal boom del
turismo e del settore immobiliare, l'espansione della clientela politica e la
liberazione dei fondi di risparmio hanno reso popolari le abitudini
consumistiche borghesi tra le masse salariate. La famiglia tradizionale si è
disgregata, il tessuto sociale si è inesorabilmente disfatto e tutti si sono staccati
dal passato, immergendosi completamente in una vita privata ridotta a mercantilismo:
dove un tempo c'era stata una coscienza di classe, ora c'era solo una mentalità
borghese, soddisfatta, individualista e dipendente. Il che è stato chiamato
“stato di benessere”.
Negli anni
Novanta, nel pieno della globalizzazione
finanziaria, l'illusione di stabilità e di prosperità prolungata, generate
dall'abbondanza del credito e dalla facilità di acquisizione di mutui, ha
favorito un maggiore conformismo tra i lavoratori dipendenti rispetto a quello
che la dittatura di Franco avrebbe potuto ottenere con la forza. Mentre portava
a termine la "transizione economica", lo Stato si ritirava dai
mercati mondiali e abbandonava il suo ruolo di mediazione, nonostante le
suppliche delle classi medie salariate e dei sindacati istituzionalizzati. Il
sindacalismo alternativo ha cominciato a preoccuparsi maggiormente di coloro
che si trovavano in una posizione sociale più debole, incapaci di esercitare i
propri diritti, vale a dire donne, disoccupati, detenuti, lavoratori poco
qualificati (solitamente precari), senzatetto e forza lavoro immigrata sovra
sfruttata. Purtroppo, la difesa degli esclusi da parte dei sindacati era un
fenomeno marginale. Questi collettivi erano ben lontani dal formare un'entità
politica comune e dallo svolgere un ruolo attivo importante. D'altro canto, il
sindacato aveva cessato da tempo di essere la punta di diamante di un movimento
operaio in pieno disordine.
Il fulcro della lotta non era più il luogo di lavoro e
l'obiettivo liberatorio non era più rivolto all'autogestione di questi luoghi.
L'autogestione della produzione non mutava la sua natura perniciosa, né alterava
i suoi fondamenti capitalisti. Le professioni e i mestieri erano così
deteriorati che nessuno sano di mente amava il proprio lavoro, e ancor meno il
posto in cui lavorava. Il lavoro era una condanna, il prezzo della
sopravvivenza che il regime capitalista imponeva alla maggior parte dei
mortali. L'idea dell'espropriazione dei mezzi di produzione non suscitava più
passione. I problemi immediati erano così urgenti che non lasciavano spazio a
obiettivi a più lungo termine. A maggior ragione, l'idea di una rivoluzione
portata avanti dai sindacati era passata alla storia. Nell'era dell'automazione
della produzione e di gran parte dei servizi, con l'ascesa delle timorose
classi medie, dei posti di lavoro inutili, dell'indebitamento e degli scioperi
per procura, l'arma fondamentale dell'anarcosindacalismo, lo sciopero generale,
non poteva più paralizzare il sistema. D'altra parte, la vittoria del
capitalismo computerizzato ha talmente generalizzato il lavoro-spazzatura che
ha costretto i sindacalisti nel loro insieme a rivendicarne la
"dignità", a esigere un impiego "di qualità", deificando
così una classe operaia celeste, incapace di metterlo in discussione e di
abolire se stessa. Tuttavia, le organizzazioni centrali libertarie e le altre,
limitando il loro raggio d'azione al posto di lavoro, hanno commesso molteplici
contraddizioni.
