domenica 25 maggio 2025

L'anarcosindacalismo di fronte ai tempi difficili - Miguel Amoros

 


 

"È giunto il momento di specificare e definire il sindacalismo del nostro tempo, collocandolo esattamente nella posizione che gli corrisponde di fronte al suo avversario, il capitalismo."

Pierre Besnard, I sindacati operai e la rivoluzione sociale, 1930.

 

Alla fine della seconda guerra mondiale, l'anarcosindacalismo non era altro che una reliquia storica, testimonianza dei giorni migliori di un proletariato orgoglioso, estraneo alla normativa della società capitalista. La sua ricomparsa nello Stato spagnolo durante i passati anni Settanta è stata una conseguenza dello sviluppo, durante la tarda era franchista, di un movimento operaio autonomo, che si organizzava in assemblee, nominava delegati con mandato imperativo e utilizzava picchetti per informare e difendersi. Ignorando tutta la legislazione anti-operaia della dittatura, l’anarcosindacalismo ha esercitato i suoi diritti attraverso l’azione diretta, l’occupazione di fabbriche, picchetti e scioperi selvaggi. Nonostante tutto, la controffensiva congiunta dello Stato, dei partiti politici e del mondo imprenditoriale è riuscita a imporre un nuovo sindacalismo di concertazione verticale, che ha ereditato sia le strutture sindacali del regime di Franco sia la sua funzione neutralizzante e immobilizzante. Proprio per impedire che le organizzazioni centrali burocratiche autoproclamatesi "maggioritarie", sostenute dal patronato, monopolizzassero e usurpassero la rappresentazione della classe operaia, la maggior parte del movimento assembleare si è organizzato in sindacati indipendenti, alcuni dei quali hanno adottato le tattiche e gli obiettivi dell'ideologia anarco-sindacalista. Le cause del fallimento di questa mossa strategica vanno ricercate nel lavoro d’indebolimento delle sopra menzionate centrali sindacali, nella fallita ricostruzione della CNT e, soprattutto, nel proletariato stesso.

 

Se è certo che, secondo una nota massima, il drammatico passato del sindacalismo rivoluzionario si sarebbe ripetuto in futuro come farsa, non era meno vero che durante la transizione politica verso la partitocrazia post-franchista, la maggioranza dei lavoratori non aspirava a un brusco cambiamento sociale, il cui costo era stato dimostrato dai morti di Vitoria, e si accontentava di un immediato miglioramento della propria situazione economica e di un'assistenza legale a basso costo in casi particolari. Riorganizzare una CNT in quelle condizioni non è stata un'idea molto brillante. Le forze del vecchio regime e quelle di ricambio hanno saputo approfittare meglio del momento critico per rafforzare lo Stato e stabilizzare il capitalismo nazionale, sabotando la minima iniziativa indipendente del proletariato. Furono gli anni dei Patti della Moncloa, dell'incendio della Scala e dello Statuto dei Lavoratori. In pratica, i lavoratori non solo rinunciavano a gestire i cambiamenti politici e sociali in atto, ma anche a tenere libere assemblee per discutere i loro accordi ed eleggere i propri rappresentanti. I pochi comitati aziendali, commissioni rappresentative e consigli di fabbrica esistenti non riuscirono a consolidarsi, né i sindacati da essi promossi sono riusciti a diffondersi. Con un atteggiamento passivo difficilmente comprensibile, la classe operaia della transizione, stanca e senza spina dorsale, pressata dalla disoccupazione e dai licenziamenti, non è rimasta nemmeno sulla difensiva. I piccoli gruppi anarcosindacalisti sopravvissuti sono stati costretti a concentrarsi sulla difesa del lavoro in un mercato del lavoro sempre più rigido. Era la fine dell’utopia e l’epifania della cosiddetta “democrazia”. Il principio fondamentale dell'anarcosindacalismo, secondo cui i sindacati avrebbero costituito lo strumento principale della rivoluzione e dell'emancipazione integrale della classe, lo strumento organico con cui si sarebbe evitata una dittatura di partito – e uno Stato –, l'organo con cui si sarebbe edificata una società comunista libertaria, è rimasto in sospeso. A questi fattori circostanziali se ne sono aggiunti altri di natura strutturale.

