domenica 25 settembre 2011
lo stato non siamo noi... lo stato sono loro!
In Italia abbiamo fatto ricorso a questa illusione del funzionamento della magistratura per la disperazione di avere una collezione unica al mondo di lestofanti addirittura al governo e nelle istituzioni.
Però la realtà è che la Magistratura fa parte della vergogna sostanziale proprio perché esiste per applicare la legge e la legge è la gabbia con cui il sistema ci tiene prigionieri, a spese nostre.
Inoltre non si è mai visto uno stato davvero democratico o una legge davvero giusta e questo a causa della loro stessa origine e missione di fondo: obbligare gli "ultimi" a servire i pochi che si arrogano ogni diritto e ogni privilegio, facendosi innanzi a requisire tutto per se stessi a cominciare dalla Natura che è là da sempre al servizio di tutti i viventi ma a suon di legge è stata frantumata per poter essere iscritta nei registri della proprietà.
E per tenere a bada i poveri che pretendono di mangiare ogni giorno anche se non hanno un quattrino occorreva la legge! E lo stato per imporla!
L'acqua è un bene comune, certo... ma la terra lo sarebbe di meno?
Quindi mi dispiace darvi la ferale notizia: lo stato non siamo noi... lo stato sono loro! Quelli che ci sfruttano e ci ingannano e ci puniscono proprio brandendo la Legge, e in prima fila ci sono anche i magistrati che, come i poliziotti, o come i guardiani, per l'effetto della "banalità del male" compiono i propri misfatti convinti (?) di fare " solo il proprio dovere"
Chiunque abbia subito una carcerazione o anche solo una perquisizione o una carica di polizia lo sa.
Senza un vero cambio di prospettiva, se non ci riprendiamo OGNI possibile giudizio e responsabilità sulla realtà in prima persona, questo non avrà mai fine, anzi potrà solo peggiorare.
Lo stato non è più niente, noi possiamo essere tutto!
sabato 24 settembre 2011
il governo di nessuno
"Oggi,
e cioè dopo l'invenzione della bomba atomica, dietro i pregiudizi della
politica si celano la paura che l'umanità possa autoeliminarsi mediante la
politica e gli strumenti di violenza di cui dispone, e, in stretta connessione
con tale paura, la speranza che l'umanità si ravveda e anziché se stessa, tolga
di mezzo la politica, ricorrendo a un
governo universale che dissolva lo stato in una macchina amministrativa,
risolva i conflitti politici per via burocratica e sostituisca gli eserciti con
schiere di poliziotti. Certo tale speranza è del tutto utopica se per politica
si intende, come normalmente avviene, una relazione tra governanti e governati.
In questa ottica, invece di un'abolizione del politico otterremmo una forma
dispotica di governo di dimensioni mostruose, in cui lo iato tra governanti e
governati assumerebbe proporzioni così gigantesche da impedire qualunque
ribellione, e tanto più qualunque forma di controllo dei governanti da parte
dei governati. Tale carattere dispotico non cambierebbe neppure qualora in quel
regime mondiale non si potesse più individuare una persona, un despota; infatti
il dominio burocratico, il dominio mediante l'anonimità degli uffici, non è
meno dispotico perchè "nessuno" lo esercita; al contrario: forse è
ancora più terribile, poiché nessuno può parlare o presentare reclamo a quel
Nessuno. Se però per politico si intende una sfera del mondo dove gli uomini si
presentano primariamente come soggetti attivi, e dove conferiscono alla umane
faccende una stabilità che altrimenti non le riguarderebbe, la speranza appare
tutt'altro che utopica. L'eliminazione degli uomini in quanto soggetti attivi è
riuscita spesso nella storia, sebbene non a livello mondiale: sia sotto forma
di quella tirannide che oggi ci sembra antiquata, dove la volontà di un uomo
pretendeva totale libertà di azione, sia sotto forma del moderno totalitarismo,
dove si vorrebbe liberare la presunta superiorità dei processi e delle "
energie storiche" impersonali e sottomettervi gli uomini. ...............
Ma
quello che oggi è il momento cruciale del corrente pregiudizio nei confronti
della politica, e cioè la fuga nell'impotenza, il disperato desiderio di essere
esentati dalla facoltà di agire, all'epoca era ancora pregiudizio e privilegio
di un ceto ristretto, convinto, come Lord Acton, che il potere corrompa e il
possesso del potere assoluto corrompa in modo assoluto. Nessuno meglio di
Nietzsche, nel suo tentativo di riabilitare il potere, si è reso chiaramente
conto che tale condanna del potere doveva corrispondere in pieno ai desideri
ancora inarticolati delle masse; per quanto anche lui, fedele allo spirito del
tempo, confondesse o meglio identificasse il potere, che un singolo non può mai
avere poiché nasce solo dal comune agire di molti, con la violenza, di cui il
singolo può senz'altro impossessarsi."
Hannah Arendt
martedì 20 settembre 2011
Undici tesi sulla società dello spettacolo
1
La critica è per ogni
teoria l’unica verifica storica della sua qualità e mi chiedo se l’autore de La Società dello spettacolo non fosse
più debordista di quanto sia stato marxista Marx quando affermava di non
esserlo.
Probabilmente un po’ di
più, suvvia, poiché il narcisismo assai poco autoironico del Panegirico con cui Guy Debord ha scritto
la parola fine sulla sua generosa avventura di vita non conferma in maniera eclatante
il trionfo dell’intelligenza sensibile sulla volontà di potenza. Ciononostante,
quelli che hanno passato una vita a mangiare del Debord per sputarlo poi con
una foga ben più passionale che appassionante, sono mal piazzati per declamare
al mondo la vacuità dell’ex-maestro situazionista da loro reietto e la sua
assoluta incompetenza.
Che coraggio, del resto,
nel trattare ossessivamente da alcolizzato un morto che da vivo si stupiva del
fatto che i suoi molteplici nemici non denunciassero con maggior risonanza il
tasso alcolico delle sue pratiche!
2
Lo spettacolo non è che
l’involucro del redditizio, ma un involucro necessario alla gestione del potere
sociale del feticismo della merce durante la fase del dominio reale del
Capitale sul lavoro astratto e sui lavoratori concreti (disoccupati, spettatori
e turisti inclusi beninteso).
Lo spettacolo è la
religione profana di una materialità asservita al mercantilismo. Si presenta
come una propaganda dell’esistente, ma la realtà non è tutta spettacolo e tutto
lo spettacolo non è soltanto propaganda. Esso si deposita nella struttura
caratteriale dei soggetti come una voluttà artificiale avvolta nel cellofan
della sopravvivenza. Inquinando la creatività e i desideri reali dei soggetti, esso
è capace di trasformare ogni potenzialità umana incompiuta in una disumanità
riuscita.
3
Unificando il coacervo
dei desideri di godimento in un godimento fittizio, monomaniaco e redditizio,
lo spettacolo svia la parte di perversione spontanea, giocosa e naturale
trasmutandola in perversione guidata e coatta. Per il suo tramite si compie
l’invasione intima e sociale del feticismo della merce.
Lo spettacolo è il rapporto
sociale concreto risultante da un metodo scientifico di propaganda politica
derivata per mimetismo dalla pubblicità della merce. Esso è la forma precisa della
passività prodotta dalla propaganda del potere dominante all’epoca della
materializzazione dell’ideologia.
4
Quella servitù
volontaria che La Boétie denunciava già qualche secolo fa come una
manifestazione spontanea della stupidità superstiziosa di molti dei suoi
contemporanei, aggredisce ormai tutti gli odierni sopravvissuti grazie a una
pedagogia che lo spettacolo diffonde avvalendosi di mezzi tecnici praticamente
illimitati.
Lo spettacolo è la
propaganda dell’esistente in quanto volontà servile inculcata negli schiavi
attraverso la rappresentazione di una felicità miserabile infiltrata per
effrazione, essenzialmente mass-mediatica, nel loro universo immaginario. Una
tale rappresentazione è la messa in scena ripetuta del superamento magico e illusorio
della noia di sopravvivenza travestita da «dépense»
edonista e manifestazione di potenza.
Il concetto di
spettacolo risulta essenziale per capire la fase terminale del capitalismo,
anche se quest’ultimo non ha certo atteso lo spettacolo per mettere in scena il
suo grado radicale di sfruttamento e di alienazione.
5
Il pensiero profano,
descritto e definito come amore della conoscenza, è nato nel solco di una
società mercantile alla quale la filosofia ha sempre dovuto mostrare un
rispetto più o meno cosciente.
Ci si avvicina qui alla
preistoria dello spettacolo, poiché la filosofia, ancilla theologiae, non si è mai interamente sottratta
all’infiltrazione del pensiero religioso, universo dogmatico classico in cui
affondano le radici dello spettacolo.
6
Essendosi affermato
attraverso la laicizzazione ideologica delle società mercantili, il capitalismo
ha dovuto attendere la società dello spettacolo per osare presentare la sua
essenza - la valorizzazione economica - come il dio grottesco di un’ultima religione.
La separazione del corpo
e dello spirito che le religioni hanno sempre promesso di superare (re-ligo =
riunisco quel che è separato) per meglio conservare, in realtà, il potere
temporale derivato da questa separazione, domina il mondo da quando è apparso
il lavoro, da quando il produttivismo è nato insieme alla proprietà privata e
l’economia si è tramutata in economia politica.
7
In seguito alla
rivoluzione industriale e borghese, sotto la spinta di diritti dell’uomo che
nascondevano assai maldestramente i diritti trionfanti della merce, il pensiero
moderno osò attaccare l’arcaismo dell’alienazione religiosa senza preoccuparsi
dell’inquietante conseguenza che si finiva in tal modo per favorire lo sviluppo
dell’alienazione economica.
Il pensiero dialettico
aprì una breccia importante nella continuità storica del potere
dell’alienazione sociale, tuttavia, essendo il capitalismo assolutamente
onnivoro, né Hegel né Marx hanno potuto sfuggire totalmente ai recuperi e ai
danni provocati da questo modo di produzione cannibale.
Tutto quel che è reale è
razionale, ma tutto quel che è razionale non è, invece, sempre reale. Questo è
il limite insuperabile di ogni idealismo. Questo è anche lo zoccolo duro che
unisce tutti coloro che s’impegnano per rimettere l’uomo sui propri piedi
affinché possa finalmente godere di essere al mondo come desidera e merita.
Purtroppo il
materialismo non ha mai saputo essere abbastanza storico e sufficientemente dialettico
per non produrre anch’esso una struttura caratteriale autoritaria e fascista.