Le
conseguenze dannose dell’ideologia dello sviluppo non si sono limitate ai
lavori di merda. La crescita infinita ha portato allo sfruttamento intensivo
della natura più insensato. Di conseguenza, l'economia si è scontrata non solo
con la barriera delle risorse naturali limitate, in primo luogo quelle
energetiche, ma anche con il deterioramento della vita sul pianeta. Mentre il
costo delle materie prime saliva alle stelle e la sopravvivenza della specie
era messa a repentaglio, il capitale ha segato il ramo dell'albero su cui si
trovava. La sua riproduzione diventava sempre più difficile, il che annunciava
una crisi di altro tipo, quella ecologica, destinata, per le sue implicazioni,
a occupare il centro della questione sociale. E come tutte le crisi, sarebbe
stata sfruttata dal capitale a vantaggio della sua espansione. In una
prospettiva capitalista, il disastro può essere una fonte di profitto, se
possibile la principale. Per i dirigenti non negazionisti, cioè per i
catastrofisti, il nuovo capitalismo doveva essere verde, decarbonizzato ed
elettrico, altrimenti non sarebbe stato. Sarebbe sufficiente l'implementazione
di nuove tecnologie. Desiderosi di inserirsi in un simile rimpasto, gli
ambientalisti interessati si sono messi in fila davanti agli uffici. Le
strategie "doppie" hanno questi effetti. La grande crisi del 2008 ha
ripristinato il ruolo dello Stato nell'economia finanziarizzata, accelerando la
pulitura ecologica del capitalismo, impostando le linee guida di un nuovo
sviluppo tecno-economico "sostenibile". L'asse della lotta
anticapitalista – non la lotta di per sé – si stava spostando verso il
territorio. Per forza di cose, i circoli di resistenza della classe operaia erano
costretti a schierarsi di fronte a problemi quali l'inquinamento, la perdita di
biodiversità, il cambiamento climatico (e, come corollario, l'uso di
combustibili fossili), la motorizzazione, l'accumulo di rifiuti e, in generale,
gli incessanti attacchi all'ambiente causati dall'agroindustria, dalle
"energie rinnovabili" industriali, dall'urbanizzazione dilagante e
dalla costruzione di macroinfrastrutture. Se si limitavano a difendere i posti
di lavoro, gli operai si trovavano sullo stesso fronte dei capitalisti, poiché
ignoravano deliberatamente sia la loro natura superflua sia la nocività dei
prodotti del lavoro, per non parlare della socializzazione impossibile di molte
attività industriali.
Ieri,
nella fase eroica della classe, gli operai avevano indetto scioperi
"sociali", rifiutandosi di cucinare cibo avariato, di costruire case
con materiali inadatti, di fabbricare prodotti nocivi per la salute, di
adulterare bevande, eccetera. Oggi, invece, il lavoratore non si chiede
l'utilità sociale del lavoro che svolge ed è indifferente all'essenza del
prodotto che contribuisce a fabbricare. Per quanto danno causi, la questione
non sembra toccarlo. Molto probabilmente si aggrapperà al suo lavoro e al suo
statuto contro gli ambientalisti, i fautori della conservazione, i neo-rurali e
gli attivisti anti-sviluppo. Salvo poche eccezioni, il proletariato, mansueto o
contestatore, ha sempre creduto nel progresso e nel ruolo liberatore della
scienza e della tecnica, e quando la crisi ecologica, la crescente
disuguaglianza e la digitalizzazione globale hanno delegittimato questa
convinzione, rivelando un mondo senza radici e non autogestibile, il risultato
è stato un ripiegamento sugli interessi quotidiani immediati.
Tuttavia,
che piaccia o no, con l'avanzare della distruzione ambientale, la difesa
unilaterale dell'occupazione entrerà sempre più in conflitto con la difesa
della terra e della specie. La maggior parte dei sindacalisti si arrocca sulla
prima opzione, mentre gli ecologisti professionisti e le piattaforme leggere
cercano di conciliare la seconda con lo sviluppo verde e statalista. Tuttavia,
gli attacchi al territorio e i colpi al "tenore di vita" della
popolazione continueranno a crescere, parallelamente all'impatto sugli
agglomerati urbani, sulle aree residenziali e sulle infrastrutture di ogni
genere. La dinamica capitalista è essenzialmente distruttiva e non esistono
veri palliativi per attenuarne gli effetti. Giunti a questo punto, gli
anarcosindacalisti devono ripensare a fondo la loro concezione, la loro tattica
e i loro obiettivi finali.