 

Il capitalismo nazionale è uscito dalla crisi causata dall'aumento dei prezzi del petrolio e dagli scioperi appoggiandosi a un processo di ristrutturazione e riconversione industriale che ha portato alla chiusura di molte fabbriche. La "modernizzazione" degli anni '80 non fu altro che l'adattamento dell'economia spagnola al mercato capitalista europeo ed è consistita fondamentalmente nell'espulsione della forza lavoro dal processo produttivo e nel suo spostamento verso l’impiego improduttivo. In meno di un decennio, il proletariato industriale ha perso quasi tutto il suo peso economico a favore dei salariati nei settori dell'edilizia, dei trasporti, dell'agroalimentare, della finanza, del commercio, del turismo e della pubblica amministrazione, settori molto meno organizzati e combattivi, privi di egualitarismo e poco propensi all'autonomia. Le limitazioni estreme al diritto di sciopero e il divieto espresso di altre forme di lotta, in precedenza consuete, hanno potuto stabilirsi senza problemi. Le idee dominanti nei circoli operai hanno subito una regressione completa. Il senso di appartenenza a una classe si è rapidamente dissolto nel calore di una situazione complessa e difficile. La scomparsa degli scioperi di solidarietà sarebbe un segnale di maltempo. Negli anni '80, tutti i sindacati si sono concentrati sulla tutela dei posti di lavoro, sul mantenimento del potere d'acquisto e sul reclutamento di dipendenti e funzionari. Lo Stato, immerso in un processo di crescita senza precedenti, è stato chiamato dalle parti a svolgere il ruolo di mediatore tra capitale e lavoro, gran creatore di posti di lavoro e regolatore del mercato. L'occupazione generata dal boom del turismo e del settore immobiliare, l'espansione della clientela politica e la liberazione dei fondi di risparmio hanno reso popolari le abitudini consumistiche borghesi tra le masse salariate. La famiglia tradizionale si è disgregata, il tessuto sociale si è inesorabilmente disfatto e tutti si sono staccati dal passato, immergendosi completamente in una vita privata ridotta a mercantilismo: dove un tempo c'era stata una coscienza di classe, ora c'era solo una mentalità borghese, soddisfatta, individualista e dipendente. Il che è stato chiamato “stato di benessere”.

 

Negli anni Novanta, nel pieno della globalizzazione finanziaria, l'illusione di stabilità e di prosperità prolungata, generate dall'abbondanza del credito e dalla facilità di acquisizione di mutui, ha favorito un maggiore conformismo tra i lavoratori dipendenti rispetto a quello che la dittatura di Franco avrebbe potuto ottenere con la forza. Mentre portava a termine la "transizione economica", lo Stato si ritirava dai mercati mondiali e abbandonava il suo ruolo di mediazione, nonostante le suppliche delle classi medie salariate e dei sindacati istituzionalizzati. Il sindacalismo alternativo ha cominciato a preoccuparsi maggiormente di coloro che si trovavano in una posizione sociale più debole, incapaci di esercitare i propri diritti, vale a dire donne, disoccupati, detenuti, lavoratori poco qualificati (solitamente precari), senzatetto e forza lavoro immigrata sovra sfruttata. Purtroppo, la difesa degli esclusi da parte dei sindacati era un fenomeno marginale. Questi collettivi erano ben lontani dal formare un'entità politica comune e dallo svolgere un ruolo attivo importante. D'altro canto, il sindacato aveva cessato da tempo di essere la punta di diamante di un movimento operaio in pieno disordine. Il fulcro della lotta non era più il luogo di lavoro e l'obiettivo liberatorio non era più rivolto all'autogestione di questi luoghi. L'autogestione della produzione non mutava la sua natura perniciosa, né alterava i suoi fondamenti capitalisti. Le professioni e i mestieri erano così deteriorati che nessuno sano di mente amava il proprio lavoro, e ancor meno il posto in cui lavorava. Il lavoro era una condanna, il prezzo della sopravvivenza che il regime capitalista imponeva alla maggior parte dei mortali. L'idea dell'espropriazione dei mezzi di produzione non suscitava più passione. I problemi immediati erano così urgenti che non lasciavano spazio a obiettivi a più lungo termine. A maggior ragione, l'idea di una rivoluzione portata avanti dai sindacati era passata alla storia. Nell'era dell'automazione della produzione e di gran parte dei servizi, con l'ascesa delle timorose classi medie, dei posti di lavoro inutili, dell'indebitamento e degli scioperi per procura, l'arma fondamentale dell'anarcosindacalismo, lo sciopero generale, non poteva più paralizzare il sistema. D'altra parte, la vittoria del capitalismo computerizzato ha talmente generalizzato il lavoro-spazzatura che ha costretto i sindacalisti nel loro insieme a rivendicarne la "dignità", a esigere un impiego "di qualità", deificando così una classe operaia celeste, incapace di metterlo in discussione e di abolire se stessa. Tuttavia, le organizzazioni centrali libertarie e le altre, limitando il loro raggio d'azione al posto di lavoro, hanno commesso molteplici contraddizioni.

