«Il soggetto ideale di un ordinamento totalitario
non è il nazista convinto o il comunista convinto; sono piuttosto le persone
per le quali la distinzione tra fatto e finzione (cioè la realtà
dell’esperienza) non esiste più.»
Hannah Arendt, Origini del totalitarismo, 1958
Oltre
il totalitarismo della democrazia spettacolare
Chiunque si ponga la questione sociale
nei suoi termini radicali si assume immediatamente l’improbo compito di
sottrarre le parole e i concetti che ne compongono la trama contemporanea al
senso teleguidato e falsificante che la pseudocultura spettacolare diffusa
appiccica loro addosso.
Che prima di ogni rivoluzione la
cultura dominante sia sempre la cultura della classe dominante resta vero anche
oggi quando, andando ben oltre gli interessi di una classe particolare, il
dominio si è infiltrato tra le caste umiliate e confuse di un capitalismo
antropomorfizzato per diffondervi l’interclassismo dello spettacolo che educa
ovunque gli uomini capitalizzati all’addomesticamento.
Le derive di significato dei termini
fondamentali che compongono la storia delle dottrine politiche e delle loro
mutazioni tendono sistematicamente a falsare il senso delle passioni che le
articolano e i progetti sociali nei quali esse sono iscritte. Ciò è vero da
sempre, ma è ancor più vero oggi quando quasi tutto si esprime sul palcoscenico
di una società dello spettacolo in piena decadenza.
Il peso dell’ideologia ci accompagna
sempre per spingerci ineluttabilmente verso i territori amministrati dal
nemico, laddove alcune parole fondamentali sono intese acriticamente secondo il
sistema di valori dell’ideologia dominante ormai diffusa in tutto l’arco,
costituzionale e non, della società spettacolare; un arco che va da destra a
sinistra, dai Parlamenti e dallo Stato alle Borse e al Mercato, dal riformismo
pragmatico al rivoluzionarismo astratto.
A questo proposito, ho rilevato nel
libro di Nico Berti Libertà senza
rivoluzione un esempio palese della difficoltà incontrata dal pensiero critico
radicale (al di fuori, quindi, delle elucubrazioni accademiche e della malafede
dei mercenari della cultura) nel sottrarsi al “buon senso” conformista che
scrive i suoi teoremi usando delle parole pesantemente ideologizzate.
Seguendo una moda settaria piuttosto
frequente tra gli anarchici antimarxisti (soltanto in parte giustificata
dall’odioso autoritarismo ideologico dei teologi marxisti-leninisti), un Berti
“liberal-libertario”[1]
identifica piattamente il progetto comunista con il cosiddetto comunismo reale;
mentre, con una facilità sconcertante per un libertario, concede, invece, il
labello di qualità democratica alla democrazia virtuale e fittizia che da
secoli è la forma più alta ed efficace del dominio del capitalismo e dei suoi
servitori volontari sull’ultima classe della storia, la classe della coscienza.
Porre semplicisticamente l’alternativa
tra democrazia e totalitarismo, senza prendere in conto lo scivolamento
semantico controllato che ho appena denunciato, spinge a ignorare il distinguo necessario
tra la democrazia fittizia esistente (parlamentare, maggioritaria e gerarchica)
e la democrazia reale insita nel progetto rivoluzionario di autogestione
generalizzata della vita quotidiana.
Per un libertario - e assumo
pienamente per me questo qualificativo - l’alternativa radicale non si pone tra
democrazia e totalitarismo quanto, ben prima e più a fondo, tra una democrazia
reale, inesistente, e la democrazia spettacolare, diffusa come rappresentazione
ideologica del totalitarismo affinato della società dello spettacolo.
Non c’è bisogno di scomodare
l’anarchia per denunciare il totalitarismo nelle sue forme becere,
tradizionali. L’antifascismo ha unito in un primo interclassismo tanto
inevitabile che ambiguo, atei e credenti, borghesi e proletari, liberali e
comunisti, libertari e autoritari non totalitari nella lotta contro “la bestia immonda” conclusasi con
l’instaurazione delle democrazie parlamentari della seconda metà del ventesimo
secolo, dimostratesi, in qualche decennio, il peggior prodotto del fascismo,
finalmente sconfitto unicamente nella sua forma politica arcaica.
Quale esempio più lampante della
dimensione spettacolare delle democrazie contemporanee potrebbe competere con
quello della giovane repubblica italiana costituzionalmente “nata dalla resistenza” antifascista e
passata da mezzo secolo di clericalismo democristiano a un ventennio di berlusconismo conclusosi con un’ammucchiata bipartisan
nei putridi palazzi di un potere mafioso?
Manipolata da destre e sinistre
confuse e complici nella corruzione produttivistica, ben oltre le loro diatribe
ideologiche di facciata, l’Europa artificialmente unita si è accontentata di un
governo dispotico direttamente in mano al potere economico ben prima che la
gerarchia mondializzata dell’economicismo imperante deponesse la maschera
democratica per consegnare esplicitamente i cittadini sovrani di ventisette
pseudodemocrazie alla finanziarizzazione capitalistica di un Super Stato
Europeo che nessuno ha scelto e ancor meno democraticamente.
In realtà, in una continuità tutto
sommato coerente ma umanamente inaccettabile, l’orribile visione del mondo dei
fascisti era stata ampiamente supportata e finanziata, fin dagli albori, da parecchi
capitalisti internazionali, membri riconosciuti delle democrazie occidentali
prebelliche. Questi mecenati capitalisti amorali, cinici umanisti del business,
hanno abbandonato gli appestati in camicia bruna ai loro potenziali suicidi
solo in vista della vittoria finale di un antifascismo nutritosi delle rovine
della seconda guerra mondiale.
In nome di una retorica antifascista
che non ha impedito a Stati e Chiese di correre in soccorso a un numero
considerevole di gerarchi nazisti e fascisti in fuga, fino a reintegrarli poi
nella piovra statale democratizzata, gli alleati di una coalizione opportunista
sono serviti a instaurare una democrazia planetaria fittizia opposta a un
capitalismo di Stato autoritario sedicente comunista (spettacolo diffuso contro
spettacolo concentrato).