Le
condizioni dei lavoratori di oggi non sono più le stesse che esistevano
all'inizio del ventesimo secolo, né è lo stesso il loro desiderio di vivere dando
le spalle allo Stato. Non sono più i tempi del Congresso di Amiens o di quello della
Comédie. Non esiste un ambiente operaio chiuso in se stesso, con le sue regole
e i suoi costumi. Le relazioni di mercato si sono imposte nella vita quotidiana
dei lavoratori, distruggendo la socialità del loro mondo e oscurando in parte la
loro coscienza di classe. La loro voce è stata in sostanza sequestrata da
professionisti della rappresentazione fasulla. D'altro canto, anche se si
sviluppassero enormemente, è poco probabile che i sindacati siano in grado di sbarazzarsi
del capitalismo e di assicurare lo sviluppo della rivoluzione. Il relativo
isolamento nazionale di prima della guerra ha lasciato il posto a
un'interdipendenza mondiale davvero sorprendente. Una rivoluzione sindacalista
non durerebbe più di qualche giorno in un singolo paese. Se, però, il regime
capitalista non è lo stesso, non lo è nemmeno lo Stato. In precedenza i
meccanismi di controllo sociale non erano così potenti e la paura non era un
fattore di addomesticamento così efficace. I sindacalisti non devono affrontare
la polizia e i datori di lavoro locali, bensì sofisticate squadre repressive,
un imponente apparato di addomesticamento e gruppi di dirigenti transnazionali.
Poiché la relazione di forze è così diseguale, le tattiche di lotta tenderanno
a essere molto più elaborate; In ogni caso, la priorità oggi non è il ricorso
alla violenza, ma la fine di una mentalità rassegnata.
Con
l'obiettivo di ricostruire la società civile lavoratrice, il più possibile
separata dallo Stato – e senza abbandonare la lotta per il benessere di tutti i
lavoratori, indipendentemente da sesso, razza o nazionalità – i sindacati d’ispirazione
libertaria dovranno rivitalizzare, con qualcosa di più della semplice
propaganda, non solo il loro internazionalismo, ma anche il senso di comunità,
la tradizione orale e i valori di solidarietà che dominavano nell'era preconsumistica.
Per questo, avranno bisogno di una prassi socialista positiva. In linea di
principio, cercheranno di risolvere i problemi di approvvigionamento in margine
al sistema – allontanarsi il più possibile dal capitalismo –, per cui dovranno
prestare maggiore attenzione alle reti di scambio, alla tecnologia alternativa,
alle cliniche gratuite, all'istruzione in libertà, agli orti collettivi e alle
cooperative. Dovranno collegarsi con ciò che resta della classe contadina
indipendente e contribuire a contrastare l'estrattivismo. Quanto più il
proletariato assicura e demercantilizza la propria sussistenza, tanto minore
sarà la sua dipendenza dal capitale e dallo Stato e tanto maggiore sarà la sua
libertà di pensare, scegliere le sue armi e selezionare i suoi alleati. Tra le
altre cose, dovrà rivedere o chiarire le sue consegne, come per esempio quella
dell’autogestione. Ora, essa riguarda innanzitutto la decolonizzazione della
vita quotidiana. Dato il carattere superfluo e inutile della maggior parte degli
impieghi e la nocività di gran parte dei mezzi di produzione nel tardo
capitalismo, l'unica autogestione possibile è quella del loro smantellamento.