 

Le conseguenze dannose dell’ideologia dello sviluppo non si sono limitate ai lavori di merda. La crescita infinita ha portato allo sfruttamento intensivo della natura più insensato. Di conseguenza, l'economia si è scontrata non solo con la barriera delle risorse naturali limitate, in primo luogo quelle energetiche, ma anche con il deterioramento della vita sul pianeta. Mentre il costo delle materie prime saliva alle stelle e la sopravvivenza della specie era messa a repentaglio, il capitale ha segato il ramo dell'albero su cui si trovava. La sua riproduzione diventava sempre più difficile, il che annunciava una crisi di altro tipo, quella ecologica, destinata, per le sue implicazioni, a occupare il centro della questione sociale. E come tutte le crisi, sarebbe stata sfruttata dal capitale a vantaggio della sua espansione. In una prospettiva capitalista, il disastro può essere una fonte di profitto, se possibile la principale. Per i dirigenti non negazionisti, cioè per i catastrofisti, il nuovo capitalismo doveva essere verde, decarbonizzato ed elettrico, altrimenti non sarebbe stato. Sarebbe sufficiente l'implementazione di nuove tecnologie. Desiderosi di inserirsi in un simile rimpasto, gli ambientalisti interessati si sono messi in fila davanti agli uffici. Le strategie "doppie" hanno questi effetti. La grande crisi del 2008 ha ripristinato il ruolo dello Stato nell'economia finanziarizzata, accelerando la pulitura ecologica del capitalismo, impostando le linee guida di un nuovo sviluppo tecno-economico "sostenibile". L'asse della lotta anticapitalista – non la lotta di per sé – si stava spostando verso il territorio. Per forza di cose, i circoli di resistenza della classe operaia erano costretti a schierarsi di fronte a problemi quali l'inquinamento, la perdita di biodiversità, il cambiamento climatico (e, come corollario, l'uso di combustibili fossili), la motorizzazione, l'accumulo di rifiuti e, in generale, gli incessanti attacchi all'ambiente causati dall'agroindustria, dalle "energie rinnovabili" industriali, dall'urbanizzazione dilagante e dalla costruzione di macroinfrastrutture. Se si limitavano a difendere i posti di lavoro, gli operai si trovavano sullo stesso fronte dei capitalisti, poiché ignoravano deliberatamente sia la loro natura superflua sia la nocività dei prodotti del lavoro, per non parlare della socializzazione impossibile di molte attività industriali.

 

Ieri, nella fase eroica della classe, gli operai avevano indetto scioperi "sociali", rifiutandosi di cucinare cibo avariato, di costruire case con materiali inadatti, di fabbricare prodotti nocivi per la salute, di adulterare bevande, eccetera. Oggi, invece, il lavoratore non si chiede l'utilità sociale del lavoro che svolge ed è indifferente all'essenza del prodotto che contribuisce a fabbricare. Per quanto danno causi, la questione non sembra toccarlo. Molto probabilmente si aggrapperà al suo lavoro e al suo statuto contro gli ambientalisti, i fautori della conservazione, i neo-rurali e gli attivisti anti-sviluppo. Salvo poche eccezioni, il proletariato, mansueto o contestatore, ha sempre creduto nel progresso e nel ruolo liberatore della scienza e della tecnica, e quando la crisi ecologica, la crescente disuguaglianza e la digitalizzazione globale hanno delegittimato questa convinzione, rivelando un mondo senza radici e non autogestibile, il risultato è stato un ripiegamento sugli interessi quotidiani immediati.

Tuttavia, che piaccia o no, con l'avanzare della distruzione ambientale, la difesa unilaterale dell'occupazione entrerà sempre più in conflitto con la difesa della terra e della specie. La maggior parte dei sindacalisti si arrocca sulla prima opzione, mentre gli ecologisti professionisti e le piattaforme leggere cercano di conciliare la seconda con lo sviluppo verde e statalista. Tuttavia, gli attacchi al territorio e i colpi al "tenore di vita" della popolazione continueranno a crescere, parallelamente all'impatto sugli agglomerati urbani, sulle aree residenziali e sulle infrastrutture di ogni genere. La dinamica capitalista è essenzialmente distruttiva e non esistono veri palliativi per attenuarne gli effetti. Giunti a questo punto, gli anarcosindacalisti devono ripensare a fondo la loro concezione, la loro tattica e i loro obiettivi finali.

