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La critica è per ogni
teoria l’unica verifica storica della sua qualità e mi chiedo se l’autore de La Società dello spettacolo non fosse
più debordista di quanto sia stato marxista Marx quando affermava di non
esserlo.
Probabilmente un po’ di
più, suvvia, poiché il narcisismo assai poco autoironico del Panegirico con cui Guy Debord ha scritto
la parola fine sulla sua generosa avventura di vita non conferma in maniera eclatante
il trionfo dell’intelligenza sensibile sulla volontà di potenza. Ciononostante,
quelli che hanno passato una vita a mangiare del Debord per sputarlo poi con
una foga ben più passionale che appassionante, sono mal piazzati per declamare
al mondo la vacuità dell’ex-maestro situazionista da loro reietto e la sua
assoluta incompetenza.
Che coraggio, del resto,
nel trattare ossessivamente da alcolizzato un morto che da vivo si stupiva del
fatto che i suoi molteplici nemici non denunciassero con maggior risonanza il
tasso alcolico delle sue pratiche!
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Lo spettacolo non è che
l’involucro del redditizio, ma un involucro necessario alla gestione del potere
sociale del feticismo della merce durante la fase del dominio reale del
Capitale sul lavoro astratto e sui lavoratori concreti (disoccupati, spettatori
e turisti inclusi beninteso).
Lo spettacolo è la
religione profana di una materialità asservita al mercantilismo. Si presenta
come una propaganda dell’esistente, ma la realtà non è tutta spettacolo e tutto
lo spettacolo non è soltanto propaganda. Esso si deposita nella struttura
caratteriale dei soggetti come una voluttà artificiale avvolta nel cellofan
della sopravvivenza. Inquinando la creatività e i desideri reali dei soggetti, esso
è capace di trasformare ogni potenzialità umana incompiuta in una disumanità
riuscita.
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Unificando il coacervo
dei desideri di godimento in un godimento fittizio, monomaniaco e redditizio,
lo spettacolo svia la parte di perversione spontanea, giocosa e naturale
trasmutandola in perversione guidata e coatta. Per il suo tramite si compie
l’invasione intima e sociale del feticismo della merce.
Lo spettacolo è il rapporto
sociale concreto risultante da un metodo scientifico di propaganda politica
derivata per mimetismo dalla pubblicità della merce. Esso è la forma precisa della
passività prodotta dalla propaganda del potere dominante all’epoca della
materializzazione dell’ideologia.
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Quella servitù
volontaria che La Boétie denunciava già qualche secolo fa come una
manifestazione spontanea della stupidità superstiziosa di molti dei suoi
contemporanei, aggredisce ormai tutti gli odierni sopravvissuti grazie a una
pedagogia che lo spettacolo diffonde avvalendosi di mezzi tecnici praticamente
illimitati.
Lo spettacolo è la
propaganda dell’esistente in quanto volontà servile inculcata negli schiavi
attraverso la rappresentazione di una felicità miserabile infiltrata per
effrazione, essenzialmente mass-mediatica, nel loro universo immaginario. Una
tale rappresentazione è la messa in scena ripetuta del superamento magico e illusorio
della noia di sopravvivenza travestita da «dépense»
edonista e manifestazione di potenza.
Il concetto di
spettacolo risulta essenziale per capire la fase terminale del capitalismo,
anche se quest’ultimo non ha certo atteso lo spettacolo per mettere in scena il
suo grado radicale di sfruttamento e di alienazione.
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Il pensiero profano,
descritto e definito come amore della conoscenza, è nato nel solco di una
società mercantile alla quale la filosofia ha sempre dovuto mostrare un
rispetto più o meno cosciente.
Ci si avvicina qui alla
preistoria dello spettacolo, poiché la filosofia, ancilla theologiae, non si è mai interamente sottratta
all’infiltrazione del pensiero religioso, universo dogmatico classico in cui
affondano le radici dello spettacolo.