Una tale corazza
orgasticamente ingorgata ha educato i cittadini di un popolo spettacolarmente
sovrano alla rimozione sistematica, contribuendo all’avvento della società
dello spettacolo, fase terminale dell’alienazione di un’epoca marcata dal
trionfo degradante di un modo di produzione autonomizzatosi dall’uomo che l’ha
creato.
8
In nome del comunismo,
lo spettacolo ha fatto irruzione - in modo concentrato - nell’immaginario
confiscato dei militanti stakanovisti di un capitalismo di Stato falsamente
opposto alla società mercantile, a sua volta in via di spettacolarizzazione
diffusa.
L’opposizione
d’ideologie fasciste nere, brune o rosse, conflittuali e becere ma omogenee e
funzionali alla società produttivista, ha costituito il brodo di coltura da cui
è scaturita la società dello spettacolo. Questa si è presentata come un
progresso collettivo e come l’incarnazione di una speranza umanitaria oltre e
contro tutti gli orrori vissuti. Questa speranza spettacolare si è fatta carico
di tutta la volontà di emancipazione riducendola a un meccanismo redditizio in
un momento in cui la materialità dei bisogni accumulati rendeva i desideri
particolarmente ottusi e primari. Cancellando la complessità creativa di esseri
veramente liberi e facendo leva sul trauma di uomini appena restituiti a un
minimo vitale di sopravvivenza, la società dello spettacolo ha fatto di una
libertà da schiavi la sua insegna pubblicitaria. Non è certo un caso se la
nuova Costituzione di un paese che stava appunto uscendo dall’incubo fascista,
come l’Italia del 1946, ha scelto come suo fondamento rivendicato e consensualmente
proclamato : “L’Italia è una repubblica
fondata sul lavoro”. Un anno prima, gli internati di Auschwitz erano ancora
accolti al loro arrivo dall’orribile spot pubblicitario inneggiante al lavoro che rende liberi!
9
La società dello
spettacolo secerne senza sosta e senza scrupoli tra i fattori ideologici quelli
che privilegiano sempre la redditività e l’addomesticamento che la favorisce.
Essa non include certamente tutto il mondo reale, ma rappresenta la materialità
virtuale di un dominio reale del Capitale sugli esseri umani della nostra epoca
infelice.
Da quando lo spettacolo
ha realizzato l’amalgama delle sue due forme originarie (spettacolo concentrato e spettacolo
diffuso) nella sintesi planetaria di un unico spettacolo integrato, i computers e altre diavolerie
nanotecnologiche non hanno fatto altro che registrare questa integrazione,
regolando a posteriori una virtualità dell’umano (la sua obsolescenza)
intrinseca alla società dei consumi sorta come una weltanschauung (o come uno
spot pubblicitario, se si preferisce) dalle rovine divenute radioattive della
seconda guerra mondiale.
10
La colonizzazione
dell’immaginario da parte dello spettacolo è oggi lo stadio finale
dell’imperialismo della merce e della diffusione capillare del suo feticismo.
Il territorio psicogeografico dell’individuo sociale è l’ultima terra incognita
in via di colonizzazione da parte del capitalismo planetario. La realizzazione
di quest’ultima colonizzazione redditizia si mostra come il compito specifico
dello spettacolo.
Su questo territorio si
giocano e si giocheranno le battaglie decisive per l’emancipazione dell’uomo o
per la sua definitiva sparizione in quanto essere umano.
La produzione di falsa
coscienza delegata da mezzo secolo ai pedagoghi spettacolari (ognuno nel suo
ruolo mercenario, filosofi, giornalisti, sociologi, psicologi, spin doctors,
militari, burocrati, gendarmi, giudici, guru, stars del show-business, sportivi
e terroristi veri o presunti, sono tutti invischiati nel reality show
quotidiano patetico e perverso dove imperversano quei mendicanti del potere che
sono gli uomini politici, sinistre alternative incluse) ha per obiettivo di
cortocircuitare ogni autonomia di giudizio e d’azione degli individui sociali
all’interno di un mondo reale in cui la coscienza soggettiva è manipolata e
filtrata senza interruzione.
11
Ci stiamo avvicinando
sempre più all’inondazione o all’ineluttabile «incidente» nucleare che spazzerà
via la vita al suo passaggio, come uno tsunami. E come uno tsunami della
coscienza, la realtà non spettacolare, orgastica e solidale degli esseri umani
rischia di riapparire in una lotta finale per rovesciare la prospettiva del
mondo.
Non è che una scommessa,
magari folle, del resto, agli occhi di coloro che, innumerevoli e maggioritari,
hanno come unica rigida follia la normalità contemplativa e il consumo
vampiresco della propria vita assente. Una scommessa vitale, però, perché non
abbiamo più la scelta né il tempo per dei compromessi opportunistici o per
riformismi redditizi, ora che anche la natura si è messa a scandire degli
ultimatum indiscutibili.
Le maggioranze
silenziose sono destinate a urlare di dolore e di rabbia sotto la frusta dei
loro guardiani, mentre una democrazia ancora tutta da inventare passerà
attraverso l’azione di minoranze coscienti della fine di una civiltà.
L’emancipazione dei
lavoratori del proletariato assoluto che sopravvive nell’universo
concentrazionario della società spettacolare mercantile non può più farsi
illusioni. L’umanità incompiuta dell’uomo non ha che da perdere le proprie
catene spettacolari per reinventare un mondo di godimenti diversi e soprattutto
poetici perché materiali e spirituali nello stesso tempo. Una tale costruzione
sarà l’opera dei lavoratori stessi, sbarazzati di ogni coscienza portata
dall’esterno, di ogni avanguardia parassitaria e di ogni illusione di
perfezione e di eternità; oppure non sarà e lo spettacolo scriverà la parola
fine su un campo di rovine. Non abbiamo più scelta: ci siamo finora ridotti a
spettatori del crollo di un mondo. Per sopravvivergli dobbiamo ormai diventare
gli attori dell’abrogazione del mondo dello spettacolo e di tutti i suoi
cortigiani.
Sergio Ghirardi, 20
settembre 2011
martedì 6 settembre 2011
INDIGNATI ANCORA UNO SFORZO… (3)
Questa storia non l’ho pensata
io ma mi sarebbe piaciuto, quindi ve l’ho tradotta.
Sergio
ghirardi
LA CRISI DEGLI ASINI
Un uomo in cravatta arrivò un giorno in un villaggio.
Salito su una cassa, si mise a urlare a chi lo ascoltava che avrebbe
comprato in contanti tutti gli asini disponibili a 100 euro l’uno. I contadini
lo travarono piuttosto strano ma il suo prezzo era assai interessante e quelli
che ci stavano ripartivano col portafoglio gonfio e la faccia sorridente. Ritornato l’indomani, offrì stavolta 150 euro
per asino e di nuovo gli abitanti gli vendettero in gran numero le loro bestie.
Il giorno seguente offrì 300 euro e quelli che non l’avevano ancora fatto gli
vendettero gli ultimi asini rimasti.
Preso atto che non ce n’erano più, fece sapere che sarebbe tornato uina
settimana dopo per comprarli a 500 euro l’uno e se ne andò dal villaggio.
Il giorno seguente affidò al suo socio il branco appena comprato e lo
spedi in quello stesso villaggio con l’ordine di rivendere le bestie a 400 euro
ciascuna.
Di fronte alla possibilità di guadagnare 100 euro la settimana seguente
tutti gli abitanti del villaggio ricomprarono il loro asino a un prezzo quattro
volte più caro di quanto lo avevano venduto e per poterci riuscire tutti fecero
dei prestiti.
Com’era da aspettarselo i due uomini d’affari partirono allora per delle
vacanze ben meritate in un paradiso fiscale e tutti gli abitanti del villaggio
si ritrovarono con degli asini senza valore, indebitati fino al collo e rovinati.
I poveretti cercarono inutilmente di rivendere gli asini per rimborsare
il prestito. Il valore stimato dell’asino era crollato. Gli animali furono
confiscati, poi affittati ai loro precedenti proprietari dal banchiere. Il
quale, tuttavia se ne andò a piagnucolare dal sindaco, spiegando che se non
rientrava nei suoi investimenti, sarebbe andato in rovina anche lui e avrebbe
dovuto esigere il rimborso immediato di tutti i prestiti accordati al Comune.
Per evitare un tale disastro, il sindaco, anziché dare del denaro agli
abitanti del villaggio affinché saldassero il loro debito, li dette al
banchiere che guarda caso era suo amico intimo e vicesindaco. Ordunque, appena
riportata in equilibrio la sua tesoreria, quest’ultimo non cancellò affatto i
debiti dei cittadini e del Comune, cosicché si ritrovarono tutti prossimi alla
bancarotta.
Vedendo i suoi conti sul punto di esplodere e preso alla gola dai tassi
d’interesse, il Comune chiese l’aiuto
dei Comuni limitrofi che gli risposero di non poterlo affatto aiutare visto che
avevano conosciuto la stessa disgrazia.
Su consiglio avvisato e disinteressato del banchiere, tutti i Comuni optarono
naturalmente per ridurre le spese: meno denaro per le scuole, per i programmi
sociali, per la manutenzione stradale, per la polizia municipale… Si procrastinò
la data dell’età pensionabile, si soppressero dei posti di lavoro comunali, si
abbassarono i salari aumentando al contempo le tasse. Si disse che ciò era
inevitabile, ma si promise di moralizzare quel commercio scandaloso degli
asini.
Questa tristissima storia acquista tutto il suo senso se si aggiunge che
il banchiere e i due truffatori sono fratelli e vivono insieme su un’isola
della Bermuda, comprata col sudore della fronte. Sono chiamati i fratelli
Mercato.
Molto generosamente hanno promesso di finanziare la campagna elettorale
dei sindaci uscenti.
Finora, tuttavia, questa storia non ha una fine perché si ignora ancora
che cosa fecero gli abitanti del villaggio. Che avreste fatto VOI al loro
posto? Che cosa fareste VOI ?
Per ritrovarci tutti sulla piazza del villaggio
Sabato 15 ottobre 2011
GIORNATA INTERNAZIONALE DEGLI INDIGNATI
La crise des ânes
Un homme portant cravate se présenta un jour dans un
village.
Monté sur une caisse, il cria à qui voulait l’entendre
qu’il achèterait cash 100 euros l’unité tous les ânes qu’on lui proposerait.
Les paysans le trouvaient bien peu étrange mais son prix était très intéressant
et ceux qui topaient avec lui repartaient le portefeuille rebondi, la mine
réjouie. Il revint le lendemain et offrit cette fois 150 € par tête, et là
encore une grande partie des habitants lui vendirent leurs bêtes. Les jours
suivants, il offrit 300 € et ceux qui ne l’avaient pas encore fait vendirent
les derniers ânes existants. Constatant qu’il n’en restait plus un seul, il fit
savoir qu’il reviendrait les acheter 500 € dans huit jours et il quitta le
village.