Il progressismo operaio e lo sviluppo sindacale ereditati dalla borghesia sono
finiti. Gli anarcosindacalisti devono prenderne nota. Un altro esempio è lo
slogan dell’alloggio per tutti. Abitare era un diritto diventato oggi un
calvario. L'attuale condizione proletaria può essere meglio definita dalle
complicazioni dell'habitat, di cui sono un riflesso i movimenti per
l’abitazione, la lotta contro gli sfratti, le occupazioni agricole, i sindacati
di inquilini e i tentativi di stabilirsi in campagna. Gli anarcosindacalisti
devono essere lì.
Paradossalmente,
una delle future missioni del nuovo proletariato, classe urbana per forza o, piuttosto
peri-urbana, sarà quella di riequilibrare il territorio smantellando le
conurbazioni, attraverso i sindacati radicali o i consigli, le associazioni di
produttori, le assemblee di ripopolamento, le comunità contadine e qualsiasi
altra forma di autorganizzazione che possa sorgere. Anche se, d'ora in poi, la
questione sociale risiede soprattutto nella vita quotidiana e nella difesa del
territorio contro gli interessi speculativi e l'amministrazione che li
sostiene, le forze difensive, concentrate sul lavoro salariato, sull’abitazione,
sulla sanità e sui trasporti, proverranno soprattutto dai centri urbani. In
linea di principio, la convergenza tra la lotta per i mezzi di sussistenza propria
del sindacalismo, il municipalismo caratteristico dei comunalisti rurali e la
lotta contro la catastrofe ambientale tipica dell'antisviluppo, ha trovato la
sua espressione sintetica nello slogan dei gilet jaunes francesi: "Fine
del mese, fine del mondo". A partire da ciò, tutto o quasi tutto resta da
fare.
Miguel
Amoros
Discorso
al 2° Incontro del Libro Anarchico a La Coruña, 24 maggio 2025.
El anarcosindicalismo frente a los malos tiempos
“Ha llegado pues el momento de concretar y definir el
sindicalismo
de nuestro
tiempo situándolo en la posición exacta que le
corresponde frente a su adversario el capitalismo.”
Pierre Besnard, Los sindicatos obreros y la revolución
social, 1930.
Cuando
finalizalizó la Segunda Guerra Mundial, el anarcosindicalismo era poco menos
que una reliquia histórica, testimonio de los mejores días de un proletariado
orgulloso y ajeno a la normativa de la sociedad capitalista. Su reaparición en
el Estado español durante los pasados años setenta fue consecuencia del
desarrollo durante el tardofranquismo de un movimiento obrero autónomo, que se
organizaba en asambleas, nombraba delegados con mandato imperativo y empleaba
piquetes para informar y defenderse. Ignorando toda la legislación anti-laboral
de la dictadura, ejercía sus derechos mediante la acción directa, la ocupación
de fábricas, los piquetes de extensión y la huelga salvaje. A pesar de todo, la
contraofensiva conjunta del Estado, los partidos políticos y el empresariado
logró imponer un nuevo sindicalismo de concertación vertical que heredó tanto
las estructuras laboralistas del franquismo, como su función neutralizadora e
inmovilista. Precisamente, con el fin de evitar que las centrales burocráticas
autodenominadas "mayoritarias", apoyadas por la patronal, acapararan
y usurparan la representación de la clase obrera, la mayoría del movimiento
asambleario se organizó en sindicatos independientes, parte de los cuales
adoptaron las tácticas y los fines de la ideología anarcosindicalista. Las
causas del fracaso de esta jugada estratégica habría que buscarlas en el
trabajo de zapa de las susodichas centrales, en la reconstrucción fallida de la
CNT y, sobre todo, en el propio proletariado.
