I privatizzatori di Stato articolo di Mario Agostinelli sul Fatto del 2-8-11
Sembrava ovvio ai 27 milioni di italiani che, con una maggioranza impressionante di sì, hanno votato ai referendum di giugno, che la stagione delle privatizzazioni dei servizi pubblici dovesse subire un’inversione di rotta. In fondo, che ci si debba sottrarre alla trappola per cui i mercati hanno la chiave del finanziamento dei diritti dei cittadini, a partire da acqua e energia, è il monito che ci viene da una crisi che ha visto dilapidare tutte le risorse disponibili a vantaggio degli speculatori, degli stipendi impinguati dei manager, dei profitti delle banche. Nella crisi sono peggiorate le condizioni di vita popolari, si è deteriorato l’ambiente, si sono svalorizzati i beni comuni. Di conseguenza, l’opinione dei votanti del 12-13 giugno dovrebbe essere obbligatoriamente tradotta in un impegno degli enti locali e delle loro aziende municipalizzate per rendere al più presto operativi una gestione e un controllo pubblico dei servizi fondamentali per i cittadini.Questo è il segnale mandato dalla Giunta comunale di Napoli e dalla Regione Puglia, che hanno fatto ben sperare avendo immediatamente assunto provvedimenti in quella direzione. Ma è bastato il trascorrere di qualche settimana per dar fiato a un Pd timoroso di perdere le rendite di posizione dei suoi amministratori nelle società dei servizi quotate in borsa. Anzi, si è assistito alla smania di privatizzazione rilanciata nei “salotti buoni” proprio da manager pubblici, paradossalmente nominati nelle loro funzioni per frenare l’assalto dei privati.
Così Gian Maria Gros-Pietro, frequentatore da decenni di tutti i consigli di amministrazione delle società ed enti pubblici in odore di privatizzazione (Iri, Eni, Autostrade) e da sempre lautamente messo sul conto di Pantalone con stipendi sconosciuti perfino alla casta politica, ha pontificato su Affari & Finanza (La Repubblica, 18 luglio) sulla necessità di mettere sul mercato sia le aziende pubbliche compartecipate dallo Stato Italiano (Poste, Ferrovie, Fincantieri, Finmeccanica, Enel), dopo aver caricato sui contribuenti il loro risanamento per aumentarne l’appetibilità (Alitalia insegna), sia soprattutto le aziende in capo agli Enti Locali. Lì, a suo dire, ci sarebbe “la ciccia” o, per dirla con le sue parole, occorrerebbe “liberalizzare i cespiti con determinazione ed energia per fare business”. Un business che, ovviamente – e Gros-Pietro lo sa – fa gola in particolare proprio ai patrimoni che dalla manovra di Tremonti vengono esentati.
La partita di giro è micidiale: i soldi non versati al fisco servirebbero per diventare proprietari di quote oggi pubbliche e domani per essere remunerati con profitto dalle tariffe pagate dai cittadini, che invece le tasse le pagano per intero. Oltretutto, con l’onta della mistificazione, il regalo così ricevuto per decisione politica verrebbe spacciato per un contributo al risanamento del deficit pubblico, utilizzando l’indebitamento pubblico come una leva per togliere ai cittadini il diritto a servizi partecipati e controllati. E per consegnare l’economia dei beni comuni ai rentier e alle banche che hanno provocato la crisi.
Non si pensi solo all’acqua, ma anche all’energia, un campo in cui un’indispensabile politica industriale di riconversione verso le rinnovabili gestita dal pubblico verrebbe sostituita dal rilancio dei grandi impianti finanziati dai privati e dalle multinazionali. Si veda per esempio l’interessamento francese per A2A, la più importante municipalizzata lombarda, purtroppo sempre più lontana dalla cura del territorio dove sono concentrati gli interessi degli abitanti e sempre più piegata alle pretese di un Consiglio di Amministrazione “stile Gros-Pietro” che non si è nemmeno accorto che a Milano abbia soffiato il vento di Pisapia e dei referendum.
Purtroppo, nonostante la “primavera italiana” e il pronunciamento della maggioranza dei cittadini, la logica neoliberista è ancora l’unica a essere riconosciuta come legittima dalla partitocrazia e dai grand commis che le ruotano attorno. Quando ce ne accorgeremo appieno e pretenderemo i diritti che le ultime scadenze elettorali ci hanno riconosciuto?
Commento all’articolo di Sergio Ghirardi:
Questo articolo tocca effettivamente il nodo del rapporto di potere tra i gestori della democrazia spettacolare e i cittadini spettatori formalmente sovrani e concretamente turlupinati a oltranza.
L’abrogazione della democrazia spettacolare sarà opera di chi la subisce o non sarà.
I destrosinistri che si ingrassano alla greppia del capitalismo planetario variano litania ma difendono l’essenziale: produttivismo e privatizzazioni sono le due mammelle dell’economicismo impazzito.
Los indignados sono solo l’inizio ma non basta.
Bisogna spazzare via questa feccia non con atti di rabbia estemporanea, ma riprendendo in mano i propri diritti e innanzitutto quello di una sovranità reale in una democrazia reale, gestita dunque direttamente da tutti in modo consiliare. Ogni altro opporsi che non denunci lo spettacolo di una politica asservita al business lascia intatto il potere decisionale di burocrati e cortigiani, proprio come fu nell’ancien régime finché non si è spazzata via la monarchia instaurando una repubblica.
Oggi siamo al passo successivo e a un livello planetario: dalla repubblica borghese si tratta di passare all’autogestione generalizzata della vita quotidiana.
Non abbiate paura dell’utopia: è più concreta e meno pericolosa del vostro continuare ottuso verso il precipizio che si profila ormai evidente all’orizzonte.
Liberiamoci dei nostri stupidi oppressori e inventiamo concretamebnte insieme l’alternativa. Le idee non mancano e niente di peggio che continuare così può capitare.