Attraverso lo spettro dell’arma
nucleare e l’obsolescenza programmata dell’uomo, la guerra è rimasta sempre
minacciosa e potenzialmente apocalittica pur se congelata nel frigorifero
ideologico in cui si pavoneggiava una democrazia puramente virtuale.
Per orribili decenni, da entrambi i
lati di una cortina di ferro vergognosa, gli eredi di due fascismi contrapposti
si sono mostrati uniti nello sbandierare spettacolarmente diritti umani quasi
inesistenti. Tanto i diritti dell’uomo liberale che di quello proletario si
sono mostrati, infatti, l’alibi mercantile per un ben più redditizio diritto
della merce teso a sottomettere l’umanità intera al suo perpetuo delirio di
valorizzazione.
Il fascismo, le cui radici
caratteriali precedono di gran lunga le sue ramificazioni politiche, è dunque
servito al suo apparire come cane da guardia dello Stato autoritario (tautologia) contro le occupazioni delle
fabbriche che, sulla spinta del forte movimento operaio di quegli “anni venti”, preannunciavano il “rischio” dell’avvento di una possibile
democrazia reale[2].
Spinto all’autodistruzione da un
morboso delirio di onnipotenza marchiato dal riflesso di morte, il fascismo,
sconfitto sul piano militare, è stato parzialmente rimosso nel dopoguerra e
ridotto a un folklore patologico tenuto al guinzaglio in attesa degli eventi.
In Europa, un suo ritorno esplicito e
massiccio si è presentato raramente come possibile (vedi la Grecia dei
colonnelli) e il solo fascismo conquistatore esplicitamente al potere è stato,
per decenni, quello rosso sponsorizzato dall’Unione pseudosovietica.
Il fascismo nero è sopravvissuto come
una malattia incurabile, come una nostalgia demente, come il sogno di un boia
che attende il ripristino della pena di morte. Il potere pretendeva
ipocritamente ignorarlo, salvo qualche scampagnata finanziata dagli interessi
più segreti di Stati che dovevano qui far fuori un presidente scomodo, là
impaurire una popolazione che tendeva un po’ troppo a rialzare la testa o a
resistere al totalitarismo economico sempre più invadente.
Dallas, Piazza Fontana, il palazzo
della Moneda, esempi diversi che sorgono da un passato recente sottolineando
l’antifona che porta al presente.
Di fronte ai soprusi sempre più
ingiustificabili di banksters e multinazionali, il fascismo torna, infatti,
oggi a proporsi come un’eventuale scappatoia contingente per il capitalismo,
impelagato nell’illusoria attesa di un’uscita dalla crisi strutturale che lo
attraversa e lo fragilizza.
I Chamberlain dello spettacolo di
destra o di sinistra, maggiordomi che gestiscono da politicanti impotenti la
catastrofe sociale in atto, sono i migliori sponsors di un eventuale ritorno
demenziale di fascismi opportunisti, in attesa, da mezzo secolo, di una
rivincita certamente possibile ma destinata, comunque, all’effimero. Neppure
loro, infatti, servitori mafiosi di un capitalismo su cui vomitano le loro tare
razziste e xenofobe per meglio servirne gli scopi più occulti, potrebbero
durare al potere nel deserto nichilista che il capitalismo in fase terminale
sta preparando agli esseri umani.
Oggi le Albe dorate e i vari fascismi xenofobi, mascherati in movimenti
sociali, alzano la testa e sguainano i pugnali assassini ma i loro deliri
mortiferi sono agitati come un drappo rosso destinato, nella contingenza
attuale, a distrarre le popolazioni dall’espropriazione sistematica, concreta e
definitiva di tutti i loro diritti nella vita quotidiana[3].
La guerra civile tra fascismo e
antifascismo torna come un ultimo tragico diversivo spettacolare voluto dal
capitalismo nichilista in via di estinzione. Non si tratta certo d’ignorarla,
ma ancor meno di farne il punto cruciale della lotta tesa a superare la follia
capitalista che sta distruggendo il vivente.
Si ha l’impressione fallace di essere
tornati ai tempi dell’occupazione delle fabbriche, ma senza le fabbriche occupate.
Le quali, infatti, tendono piuttosto a essere disoccupate, spingendo la
coscienza di classe, acuita da quella che i galoppini mediatici continuano a
vendere come una crisi che riguarda tutti, a capire che non si tratta di
appropriarsi di questo mondo infetto, di battersi per salvarlo, quanto di
inventarne uno nuovo che ne sia il superamento.
Il fascismo può poco contro la
creatività. Può solo aspettare che essa manifesti la sua poesia per violentarla
pubblicamente.
Il fascismo è negazione senza superamento,
laddove la rivoluzione sociale è superamento dialettico della negazione.
Il fascismo può solo giocare sulla
paura, ma c’è un punto oltre il quale il ricatto alla paura non funziona più.
Non siamo lontani da questo punto e per questo il nemico da temere di più è lo
Stato e non i suoi pitbulls.
Giunti a un tal punto di non ritorno,
il fascismo si riduce visibilmente a una malattia opportunista del capitalismo
in fase terminale.
L’odio non può costruire nulla se non
dei ghetti e delle prigioni. Non solo per i nemici, ma anche per i suoi adepti,
per i beceri soldati di una guerra sociale combattuta dietro la bandiera
psicotica della peste emozionale e l’ossessione mortifera della redditività.
Si tratta ormai di andare contro
questa follia, oltre gli estremismi spettacolari che oppongono alle gerarchie
dominanti altre gerarchie, rinforzando così il nemico e giustificandone la
repressione agli occhi di un’opinione pubblica confusa e sprovvista di autonomia
di giudizio.
Non si combatte l’alienazione usando i
suoi metodi in un’ottica ottusamente vendicativa senza rinforzare, di fatto,
quel che si pretenderebbe abolire.
Da modo di produzione a tendenza
totalitaria, il capitalismo di Stato e Mercato si è trasformato in un impulso
nichilista che nel suo delirio finale insegue ormai la morte chiamandola
crescita. Non resta che costruire un nuovo mondo sociale che abroghi
positivamente il nichilismo spettacolare-mercantile.