Si bien
es cierto que, de acuerdo con una conocida máxima, el pasado dramático del
sindicalismo revolucionario se repetiría en el futuro como farsa, no era menos
verdad que durante la transición política hacia la partitocracia posfranquista,
los trabajadores en su mayoría no aspiraban a un cambio social abrupto, cuyo
coste habían ilustrado los muertos de Vitoria, y se conformaban con un
mejoramiento inmediato de su situación económica y una asistencia jurídica
barata en casos particulares. Reorganizar una CNT en esas condiciones no fue
una idea muy brillante. Las fuerzas del viejo régimen y las de recambio
supieron aprovechar mejor el momento crítico para reforzar el Estado y
estabilizar el capitalismo patrio, saboteando la menor iniciativa independiente
del proletariado. Fueron los años de los Pactos de la Moncloa, del incendio del
Scala y del Estatuto de los Trabajadores. En la práctica, los obreros
renunciaban no solo a gestionar los cambios político-sociales que se estaban
produciendo, sino a celebrar asambleas libres para discutir sus convenios y
elegir a sus representantes. Los escasos comités de empresa, comisiones
representativas y consejos de fábrica que existían no lograron consolidarse, ni
los sindicatos que propiciaron, extenderse. Con una actitud pasiva difícil de
comprender, la clase obrera de la transición, cansada e invertebrada,
presionada por el paro y los despidos, ni siquiera se mantuvo a la defensiva.
Los reducidos núcleos anarcosindicalistas supervivientes se vieron forzados a
centrarse en la defensa del trabajo dentro de un mercado laboral endurecido.
Era el fin de la utopía y la epifanía de la apodada “democracia.” El principio
básico del anarcosindicalismo según el cual los sindicatos constituirían el
principal instrumento de la revolución y de la emancipación integral de la
clase, la herramienta orgánica con la que se evitaría una dictadura de partido
-y un Estado-, el órgano con el se construiría una sociedad comunista
libertaria, quedaba en suspenso. A estos factores coyunturales se sumaban
otros, de índole estructural.
El capitalismo
nacional salió de la crisis provocada por el encarecimiento del petróleo y las
huelgas, apuntándose a un proceso de reestructuración y reconversión industrial
que condujo al cierre de muchas fábricas. La “modernización” de los años
ochenta no era más que la adaptación de la economía española al mercado
capitalista europeo, y consistía básicamente en la expulsión de la fuerza de
trabajo del proceso productivo y su desplazamiento hacia el empleo
improductivo. En menos de una década, el proletariado industrial perdió casi
todo su peso en la economía, en provecho de los asalariados de la construcción,
el transporte, la agroalimentación, las finanzas, el comercio, el turismo y la
función pública, sectores mucho menos organizados y combativos, poco
igualitaristas y escasamente atraídos por la autonomía. Las limitaciones
extremas del derecho a la huelga y la prohibición expresa de otras modalidades
de lucha antaño corrientes pudieron establecerse sin problemas. Las ideas
dominantes en los medios obreros sufrieron una regresión completa. El
sentimiento de pertenencia a una clase se diluyó muy rápidamente al calor de
una coyuntura compleja y difícil. La desaparición de las huelgas por
solidaridad sería una señal de mal tiempo. Durante los ochenta, todos los
sindicatos se centraron en la defensa del puesto de trabajo, en el
mantenimiento del poder adquisitivo y en la afiliación de empleados y
funcionarios. El Estado, inmerso en un proceso de crecimiento sin precedentes,
fue requerido por las partes como mediador entre capital y trabajo, gran
creador de empleos y regulador del mercado. La ocupación generada por el boom
turístico e inmobiliario, la expansión de la clientela política y la liberación
de los activos de las Cajas de Ahorros, popularizaron los hábitos burgueses
consumistas entre las masas asalariadas. La familia tradicional se descompuso,
el tejido social se deshizo inexorablemente y cada cual se desvinculó del
pasado para sumergirse enteramente en una vida privada mercantilizada: donde
antes hubo conciencia de clase, ahora no había más que mentalidad de clase
media, satisfecha, individualista y dependiente. A eso se le llamó “estado del
bienestar.”