Le condizioni dei lavoratori di oggi non sono più le stesse che esistevano all'inizio del ventesimo secolo, né è lo stesso il loro desiderio di vivere dando le spalle allo Stato. Non sono più i tempi del Congresso di Amiens o di quello della Comédie. Non esiste un ambiente operaio chiuso in se stesso, con le sue regole e i suoi costumi. Le relazioni di mercato si sono imposte nella vita quotidiana dei lavoratori, distruggendo la socialità del loro mondo e oscurando in parte la loro coscienza di classe. La loro voce è stata in sostanza sequestrata da professionisti della rappresentazione fasulla. D'altro canto, anche se si sviluppassero enormemente, è poco probabile che i sindacati siano in grado di sbarazzarsi del capitalismo e di assicurare lo sviluppo della rivoluzione. Il relativo isolamento nazionale di prima della guerra ha lasciato il posto a un'interdipendenza mondiale davvero sorprendente. Una rivoluzione sindacalista non durerebbe più di qualche giorno in un singolo paese. Se, però, il regime capitalista non è lo stesso, non lo è nemmeno lo Stato. In precedenza i meccanismi di controllo sociale non erano così potenti e la paura non era un fattore di addomesticamento così efficace. I sindacalisti non devono affrontare la polizia e i datori di lavoro locali, bensì sofisticate squadre repressive, un imponente apparato di addomesticamento e gruppi di dirigenti transnazionali. Poiché la relazione di forze è così diseguale, le tattiche di lotta tenderanno a essere molto più elaborate; In ogni caso, la priorità oggi non è il ricorso alla violenza, ma la fine di una mentalità rassegnata.

 

Con l'obiettivo di ricostruire la società civile lavoratrice, il più possibile separata dallo Stato – e senza abbandonare la lotta per il benessere di tutti i lavoratori, indipendentemente da sesso, razza o nazionalità – i sindacati d’ispirazione libertaria dovranno rivitalizzare, con qualcosa di più della semplice propaganda, non solo il loro internazionalismo, ma anche il senso di comunità, la tradizione orale e i valori di solidarietà che dominavano nell'era preconsumistica. Per questo, avranno bisogno di una prassi socialista positiva. In linea di principio, cercheranno di risolvere i problemi di approvvigionamento in margine al sistema – allontanarsi il più possibile dal capitalismo –, per cui dovranno prestare maggiore attenzione alle reti di scambio, alla tecnologia alternativa, alle cliniche gratuite, all'istruzione in libertà, agli orti collettivi e alle cooperative. Dovranno collegarsi con ciò che resta della classe contadina indipendente e contribuire a contrastare l'estrattivismo. Quanto più il proletariato assicura e demercantilizza la propria sussistenza, tanto minore sarà la sua dipendenza dal capitale e dallo Stato e tanto maggiore sarà la sua libertà di pensare, scegliere le sue armi e selezionare i suoi alleati. Tra le altre cose, dovrà rivedere o chiarire le sue consegne, come per esempio quella dell’autogestione. Ora, essa riguarda innanzitutto la decolonizzazione della vita quotidiana. Dato il carattere superfluo e inutile della maggior parte degli impieghi e la nocività di gran parte dei mezzi di produzione nel tardo capitalismo, l'unica autogestione possibile è quella del loro smantellamento. Il progressismo operaio e lo sviluppo sindacale ereditati dalla borghesia sono finiti. Gli anarcosindacalisti devono prenderne nota. Un altro esempio è lo slogan dell’alloggio per tutti. Abitare era un diritto diventato oggi un calvario. L'attuale condizione proletaria può essere meglio definita dalle complicazioni dell'habitat, di cui sono un riflesso i movimenti per l’abitazione, la lotta contro gli sfratti, le occupazioni agricole, i sindacati di inquilini e i tentativi di stabilirsi in campagna. Gli anarcosindacalisti devono essere lì.