Esclusa la terza via di una rivolta
democratica radicale, la scelta sembra ristretta tra il subire in silenzio il
terrore profuso da tutte le parrocchie ideologiche (terrore per ora soltanto
puntuale, ma già proiettato a ripetizione sugli schermi di uno spettacolo
sociale trasformatosi in minaccia permanente di un peggio imminente), accettando
di lasciarsi avvelenare progressivamente dall’aria, dal cibo e dall’acqua
inquinati, oppure lasciarsi intossicare dai lacrimogeni e massacrare dalla
violenza di uno Stato che difende la democrazia fittizia contro quegli stessi
cittadini che la sua propaganda più volgare continua grottescamente a definire
sovrani.
La violenza della repressione nella
Penisola Calcidica, in Val di Susa e a Notre Dame des Landes è già un
inquietante segno - in Grecia, in Italia e in Francia - della vera guerra
sociale senza quartiere che il capitalismo ha ormai dovunque dichiarato
all’umano, riducendo la democrazia ad alibi per il totalitarismo.
La fase terminale del capitalismo,
reso assolutamente disumano dal suo morboso riflesso di morte, è stata
inaugurata un undici settembre meno
sbandierato di quello del 2001, ma probabilmente anche più cruciale dal punto
di vista storico.
Nel 1973, in un’America latina
avvezza ai sussulti autoritari di dittature talvolta effimere ma reiterate fino
alla banalizzazione, il colpo di Stato perpetrato da Pinochet contro il
socialista Allende nascondeva ben altro che la smania di potere di un ennesimo caudillo. Dietro il cinico sterminio di
ogni spirito libero in Cile, c’era la lucida follia di una patologia
totalitaria intrinseca alla fase finale del capitalismo e alle sue smanie
valorizzatrici[4].
Prima che il crollo dell’impero
pseudosovietico consegnasse il mondo al liberalismo come un unico, gigantesco
supermercato planetario, Friedman e i suoi Chicago Boys hanno rappresentato la Hitler Jugendbewegung
del capitalismo reale, cioè del modo di produzione assunto al suo presunto
dominio totalitario sul mondo.
L’ideologia economica, vera e propria
religione atea di un mondo alienato, ha trovato in quel drappello di economisti
esaltati il progetto di soluzione finale alleggerito dalle tesi razziali del
fascismo arcaico e ridotto all’essenziale di un rovesciamento totale, radicale
e definitivo del rapporto uomo/merce.
Il feticismo della merce di Friedman e
camerati è emerso come una patologia aggressiva del sistema dominante, proprio
nel momento in cui gruppi sempre più ampi delle giovani generazioni
internazionali confermavano il loro rifiuto della società liberale appena
colpita da un imprevisto affronto epocale: la rivolta radicale di ampie fasce
di giovani cittadini e di lavoratori innamorati della libertà contro i consumi
e la felicità mercantile, ma anche contro ogni comunismo autoritario al
servizio del capitalismo di Stato.
Fedele al detto che la miglior difesa
è l’attacco, l’ultraliberalismo dispotico dei Chicago Boys si è incaricato
della distruzione sistematica del tessuto sociale umano mostratosi refrattario
e ribelle di fronte alla dittatura del Mercato.
L’obiettivo di un capitalismo resosi
conto che il fattore umano si opponeva ovunque ai suoi fini, dal Vietnam
all’Europa, da Praga a Parigi, si è concentrato allora, laddove era possibile,
sull’imposizione della sua disumanità redditizia con i metodi spicci e
indiscutibili del colpo di Stato.
Nell’arco di un decennio circa, dal
Cile, all’Argentina, dal Brasile all’Indonesia, la lunga tradizione del putsch
politico-militare ha permesso di imporre il dogma delle liberalizzazioni
economiche come un primo passo verso il preteso paradiso terrestre del libero
Mercato.
Il terrore per fare dimenticare
l’emancipazione, l’addomesticamento forzato per umiliare ogni istanza di
libertà. Gli anni ottanta sono stati il laboratorio demenziale che ha imposto
la propaganda dell’assurdo Eden economicista, fondato sul peccato originale del
debito, come una cattiva sorte imperversante sul pianeta. Degli analfabeti
politici, disumani e benestanti come Reagan e la Thatcher, l’hanno
messianicamente reclamizzato con tronfia prosopopea a masse di consumatori
dopati.
Mancava solo la caduta del muro e il
crollo della burocrazia sovietica per dare l’ultima spinta al delirio
ultraliberale. Anche i più sinistri burocrati di sinistra si sono allora riciclati
in adepti dell’ideologia delle privatizzazioni ad oltranza, contribuendo
all’instaurarsi della più macabra delle superstizioni: la favola del Libero
Mercato emancipatore. Anziché affrancarsi dall’autoritarismo del fascismo rosso
e dei burocrati che lo incarnavano, preservando le buone intenzioni miseramente
fallite di una società più giusta e fraterna, destre e sinistre parlamentari,
ossessionate dalla conservazione dei loro privilegi, si sono accordate per
integrare i burocrati e approfittare dell’autoritarismo, cancellando
definitivamente l’ipotesi di una democrazia consigliare osteggiata da tutti i
partiti politici formali e informali, indaffarati a spartirsi il bottino di un
economicismo assurdo e volgare.
In totale accordo con
l’ultraliberalismo, si è dunque gettato a mare il progetto tradito di una
società egualitaria, disegno abortito nell’incubo di un comunismo dal volto
altrettanto disumano che i suoi atti.
L’iperproduttivismo patetico e
irrazionale di un capitalismo in fase terminale ha preso corpo in questo nodo
della storia confiscata, laddove la mitologia economicista ha demolito ogni
possibile lettura umana dell’emancipazione.
Per rispondere al pericolo insito
nella prima rivolta antiproduttivistica della storia che ha attraversato il
mondo alla fine degli anni sessanta (Maggio 1968 e dintorni), l’ideologia
dominante ha saputo falsare e in parte appropriarsi di quel passaggio cruciale identificandolo
con un gauchismo confusionista ancora totalmente impregnato di ideologismi e
rancore e recuperabile, dunque, alla continuità del dominio.
Come recitava uno slogan profetico di
quei tempi andati, il vecchio mondo perverso e sempre più nichilista che era
dietro di noi ha raggiunto e fagocitato prima i più disperati, poi i più corruttibili
e infine i più confusi, finendo per tracimare anche dentro al carattere di
molti individui anonimi, laddove l’alienazione è più difficile da isolare e da
estirpare.