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Essendosi affermato
attraverso la laicizzazione ideologica delle società mercantili, il capitalismo
ha dovuto attendere la società dello spettacolo per osare presentare la sua
essenza - la valorizzazione economica - come il dio grottesco di un’ultima religione.
La separazione del corpo
e dello spirito che le religioni hanno sempre promesso di superare (re-ligo =
riunisco quel che è separato) per meglio conservare, in realtà, il potere
temporale derivato da questa separazione, domina il mondo da quando è apparso
il lavoro, da quando il produttivismo è nato insieme alla proprietà privata e
l’economia si è tramutata in economia politica.
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In seguito alla
rivoluzione industriale e borghese, sotto la spinta di diritti dell’uomo che
nascondevano assai maldestramente i diritti trionfanti della merce, il pensiero
moderno osò attaccare l’arcaismo dell’alienazione religiosa senza preoccuparsi
dell’inquietante conseguenza che si finiva in tal modo per favorire lo sviluppo
dell’alienazione economica.
Il pensiero dialettico
aprì una breccia importante nella continuità storica del potere
dell’alienazione sociale, tuttavia, essendo il capitalismo assolutamente
onnivoro, né Hegel né Marx hanno potuto sfuggire totalmente ai recuperi e ai
danni provocati da questo modo di produzione cannibale.
Tutto quel che è reale è
razionale, ma tutto quel che è razionale non è, invece, sempre reale. Questo è
il limite insuperabile di ogni idealismo. Questo è anche lo zoccolo duro che
unisce tutti coloro che s’impegnano per rimettere l’uomo sui propri piedi
affinché possa finalmente godere di essere al mondo come desidera e merita.
Purtroppo il
materialismo non ha mai saputo essere abbastanza storico e sufficientemente dialettico
per non produrre anch’esso una struttura caratteriale autoritaria e fascista.
Una tale corazza
orgasticamente ingorgata ha educato i cittadini di un popolo spettacolarmente
sovrano alla rimozione sistematica, contribuendo all’avvento della società
dello spettacolo, fase terminale dell’alienazione di un’epoca marcata dal
trionfo degradante di un modo di produzione autonomizzatosi dall’uomo che l’ha
creato.
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In nome del comunismo,
lo spettacolo ha fatto irruzione - in modo concentrato - nell’immaginario
confiscato dei militanti stakanovisti di un capitalismo di Stato falsamente
opposto alla società mercantile, a sua volta in via di spettacolarizzazione
diffusa.
L’opposizione
d’ideologie fasciste nere, brune o rosse, conflittuali e becere ma omogenee e
funzionali alla società produttivista, ha costituito il brodo di coltura da cui
è scaturita la società dello spettacolo. Questa si è presentata come un
progresso collettivo e come l’incarnazione di una speranza umanitaria oltre e
contro tutti gli orrori vissuti. Questa speranza spettacolare si è fatta carico
di tutta la volontà di emancipazione riducendola a un meccanismo redditizio in
un momento in cui la materialità dei bisogni accumulati rendeva i desideri
particolarmente ottusi e primari. Cancellando la complessità creativa di esseri
veramente liberi e facendo leva sul trauma di uomini appena restituiti a un
minimo vitale di sopravvivenza, la società dello spettacolo ha fatto di una
libertà da schiavi la sua insegna pubblicitaria. Non è certo un caso se la
nuova Costituzione di un paese che stava appunto uscendo dall’incubo fascista,
come l’Italia del 1946, ha scelto come suo fondamento rivendicato e consensualmente
proclamato : “L’Italia è una repubblica
fondata sul lavoro”. Un anno prima, gli internati di Auschwitz erano ancora
accolti al loro arrivo dall’orribile spot pubblicitario inneggiante al lavoro che rende liberi!
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La società dello
spettacolo secerne senza sosta e senza scrupoli tra i fattori ideologici quelli
che privilegiano sempre la redditività e l’addomesticamento che la favorisce.