Durante los años
noventa, en plena globalización financiera, la ilusión de estabilidad y bonanza
prolongada que provocaron el crédito abundante y la facilidad de hipotecarse
posibilitó un conformismo entre los asalariados mayor que el que pudo lograr
por la fuerza la dictadura de Franco. A la vez que finalizaba la
"transición económica", el Estado retrocedía ante los mercados
mundiales y abandonaba su función mediadora, a pesar de los ruegos de las
clases medias asalariadas y de los aparatos sindicales institucionalizados. El sindicalismo
alternativo empezó a preocuparse más por quienes se encontraban en una posición
social más débil, sin capacidad para ejercer sus propios derechos, a saber, las
mujeres, los parados, los presos, los trabajadores poco cualificados
(habitualmente precarios), los "sin techo" y la superexplotada mano
de obra inmigrante. Por desgracia, la defensa sindical de los excluidos era un
fenómeno marginal. Aquellos colectivos distaban mucho de conformar un sujeto
político común y desempeñar un papel activo importante. Por otra parte, hacía
tiempo que el sindicato había dejado de ser la punta de lanza de un movimiento
obrero en plena desbandada. El foco de la lucha no radicaba ya en los lugares
de trabajo, ni la meta liberadora apuntaba a la autogestión de los mismos. La
autogestión de la producción no cambiaba su naturaleza perniciosa, ni alteraba
sus fundamentos capitalistas. Las profesiones y los oficios estaban tan
deteriorados que ya nadie en su juicio amaba su trabajo, y menos aún el lugar
donde trabajaba. El trabajo era una condena, el precio de la supervivencia que
el régimen capitalista imponía a la mayoría de los mortales. La idea de la
expropiación de los medios de producción ya no levantaba pasiones. Los
problemas inmediatos eran tan acuciantes que no dejaban sitio a otros objetivos
a más largo plazo. Con mayor razón, la noción de una revolución llevada a cabo
por los sindicatos había pasado a la historia. En la era de la automatización
de la producción y buena parte de los servicios, del auge de las asustadizas
clases medias, de los empleos innecesarios, del endeudamiento y de las huelgas
por procuración, el arma fundamental del anarcosindicalismo, la huelga general,
ya no podía paralizar el sistema. En otro orden de cosas, la victoria del
capitalismo informatizado había generalizado tanto el trabajo-basura que
obligaba a los sindicalistas en conjunto a reivindicar su “dignificación”, a
demandar un empleo “de calidad”, divinizando de paso a una clase obrera
celeste, incapaz de cuestionarlo y abolirse. Pero, las centrales libertarias, y
las otras, al restringir su ámbito de actuación al mundillo laboral, cometían
múltiples contradicciones.
Las consecuencias
nefastas del desarrollismo no se acababan con los empleos de mierda. El
crecimiento infinito acarreó la explotación intensiva de la naturaleza más
insensata. De resultas, la economía tropezó no solo con la barrera de los
recursos naturales limitados, principalmente energéticos, sino con el deterioro
de la vida en el planeta. Al dispararse los costes de las materias primas y
ponerse en peligro la supervivencia de la especie, el capital serraba la rama
del árbol en la que se sentaba. Su reproducción volvíase cada vez más difícil,
lo cual auguraba una crisis de otro tipo, la ecológica, destinada por sus
implicaciones a ocupar el centro de la cuestión social. Y como todas las
crisis, iba a ser utilizada por el capital en provecho de su ampliación. Bajo
una óptica capitalista, el desastre puede ser una fuente de beneficios, la
principal si cabe. Para los dirigentes no negacionistas, es decir, para los
catastrofistas, el nuevo capitalismo tenía que ser verde, descarbonizado y
eléctrico, o no sería. Con la puesta en marcha de nuevas tecnologías sería
suficiente. Deseando insertarse en tal remodelación, los ecologistas relativos
hicieron cola en los despachos. Las estrategias "duales" tienen esos
efectos. La gran crisis de 2008 restauró el papel del Estado en la economía
financiarizada, lo cual aceleró el lavado de cara ecológico del capitalismo y
estableció las pautas de un nuevo desarrollo tecnoeconómico “sostenible.” El
eje de la lucha anticapitalista -no la lucha misma- se trasladaba al territorio.