Le lendemain, il confia à son associé le troupeau qu’il
venait d’acheter et l’envoya dans ce même village avec ordre de revendre les bêtes
400 € l’unité. Face à la possibilité de faire un bénéfice de 100 € dès la
semaine suivante, tous les villageois rachetèrent leur âne quatre fois le prix
qu’ils l’avaient vendu et pour ce faire, tous empruntèrent
Comme il fallait s’y attendre, les deux hommes d’affaire
s’en allèrent prendre des vacances méritées dans un paradis fiscal et tous les
villageois se retrouvèrent avec des ânes sans valeur, endettés jusqu’au cou,
ruinés.
Les malheureux tentèrent vainement de les revendre pour
rembourser leur emprunt. Le cours de l’âne s’effondra. Les animaux furent
saisis puis loués à leurs précédents propriétaires par le banquier. Celui-ci
pourtant s’en alla pleurer auprès du maire en expliquant que s’il ne rentrait
pas dans ses fonds, il serait ruiné lui aussi et devrait exiger le
remboursement immédiat de tous les prêts accordés à la commune.
Pour éviter ce désastre, le Maire, au lieu de donner de
l’argent aux habitants du village pour qu’ils paient leurs dettes, le donna au
banquier, ami intime et premier adjoint, soit dit en passant. Or celui-ci,
après avoir rétabli sa trésorerie, ne fit pas pour autant un trait sur les
dettes des villageois ni sur celles de la commune et tous se trouvèrent proches
du surendettement.
Voyant sa note en passe d’être dégradée et pris à la
gorge par les taux d’intérêts, la commune demanda l’aide des communes voisines,
mais ces dernières lui répondirent qu’elles ne pouvaient en aucun cas l’aider
car elles avaient connu les mêmes infortunes.
Sur les conseils avisés et désintéressés du banquier,
toutes décidèrent de réduire leurs dépenses : moins d’argent pour les écoles, pour les programmes
sociaux, la voirie, la police municipale... On repoussa l’âge de départ à la
retraite, on supprima des postes d’employés communaux, on baissa les salaires
et parallèlement on augmenta les impôts. C’était, disait-on, inévitable mais on
promit de moraliser ce scandaleux commerce des ânes.
Cette bien triste histoire prend tout son sel, quand
on sait que le banquier et les deux escrocs sont frères et vivent ensemble sur
une île des Bermudes, achetée à la sueur de leur front. On les appelle les
frères Marchés.
Très généreusement, ils ont promis de subventionner la
campagne électorale des maires sortants.
Cette histoire n’est toutefois pas finie car on ignore ce
que firent les villageois. Et vous, qu’auriez-vous fait à leur place ? Que
ferez-vous ?
Pour nous retrouver tous sur la place du village :
Samedi 15 octobre 2011
(Journée internationale des indignés)
venerdì 2 settembre 2011
Repetita iuvant : Indignati ancora uno sforzo per diventare rivoluzionari!
Il New York Times e Der Spiegel spiegano agli
imprenditori che investire in Italia non conviene a causa della burocrazia. Internazionale
(santi subito!) ha ripubblicato questi due articoli che sono molto
istruttivi. Raccontano cose che ogni italiano sa bene. Ad esempio, che una
pratica elementare come quella relativa alla tassa sui rifiuti può diventare un
incubo burocratico che dura anni.
Il ragionamento di questi giornalisti è semplice: perché investire in un
Paese dove comandano le clientele? Un posto dove per incassare
un credito devi affrontare un procedimento legale che dura almeno 9 anni? Una
strana nazione dove funzionari pubblici e politici possono mettersi di
traverso, attaccarsi a cavilli e bloccare qualunque attività,
grazie a regolamenti capziosi, nebbiosi, disposizioni applicative ondivaghe che
si sovrappongono, si annullano, si nascondono nelle pieghe delle disposizioni
transitorie, degli allegati in specifica, delle informative interpretative…
È ora che noi italiani ci si renda conto che il resto del mondo ci guarda
stupito! La descrizione che gli stranieri fanno della nostra burocrazia e
del nostro sistema di leggi, regolamenti e processi è farsesca e ridicola in
modo umiliante per il mio spirito di patria!
Ed è ora che la sinistra metta al primo posto la battaglia contro la
burocrazia. Lo so
che ci sono tante altre battaglie molto importanti, forse strategicamente più
importanti della lotta contro la burocrazia. Ma in questo momento di crisi
allucinante la burocrazia è un costo che non possiamo
sostenere. E’ la falla che affonda la nave.
Non possiamo usare come moneta l’Euro e stare dentro l’Unione
Europea e contemporaneamente rinunciare ai vantaggi maggiori che
l’Unione Europea ci offre. Facciamo parte di un mercato unico ma restiamo
fuori dagli investimenti degli imprenditori europei. E, grazie
all’inefficienza figlia della burocrazia, mentre continuiamo a pagare le nostre
tasse all’Ue perdiamo miliardi di finanziamenti europei perché
siamo incapaci di gestirli in modo sensato e buona parte dei finanziamenti che
riceviamo li buttiamo al cesso perché vanno a ingrassare disonesti, incapaci e
corrotti.
E oltretutto il nostro Paese sta sempre più guadagnando la fama di repubblica
delle banane (in tutti i sensi bananeschi) e questo nuoce al marchio
Italia, erode la credibilità dei nostri prodotti, danneggia il
turismo…
Non possiamo più permettercelo. Non possiamo continuare a pagare tutti
l’enorme tassa dell’inefficienza dell’amministrazione
pubblica, della giustizia e il delirio iperburocratico. Semplicemente
perché costa troppo e i soldi sono finiti.
Inoltre, la riforma incentrata sulla razionalizzazione della burocrazia in
favore dell’efficienza è a costo zero. Si tratta di
semplificare le procedure e si ottiene addirittura un taglio immediato dei
costi.
Da anni il senatore D’Ambrosio (ex pool Mani Pulite) ha
presentato un pacchetto di leggi in Parlamento che semplicemente snellendo le
procedure processuali abbrevierebbero del 15% i tempi della giustizia e
renderebbero immediatamente disponibili per le casse dello stato le ricchezze
sequestrate alla mafia. Il tutto tagliando pure i costi attuali di
gestione dei processi e del sequestro di beni. Risparmi
e guadagni di più!
Commento di Sergio Ghirardi:
Se c'è una cosa che la cosiddetta sinistra non può fare è
lottare contro la burocrazia perché essa stessa è una burocrazia.
La socialdemocrazia e il bolscevismo, quando non hanno fucilato
o contribuito a far fuori in tutti i modi i rivoluzionari (Gli spartakisti,, la Machnovcina, le
comunità spagnole del ’36 ecc.) hanno comunque incarnato da sempre la
burocrazia del capitalismo etico. Quel capitalismo ipocritamente moralista che
critica gli eccessi finanziari in nome dello sviluppo sostenibile, la
corruzione in nome della gestione burocratica dei privilegi. Dopo l'89 della
rivoluzione borghese (non quella antica, francese ma quella più recente, russa)
invece di buttare burocrazia imbelle e autoritarismo feroce per realizzare
finalmente l'utopia libertaria che il bolscevismo aveva strangolato sul nascere,
i burocrati della sinistra - cioè del capitalismo di stato - hanno buttato a
mare ogni resto di sensibilità utopica per conservare invece la logica
burocratica e i privilegi che l'accompagnano. Insieme all'ignoranza sensibile
del cattolicesimo becero e liberale, questa lumpen borghesia miserabile è il
brodo di coltura ideale per le mafie e per la corruzione dilagante a livello
planetario. Le quali mafie multinazionali se ne fotton di destra e sinistra
perchè il business è da sempre ambidestro.
In sintesi basta con le sinistre alternative che escono a
singhiozzo dal cappello dei prestigiatori sociali. Oltre l'indignazione,
l'utopia concreta che si staglia all'orizzonte di una società in decomposizione
e di una civiltà senza futuro né presente, chiede urgentemente un'alternativa
alla sinistra. L’emancipazione dei lavoratori dello spettacolo sarà l’opera di
questi stessi lavoratori e del loro rifiuto dello spettacolo sociale o non sarà
che l’ennesima messa senza conseguenze reali.
Indignati ancora uno sforzo per diventare rivoluzionari!
A Lézan una microWoodstock radicale
Per quanti non c’erano, e gli italiani erano davvero
pochi, eccovi la mia traduzione del documento conclusivo dell’incontro di Lézan,
sud della Francia, dove alla fine di Agosto 15.000 individui, sconosciuti,
amici e compagni, hanno partecipato in piena campagna alla costruzione, al
funzionamento e al godimento di un villaggio effimero ma concreto come il loro
desiderio di cambiare la civiltà che opprime la vita nel mondo.
Tende, chapiteaux, ristoranti e bar autocostruiti, prodotti
locali e idee planetarie, proposte energetiche sperimentali, discussioni, forum,
musica e contatti vari hanno permesso a molteplici intelligenze sensibili, più
o meno indignate e più o meno radicali, di collegarsi tra loro dal particolare
al generale, dall’intimo al sociale, dalla convivialità alla riflessione, dal
discorso allo scritto, malgrado una dose inevitabile, ma sopportabile e
controllabile, di preti della politica, di avanguardisti politicanti
recuperatori, di confusionisti e burocrati, di mistici e di guru. Un grande
successo che ne prepara altri più duraturi.
La Commune n’est pas morte!
Sergio Ghirardi
* In fondo il testo originale in francese
Convergence citoyenne pour une
transition énergétique
Déclaration de Lézan – Gard, le
28 août 2011
---Preambolo
La nostra convergenza di cittadinanza per una transizione
energetica è il frutto di una presa di coscienza nata dalla mobilitazione
contro l’estrazione dei gas d’olio di scisti.
Abbiamo elaborato questa dichiarazione il 26, 27. 28
agosto, convalidandola in assemblea generale il 28 agosto.
Per assicurare l’avvenire delle generazioni future, la Convergenza afferma
come necessità :
* la ripresa in mano da parte dei cittadini delle
decisioni che li riguardano;
* il rifiuto della mercantilizzazione della natura e
delle sue risorse, con la denuncia particolare del capitalismo verde;
* la definizione della terra, dell’acqua, dell’aria,
dell’energia e del vivente come beni comuni inalienabili e accessibili a tutti.