Del resto, i peggiori ideologi della
conservazione sono sempre assoldati tra gli strateghi frustrati delle
rivoluzioni fallite, indipendentemente dal grado di autoritarismo
dell’ideologia rivoluzionaria immessa sul mercato.
Ogni ideologia della libertà, con o
senza rivoluzione, è un passo ulteriore non verso la libertà, ma verso
l’ideologia, nel cui ambito nessuna libertà reale è mai praticabile.
Non a caso l’attenzione dei
situazionisti, libertari irrecuperabili e inclassificabili all’interno delle
categorie politiche abituali, si appuntava già mezzo secolo fa sulla denuncia
di ogni ideologia rivoluzionaria, situazionismo incluso: “La teoria rivoluzionaria è ormai nemica di ogni ideologia
rivoluzionaria e sa di esserlo.” (G. Debord, La società dello spettacolo, Tesi 124).
Popoli
e populismo, nazioni e nazionalismo
Quando, finito il suo pasto
cannibalesco nei vari paesi violentati dell’America latina e del cosiddetto
terzo mondo, il capitalismo si è rimesso a tavola per ingoiare anche il cuore
della società occidentale, ha dovuto prendere atto che le cicatrici ancora
recenti del conflitto tra fascismo e antifascismo non gli permettevano di
applicare meccanicamente all’Europa la ricetta speditiva con cui aveva imposto
l’ideologia ultraliberale dal Cile all’Argentina.
Troppo recente restava la memoria di
una resistenza alla disumanità in nome di un umano sensibile alla volontà di
vivere e di godere della vita, ben oltre le ideologie di servizio,
contemporaneamente gonfie di edonismi meccanicisti e di mistiche del
sacrificio.
L’ideale di un’Europa patria comune di
nazioni sopravvissute alle guerre fratricide di millenni, è stato allora la
carota che ha permesso al bastone dell’Unione Europea di penetrare più a fondo.
Niente colpi di Stato, anzi: con il
contributo della mortalità senile, exit Franco (1975) subito dopo Salazar
(1970), funerali trasformati in ottimi spot pubblicitari per inventarsi le
condizioni di un continente pacificato (Grecia esclusa) oltre ogni aspettativa.
Qualche mondanità rivoluzionaria di
facciata, tra garofani portoghesi e rose mitterandiane utili al recupero
ideologico del rischio di una vera rivoluzione dei desideri d’emancipazione,
poi in rapida successione: fine della dittatura sovietica, della Germania
spaccata in due e dei paesi satelliti, loro malgrado, della grande truffa
marxista-leninista.
Finalmente la libertà poteva
trasformarsi da parola evocatrice di bei sentimenti astratti in un ben più
pragmatico ultraliberalismo economico. Persino la Cina, pur sempre ancorata al
suo stupido maoismo passatista, ha mantenuto le bandiere rosse per mimetizzare meglio
lo schiavismo cinico e scientifico del suo beneamato proletariato.
Nell’Occidente cristiano, invece, in
un’orgia di demagogia e propaganda, quegli stessi burocrati che avevano adorato
i piani quinquennali del capitalismo di Stato, sono diventati gli adepti più
fedeli della privatizzazione di ogni bene pubblico e della soppressione di ogni
conquista sociale.
Privatizzare tutto quel che ancor si muove:
banchieri, affaristi, economisti, burocrati politici di destra e di sinistra si
sono mostrati perfettamente complici nella lotta mafiosa per l’addomesticamento
definitivo dell’essere umano.
Sotto la maschera di una
razionalizzazione astratta e discutibile, sostenuta dalla volontà di rompere
con il minimo ricordo dell’ideologia comunista finita definitivamente
all’indice, si è distrutto progressivamente il tessuto sociale di nazioni dalla
storia millenaria e assai poco comunista, del resto, nella maggior parte dei
casi.
Si trattava di liberare la
valorizzazione economica dalle scorie di un vero progresso umano riscattato a
spese del progresso capitalistico; decenni di lotte per l’emancipazione, di
conquiste nobili e necessarie per l’umanità mandate alla malora in pochi anni
in nome del sacro business.
Liberalizzare, privatizzare, ridurre
lo Stato a vigile al servizio del Mercato (mica abolirlo lo Stato -
intollerabile idea sovversiva e anarchicheggiante ! -; che un Mercato senza
Stato è come uno stupratore senza erezione o, peggio ancora, senza manganello).
Poi, in un crescendo confuso ma
cinicamente determinato, il colpo finale: la messa in scena della crisi e la
criminalizzazione del debito, su sfondo di finanziarizzazione galoppante
dell’economia planetaria.
Stati, banche, multinazionali e
strutture burocratiche asservite per natura al funzionamento dell’apparato
produttivo capitalista e della sua amministrazione planetaria (FMI, WTO), hanno
ridotto la politica alla gestione dell’esistente, escludendo autoritariamente
che un qualunque altro mondo migliore fosse possibile.
Questo era e doveva restare l’unico
mondo possibile e ogni altra ipotesi andava bollata come ingenua utopia o
diabolica propaganda populista, per tenere sotto controllo le masse di ignari maccartisti berlusconizzati cui sono
stati ridotti i cittadini-spettatori-consumatori delle democrazie parlamentari.
Il delirio dei Chicago boys è dunque
brillantemente sopravvissuto ai suoi maestri finalmente deceduti, perché
conteneva l’essenziale dell’ideologia intrinseca al capitalismo in fase
terminale: muoia il vivente fino all’ultima redditività; nel paradiso desertico
di un pianeta genocidizzato, il Mercato riconoscerà i suoi.
Non si spiega altrimenti il mantra
produttivistico della crescita senza fine che incalza i sopravvissuti di un
mondo finito e violentato nei suoi equilibri vitali che lancia ormai
quotidianamente segnali sul raggiunto limite della sua sopportabilità.
Unica grande pensata strategica degna
dei migliori spin doctors: dopo ogni
catastrofe prevedere una messa funebre collettiva per esorcizzare la paura e
continuare imperterriti ad aggredire la natura e il vivente a fini economici.