Por la fuerza de las cosas, los círculos de resistencia obrera se veían
abocados a posicionarse frente a problemas como la contaminación, la pérdida de
biodiversidad, el cambio climático (y como corolario, el uso de combustíbles
fósiles), la motorización, la acumulación de residuos y, en general, las
incesantes agresiones al medio ambiente causadas por el agronegocio, las
"renovables" industriales, la urbanización galopante y la contrucción
de macroinfraestructuras. Si se limitaban a la defensa de los empleos, los
obreros se situaban en el mismo frente que los capitalistas, puesto que
deliberadamente ignoraban tanto su carácter prescindible, como la nocividad de
los productos del trabajo, por no hablar de la socialización imposible de
muchas actividades industriales.
Antaño, en la fase
heroica de la clase, los trabajadores habían declarado huelgas “sociales”,
negándose a cocinar comida en mal estado, a construir casas con materiales
inadecuados, a fabricar productos perjudiciales para la salud, a adulterar
bebidas, etc. En cambio, hoy, el trabajador no se cuestiona la utilidad social
del trabajo que realiza y es indiferente a la esencia del producto que
contribuye a fabricar. Por más daño que cause, el asunto parece no afectarle.
Lo más probable es que se aferre a su labor y su estatus contra ecologistas,
conservacionistas, neorrurales y antidesarrollistas. Con pocas excepciones, el
proletariado, manso o contestatario, creyó siempre en el progreso y en el papel
liberador de la ciencia y la técnica, y cuando la crisis ecológica, el
incremento de la desigualdad y la digitalización global deslegitimaron dicha
creencia revelando un mundo desarraigado, no autogestionable, el resultado fue
un repliegue sobre sus intereses cotidianos inmediatos. Pero se quiera o no se
quiera, a medida que progrese la destrucción ambiental, la defensa unilateral
del empleo entrará cada vez más en conflicto con la defensa de la tierra y de
la especie. La mayoría de los sindicalistas se enrocan en la primera, mientras
que los ecologistas profesionales y las plataformas light tratan de conciliar
la segunda con el desarrollismo verde y estatalista. Con todo, las agresiones
al territorio y los golpes al “nivel de vida” de la población no pararán de
crecer en paralelo a las conurbaciones, zonas residenciales e infraestructuras
de toda clase. La dinámica capitalista es esencialmente destructiva, y contra
ella no existen paliativos reales que aminoren sus efectos. Llegados a este
punto, los anarcosindicalistas han de replantearse a fondo su ideario, su táctica
y sus objetivos finales.
Los trabajadores de
hoy no se encuentran en condiciones como las que imperaban a principios del
siglo XX, ni su deseo de vivir de espaldas al Estado es el mismo. No son estos
los tiempos del congreso de Amiens o del de la Comedia. No existe un medio obrero
cerrado sobre sí mismo, con sus reglas y sus costumbres. Las relaciones de
mercado se han impuesto en la vida cotidiana de los obreros, acabando con la
sociabilidad de su mundo y oscureciendo su conciencia de clase aparte. Su voz
ha sido prácticamente secuestrada por profesionales de la representación
espuria. Por otro lado, aun en el caso de que se desarrollen un montón, es poco
probable que los sindicatos lleguen a estar capacitados para deshacerse del
capitalismo y asegurar el desenvolvimiento de la revolución. Al relativo
aislamiento nacional de antes de la guerra ha sucedido una interdependencia
mundial realmente asombrosa. Una revolución sindicalista no subsistiría en un
solo país más que unos pocos días. Pero si el régimen capitalista no es el mismo,
tampoco lo es el Estado. Los mecanismos de control social no eran antes tan
potentes, ni el miedo era un factor de domesticación tan eficaz. Los
sindicalistas no tienen enfrente a policías de a pie y patronos locales, sino a
sofisticados equipos represores, un aparato de domesticación imponente y grupos
de ejecutivos transnacionales. Como la
correlación de fuerzas es tan desigual, las tácticas de lucha tendrán que ser
mucho más ponderadas; de todas formas, lo prioritario hoy no es el recurso a la
violencia, sino el fin de una mentalidad resignada.