* ---Rimettendo in discussione il sistema economico e
produttivista dominante, la
Convergenza si dà una
serie di direttive indicative:
1. Instaurare il
controllo cittadino sulle istanze politiche sottomesse alla logica delle
multinazionali significa instaurare:
* una democrazia diretta per mezzo di spazi cittadini di
scambi, d’informazione, di confronto e di decisione;
* un’assemblea cittadina di verifica plurale e
trasparente che escluda ogni conflitto d’interesse;
* la separazione drastica tra poteri finanziari e mass
media;
* un lavoro di convergenza sulle questioni di società con
il movimento sociale e le sue organizzazioni.
2. Impegnarsi senza
attesa per la transizione energetica presuppone di:
* ridurre drasticamente le emissioni di gas a effetto
serra al livello delle esigenze espresse dall’accordo dei popoli di Cochabamba,
accordo adottato dalla Convergenza di Lezan e allegato in annesso alla presente
dichiarazione;
* liberarsi di un sovraconsumo che costa di più ai poveri
che ai ricchi;
* orientarsi verso la sobrietà e l’efficacia energetica;
* fermare la corsa alle energie fossili;
* abbandonare ogni sperimentazione, esplorazione e
sfruttamento di idrocarburi presenti nella roccia madre e off-shore;
* Fermare il nucleare civile e militare;
* interrompere la produzione e l’utilizzo industriale
degli agrocarburanti;
* dare la priorità al finanziamento pubblico della
ricerca e delle sperimentazioni cittadine sulle energie rinnovabili;
* liberare i brevetti in possesso delle multinazionali;
* organizzare la rilocalizzazione tramite la
riappropriazione pubblica e territoriale dei mezzi di produzione e di
distribuzione dell’energia (gestioni comunali, cooperative, società d’interesse
collettivo, ecc.) includendo sistematicamente il controllo cittadino;
* riorientare le politiche pubbliche dei settori
energivori come l’agricoltura intensiva, i trasporti, l’alloggio e
l’urbanistica, l’industria e la grande distribuzione;
* esigere la riconversione dei settori interessati in
accordo con i lavoratori e i consumatori.
3. Organizzare
immediatamente la convergenza delle lotte ci impegna a :
* articolare le mobilitazioni contro il gas di scisti, il
nucleare, gli OGM, gli inceneritori, gli agrocarburanti e tutte le lotte
sociali e ambientali;
* far convergere le lotte, le mobilitazioni, le
alternative e le sperimentazioni associando la lotta ecologica alle lotte
sociali;
* operare per far emergere un nuovo progetto di civiltà
indispensabile di fronte alle sfide climatiche, all’esaurimento delle risorse
naturali e più generalmente al caos cui ci porta il capitalismo ;
* continuare regolarmente la Convergenza cittadina
nata a Lézan connettendosi con le mobilitazioni dal locale al mondiale;
* iscrivere le nostre mobilitazioni in un calendario
internazionale contro il G20, dal 1 al 4 novembre 2011, in relazione al
summit sul clima dell’ONU a Durban, all’inizio di dicembre 2011, al momento del
Forum Alternativo Mondiale dell’Acqua dal 10 al 12 marzo 2012 e al summit di
Rio +20 all’inizio di giugno 2012.
La Convergenza di cittadinanza per una transizione eneregetica si
associa alla petizione portata da “Los
indignados” alla Commissione Europea per l’uscita dal nucleare, contro
l’esplorazione e lo sfruttamento degli idrocarburi inclusi nella roccia madre,
contro la coltivazione e il commercio degli OGM e a favore di un audit sul
debito degli Stati europei.
Globalizziamo le lotte, globalizziamo la speranza!
Questa dichiarazione è condivisa dai partecipanti della
Convergenza di cittadinanza per una transizione energetica e da quanti vogliano
aderirvi per sostenerla.
Contact : organisation@convergenceenergetique.org
Convergence citoyenne pour une transition énergétique
Déclaration de Lézan – Gard, le 28 août 2011
----Préambule
Notre Convergence
citoyenne pour une transition énergétique est le fruit d'une prise de
conscience née de la mobilisation contre l'extraction des gaz et huiles de
schiste.
Nous avons élaboré
cette déclaration les 26, 27 et 28 août, et validée en assemblée plénière le 28
août.
Pour assurer
l’avenir des générations futures, la Convergence, affirme comme nécessité :
• la reprise en main par les citoyens des
décisions qui les concernent ;
• le refus de la
marchandisation de la nature et de ses ressources, notamment en dénonçant les
pièges du capitalisme vert ;
• la définition de
la terre, de l'eau, de l’air, de l'énergie, et du vivant comme biens communs
inaliénables et accessibles à tous.
•
----Remettant en
cause le système économique et productiviste dominant, la Convergence se donne
une feuille de route.
1. Instaurer le contrôle citoyen des instances
politiques soumises à la logique des multinationales revient à instaurer :
• Une démocratie
directe grâce à des espaces citoyens d'échanges, d'information, de
confrontation et de décisions ;
• Une assemblée
citoyenne d’expertise plurielle et transparente qui exclue tout conflit
d’intérêt ;
• La séparation
entre les pouvoirs financiers et les médias ;
• Un travail de
convergence sur les questions de société avec le mouvement social et ses
organisations.
2. S'engager sans délai pour la transition
énergétique suppose de :
• Réduire
drastiquement les émissions de gaz à effet de serre à la hauteur des exigences
exprimées par l'accord des peuples de Cochabamba, accord adopté par la Convergence de Lézan
et joint en annexe de la présente déclaration ;
• Se libérer d’une
surconsommation qui coûte plus aux pauvres qu’aux riches ;
• S’orienter vers
une sobriété et une efficacité énergétique ;
• Arrêter la course
aux énergies fossiles ;
• Abandonner toute
expérimentation, exploration et exploitation d'hydrocarbures compris dans la
roche mère et off-shore ;
• Arrêter le
nucléaire civil et militaire ;
• Arrêter la
production et l’utilisation industrielles des agro carburants ;
• Mettre la
priorité sur le financement public de la recherche et des expérimentations
citoyennes sur les énergies renouvelables ;
• Libérer les
brevets captés par les multinationales ;
• Organiser la
relocalisation avec la réappropriation publique et territoriale des moyens de
production et de distribution de l'énergie (régies communales, coopératives,
sociétés d'intérêt collectif, etc.) incluant systématiquement le contrôle
citoyen ;
• Réorienter les
politiques publiques des secteurs énergétivores tels que l’agriculture
intensive, les transports, le logement et l’urbanisme, l’industrie et la grande
distribution ;
• Exiger la
reconversion des filières concernées en accord avec les travailleurs et les
usagers.
3. Organiser dès à
présent la convergence des luttes nous engage à :
• Articuler les
mobilisations contre les gaz et huile de schiste, le nucléaire, les OGM, les
incinérateurs, les agro carburants et toutes les luttes sociales et
environnementales ;
• Faire converger
les luttes, les mobilisations, les alternatives et les expérimentations en
associant le combat écologique aux luttes sociales ;
• Œuvrer pour
l'émergence d'un nouveau projet de civilisation indispensable face aux enjeux
climatiques, à l'épuisement des ressources naturelles et plus généralement au
chaos dans lequel nous mène le capitalisme ;
• Poursuivre
régulièrement la
Convergence citoyenne initiée à Lézan, en se connectant avec
les mobilisations du local au mondial ;
• Inscrire nos
mobilisations dans un calendrier international contre le G20, du 1er au 4
novembre 2011, lors du sommet sur le climat de l’ONU à Durban début décembre
2011, lors du Forum Alternatif Mondial de l’Eau du 10 au 18 mars 2012, lors du
Sommet Rio + 20 début juin 2012.
La Convergence citoyenne pour une transition énergétique s'associe à la pétition
portée par «Los Indignados » auprès de la Commission européenne pour la sortie du
nucléaire, contre l'exploration et l'exploitation des hydrocarbures compris
dans la roche mère, contre la culture et la commercialisation des OGM et pour
un audit des dettes des Etats européens.
Globalisons la
lutte, globalisons l’espérance !
Cette déclaration
est partagée par les partenaires de la « Convergence citoyenne pour une
transition énergétique » et ceux qui veulent s’y joindre pour la soutenir.
Contact : organisation@convergenceenergetique.org
giovedì 1 settembre 2011
IL MILITANTISMO, STADIO SUPREMO DELL'ALIENAZIONE
Les Mauvais Jours Finiront
ORGANISATION DES JEUNES TRAVAILLEURS RÉVOLUTIONNAIRES(1)
(1972)
Sull'onda del movimento delle occupazioni del Maggio '68, si è sviluppata a
sinistra del Partito Comunista e della CGT (2) una congerie di piccole organizzazioni
che si richiamano al trotzkismo, al maoismo e all'anarchismo. Malgrado la scarsa
percentuale di lavoratori che hanno raggiunto i loro ranghi, queste organizzazioni
pretendono di contendere a quelle tradizionali il controllo della classe operaia, di cui
si proclamano l'avanguardia.
L'ingenuità di simili pretese può far sorridere. Ma sorridere non basta. Occorre
andare oltre, e comprendere per quale ragione il mondo moderno produce questi
burocrati estremisti: strappare il velo della loro ideologia, per scoprirne l'autentico
ruolo storico. I rivoluzionari devono smarcarsi quanto più possibile dalle
organizzazioni gauchistes (3), e mostrare come, lungi dal minacciare l'ordine del
vecchio mondo, la loro azione possa soltanto, nel migliore dei casi, determinarne un
ricondizionamento. Cominciare a criticare queste organizzazioni, significa preparare
il terreno al movimento rivoluzionario che dovrà liquidarle, pena l'esserne liquidato.
La prima tentazione è quella di demistificare le ideologie di cui fanno sfoggio
questi gruppi, svelandone l'arcaismo o l'esotismo (da Lenin a Mao), e di mettere in
evidenza il disprezzo per le masse che si cela dietro la loro demagogia. Ma un simile
approccio risulterebbe ben presto noioso, considerata la moltitudine di organizzazioni
e di tendenze esistenti, ciascuna delle quali rivendica una propria originalità
ideologica. D'altronde, ciò equivarrebbe a collocarsi sul loro stesso terreno. Più che le
idee, conviene criticare il tipo di attività che queste organizzazioni dispiegano «al
servizio delle proprie idee»: il militantismo.
Se critichiamo in termini generali il militantismo, ciò non significa che misconosciamo le differenze esistenti tra l'attività delle diverse organizzazioni.
Tuttavia crediamo che malgrado o proprio a causa della loro importanza, queste
differenze non possano essere spiegate se non cogliendo alla radice il significato
dell'attività militante.
I diversi modi di militare sono soltanto risposte divergenti a una medesima
contraddizione fondamentale, della quale nessuno detiene la soluzione.