 

Paradossalmente, una delle future missioni del nuovo proletariato, classe urbana per forza o, piuttosto peri-urbana, sarà quella di riequilibrare il territorio smantellando le conurbazioni, attraverso i sindacati radicali o i consigli, le associazioni di produttori, le assemblee di ripopolamento, le comunità contadine e qualsiasi altra forma di autorganizzazione che possa sorgere. Anche se, d'ora in poi, la questione sociale risiede soprattutto nella vita quotidiana e nella difesa del territorio contro gli interessi speculativi e l'amministrazione che li sostiene, le forze difensive, concentrate sul lavoro salariato, sull’abitazione, sulla sanità e sui trasporti, proverranno soprattutto dai centri urbani. In linea di principio, la convergenza tra la lotta per i mezzi di sussistenza propria del sindacalismo, il municipalismo caratteristico dei comunalisti rurali e la lotta contro la catastrofe ambientale tipica dell'antisviluppo, ha trovato la sua espressione sintetica nello slogan dei gilet jaunes francesi: "Fine del mese, fine del mondo". A partire da ciò, tutto o quasi tutto resta da fare.

 

Miguel Amoros

Discorso al 2° Incontro del Libro Anarchico a La Coruña, 24 maggio 2025.



El anarcosindicalismo frente a los malos tiempos

 

“Ha llegado pues el momento de concretar y definir el sindicalismo

 de nuestro tiempo situándolo en la posición exacta que le

corresponde frente a su adversario el capitalismo.”

Pierre Besnard, Los sindicatos obreros y la revolución social, 1930.

 

Cuando finalizalizó la Segunda Guerra Mundial, el anarcosindicalismo era poco menos que una reliquia histórica, testimonio de los mejores días de un proletariado orgulloso y ajeno a la normativa de la sociedad capitalista. Su reaparición en el Estado español durante los pasados años setenta fue consecuencia del desarrollo durante el tardofranquismo de un movimiento obrero autónomo, que se organizaba en asambleas, nombraba delegados con mandato imperativo y empleaba piquetes para informar y defenderse. Ignorando toda la legislación anti-laboral de la dictadura, ejercía sus derechos mediante la acción directa, la ocupación de fábricas, los piquetes de extensión y la huelga salvaje. A pesar de todo, la contraofensiva conjunta del Estado, los partidos políticos y el empresariado logró imponer un nuevo sindicalismo de concertación vertical que heredó tanto las estructuras laboralistas del franquismo, como su función neutralizadora e inmovilista. Precisamente, con el fin de evitar que las centrales burocráticas autodenominadas "mayoritarias", apoyadas por la patronal, acapararan y usurparan la representación de la clase obrera, la mayoría del movimiento asambleario se organizó en sindicatos independientes, parte de los cuales adoptaron las tácticas y los fines de la ideología anarcosindicalista. Las causas del fracaso de esta jugada estratégica habría que buscarlas en el trabajo de zapa de las susodichas centrales, en la reconstrucción fallida de la CNT y, sobre todo, en el propio proletariado.

 

Si bien es cierto que, de acuerdo con una conocida máxima, el pasado dramático del sindicalismo revolucionario se repetiría en el futuro como farsa, no era menos verdad que durante la transición política hacia la partitocracia posfranquista, los trabajadores en su mayoría no aspiraban a un cambio social abrupto, cuyo coste habían ilustrado los muertos de Vitoria, y se conformaban con un mejoramiento inmediato de su situación económica y una asistencia jurídica barata en casos particulares. Reorganizar una CNT en esas condiciones no fue una idea muy brillante. Las fuerzas del viejo régimen y las de recambio supieron aprovechar mejor el momento crítico para reforzar el Estado y estabilizar el capitalismo patrio, saboteando la menor iniciativa independiente del proletariado. Fueron los años de los Pactos de la Moncloa, del incendio del Scala y del Estatuto de los Trabajadores. En la práctica, los obreros renunciaban no solo a gestionar los cambios político-sociales que se estaban produciendo, sino a celebrar asambleas libres para discutir sus convenios y elegir a sus representantes. Los escasos comités de empresa, comisiones representativas y consejos de fábrica que existían no lograron consolidarse, ni los sindicatos que propiciaron, extenderse. Con una actitud pasiva difícil de comprender, la clase obrera de la transición, cansada e invertebrada, presionada por el paro y los despidos, ni siquiera se mantuvo a la defensiva. Los reducidos núcleos anarcosindicalistas supervivientes se vieron forzados a centrarse en la defensa del trabajo dentro de un mercado laboral endurecido. Era el fin de la utopía y la epifanía de la apodada “democracia.” El principio básico del anarcosindicalismo según el cual los sindicatos constituirían el principal instrumento de la revolución y de la emancipación integral de la clase, la herramienta orgánica con la que se evitaría una dictadura de partido -y un Estado-, el órgano con el se construiría una sociedad comunista libertaria, quedaba en suspenso. A estos factores coyunturales se sumaban otros, de índole estructural.