Chernobyl, Fukushima, l’amianto,
l’inquinamento delle falde acquifere? Avanti con il nucleare, con il TAV e con
il gas di scisto !
L’importanza delle foreste primarie e
della biodiversità? Avanti con l’allevamento intensivo e con le estrazioni
minerarie dagli effetti catastrofici, dall’Amazzonia alla Penisola Calcidica !
Le bombe all’uranio impoverito? Avanti
con “l’esportazione della democrazia”
attraverso la guerra, in nome della pace !
Ecc….
La sacra crescita non è neppure più un
fattore economico, ma una fede che degli economisti in brache di tela ripetono
senza neppure più crederci. Almeno non quanto sembrava crederci Friedman,
orrido mistico del capitalismo, quando si lasciava andare all’involontaria
confessione che le sue idee economiche erano essenzialmente “un atto di fede”.
Mai materialismo volgare fu più
metafisico. Gli animali muoiono ridotti a cose, gli umani non trovano più spazi
vitali, si ammalano, si uccidono o diventano talvolta assassini di massa;
nessun problema, purché non si rivoltino contro il sistema; nel qual caso - si
è ben visto - le soluzioni finali non mancano.
L’economia autonomizzata è una crisi
perpetua che si risolve creando le condizioni della crisi successiva. Tuttavia,
la sola questione che torna a ripetizione è: come si fa per riprendere la
crescita?
Non si tratta più di rispondere a una
tale idiozia ma di cominciare urgentemente la terapia.
Tra le parole che storicamente il
potere ha piegato al suo uso ideologico, molte sono quelle la cui perdita di
senso impedisce il superamento ormai urgente delle condizioni esistenti.
Il concetto di popolo è gravato
dall’uso demagogico che i populismi vari ne hanno fatto nella storia. Lo stesso
vale per il concetto di nazione, corroso dall’ideologia nazionalista, spintasi
per tutto un secolo abbondante fino ai razzismi e al superomismo becero dei
vari fascismi.
Eppure, distinguere queste due entità
sociali - popolo e nazione - dalle ideologie che ne hanno
corrotto il senso, mi sembra essere una conditio
sine qua non per capire il nostro tempo e soprattutto per cambiare la
condizione di una società prigioniera del totalitarismo mercantile e di un
capitalismo diventato esplicitamente nichilista.
Un popolo è un gruppo che condivide
una nazione e un progetto.
La nazione è il suo bacino vitale; il
progetto, in qualunque forma esso si presenti, è comunque un tentativo di
creare le condizioni, pur se relative e mutevoli, della felicità collettiva e
dunque, a fortiori, individuale.
Il concetto di popolo è stato
ampiamente usato con intenzioni dispotiche da varie genìe di populisti.
Chi sono i populisti? Tutti coloro che
accarezzano i popoli (e soprattutto le loro identità concrete che li
compongono, gli individui) nel senso delle catene.
Un popolo felice non ascolta le sirene
populiste. Di fronte a un popolo felice un’ideologia populista non riesce
neppure a formularsi, a esistere. Essendo però la felicità una realtà in divenire,
fragile e sempre da ricostituire in una dimensione orgastica fruibile,
l’opportunismo populista trova sempre un appiglio a cui attaccare il proprio
seme malato, la sua paranoia autovalorizzatrice che si offre per compensare
l’intollerabile sentimento d’impotenza che attanaglia individui e popoli
carenti di felicità.
Soprattutto nella civiltà del lavoro e
del suo sfruttamento organizzato dall’apparato economico-ideologico-militare,
le ragioni d’infelicità e le ingiustizie palesi producono infinite occasioni di
recupero populista.
Il primo populismo fu la religione,
poi il prodotto si è diversificato.
Il populista dice di amare il popolo
mentre si sostituisce agli individui reali nella scelta degli obiettivi e delle
strategie di cambiamento delle condizioni esistenti.
Che sia dunque chiaro, di fronte ai
sofismi demagogici dei professionisti della politica in lotta per conservare i
propri privilegi: non è populista chi denuncia al popolo una situazione
intollerabile ma colui che usa questa situazione per asservire il popolo a una
nuova gerarchia di cui esso si pone come il vertice.
Populista non è colui che ama il
popolo, ma colui che lo annette ai propri interessi, siano essi economici o
narcisistici.
Solo un imbecille, oppure un perverso
manipolatore, accortosi che il popolo è ingannato, può rivendicare con fierezza
il proprio populismo anziché partecipare come elemento del popolo sovrano
all’emancipazione concreta degli individui.
Il populista si identifica all’ideologia
del popolo come qualunque satrapo, dittatore, despota, tiranno: per dominarlo e
dirigerlo.
L’emancipazione del popolo passa per
l’esclusione e se necessario l’eliminazione anche fisica di ogni capo
dominante, di ogni signore che travalichi anche per un solo istante l’eventuale
delega di potere rappresentativo ricevuta dall’assemblea del popolo sovrano.
Restituito dunque il populismo alle
cloache che lo hanno inventato (fascismi vari, mistiche del popolo e altri
inganni), vediamo di approfondire un minimo il concetto di popolo oltre le
qualche definizioni già proposte.
Noto che “popolo” è un termine generico rispetto ai conflitti di classe che
agitano ogni gruppo sociale finito nelle spire dell’economia politica. Un
popolo che non abbia ancora superato nel suo interno il rapporto esistente
storicamente tra classe dominante e classe dominata, porta in sé la ferita
aperta di un’ingiustizia intollerabile: qualcuno mangia e qualcuno è affamato,
qualcuno ride e qualcuno piange non solo per le peripezie individuali del
proprio vissuto, ma per le condizioni collettive che concedono ad alcuni i
privilegi ad altri le corvé.
I popoli che hanno finora abitato la
terra sono popoli monchi, incompiuti perché hanno subito la dittatura di
un’ingiustizia storica relativa all’appartenenza alla classe dominante o a
quella dei dominati.
Il primo popolo assoluto apparso sul
pianeta è quello degli ultimi che non vogliono più esserlo. Con il loro atto di
volontà pratica essi aboliscono le differenze gerarchiche su cui si fonda tutta
la civiltà del lavoro e dell’economia politica che ne gestisce i profitti.