Decidendo di fondare la nostra critica sull'attività militante, non sottostimiamo il
ruolo che le idee ricoprono nel fenomeno del militantismo. Semplicemente, nella
misura in cui queste idee vengono propugnate senza essere collegate all'attività,
diventa importante sapere che cosa esse dissimulano. Mostreremo lo iato che esiste
tra questi due momenti, metteremo in connessione le idee con l'attività e sveleremo
l'impatto che quest'ultima ha sulle idee: cercare dietro la menzogna la realtà di chi
mente, per comprendere la realtà della menzogna.
Se è vero che la critica del militantismo è un compito fondamentale della teoria
rivoluzionaria, essa non può essere esplicata che dal «punto di vista» della
rivoluzione. Gli ideologi borghesi possono tacciare i militanti di essere canaglie
pericolose, idealisti manipolati, consigliare loro di impiegare meglio il proprio tempo
andando a lavorare o in vacanza al Club Méditerranée. Ma non possono attaccare il
militantismo alla radice, in quanto ciò equivarrebbe a mettere in luce la miseria di
qualsivoglia attività permessa nel quadro dell'attuale società.
La critica del militantismo è inseparabile dalla costruzione delle organizzazioni
rivoluzionarie; non solo in quanto le organizzazioni militanti dovranno essere
combattute senza tregua, ma anche perché la lotta contro la tendenza al militantismo
dovrà essere condotta nel seno delle organizzazioni rivoluzionarie stesse. Questo
senza dubbio a causa del fatto che queste organizzazioni, almeno all'inizio, rischiano
di essere composte in buona parte da ex-militanti «pentiti»; ma anche perché il
militantismo si basa essenzialmente sull'alienazione in cui noi tutti siamo implicati.
L'alienazione non può essere eliminata con un colpo di bacchetta magica: il
militantismo è la particolare trappola che il vecchio mondo tende ai rivoluzionari.
Ciò che diciamo dei militanti è drastico e senza appello. Noi non siamo
effettivamente disposti ad accettare alcun compromesso con costoro. Non si tratta di
rivoluzionari che sbagliano o di rivoluzionari «a metà», ma di individui che
rimangono «al di qua» della rivoluzione. Questo, tuttavia, non significa in alcun
modo che: 1) poniamo noi stessi fuori dall'oggetto della nostra critica: se teniamo a
essere chiari e netti, è innanzitutto riguardo a noi stessi; 2) condanniamo i militanti in
quanto individui e facciamo di questa condanna una questione morale. Non si tratta di
ricadere in una separazione tra «buoni» e «cattivi». Non sottovalutiamo la tentazione
del: «più sbraito contro i militanti, più dimostro di non essere tale e mi pongo al
riparo dalla critica!»
IL MASOCHISMO
Facciamo lo sforzo di andare oltre la noia che emana naturalmente da ogni
militante. Non accontentiamoci, tuttavia, di decifrare la fraseologia dei volantini e dei
discorsi. Interroghiamolo, piuttosto, sulle ragioni che lo hanno spinto – proprio lui,
personalmente – alla militanza. Non c'è domanda che possa imbarazzare
maggiormente un militante. Nel peggiore dei casi, egli si perderà in chiacchiere
interminabili sull'orrore del capitalismo, la miseria dei bambini del Terzo Mondo, le
bombe a frammentazione, il carovita, la repressione etc. Nel migliore, spiegherà che
avendo preso coscienza – il militante tiene molto a questa famosa «presa di
coscienza» – della vera natura del capitalismo, ha deciso di lottare per un mondo
migliore, per il socialismo (quello vero, non l'altro!). Entusiasmato da questa
prospettiva esaltante, non ha resistito alla tentazione di gettarsi sulla manovella del
ciclostile più vicino.
Cerchiamo di analizzare la questione più da presso e spostiamo il nostro sguardo
non più su ciò che il militante dice, ma su ciò che effettivamente vive. Esiste una
contraddizione palese tra ciò che egli afferma di desiderare e la miseria e l'inefficacia
di ciò che fa.
Lo sforzo al quale si sottopone e la dose di noia che è capace di sopportare non
lasciano dubbi: il militante è innanzitutto un masochista. Non soltanto osservando la
sua attività è difficile credere che possa sinceramente aspirare a una vita migliore, ma
il suo masochismo non presenta alcun tratto di originalità. Se è vero che alcuni
«perversi» dispongono di un'immaginazione capace di ignorare la miseria delle
regole del vecchio mondo, non è certo questo il caso del militante! Egli accetta, in
seno alla sua organizzazione, l'esistenza della gerarchia e dei leaders dei quali
vorrebbe sbarazzare la società. E l'energia che spende si plasma spontaneamente sul
modello del lavoro – poiché il militante fa parte di quella categoria di persone per le
quali otto o nove ore di abbrutimento quotidiano non bastano.
Allorché il militante tenta di giustificarsi, rivela soltanto la povertà della sua
immaginazione. Non è in grado di concepire una forma di attività diversa da quella
dominante. Per costui, la separazione tra serietà e divertimento, tra mezzi e fini, non è
legata a un'epoca storica determinata. Queste categorie diventano eterne e
immutabili: si potrà essere felici in futuro, soltanto sacrificandosi nel presente. Il
sacrificio senza ricompensa di milioni di militanti operai appartenenti alle
generazioni dell'epoca staliniana, non solleva in lui il minimo dubbio. Non vede come
i mezzi determinino i fini e che, accettando di sacrificarsi oggi, non si fa che
preparare i sacrifici di domani.
Non si può non rimanere colpiti dalle innumerevoli somiglianze che avvicinano il
militantismo all'attività religiosa. Vi si ritrovano le medesime attitudini psicologiche:
spirito di sacrificio, ma anche intransigenza, volontà di convertire il prossimo, spirito
di sottomissione. Queste somiglianze si estendono al dominio dei riti e delle
cerimonie: prediche sulla disoccupazione, processioni per il Vietnam, riferimenti ai
testi sacri del marxismo-leninismo, culto dei simboli (bandiere rosse). Le chiese politiche hanno anch'esse i loro profeti, i loro grandi sacerdoti, i loro convertiti, le
loro eresie, i loro scismi, i loro praticanti (militanti) e non-praticanti (simpatizzanti).
Ma il militantismo «rivoluzionario» è soltanto una parodia della religione. La
ricchezza, la follia, la dismisura dei progetti religiosi gli sfuggono. Esso aspira alla
serietà, vuole essere ragionevole, crede di potersi conquistare il Paradiso in terra. Ma
nemmeno questo gli è concesso: Gesù Cristo resuscita e ascende al cielo, Lenin
marcisce sulla Piazza Rossa...
Se il militante può essere assimilato al credente per ciò che concerne il candore
delle sue illusioni, conviene considerarlo sotto tutt'altro punto di vista per quel che
riguarda la sua reale attitudine. Il sacrificio della carmelitana che si rinchiude in un
convento a pregare per la salvezza delle anime, ha delle ripercussioni estremamente
limitate sulla realtà sociale. Viceversa, il sacrificio del militante rischia di avere delle
conseguenze esiziali.
IL DESIDERIO DI PROMOZIONE
Il militante parla molto di «masse», la sua azione è incentrata su di esse: si tratta di
convincerle, di far loro «prendere coscienza». E nondimeno egli è separato dalle
masse, dalle loro potenzialità di rivolta. E questo perché è separato dai suoi stessi
desideri.
Il militante avverte l'assurdità dell'esistenza che ci viene imposta. «Decidendo» di
militare, egli tenta di riempire lo scarto esistente tra i propri desideri e ciò cheeffettivamente ha la possibilità di sperimentare. È una reazione contro la miseria della
sua vita. Ma egli si inoltra su una strada senza uscita.
Seppure insoddisfatto, il militante è incapace di riconoscere e di far fronte ai propri
desideri. Se ne vergogna! Questo lo conduce a rimpiazzare la promozione dei propri
desideri con il desiderio della propria promozione. Tuttavia i sensi di colpa che nutre
sono tali da non poter prendere in considerazione una promozione gerarchica
all'interno del sistema. O piuttosto, egli è pronto a lottare per elevare la propria
posizione, soltanto se si convince che ciò non ha nulla a che fare con il suo
tornaconto personale. Il militantismo gli consente di elevarsi, di mettersi su un
piedistallo, senza che questa promozione appaia agli altri, e a lui stesso, per ciò che
realmente è. (Dopotutto anche il Papa non è che il servitore dei servitori di Dio!)
Mettersi al servizio dei propri desideri non significa rinchiudersi nel guscio del
privato, non ha nulla a che vedere con l'individualismo piccolo borghese; al contrario,
non può passare che attraverso la distruzione della corazza egoistica nella quale ci
imprigiona la società borghese, e lo sviluppo di un'autentica solidarietà di classe. Il
militante che pretende di mettersi al servizio del proletariato («gli operai sono i nostri
padroni», dice Geismar) (4) non fa che porsi al servizio dell'idea che egli possiede degli
interessi del proletariato. Così, con un un paradosso che è soltanto apparente,
mettendosi autenticamente al servizio di se stessi, si possono aiutare davvero gli altri
– e questo su una base di classe. Viceversa, quando ci si mette al servizio degli altri,
non si fa che difendere una posizione gerarchica personale.
«Militare» non significa dedicarsi alla trasformazione della propria vita quotidiana,
rivoltarsi direttamente contro ciò che ci opprime. Al contrario, significa abbandonare
questo terreno, l'unico a essere davvero rivoluzionario (a patto che si sia consapevoli
che la nostra vita quotidiana è colonizzata dal capitale e retta dalle leggi della
produzione mercantile). Il militante si politicizza nella misura in cui è alla ricerca di
un ruolo che lo ponga al di sopra delle masse. Che questa attitudine prenda, volta a
volta, le sembianze dell'«avanguardismo» o dell'«educazionismo», non cambia la
sostanza della faccenda. Non si tratta più del proletario che non ha da perdere che le
proprie illusioni: il militante ha un ruolo da difendere! In periodo rivoluzionario,
allorché tutti i ruoli si sgretolano sotto la spinta del desiderio di vivere senza
limitazioni, il ruolo del «rivoluzionario cosciente» è quello che meglio si adatta a
sopravvivere.
Attraverso la militanza, il «rivoluzionario cosciente» dà un spessore alla propria
esistenza, la sua vita ritrova un significato. Ma questo significato egli non lo esperisce
in sé stesso, nella realtà della propria soggettività, bensì nella subordinazione a
necessità che gli sono esteriori. Allo stesso modo che nel lavoro, egli è sottomesso a
un fine e a regole che gli sfuggono; militando obbedisce alle «necessità della storia».