 

El capitalismo nacional salió de la crisis provocada por el encarecimiento del petróleo y las huelgas, apuntándose a un proceso de reestructuración y reconversión industrial que condujo al cierre de muchas fábricas. La “modernización” de los años ochenta no era más que la adaptación de la economía española al mercado capitalista europeo, y consistía básicamente en la expulsión de la fuerza de trabajo del proceso productivo y su desplazamiento hacia el empleo improductivo. En menos de una década, el proletariado industrial perdió casi todo su peso en la economía, en provecho de los asalariados de la construcción, el transporte, la agroalimentación, las finanzas, el comercio, el turismo y la función pública, sectores mucho menos organizados y combativos, poco igualitaristas y escasamente atraídos por la autonomía. Las limitaciones extremas del derecho a la huelga y la prohibición expresa de otras modalidades de lucha antaño corrientes pudieron establecerse sin problemas. Las ideas dominantes en los medios obreros sufrieron una regresión completa. El sentimiento de pertenencia a una clase se diluyó muy rápidamente al calor de una coyuntura compleja y difícil. La desaparición de las huelgas por solidaridad sería una señal de mal tiempo. Durante los ochenta, todos los sindicatos se centraron en la defensa del puesto de trabajo, en el mantenimiento del poder adquisitivo y en la afiliación de empleados y funcionarios. El Estado, inmerso en un proceso de crecimiento sin precedentes, fue requerido por las partes como mediador entre capital y trabajo, gran creador de empleos y regulador del mercado. La ocupación generada por el boom turístico e inmobiliario, la expansión de la clientela política y la liberación de los activos de las Cajas de Ahorros, popularizaron los hábitos burgueses consumistas entre las masas asalariadas. La familia tradicional se descompuso, el tejido social se deshizo inexorablemente y cada cual se desvinculó del pasado para sumergirse enteramente en una vida privada mercantilizada: donde antes hubo conciencia de clase, ahora no había más que mentalidad de clase media, satisfecha, individualista y dependiente. A eso se le llamó “estado del bienestar.”

 

Durante los años noventa, en plena globalización financiera, la ilusión de estabilidad y bonanza prolongada que provocaron el crédito abundante y la facilidad de hipotecarse posibilitó un conformismo entre los asalariados mayor que el que pudo lograr por la fuerza la dictadura de Franco. A la vez que finalizaba la "transición económica", el Estado retrocedía ante los mercados mundiales y abandonaba su función mediadora, a pesar de los ruegos de las clases medias asalariadas y de los aparatos sindicales  institucionalizados. El sindicalismo alternativo empezó a preocuparse más por quienes se encontraban en una posición social más débil, sin capacidad para ejercer sus propios derechos, a saber, las mujeres, los parados, los presos, los trabajadores poco cualificados (habitualmente precarios), los "sin techo" y la superexplotada mano de obra inmigrante. Por desgracia, la defensa sindical de los excluidos era un fenómeno marginal. Aquellos colectivos distaban mucho de conformar un sujeto político común y desempeñar un papel activo importante. Por otra parte, hacía tiempo que el sindicato había dejado de ser la punta de lanza de un movimiento obrero en plena desbandada. El foco de la lucha no radicaba ya en los lugares de trabajo, ni la meta liberadora apuntaba a la autogestión de los mismos. La autogestión de la producción no cambiaba su naturaleza perniciosa, ni alteraba sus fundamentos capitalistas. Las profesiones y los oficios estaban tan deteriorados que ya nadie en su juicio amaba su trabajo, y menos aún el lugar donde trabajaba. El trabajo era una condena, el precio de la supervivencia que el régimen capitalista imponía a la mayoría de los mortales. La idea de la expropiación de los medios de producción ya no levantaba pasiones. Los problemas inmediatos eran tan acuciantes que no dejaban sitio a otros objetivos a más largo plazo. Con mayor razón, la noción de una revolución llevada a cabo por los sindicatos había pasado a la historia. En la era de la automatización de la producción y buena parte de los servicios, del auge de las asustadizas clases medias, de los empleos innecesarios, del endeudamiento y de las huelgas por procuración, el arma fundamental del anarcosindicalismo, la huelga general, ya no podía paralizar el sistema. En otro orden de cosas, la victoria del capitalismo informatizado había generalizado tanto el trabajo-basura que obligaba a los sindicalistas en conjunto a reivindicar su “dignificación”, a demandar un empleo “de calidad”, divinizando de paso a una clase obrera celeste, incapaz de cuestionarlo y abolirse. Pero, las centrales libertarias, y las otras, al restringir su ámbito de actuación al mundillo laboral, cometían múltiples contradicciones.