Quest’atto, tanto sognato dalle utopie
sociali degli ultimi due secoli, non è mai stato radicalmente compiuto, ma è
oggi l’unico atto in grado di garantire non solo una vera giustizia ma la
stessa sopravvivenza della specie umana.
Abbiamo visto come l’alienazione
intrinseca al mondo dell’economia politica non possa emanciparsi dall’obbligo
della redditività neppure di fronte al rischio ormai avverato di un olocausto
specifico dell’umanità e di tutte le specie che ne condividono l’ambiente
vitale.
Finché il processo di valorizzazione
della merce, tipico del modo di produzione capitalistico, resterà sovrano,
l’uomo alienato, appunto perché alienato, preferirà morire per il profitto
piuttosto che vivere per la propria felicità al prezzo del superamento del
capitalismo. Solo dopo il naufragio nel mare in tempesta della decomposizione
sociale, l’ipnosi produttivistica lascerà l’individuo alienato spingendolo a
cercare un salvagente per salvarsi dalle onde. Sarà probabilmente troppo tardi,
senza contare che un tale ritardo offre le migliori condizioni per un recupero
populista. Il primo demagogo che lanci un salvagente ideologico all’ignorante
disperato che si dibatte nei flutti può facilmente sperare di farne un adepto
pronto a tutto.
La sofferenza cieca spinge al
gregarismo e all’odio per qualunque capro espiatorio venga proposto al pubblico
ludibrio.
È così che l’immigrazione è caricata
di colpe che non la riguardano, che il colore della pelle diventa un segno
capace di innescare un inqualificabile odio razziale. Che importa venire a
sapere che Hitler aveva origini ebree una volta che la superiorità della razza
ariana è stata affermata dal delirio nazionalsocialista?
La peste emozionale s’accontenta di
lenire il dolore psichico di un’insoddisfazione intima e rimossa. Poco importa
la coerenza, ancora meno la verità appurabile.
Ciò vale a destra e a sinistra: per
quanto condito demagogicamente dell’utopia più perfetta, ogni comunismo di
guerra è destinato a produrre le condizioni di una controrivoluzione da cui
l’economia politica sa sempre trarre vantaggi economici rilevanti al prezzo
dell’infelicità degli individui reali.
La felicità orgastica di un essere
umano naturale si realizza, invece, soltanto in un progetto coerente e godibile
già nei modi di proporlo e di proporselo.
L’aiuto reciproco è dell’ordine del
dono orgastico e non del dovere, non dimentichiamolo mai, e una democrazia
diretta è l’organizzazione dell’egoismo di ognuno armonizzato come egoismo
collettivo autogestito per il bene di tutti.
La non violenza non è dunque un fatto
etico, ma un’armonizzazione spontanea del principio orgastico del vivente che
fa dell’amore il motore del godimento di essere al mondo.
La democrazia consigliare è la
trasposizione cosciente nel sociale del processo biologico d’innamoramento che
ogni individuo di qualunque specie conosce almeno meccanicamente quando la
natura innesca la stagione degli amori.
Solo la gratuità individualmente e
collettivamente vissuta di un rapporto restaurato con e dentro la natura,
permetterà all’umanità di emanciparsi dal nichilismo capitalista che ci sta
accompagnando a una morte certa e, quel che è peggio, prematura.
Liberata dalle ideologie che la
rendono diabolica agli occhi di qualunque progressista, la nazione è
semplicemente l’ambito psicogeografico[5]
nel quale si è nati soggettivamente. Essa si tesse nel terreno locale come
memoria vissuta di un mondo creativo, elaborata dallo slancio a godere della
vita sociale che la volontà di vivere provoca spontaneamente.
Come il carattere stabilisce gli
equilibri psicofisici di un individuo, così il suo essere sociale ne determina
le armonie possibili a partire dalla scoperta della propria individualità unica
e diversa ma sempre integrata agli elementi comuni condivisi con un certo
numero di altri soggetti. L’insieme di questi individui e il vissuto
liberamente condiviso tra loro formano la nazione.
La nozione di nazione ha dunque radici
autonome dallo Stato nazionalista che
le gerarchie di potere hanno inventato per ridurre le nazioni a un coacervo di
bande predatrici in lotta tra loro.
Lo stato-nazione
ha funzionato da punto di sutura tra l’ancien
régime e la repubblica borghese. La
nazionalità è così diventata quel che Joseph Gabel ha stigmatizzato ne La falsa coscienza (Dedalo, 1967): un
errore condiviso da un certo numero di individui circa le loro origini.
La natura umana della nazione é
istintivamente gilanica[6]
e tende spontaneamente alla condivisione, all’aiuto reciproco. Tuttavia, essa è
fragile e può facilmente scadere nel patrismo guerriero del maschio dominante,
signore di un territorio di caccia, di soggiorno e affettivo. La forma umana
della nazione consiste nel superamento di un tale primitivismo animale, uso a
imporre il proprio dominio su un territorio come un privilegio riconosciuto.
La nazione avvia l’emancipazione
dell’essere umano proponendosi come comunità soggettiva. La nazione-gemeinwesen[7]
è l’unico superamento umano possibile della condizione animale fondata sulla
gerarchia di cui il maschio dominante è la versione più volgare. Così, in tempi
storici, la gemeinwesen ha portato in
sé l’alternativa radicale alla gemeinchaft,
società artificiale, statalista perché condizionata dall’economia politica.
Il capitalismo è la forma artificiale
del primitivismo animale pronto a battersi fino alla morte, attraverso la
competizione e la predazione, per la difesa e l’allargamento del territorio in
quanto appropriazione privativa.
Diventare umani passa per il superamento
di questa conflittualità meccanicistica attraverso la poesia dialettica
intrinseca alla funzione dell’orgasmo. Grazie a essa l’uomo si emancipa dalla
primitiva pulsione meccanicistica soddisfacendola qualitativamente, ottenendo
al contempo la realizzazione e il superamento della politica e dell’arte.
Il sogno secolare dell’emancipazione
umana passa dunque anche per una riappropriazione radicale della “nazione” in
opposizione all’uso alienato che ne ha fatto l’ideologia politica.
Il capitalismo ci ha educato al
nazionalismo facendo della nazione naturale il veicolo ambiguo di una macchina
kafkiana al servizio dei potenti e della classe dominante.