Evidentemente, non si possono porre tutti i militanti su uno stesso piano. Vi sono
tra essi anche molti ingenui che, non sapendo come impiegare il proprio tempo libero,
spinti dalla solitudine e ingannati dalla fraseologia rivoluzionaria, si sono smarriti.
Costoro coglieranno il primo pretesto per allontanarsi. L'acquisto di una televisione,
l'incontro dell'anima gemella, la necessità di fare straordinari al lavoro per comprare
l'automobile, decimano i ranghi dell'armata dei militanti!
Le ragioni che spingono a militare non sono caratteristiche solo della nostra epoca.
E a grandi linee sono le stesse per i militanti sindacali, cattolici e rivoluzionari. Il
riapparire di un militantismo «rivoluzionario» di massa è legato alla crisi attuale delle
società mercantili e al ritorno della vecchia talpa rivoluzionaria. La possibilità di una
rivoluzione sociale è sufficientemente seria, affinché i militanti se ne possano
occupare. Il tutto è rafforzato dal crollo delle credenze religiose.
Il capitalismo non necessita più di sistemi di compensazione religiosi. Pervenuto
alla sua maturità, esso non ha più bisogno di offrire un supplemento di felicità
nell'aldilà, ma deve offrire tutta la felicità qui, sulla terra, nel consumo delle sue
merci materiali, culturali e spirituali (l'angoscia metafisica fa vendere!). Superate
dalla storia le religioni, i fedeli non hanno più da passare che all'azione sociale o al...
maoismo.
Il militantismo gauchiste coinvolge essenzialmente individui appartenenti a
categorie sociali in via di proletarizzazione accelerata (liceali, studenti, personale
socio-educativo etc.), che non hanno la possibilità di lottare concretamente per dei
vantaggi a breve termine, e per i quali diventare davvero rivoluzionari implicherebbe
mettersi in discussione, da un punto di vista personale, in modo radicale. L'operaio è
molto meno complice, rispetto al proprio ruolo sociale, dello studente o
dell'educatore. Militare, per questi ultimi, è una soluzione di compromesso che
permette loro di puntellare un ruolo sociale vacillante. Essi ritrovano nel militantismo
l'importanza personale perduta a causa del deterioramento del loro status sociale.
Dicendosi «rivoluzionari», occupandosi della trasformazione dell'insieme della
società, evitano di occuparsi della trasformazione della propria condizione e delle
proprie illusioni personali.
Nell'ambito della classe operaia, il sindacalismo detiene di fatto il monopolio del
militantismo, e assicura al militante soddisfazioni immediate e posizioni i cui
privilegi si possono misurare concretamente. L'operaio che si lascia tentare dal
militantismo, si volgerà con maggiore probabilità verso di esso. Del resto, anche i
comitati di lotta anti-sindacali hanno la tendenza a trasformarsi in una sorta di neo-
sindacalismo. L'attività politica è per i militanti operai soltanto il prolungamento
dell'attività sindacale. Il militantismo affascina poco gli operai, e in modo particolare
le giovani leve, che sono costituite dai proletari più disincantati riguardo al proprio
lavoro e alla propria vita in generale. Poco tentati nell'insieme dal sindacalismo, lo
sono ancor meno da un gauchisme che propone loro soltanto benefici fumosi.
Detto questo, quando nella tormenta rivoluzionaria il regno della merce e del
consumo si sgretoleranno, il sindacalismo, la cui credibilità si basa sulla
rivendicazione, sarà pronto pur di sopravvivere a trasformarsi in militantismo
«rivoluzionario». Esso riprenderà le parole d'ordine più estremiste e sarà allora molto
più pericoloso degli attuali gruppi gauchistes. Già vediamo la CFDT (5), sull'onda del
Maggio '68, mescolare la parola d'ordine dell'autogestione al suo incomprensibile
linguaggio neo-burocratico!
IL LAVORO POLITICO
Il militante consacra il «tempo libero» che gli obblighi professionali e scolastici gli
concedono, a ciò che egli stesso definisce «il lavoro politico»: occorre stampare e
distribuire volantini, comporre e attaccare manifesti, partecipare alle riunioni,
prendere contatti, preparare incontri etc. Tuttavia non sono queste azioni, considerate
isolatamente, a caratterizzare il lavoro del militante. Il semplice fatto di redigere un
volantino al fine di stamparlo e distribuirlo, non può essere considerato in se stesso
un atto militante. Se esso diviene tale, è perché si inscrive nel contesto di un'attività
che possiede una logica peculiare.
È nella misura in cui non rappresenta un prolungamento dei suoi desideri, bensì
obbedisce a una logica che gli è estranea, che l'attività del militante si avvicina al
lavoro. Come il lavoratore non lavora per sé, il militante non milita per sé: il risultato
della sua azione non può essere misurato con il piacere che egli ne trae. Lo sarà
dunque attraverso il numero di ore dedicate all'attività politica, il numero di volantini distribuiti etc. La ripetizione, la routine dominano l'attività del militante. La
separazione tra esecuzione e decisione rafforzano l'aspetto «funzionariale» di questa
attività.
Ma se il militantismo assomiglia al lavoro, non vi può essere assimilato. Il lavoro è
l'attività sulla quale si fonda il vecchio mondo: esso produce e riproduce il capitale e i
rapporti di produzione capitalistici. Il militantismo non è che un'attività secondaria.
Se è vero che il risultato del lavoro e la sua efficacia, per definizione, non sono
commisurati alla soddisfazione del lavoratore, hanno però il vantaggio di essere
misurabili in termini economici. La produzione mercantile, per mezzo del denaro e
del profitto, crea i suoi campioni e i suoi strumenti di misura. Essa possiede una
logica e una razionalità, che impone al produttore e al consumatore. Viceversa,
l'efficacia del militantismo, «l'avanzare della rivoluzione», non hanno ancora trovato
criteri di misura. La loro verifica sfugge ai militanti e ai loro dirigenti (nell'ipotesi,
ovviamente, che questi ultimi si preoccupino ancora della rivoluzione!). Ci si riduce
dunque a contabilizzare il materiale prodotto e distribuito, il reclutamento, le azioni
portate a termine; tutte cose che evidentemente non servono a dare la misura di ciò
che si vorrebbe misurare. In modo del tutto naturale, si giunge a considerare ciò che è
misurabile come un fine in sé. Immaginate un capitalista che non trovando mezzi per
determinare il valore della sua produzione, decidesse di ripiegare sulla misurazione
della quantità di olio consumata da alcune macchine. Coscienziosamente, gli operai
verserebbero olio nelle tubature per fare progredire... la produzione. Incapace di
perseguire il fine che proclama, il militantismo non può che santificare il lavoro.
Applicandosi con scrupolo a emulare il lavoro, i militanti non si trovano nella
posizione di comprendere le prospettive aperte, da un lato, dal disprezzo sempre più
diffuso per tutte le costrizioni sociali e, dall'altro, dal progresso della conoscenza e
della tecnica. I più intelligenti tra loro si uniscono al coro degli ideologi della
borghesia modernista, nel chiedere la riduzione degli orari di lavoro o
l'umanizzazione della ripugnante attività. Che parlino in nome del capitale o della
rivoluzione, costoro si dimostrano incapaci di andare oltre la separazione tra tempo di
lavoro e tempo libero, tra attività dedicata alla produzione e attività consacrata al
consumo.
Se siamo costretti a lavorare, la causa non è naturale, bensì sociale. Lavoro e
società di classe sono inscindibili. Il padrone vuole che lo schiavo produca, poiché
soltanto ciò che viene prodotto può essere appropriato. La gioia, il piacere che si
possono trovare in una qualsiasi attività, non possono essere capitalizzati, trasformati
in denaro dal capitalista. Quando lavoriamo siamo totalmente sottomessi a
un'autorità, a una legge esteriore, e la nostra unica ragion d'essere è ciò che
produciamo. Ogni fabbrica è un racket, dove si succhiano il nostro sudore e la nostra
vita, affinché possano trasformarsi in merci.
Il tempo di lavoro è quel tempo in cui dobbiamo non già soddisfare direttamente i
nostri desideri, bensì sottometterci, in attesa della compensazione ulteriore
rappresentata dal salario. È esattamente il contrario del gioco, dove lo svolgimento e
il ritmo di ciò che si fa sono dettati dal piacere che si trova nell'attività. Il proletariato,
emancipandosi, abolirà il lavoro. La produzione delle derrate necessarie alla nostra
sopravvivenza biologica, non sarà più allora che il pretesto per la liberazione delle
nostre passioni.
IL REGNO DELLA RIUNIONE
Uno dei tratti caratteristici del militantismo è la quantità di tempo dedicata alle
riunioni. Sorvoliamo sui dibattiti riguardanti le «grandi questioni strategiche»: dove
sono presenti nostri compagni in Bolivia? A quando la prossima crisi mondiale? La
costruzione del partito rivoluzionario sta avanzando?
Limitiamoci a rivolgere la nostra attenzione alle riunioni concernenti il «lavoroquotidiano». È forse qui che la miseria del militantismo fa più che altrove sfoggio di
sé. Fatta eccezione per qualche caso disperato, sono i militanti stessi a lamentarsi del
numero di queste «riunioni che non fanno fare un passo avanti». Sebbene i militanti
amino riscaldarsi tra loro, non possono non soffrire della contraddizione evidente tra
la loro volontà di agire, da una parte, e il tempo sprecato in vane discussioni, in
dibattiti senza via d'uscita, dall'altra. Essi sono condannati all'impasse nella misura in
cui criticano il «riunionismo», senza rendersi conto che a essere in questione è
l'attività militante nella sua totalità. Il solo modo di eliminare il «riunionismo»
diventa allora la fuga in un attivismo sempre meno a contatto con la realtà.
Che fare? Come organizzarsi? Sono queste le problematiche che sottendono e sono
all'origine delle riunioni. Ora, tali questioni non possono in nessun caso essere risolte
nella misura in cui, laddove i militanti se le pongono, lo fanno separandole dalla
propria vita. La risposta non può essere cercata in una riunione, poiché il problema
non viene posto da chi ne detiene la soluzione concreta. Ci si può riunire e discutere
per ore, spremersi le meningi, ma tutto ciò non basterà a far nascere il supporto
pratico che manca alle idee. Laddove tali questioni per il proletariato rivoluzionario
rappresentano una banalità, poiché per esso i problemi dell'azione e
dell'organizzazione si pongono concretamente, sono parte della sua stessa lotta
quotidiana, per i militanti diventano il problema. Il «riunionismo» è il complemento
necessario dell'attivismo. In effetti, il problema che viene posto è sempre lo stesso:
come fondersi con il movimento delle masse, pur restando separati da esso. La
possibile soluzione del dilemma consiste: o nel fondersi realmente con le masse
ritrovando la realtà dei propri desideri e la possibilità della loro realizzazione, oppure
nel rafforzare il proprio potere in quanto militanti, e nello schierarsi dalla parte del
vecchio mondo contro il proletariato. Gli scioperi selvaggi dimostrano che questo
rischio esiste!