Essa non include certamente tutto il mondo reale, ma rappresenta la materialità
virtuale di un dominio reale del Capitale sugli esseri umani della nostra epoca
infelice.
Da quando lo spettacolo
ha realizzato l’amalgama delle sue due forme originarie (spettacolo concentrato e spettacolo
diffuso) nella sintesi planetaria di un unico spettacolo integrato, i computers e altre diavolerie
nanotecnologiche non hanno fatto altro che registrare questa integrazione,
regolando a posteriori una virtualità dell’umano (la sua obsolescenza)
intrinseca alla società dei consumi sorta come una weltanschauung (o come uno
spot pubblicitario, se si preferisce) dalle rovine divenute radioattive della
seconda guerra mondiale.
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La colonizzazione
dell’immaginario da parte dello spettacolo è oggi lo stadio finale
dell’imperialismo della merce e della diffusione capillare del suo feticismo.
Il territorio psicogeografico dell’individuo sociale è l’ultima terra incognita
in via di colonizzazione da parte del capitalismo planetario. La realizzazione
di quest’ultima colonizzazione redditizia si mostra come il compito specifico
dello spettacolo.
Su questo territorio si
giocano e si giocheranno le battaglie decisive per l’emancipazione dell’uomo o
per la sua definitiva sparizione in quanto essere umano.
La produzione di falsa
coscienza delegata da mezzo secolo ai pedagoghi spettacolari (ognuno nel suo
ruolo mercenario, filosofi, giornalisti, sociologi, psicologi, spin doctors,
militari, burocrati, gendarmi, giudici, guru, stars del show-business, sportivi
e terroristi veri o presunti, sono tutti invischiati nel reality show
quotidiano patetico e perverso dove imperversano quei mendicanti del potere che
sono gli uomini politici, sinistre alternative incluse) ha per obiettivo di
cortocircuitare ogni autonomia di giudizio e d’azione degli individui sociali
all’interno di un mondo reale in cui la coscienza soggettiva è manipolata e
filtrata senza interruzione.
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Ci stiamo avvicinando
sempre più all’inondazione o all’ineluttabile «incidente» nucleare che spazzerà
via la vita al suo passaggio, come uno tsunami. E come uno tsunami della
coscienza, la realtà non spettacolare, orgastica e solidale degli esseri umani
rischia di riapparire in una lotta finale per rovesciare la prospettiva del
mondo.
Non è che una scommessa,
magari folle, del resto, agli occhi di coloro che, innumerevoli e maggioritari,
hanno come unica rigida follia la normalità contemplativa e il consumo
vampiresco della propria vita assente. Una scommessa vitale, però, perché non
abbiamo più la scelta né il tempo per dei compromessi opportunistici o per
riformismi redditizi, ora che anche la natura si è messa a scandire degli
ultimatum indiscutibili.
Le maggioranze
silenziose sono destinate a urlare di dolore e di rabbia sotto la frusta dei
loro guardiani, mentre una democrazia ancora tutta da inventare passerà
attraverso l’azione di minoranze coscienti della fine di una civiltà.
L’emancipazione dei
lavoratori del proletariato assoluto che sopravvive nell’universo
concentrazionario della società spettacolare mercantile non può più farsi
illusioni. L’umanità incompiuta dell’uomo non ha che da perdere le proprie
catene spettacolari per reinventare un mondo di godimenti diversi e soprattutto
poetici perché materiali e spirituali nello stesso tempo. Una tale costruzione
sarà l’opera dei lavoratori stessi, sbarazzati di ogni coscienza portata
dall’esterno, di ogni avanguardia parassitaria e di ogni illusione di
perfezione e di eternità; oppure non sarà e lo spettacolo scriverà la parola
fine su un campo di rovine. Non abbiamo più scelta: ci siamo finora ridotti a
spettatori del crollo di un mondo. Per sopravvivergli dobbiamo ormai diventare
gli attori dell’abrogazione del mondo dello spettacolo e di tutti i suoi
cortigiani.
Sergio Ghirardi, 20
settembre 2011