Lo Stato che taglia la testa al re e
proclama il cittadino sovrano, si libera al contempo dei signori e degli
schiavi, perpetrando entrambi come ruoli sociali ai quali nessuno potrà più
sottrarsi.
Si scopre così che il liberalismo e
l’ultraliberalismo non hanno nulla a che fare con la libertà umana e che il
nazionalismo non ha nulla a che fare con la nazione autentica, con la comunità
umana, con le sue radici nel locale e la sua gestione orizzontale esercitata da
soggetti che si amano e non da branchi uniti dall’odio dell’altro, del diverso.
In quanto comunità soggettiva, la
nazione è il realizzarsi storico della gemeinwesen, il sovrapporsi di strati
diversi di comunità che dal locale tendono ad allargarsi a territori sempre più
ampi senza mai perdere di vista la tensione a fare del governo un mezzo per
garantire la felicità di ciascuno. Un tale governo consigliare garantisce
quindi il più ampio spazio individuale per dissentire e fare scelte autonome ma
pur sempre in sintonia con la volontà di essere sovente una fonte di godimento
per gli altri, perché ciò aumenta anche il nostro potenziale di godimento della
vita.
Alcuni, come Ivan Illich, hanno
parlato in proposito di convivialità.
Io ho voluto, con questa mia modesta
riflessione, mettere bene in vista la dinamica della nazione-gemeinwesen come totalmente refrattaria a
ogni forma di nazionalismo pretendente a una qualunque superiorità sulle
nazioni altrui.
L’abrogazione dello Stato da parte
della comunità umana ristabilita assomiglierà in meglio al superamento della
monarchia in nome della repubblica poiché il nazionalismo è l’ideologia
pestifera dello Stato travestito in una nazione (“Lo Stato siamo noi” è la più orribile delle menzogne) svuotata
della sua spontanea dinamica di comunità reale, pacifica e orgastica. Con la
nazione-gemeinwesen, lo Stato sparirà
in quanto organo dello sfruttamento e dell’alienazione senza ricostituire
un'altra classe dominante (la borghesia dell’89 o la burocrazia del 1917). La
sua scomparsa si tradurra nella scomparsa tendenziale di ogni possibile
nazionalismo. Resteranno le patologie individuali che qualunque società libera
saprà trattare come un problema della comunità e non più come macchine da
guerra che la società produttivistica utilizza cinicamente per sfornare
gerarchie di dominio.
Ben oltre una decrescita comunque
necessaria e auspicabile, soltanto la promessa di un affinamento della felicità
smuoverà gli esseri umani di un nuovo mondo psicogeografico, finalmente liberi
dall’ossessione della crescita economica.
Avventurandosi, sia pur timidamente,
oltre le tracce dei bonobos che praticano
già una prima soglia istintiva del superamento dell’animalità conflittuale,
l’umanità ha introdotto, prima di perdersi nella giungla perversa del
produttivismo, l’opzione consapevole di un’organizzazione sociale solidale che
renda realizzabile la soddisfazione senza fine di tutti i desideri.
La democrazia consigliare è il
tentativo concreto della tendenza dell’umano alla felicità sociale in via di lento
consolidamento. L’umanizzazione dell’uomo resta, però, ancora estremamente
fragile perché la scimmia umana è sempre attirata dalla facilità della
risoluzione effimera della questione sociale attraverso il conflitto e il
dominio soprattutto maschile.
Non bisogna mai dimenticarsi che
l’essere umano non è né buono né cattivo in assoluto. L’essere umano è capace
di tutto, dal meglio al peggio: della Comune e di Auschwitz,
dell’amore per l’altro e del cannibalismo.
Come passare dalla repubblica borghese
alla democrazia consigliare?
A questo si deve rispondere anche
teoricamente, mentre si sostengono le lotte transizionali di resistenza al
mostro che sta distruggendo la vita sul pianeta.
Attenzione, però, a ogni purismo, a
ogni manicheismo moralista: il ridicolo delle lotte ideologiche, il loro
effetto boomerang costante, favoriscono un distacco elitista impotente nel
correggere gli errori e superare i limiti della rivolta.
Giustissimo denunciare la
manipolazione recuperatrice di ogni focolaio di lotta da parte della politica
burocratica; senza mai far venir meno, però, la solidarietà con ogni spontanea
resistenza all’addomesticamento.
Sappiamo che continuando a commettere
gli stessi errori che hanno portato alle sconfitte passate, si finisce per
ottenere sempre gli stessi sconfortanti risultati nulli. Tuttavia, dobbiamo
attaccare puntualmente gli errori e non la passione che spinge a lottare per l’emancipazione.
Così come i repubblicani hanno saputo
scalzare l’ancien régime della monarchia di diritto
divino, noi dobbiamo ora archiviare quello della repubblica di diritto
commerciale per sostituirla con la società del dono e della ricchezza condivisa.
L’obiettivo mancato dal proletariato
industriale, sconfitto dal consumerismo ancor più che dalla repressione degli
eserciti e delle polizie dello Stato capitalista, è diventato quello
dell’umanità intera, costretta ormai a lottare per l’emancipazione, non più semplicemente
classe contro classe, ma globalmente contro la dinamica nichilista del
capitalismo che sta distruggendo la vita umana sul pianeta. Sarà probabilmente
un percorso tortuoso al quale il sistema dominante opporrà tutte le sue forze
per sopravvivere. Non esiste, tuttavia, alternativa alla rivoluzione sociale se
non una catastrofica rovina per la specie umana.
Le multinazionali e la
finanziarizzazione dell’economia hanno sconvolto i fragili equilibri tra
sfruttamento dell’uomo e della natura e conquiste sociali che davano agli
sfruttati il senso di un minimo progresso. Il progresso è finito. Al suo posto
c’è ormai la progressione incessante della decomposizione della società umana
giustificata dall’ideologia della crisi che nasconde a stento l’emergere
prepotente della crisi di tutte le ideologie.
E questa è la buona novella: non ci
resta che abbandonare il mostro al suo destino. Destra e sinistra non
significano più nulla non perché la conflittualità sociale sia sparita ma
perché si è allargata al mondo intero, opponendo ormai direttamente i difensori
della vita ai produttori di una morte sempre meno redditizia ma pur sempre
seducente per le masse di zombi che la seguono come unica fonte possibile di
felicità.