Nel rapporto con le masse, il militantismo riproduce le sue tare interne, e in
particolare la tendenza al «riunionismo». Si radunano e si contano delle persone. Per
alcuni, come l'AJS (6), farsi vedere e contarsi diventa l'apogeo dell'azione!
I problemi dell'azione e dell'organizzazione, separati dal movimento reale, si
trovano meccanicamente a essere separati anche gli uni dagli altri. Le diverse organizzazioni gauchistes incarnano questa separazione. Troviamo, da un lato, presso
i maoisti e l'ex-GP (7), il polo dell'azione, e dall'altro, presso i trotzkisti e la Ligue
Communiste, quello dell'organizzazione. Si feticizzano ora l'una ora l'altra, per uscire
dall'impasse in cui il militantismo si trova a causa della sua separazione dalle masse.
E ciascuno difende la sua particolare idiozia, facendosi beffe dell'orientamento dei
gruppi concorrenti.
LA BUROCRAZIA
Le organizzazioni militanti hanno invariabilmente un carattere gerarchico. Alcune
di esse non soltanto non lo nascondono, ma hanno piuttosto la tendenza a farne un
vanto. Altre si accontentano di parlarne il meno possibile. Infine, vi sono alcuni
piccoli gruppi che cercano di negare questa evidenza.
Proprio come riproducono, o meglio scimmiottano il lavoro, le organizzazioni
militanti hanno bisogno di «padroni». Non potendo costruire un'unione a partire dai
problemi concreti che li riguardano, i militanti sono naturalmente portati a credere
che l'unificazione delle decisioni non possa derivare se non dall'esistenza di una
direzione. Non immaginano che una verità condivisa possa sgorgare da una
molteplicità di volontà particolari di uscire dalla merda; tale verità deve perciò essere
mediata e imposta dall'alto. Essi si rappresentano dunque la rivoluzione come lo
scontro tra due apparati statuali gerarchizzati, l'uno borghese, l'altro proletario.
Non sanno nulla della burocrazia, della sua autonomia e della maniera in cui
risolve le proprie contraddizioni interne. Il militante di base crede ingenuamente che i
conflitti tra i dirigenti si riducano a conflitti di idee, e che là dove gli si dice che c'è
unità ci sia effettivamente unità. Il suo orgoglio è quello di aver saputo scegliere
l'organizzazione o la tendenza che possiede la direzione migliore. Aderendo a questa
o quella chiesa, egli adotta un sistema di idee così come si indossa un abito. Non
avendone in nessun modo verificate le basi, egli sarà pronto a difenderne tutte le
conseguenze e a rispondere a ogni obiezione con un incredibile dogmatismo. In
un'epoca in cui persino i preti sono dilaniati da crisi spirituali, il militante conserva la
sua fede.
Alcune organizzazioni tradizionali cercano di attuare delle forme organizzative
parallele più o meno permanenti. Esse sperano, appellandosi all'«autonomia
proletaria», di recuperare, o quanto meno influenzare, persone che altrimenti si
sarebbero loro sottratte.
Si possono citare il Secours Rouge (8), l'OJTR (9) e le Assemblee operai-contadini del
PSU. Ma anche certi giornali indipendenti o legati a organizzazioni che pretendono di
esprimere soltanto il punto di vista delle masse rivoluzionarie o di gruppi autonomi di
base. Citiamo qui i «Cahiers de Mai», «Le technique en lutte», «L’outil des
travailleurs». Là dove si rifiuta di porre tanto le questioni dell'organizzazione quanto quelle teoriche, col pretesto che il momento della costruzione del partito
rivoluzionario non è ancora maturo o in nome di uno spontaneismo paccottiglia («noi
non siamo un'organizzazione, ma un'aggregazione di bravi compagni, una comunità»
etc.), si può essere sicuri della presenza della burocrazia e spesso anche di
un'ideologia maoista. Il vantaggio del trotzkismo è che il suo feticismo
dell'organizzazione lo costringe a mettere da subito in chiaro le proprie intenzioni:
esso recupera dichiarandosi. Il vantaggio del maoismo (non parliamo qui del
maoismo puro e archeo-stalinista, del tipo Humanité Rouge (10) è che crea le
condizioni del suo proprio superamento: a forza di giocare il ruolo degli equilibristi
del recupero, i maoisti finiranno per cadere.
OGGETTIVITÀ E SOGGETTIVITÀ
I sistemi di idee adottati dai militanti variano a seconda dell'organizzazione, ma
sono tutti minati dalla necessità di mistificare la natura dell'attività che si nasconde
dietro di essi e la separazione dalle masse. Allo stesso modo, si trova invariabilmente,
al cuore delle ideologie militanti, la separazione tra oggettività e soggettività,
concepita in termini meccanici e astorici.
Il militante che si mette al servizio del popolo, benché non neghi che la sua attività
possiede delle motivazioni soggettive, rifiuta di accordare loro importanza. Ad ogni
modo, ciò che è soggettivo deve essere eliminato in favore di ciò che è oggettivo. Il
militante, rifiutando di essere mosso dai propri desideri, è costretto a invocare la
necessità storica considerata come alcunché di esteriore al mondo dei desideri. Grazie
al «socialismo scientifico», forma cristallizzata di un marxismo degenerato, crede di
poter scoprire il senso della storia e di adattarvisi.
Egli si ubriaca di concetti il cui significato gli sfugge: forze produttive, rapporti di
produzione, legge del valore, dittatura del proletariato etc. Tutto questo gli permette
di rassicurare se stesso sulla serietà della propria attività. Ponendosi fuori dalla critica
del mondo, si condanna a non capire nulla del suo funzionamento. La passione che
non riesce a esprimere nella sua vita quotidiana, la trasferisce nella partecipazione
immaginaria allo «spettacolo rivoluzionario mondiale». Il mondo è ridotto al rango di
un teatro di Pulcinella dove si affrontano buoni e malvagi, imperialisti e anti-
imperialisti. Egli compensa la mediocrità della sua esistenza identificandosi con le
stars di questo circo mondiale. Il culmine del ridicolo è stato certo raggiunto con il
culto del «Che». Economista delirante, pietoso stratega, ma in compenso bel ragazzo,
Guevara avrà avuto almeno la consolazione di vedere ricompensato il suo talento
hollywoodiano con un record nella vendita di poster.
Che cos'è la soggettività se non ciò che residua dell'oggettività, ciò che una società
fondata sulla produzione mercantile non può integrare? La soggettività dell'artista si
oggettiva nell'opera d'arte. Per il lavoratore separato dai mezzi e dall'organizzazione
della produzione, la soggettività è ridotta al rango di manie, a puro fantasma: ciò che
si oggettiva lo fa per mezzo del capitale, e diviene esso stesso capitale. L'attività
rivoluzionaria, tanto quanto il mondo che prefigura, supera la separazione tra
oggettività e soggettività. Essa oggettiva la soggettività e investe soggettivamente il
mondo oggettivo. La rivoluzione proletaria rappresenta l'irruzione della soggettività!
Non si tratta di ricadere nel mito della «vera natura umana», dell'«eterna essenza»
dell'uomo che, repressa dalla Società, cercherebbe di riemergere. Ma se la forma e la
natura dei nostri desideri cambiano, essi non si riducono al bisogno di consumare
questo o quel prodotto. Determinata storicamente dall'evoluzione della produzione
mercantile, la soggettività non si piega in alcun modo alle necessità del consumo e
della produzione. Per recuperare i desideri dei consumatori, la produzione mercantile
vi si deve continuamente adattare; ma essa è incapace di soddisfare la volontà di
vivere, realizzando totalmente e direttamente i nostri desideri. Avanguardia della
provocazione mercantile, le vetrine sono sempre più spesso sottoposte alla critica del
pavé!
Coloro che rifiutano di considerare la realtà dei propri desideri in nome del
«pensiero materialista», rischiano di non accorgersi della potenza dei nostri desideri
che li travolgerà.
I militanti e i loro ideologi sono sempre meno in grado di capire la loro epoca e
aderire alla storia. Incapaci di distillare un pensiero che sia almeno un po' moderno, si
riducono a frugare nelle pattumiere della storia per recuperare ideologie che già da
tempo hanno dato prova del loro fallimento: anarchismo, leninismo, trotzkismo etc.
Per rendere il tutto più digeribile, lo condiscono con un po' di maoismo o di castrismo
mal compresi. Essi si richiamano al movimento operaio, ma confondono la sua storia
con la costruzione del capitalismo di Stato in Russia o con l'epopea burocratico-
contadina della «Lunga Marcia» in Cina. Si pretendono marxisti, ma non
comprendono che il progetto marxiano dell'abolizione del lavoro salariato, della
produzione mercantile e dello Stato, è indissociabile dalla presa del potere da parte
del proletariato.
I pensatori «marxisti» sono vieppiù incapaci di riprendere l'analisi delle
contraddizioni fondamentali del capitalismo inaugurata da Marx, e rimangono
invischiati sul terreno dell'economia politica borghese, rimasticando insulsaggini
sulla legge del valore-lavoro, la diminuzione tendenziale del saggio di profitto, la
realizzazione del plusvalore. Malgrado le loro pretese, non capiscono nulla del
movimento del capitalismo moderno. Sentendosi obbligati a utilizzare un vocabolario
marxista, di cui non conoscono le modalità d'uso, si privano di quelle poche
possibilità di analisi che restano all'economia politica. Le loro «ricerche» non
valgono quelle di un qualunque discepolo di Keynes.
MILITANTI E CONSIGLI OPERAI
Le organizzazioni militanti si autonomizzano rispetto alle masse che pretendono di
rappresentare. Esse sono conseguentemente portate a pensare che non sia la classe
operaia a fare la rivoluzione, bensì «le organizzazioni della classe operaia». Si tratta dunque di rafforzare queste ultime. Il proletariato diventa al limite una sorta di
materia bruta, il concime sul quale può sbocciare la rosa rossa del Partito
Rivoluzionario. Le necessità del recupero esigono che non si parli troppo di questo
aspetto pubblicamente; ed è qui che nasce la demagogia.
L'autonomia dei fini delle organizzazioni militanti deve essere dissimulata (a
questo serve l'ideologia). Si proclama a gran voce di essere al servizio del popolo, che
non si agisce in vista del proprio interesse, e che se per un breve momento si è
costretti a prendere e gestire il potere, non se ne abuserà. Una volta che la classe
operaia sarà stata ben educata, ci si affretterà a rimetterlo nelle sue mani.