 

Las consecuencias nefastas del desarrollismo no se acababan con los empleos de mierda. El crecimiento infinito acarreó la explotación intensiva de la naturaleza más insensata. De resultas, la economía tropezó no solo con la barrera de los recursos naturales limitados, principalmente energéticos, sino con el deterioro de la vida en el planeta. Al dispararse los costes de las materias primas y ponerse en peligro la supervivencia de la especie, el capital serraba la rama del árbol en la que se sentaba. Su reproducción volvíase cada vez más difícil, lo cual auguraba una crisis de otro tipo, la ecológica, destinada por sus implicaciones a ocupar el centro de la cuestión social. Y como todas las crisis, iba a ser utilizada por el capital en provecho de su ampliación. Bajo una óptica capitalista, el desastre puede ser una fuente de beneficios, la principal si cabe. Para los dirigentes no negacionistas, es decir, para los catastrofistas, el nuevo capitalismo tenía que ser verde, descarbonizado y eléctrico, o no sería. Con la puesta en marcha de nuevas tecnologías sería suficiente. Deseando insertarse en tal remodelación, los ecologistas relativos hicieron cola en los despachos. Las estrategias "duales" tienen esos efectos. La gran crisis de 2008 restauró el papel del Estado en la economía financiarizada, lo cual aceleró el lavado de cara ecológico del capitalismo y estableció las pautas de un nuevo desarrollo tecnoeconómico “sostenible.” El eje de la lucha anticapitalista -no la lucha misma- se trasladaba al territorio. Por la fuerza de las cosas, los círculos de resistencia obrera se veían abocados a posicionarse frente a problemas como la contaminación, la pérdida de biodiversidad, el cambio climático (y como corolario, el uso de combustíbles fósiles), la motorización, la acumulación de residuos y, en general, las incesantes agresiones al medio ambiente causadas por el agronegocio, las "renovables" industriales, la urbanización galopante y la contrucción de macroinfraestructuras. Si se limitaban a la defensa de los empleos, los obreros se situaban en el mismo frente que los capitalistas, puesto que deliberadamente ignoraban tanto su carácter prescindible, como la nocividad de los productos del trabajo, por no hablar de la socialización imposible de muchas actividades industriales.

 

Antaño, en la fase heroica de la clase, los trabajadores habían declarado huelgas “sociales”, negándose a cocinar comida en mal estado, a construir casas con materiales inadecuados, a fabricar productos perjudiciales para la salud, a adulterar bebidas, etc. En cambio, hoy, el trabajador no se cuestiona la utilidad social del trabajo que realiza y es indiferente a la esencia del producto que contribuye a fabricar. Por más daño que cause, el asunto parece no afectarle. Lo más probable es que se aferre a su labor y su estatus contra ecologistas, conservacionistas, neorrurales y antidesarrollistas. Con pocas excepciones, el proletariado, manso o contestatario, creyó siempre en el progreso y en el papel liberador de la ciencia y la técnica, y cuando la crisis ecológica, el incremento de la desigualdad y la digitalización global deslegitimaron dicha creencia revelando un mundo desarraigado, no autogestionable, el resultado fue un repliegue sobre sus intereses cotidianos inmediatos. Pero se quiera o no se quiera, a medida que progrese la destrucción ambiental, la defensa unilateral del empleo entrará cada vez más en conflicto con la defensa de la tierra y de la especie. La mayoría de los sindicalistas se enrocan en la primera, mientras que los ecologistas profesionales y las plataformas light tratan de conciliar la segunda con el desarrollismo verde y estatalista. Con todo, las agresiones al territorio y los golpes al “nivel de vida” de la población no pararán de crecer en paralelo a las conurbaciones, zonas residenciales e infraestructuras de toda clase. La dinámica capitalista es esencialmente destructiva, y contra ella no existen paliativos reales que aminoren sus efectos. Llegados a este punto, los anarcosindicalistas han de replantearse a fondo su ideario, su táctica y sus objetivos finales.