Di fronte a un tale scempio della volontà
di vivere, solo il progetto radicale d’emancipazione dal totalitarismo
nichilista che imperversa offre una possibilità di salvezza.
L’istinto di sopravvivenza che
sussiste anche nell’animale più malato si confonde ormai con la poesia vitale
di quanti continuano a voler vivere senza tempi morti e godere senza ostacoli
una vita degna di questo nome. La realizzazione dell’utopia è diventata un
ultimo obiettivo concreto per la specie in pericolo; agli antipodi, dunque, di
quel consumerismo che fa incessantemente inseguire carote marcescenti che fanno
morire di noia ancor prima che di fame, ogni volta che le si assaggia senza la
minima gioia.
Dai consigli locali al Consiglio
internazionale delle Nazioni unite, un numero conseguente di Consigli intermedi
assicureranno la catena completa del processo decisionale come egualitario,
orizzontale e antigerarchico. Molti dei problemi di gestione del funzionamento
di una democrazia diretta e reale saranno risolvibili con tecniche adeguate.
Perché i soggetti della comunità reale
- la singola nazione in simbiosi con tutte le altre nazioni organizzate in
Consigli - arrivino finalmente a
formulare il rifiuto e l’abrogazione della forma statale a favore di quella dei
Consigli non si può che passare innanzitutto per l’eliminazione di alcune
confusioni, luoghi comuni e falsi problemi.
Una democrazia diretta non esclude
deleghe e mandati, ma li pretende irrevocabilmente reversibili a ogni istante.
La delega dev’essere un dono del delegato che si rende disponibile a rappresentare
una decisione comune, senza entrare in alcuna gerarchia di potere accumulabile
e redditizio. Per questo il controllo delle deleghe e dei mandati sarà un
compito delicato e indispensabile per il buon funzionamento di una democrazia
consigliare.
Molte astuzie sono già note. Parlo di
astuzie non di verità filosofiche, come l'estrazione a sorte degli eletti
revocabili e altre tattiche di filtraggio dei ruoli sociali.
Con l’abolizione, non solo auspicabile
ma imperativa, degli Stati, il concetto di nazione assumerà un ruolo importante
che l’ideologia totalitaria dell’economia politica ha abolito surrettiziamente.
Totalmente ripulita dai miasmi nazionalisti tanto cari ai fascismi e agli
sciovinismi, la nazione comparirà come una condizione sociale naturale per
tutti i componenti di qualunque comunità reale.
Come, per esempio, è già stato il caso
di molte tribù indigene del nord America che parlavano di nazione Sioux o Cheyenne,
il concetto naturale di nazione tornerà a indicare una comunità di elementi
materiali e spirituali, biologici e culturali.
Essere nati in un luogo comune
significa avere un legame affettivo, non di diritto o di potere, con una terra,
con un gruppo, con un linguaggio, con una particolare luce nell’aria, con
abitudini alimentari, clima, gusti estetici, musicali, filosofici, poetici ecc.
La nazione non esclude i barbari.
Siamo tutti i barbari di qualcun altro e per fortuna siamo tutti meticci, cioè
figli di una stessa diversa umanità. Non esistono clandestini, ma solo
stranieri dalle abitudini diverse che devono essere armonizzate da una volontà
comune, altrettanto esente da tremebonde difese ossidionali del territorio che
da prepotenti invasioni barbariche. Il sentimento di ospitalità rompe ogni
rapporto tra la nazione e l’appropriazione privativa del territorio.
I cittadini del mondo, autoctoni o
stranieri sono sempre tanto a casa loro che in casa di altri.
In nome del principio di laicità si
tratta di mettere in comune soltanto quel che è comune a tutti, lasciando al
libero arbitrio dell’intimità di ciascuno la condivisione eventuale delle
specificità e delle differenze.
Le affinità elettive s’occuperanno di
armonizzare unioni e separazioni, avvicinamenti e distanze.
L’obiettivo caleidoscopico della
nostra emancipazione passerà per la ripresa planetaria del Movimento delle Occupazioni.
Appunto: OCCUPY THE LIFE… (continua,
questo è solo l’inizio…)
Sergio
Ghirardi, venerdì 6 dicembre 2013
[1] Così potrebbe affettuosamente
definirlo Daniel Cohn Bendit trasformatosi dall’anarchico primario che fu
nell’icona di un ambientalismo europeista imbedded.
[2] La fiammata spartakista in
Germania e il progetto libertario in Spagna tra il 1936 e il 1938 sono due
esempi di una sensibilità consigliare che ha attraversato gli ideali concreti
d’emancipazione di tutto il ventesimo secolo. Essa ha trovato in un’oggettiva
alleanza tra capitalismo di Mercato e capitalismo di Stato un nemico feroce,
pronto a tutto per salvaguardare la civiltà dello sfruttamento e
dell’alienazione.
[3] 2007
: creazione del Consiglio Economico Transatlantico (senza che i parlamenti
nazionali siano consultati) : più di 70 imprese tra cui AIG,
AT&T,BASF, BP, Deutsche Bank, EADS, ENI, Exxon Mobil, Ford, GE, IBM, Intel,
Merck, Pfizer, Philip Morris, Siemens, Total, Verizon, Xerox, consigliano il
governo USA e la Commissione Europea.…
2011 : creazione di un
gruppo di esperti USA-UE, il cui rapporto, 11 febbraio 2013, raccomanda il
lancio di negoziati per la realizzazione del Grande Mercato Transatlantico.
[4] Vedi in proposito : Naomi Klein, Shock economy, l’ascesa del capitalismo dei
disastri, Rizzoli, Milano 2007.
[5] Vedi a proposito di
psicogeografia: S. Ghirardi, Note per
l’esplorazione psicogeografica di un nuovo mondo.
[6] Vedi sulle
società gilaniche (dal greco gyné
donna + lyein/lyo liberare) i lavori di Marija Gimbutas,
Riane Eisler et James DeMeo.
[7] Vedi K. Marx e J. Camatte sul
concetto di comunità e sulla differenza tra gemeinwesen
(intesa come libera comunità soggettiva) e gemeinshaft
(in quanto comunità del capitale).