Con el objetivo de
recomponer la sociedad civil trabajadora separada lo más posible del Estado -y
sin abandonar la lucha por el bienestar de todos los trabajadores, sin
distinción de sexo, raza o nacionalidad- los sindicatos con espíritu libertario
habrán de revitalizar con algo más que propaganda no solo su internacionalismo,
sino el sentido comunitario, la tradición oral y los valores solidarios que
dominaban en la época preconsumista. Para ello necesitarán una praxis
socialista positiva. En principio, procurarán resolver los problemas de
abastecimiento al margen del sistema -salirse en lo posible del capitalismo-,
por lo que habrán de prestar más atención a las redes de intercambio, la
tecnología alternativa, las clínicas gratuitas, la enseñanza en libertad, los
huertos colectivos y las cooperativas. Deberán tender puentes hacia lo que
quede de campesinado independiente y aportar fuerzas contra el extractivismo.
Cuando el proletariado mejor garantice y desmercantilice su subsistencia, menor
será su dependencia del capital y el Estado, y mayor grado de libertad tendrá a
la hora de pensar, escoger sus armas y elegir sus aliados. Entre otras cosas,
habrá de revisar o precisar sus consignas, como por ejemplo la de autogestión.
Hoy por hoy, esta concierne ante todo a la descolonización de la vida
cotidiana. Dado el carácter superfluo e inútil de la mayoría de los empleos y
la nocividad de una gran parte de los medios de producción en el capitalismo
tardío, la única autogestión posible es la de su desmantelamiento. Se acabaron
el progresismo obrero y el desarrollismo sindical, herencia de la burguesía.
Los anarcosindicalistas han de tomar nota de ello. Otro ejemplo es el eslogan
de la vivienda para todos. Habitar era un derecho convertido hoy en calvario.
La condición proletaria actual puede definirse mejor por las complicaciones del
hábitat, reflejo de las cuales son los movimientos pro vivienda, la lucha
contra los desahucios, las ocupaciones de fincas, los sindicatos de inquilinos
y los conatos de instalación en el
campo. Los anarcosindicalistas han de estar ahí.
Paradójicamente, una
de las misiones futuras del nuevo proletariado, clase urbana a la fuerza, o más
bien periurbana, será la de equilibrar el territorio desmontando las
conurbaciones, bien a través de los sindicatos radicales o de los consejos, las
asociaciones de productores, las asambleas de repobladores, las comunidades
campesinas y cualquier otra forma de auto-organización que se presente. Aunque
de ahora en adelante la cuestión social resida sobre todo en la vida cotidiana
y la defensa del territorio contra los intereses especulativos y la
administración que los apoya, las huestes defensoras, centradas en el trabajo
asalariado, la vivienda, la salud y el transporte, provendrán en su mayoría de
las aglomeraciones urbanas. En principio la confluencia entre la lucha por el
sustento propia del sindicalismo, el municipalismo característico de los
comunalistas rurales, y el combate contra la catástrofe ambiental, típica del
antidesarrollismo, ha encontrado su expresión sintética en el slogan de los
Chalecos Amarillos: “fin de mes, fin del mundo.” A partir de ahí, todo o casi
todo está por hacer.
Miguel Amorós
Charla en el 2º
Encuentro del libro anarquista de La Coruña, el 24 de mayo de 2025.