 

Los trabajadores de hoy no se encuentran en condiciones como las que imperaban a principios del siglo XX, ni su deseo de vivir de espaldas al Estado es el mismo. No son estos los tiempos del congreso de Amiens o del de la Comedia. No existe un medio obrero cerrado sobre sí mismo, con sus reglas y sus costumbres. Las relaciones de mercado se han impuesto en la vida cotidiana de los obreros, acabando con la sociabilidad de su mundo y oscureciendo su conciencia de clase aparte. Su voz ha sido prácticamente secuestrada por profesionales de la representación espuria. Por otro lado, aun en el caso de que se desarrollen un montón, es poco probable que los sindicatos lleguen a estar capacitados para deshacerse del capitalismo y asegurar el desenvolvimiento de la revolución. Al relativo aislamiento nacional de antes de la guerra ha sucedido una interdependencia mundial realmente asombrosa. Una revolución sindicalista no subsistiría en un solo país más que unos pocos días. Pero si el régimen capitalista no es el mismo, tampoco lo es el Estado. Los mecanismos de control social no eran antes tan potentes, ni el miedo era un factor de domesticación tan eficaz. Los sindicalistas no tienen enfrente a policías de a pie y patronos locales, sino a sofisticados equipos represores, un aparato de domesticación imponente y grupos de ejecutivos transnacionales. Como  la correlación de fuerzas es tan desigual, las tácticas de lucha tendrán que ser mucho más ponderadas; de todas formas, lo prioritario hoy no es el recurso a la violencia, sino el fin de una mentalidad resignada.

 

Con el objetivo de recomponer la sociedad civil trabajadora separada lo más posible del Estado -y sin abandonar la lucha por el bienestar de todos los trabajadores, sin distinción de sexo, raza o nacionalidad- los sindicatos con espíritu libertario habrán de revitalizar con algo más que propaganda no solo su internacionalismo, sino el sentido comunitario, la tradición oral y los valores solidarios que dominaban en la época preconsumista. Para ello necesitarán una praxis socialista positiva. En principio, procurarán resolver los problemas de abastecimiento al margen del sistema -salirse en lo posible del capitalismo-, por lo que habrán de prestar más atención a las redes de intercambio, la tecnología alternativa, las clínicas gratuitas, la enseñanza en libertad, los huertos colectivos y las cooperativas. Deberán tender puentes hacia lo que quede de campesinado independiente y aportar fuerzas contra el extractivismo. Cuando el proletariado mejor garantice y desmercantilice su subsistencia, menor será su dependencia del capital y el Estado, y mayor grado de libertad tendrá a la hora de pensar, escoger sus armas y elegir sus aliados. Entre otras cosas, habrá de revisar o precisar sus consignas, como por ejemplo la de autogestión. Hoy por hoy, esta concierne ante todo a la descolonización de la vida cotidiana. Dado el carácter superfluo e inútil de la mayoría de los empleos y la nocividad de una gran parte de los medios de producción en el capitalismo tardío, la única autogestión posible es la de su desmantelamiento. Se acabaron el progresismo obrero y el desarrollismo sindical, herencia de la burguesía. Los anarcosindicalistas han de tomar nota de ello. Otro ejemplo es el eslogan de la vivienda para todos. Habitar era un derecho convertido hoy en calvario. La condición proletaria actual puede definirse mejor por las complicaciones del hábitat, reflejo de las cuales son los movimientos pro vivienda, la lucha contra los desahucios, las ocupaciones de fincas, los sindicatos de inquilinos y los conatos de instalación en el  campo. Los anarcosindicalistas han de estar ahí.

 

Paradójicamente, una de las misiones futuras del nuevo proletariado, clase urbana a la fuerza, o más bien periurbana, será la de equilibrar el territorio desmontando las conurbaciones, bien a través de los sindicatos radicales o de los consejos, las asociaciones de productores, las asambleas de repobladores, las comunidades campesinas y cualquier otra forma de auto-organización que se presente. Aunque de ahora en adelante la cuestión social resida sobre todo en la vida cotidiana y la defensa del territorio contra los intereses especulativos y la administración que los apoya, las huestes defensoras, centradas en el trabajo asalariado, la vivienda, la salud y el transporte, provendrán en su mayoría de las aglomeraciones urbanas. En principio la confluencia entre la lucha por el sustento propia del sindicalismo, el municipalismo característico de los comunalistas rurales, y el combate contra la catástrofe ambiental, típica del antidesarrollismo, ha encontrado su expresión sintética en el slogan de los Chalecos Amarillos: “fin de mes, fin del mundo.” A partir de ahí, todo o casi todo está por hacer.

 

Miguel Amorós

Charla en el 2º Encuentro del libro anarquista de La Coruña, el 24 de mayo de 2025.