La storia dei consigli operai dimostra che le cosiddette organizzazioni operaie
hanno sistematicamente cercato di fare il proprio gioco e di togliere le castagne dal
fuoco. Questo, naturalmente, con le migliori intenzioni. Per salvaguardare il proprio
potere, esse hanno cercato di circoscrivere, recuperare e distruggere le forme
autonome di organizzazione che il proletariato di volta in volta si dava: soviet
territoriali, comitati di fabbrica etc.
I soviet russi sono stati manipolati, e successivamente liquidati, dal partito e dallo
Stato bolscevico. Nel 1905, Lenin non accorda loro alcuna importanza. Nel 1917,
viceversa, egli proclama: «tutto il potere ai soviet!». Nel 1921, dopo avere fornito il
trampolino per prendere il potere, i soviet sono diventati un peso: gli operai e i
marinai di Kronstadt, che chiedono soviet liberi, sono schiacciati dall'Armata Rossa.
In Germania, il governo socialdemocratico dei «commissari del popolo» si incarica
di liquidare i consigli in nome della rivoluzione. In Spagna, sono ancora i
«comunisti» che si incaricano della distruzione delle forme di potere popolare.
Questo avrebbe dovuto permettere di condurre con maggiore efficacia la lotta contro
il fascismo! Ogni esperienza storica ha confermato l'antagonismo che oppone il
proletariato rivoluzionario alle organizzazioni militanti. L'ideologia più estremista
può dissimulare la posizione più controrivoluzionaria. Se alcune organizzazioni,
come la Lega di Spartaco e la CNT-FAI anarco-sindacalista, si sono potute battere al
fianco del proletariato rivoluzionario fino alla disfatta comune, nulla prova che queste
stesse organizzazioni non avrebbero cominciato a lottare per imporre il proprio
potere, una volta sconfitto l'avversario (11) .
I militanti, pur essendosi ritirati nel chiostro della politica, restano individui sociali, e in quanto tali sono sottoposti all'influenza del loro ambiente. Quando quest'ultimo si surriscalda, molti possono passare nel campo della rivoluzione. Si sono persino visti delegati sindacali prendere la testa di un sequestro! Ma la diserzione di massa dei militanti sarà tanto più probabile, quanto più i consigli e i rivoluzionari consiliari saranno forti. Il movimento può essere aiutato nei suoi successi dai rinforzi provenienti dalle file delle organizzazioni militanti. Ma in caso di errori o di sbandamenti, l'ago della bilancia potrebbe tornare a pendere dalla parte di queste ultime: le organizzazioni militanti saranno rafforzate dall'apporto di proletari in cerca di rassicurazione. La liquidazione dei consigli operai è stata resa possibile dalla loro debolezza, dalla loro incapacità di applicare al proprio interno le regole della democrazia diretta e di prendere effettivamente nelle proprie mani tutto il potere, schiacciando gli altri poteri che sopravvivevano al di fuori di essi (12). Le organizzazioni militanti non sono che la debolezza del proletariato esteriorizzata, che si rivolta contro il proletariato stesso. I lavoratori commetteranno ancora degli errori. Non troveranno subito la forma adeguata del loro potere. Ma meno le masse si faranno illusioni sul militantismo, più il potere dei consigli avrà possibilità di svilupparsi. Screditare e ridicolizzare i militanti: ecco il compito che spetta fin d'ora ai rivoluzionari. Questo compito sarà portato a termine dalla critica in atto rappresentata dalla nascita delle organizzazioni consiliari. Queste organizzazioni sapranno senz'altro fare a meno di una direzione e di un apparato burocratico. Prodotto della solidarietà dei lavoratori combattivi, esse saranno delle libere associazioni di individui autonomi. E mostreranno per mezzo delle loro idee, ma soprattutto attraverso il loro comportamento nel corso delle lotte, che non rischiano in nessun caso di perseguire interessi distinti da quelli del proletariato nel suo complesso. Lo sviluppo del capitalismo moderno, che si traduce nell'occupazione dell'intero spazio sociale da parte della merce, nella generalizzazione del lavoro salariato, ma anche nel deterioramento dei valori morali e nel disprezzo del lavoro e delle ideologie, porterà a un'intensificazione della violenza dello scontro. I proletari andranno molto più lontano, e lo faranno molto più rapidamente rispetto al passato. Se alcune organizzazioni militanti hanno potuto un tempo svolgere un ruolo rivoluzionario, oggi questo non è più possibile. Nel corso delle imminenti grandi battaglie della lotta rivoluzionaria, queste organizzazioni sono destinate a diventare rapidamente sempre più controrivoluzionarie.
I militanti, pur essendosi ritirati nel chiostro della politica, restano individui sociali, e in quanto tali sono sottoposti all'influenza del loro ambiente. Quando quest'ultimo si surriscalda, molti possono passare nel campo della rivoluzione. Si sono persino visti delegati sindacali prendere la testa di un sequestro! Ma la diserzione di massa dei militanti sarà tanto più probabile, quanto più i consigli e i rivoluzionari consiliari saranno forti. Il movimento può essere aiutato nei suoi successi dai rinforzi provenienti dalle file delle organizzazioni militanti. Ma in caso di errori o di sbandamenti, l'ago della bilancia potrebbe tornare a pendere dalla parte di queste ultime: le organizzazioni militanti saranno rafforzate dall'apporto di proletari in cerca di rassicurazione. La liquidazione dei consigli operai è stata resa possibile dalla loro debolezza, dalla loro incapacità di applicare al proprio interno le regole della democrazia diretta e di prendere effettivamente nelle proprie mani tutto il potere, schiacciando gli altri poteri che sopravvivevano al di fuori di essi (12). Le organizzazioni militanti non sono che la debolezza del proletariato esteriorizzata, che si rivolta contro il proletariato stesso. I lavoratori commetteranno ancora degli errori. Non troveranno subito la forma adeguata del loro potere. Ma meno le masse si faranno illusioni sul militantismo, più il potere dei consigli avrà possibilità di svilupparsi. Screditare e ridicolizzare i militanti: ecco il compito che spetta fin d'ora ai rivoluzionari. Questo compito sarà portato a termine dalla critica in atto rappresentata dalla nascita delle organizzazioni consiliari. Queste organizzazioni sapranno senz'altro fare a meno di una direzione e di un apparato burocratico. Prodotto della solidarietà dei lavoratori combattivi, esse saranno delle libere associazioni di individui autonomi. E mostreranno per mezzo delle loro idee, ma soprattutto attraverso il loro comportamento nel corso delle lotte, che non rischiano in nessun caso di perseguire interessi distinti da quelli del proletariato nel suo complesso. Lo sviluppo del capitalismo moderno, che si traduce nell'occupazione dell'intero spazio sociale da parte della merce, nella generalizzazione del lavoro salariato, ma anche nel deterioramento dei valori morali e nel disprezzo del lavoro e delle ideologie, porterà a un'intensificazione della violenza dello scontro. I proletari andranno molto più lontano, e lo faranno molto più rapidamente rispetto al passato. Se alcune organizzazioni militanti hanno potuto un tempo svolgere un ruolo rivoluzionario, oggi questo non è più possibile. Nel corso delle imminenti grandi battaglie della lotta rivoluzionaria, queste organizzazioni sono destinate a diventare rapidamente sempre più controrivoluzionarie.
grazie a :
http://mondosenzagalere.blogspot.com/2011/08/il-militantismo-stadio-supremo.html
*****
Note:
(1) L'OJTR, costituitasi nel 1970, non era inizialmente che una sorta di organizzazione di base del Parti Socialiste Unifié (PSU). Ben presto, tuttavia, fu attratta dalle tesi dell’Internazionale Situazionista e, dopo meno di un anno dalla sua fondazione, ruppe con il PSU e con il tradizionale stile di intervento delle minoranze rivoluzionarie [cfr. il volantino A Bas Le Proletariat/Vive Le Communisme]. Nel 1972, pubblicò l’opuscolo Le Militantisme, stade suprême de l’aliénation. Claude Guillon, sul suo sito, riferisce che dopo la pubblicazione, gli esponenti dell’OJTR furono fatti oggetto di vere e proprie persecuzioni. Non solo da parte del PSU, che imbastì contro di loro un autentico processo politico, ma anche dei gruppi maoisti e trotzkisti, che giunsero a fare ricorso alla violenza fisica pur di impedire la diffusione dell'opuscolo.
(2) Confédération Générale du Travail, sindacato francese tradizionalmente legato al PCF (Parti Communiste Français).
(3) Il termine gauchiste indica originariamente le tendenze che negli anni '20 e '30 criticarono la Terza Internazionale, pur non rompendo radicalmente con essa (ad esempio i trotzkisti). Negli anni '60 e '70 il suo significato viene esteso sino a includere l'intera galassia dei gruppi extraparlamentari, nella fattispecie maoisti, trotzkisti e «operaisti».
(4) Alain Geismar, leader della Gauche Proletariènne (GP), organizzazione di matrice maoista nata nel 1969. L'organizzazione fu sostenuta da intellettuali del calibro di Jean-Paul Sartre, Louis Althusser e Michel Foucault. Si sciolse nel 1973.
(5) Confédération Française Démocratique du Travail. Sindacato d’ispirazione cristiana, fiancheggiava il Partito socialista. «Radicalizzò» strumentalmente le proprie posizioni in seguito alle lotte del '68, anche in virtù dell'afflusso di militanti gauchistes.
(6) Alliances des Jeunes pour le Socialisme. Organizzazione giovanile dei trotzkisti «lambertisti» dell'epoca.
(7) Cfr. Nota 5.
(8) Organizzazione contro la repressione fondata nel 1970, sulla base di un appello lanciato da Jean-Paul Sartre, in seguito alla dure condanne subite da alcuni esponenti della Gauche Proletariènne.
(9) Cfr. Nota (1)
(10) Organizzazione maoista, strettamente allineata alle posizioni del governo cinese, nucleo del futuro Parti Communiste Marxiste-Léniniste (PCML).
(11) Per una critica del ruolo opportunistico, quando non apertamente controrivoluzionario, svolto in realtà da queste due organizzazioni, si vedano: DENIS AUTHIER, JEAN BARROT, La sinistra comunista in Germania (1918-1921), La Salamandra, Milano, 1981 e GILLES DAUVÉ, Quand meurent les insurrections.
(12) Per una critica da un punto di vista radicale dell'ideologia consiliare, democratica e autogestionaria cfr., ad esempio, GILLES DAUVÉ, Le Roman de nos origines. Alle origini della critica radicale, Quaderni di Pagine Marxiste, Milano, 2010.
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