Nella pigrizia forzata (una tantum)
della mia convalescenza dopo un’operazione di ernia inguinale, vi ho tradotto da
Libération del 15 novembre, un’intervista
di Marie-Joelle Gros allo storico André Rouch, autore di Pigrizia storia di un peccato capitale
perché mi è sembrata una buona occasione, in questi tempi di disoccupazione
forzata, per ricordare che il nodo centrale della questione sociale attuale
riguarda la trasformazione della tragica nozione di disoccupazione per assenza
di lavoro in una buona notizia.
Basterebbe distribuire la ricchezza
prodotta (sempre in abbondanza sia per la sua parte davvero utile che - e purtroppo,
se si pensa allo spreco di energie e di talento - per la sua enorme parte di
gadget consumistico) con criteri socialmente umani e non ottusamente e
cinicamente capitalistici.
Certo, si tratterebbe di una
rivoluzione, la sola che riguardi ancora gli esseri umani sopravvissuti
all’addomesticamento.
Magicamente (si fa per dire), la
disoccupazione si tradurrebbe in tempo libero e una nuova società aprirebbe le
braccia a individui finalmente capaci di godere della vita. Anziche inseguire
bisogni che non sono mai stati desideri, si imparerebbe a bandire spontaneamente
gli sprechi redditizi in nome dell’abbondanza gaudente e condivisa, mentre la creatività
si sostituirebbe all’intollerabile sforzo quotidiano di perdere la propria vita
a guadagnarsela.
Evidentemente questa rivoluzione non
potrà che essere anche e sempre culturale poiché l’addomesticamento è il
prodotto della controrivoluzione culturale della società dello spettacolo che
ha trasformato gli uomini del ventesimo secolo in spettatori-consumatori.
Non mancheranno certo i servitori
volontari e i cani addomesticati per fare del sarcasmo da slogan pubblicitario della
sottomissione su un piacere di vivere solidale di cui la loro impotenza
orgastica li castra fin da piccoli, nella culla dell’economia politica. Tuttavia,
a parte i Chicago boys e i loro eredi di destra e di sinistra, i cani da guardia
della proprietà privata e i loro patologici padroni, i servitori volontari e la
loro morale sadomasochista, chi ha ancora interesse a perpetuare un mondo i cui
valori stanno distruggendo il vivente con accenti ormai chiaramente nichilisti?
Non so se il 99% sia capace di una
rivolta epocale, ma so che basteranno molto meno individui coscienti e decisi,
pigri nei confronti del lavoro e volonterosi nei confronti del godimento della
vita per mettere fine al totalitarismo economicista che impera senza governare.
Sergio Ghirardi
Essere
pigri è sempre un peccato?
Il lavoro occupa oggi una tale
posizione dominante che la pigrizia è ridotta all’ozio. Essa minaccia la
prosperità di una famiglia, il successo di un’impresa o la ricchezza di una
nazione.
In un mondo in cui non si ottiene
niente senza il lavoro e la furbizia, “la
pigrizia è una debolezza, una scemenza, una colpa, un errore di calcolo”
scrive per esempio il filosofo Raoul Vaneigem (in Elogio della pigrizia affinata, Nautilus, Torino 1998). Tuttavia ogni
epoca ha il suo pigro. Nel medio evo si parlava di accidia. L’accidioso è il
monaco che abbandona la preghiera. Attaccato dal demonio, rinuncia alla lotta
contro i cattivi pensieri. È un disertore che tradisce la sua fede.
La
pigrizia ha una sua essenza, è buona o cattiva?
Tutto dipende da chi parla. Se la
pigrizia è quel momento privilegiato nel quale cessiamo di precipitare e
riempire il nostro impiego del tempo per lasciar maturare la nostra
riflessione, allora è virtuosa Ne Il
Diavolo in corpo (apparso nel 1923), Raymond Radiguet usa questa formula: “Se la giovinezza è stupida è colpa del fatto
che non è stata pigra.”
Può
dunque servire da motore in una vita?
Certo,
e basta rileggere l’inevitabile pamphlet di Paul Lafargue del 1882, Il diritto alla pigrizia, per
convincersene. Membro della Prima Internazionale e fondatore in Francia del Parti Ouvrier, avverte la classe dei
proletari: il lavoro sfrenato “è la più
terribile disgrazia che abbia mai colpito l’umanità”.
Se la pigrizia era stata fino ad
allora un rifiuto individuale, diventa la forza rivoluzionaria di tutti i
condannati al lavoro forzato, poiché il lavoro non arrichisce tutta la società,
ben altrimenti. La fortuna che realizzano certi azionari e oziosi padroni di
imprese impoverisce quanti producono queste ricchezze. “Lavorate, lavorate proletari, per accrescere la fortuna sociale con le
vostre miserie individuali”, esclama prima di lanciare quest’invocazione:” Oh pigrizia, abbi pietà della nostra lunga
miseria! Oh pigrizia, madre delle arti e delle nobili virtù, sia tu il balsamo
delle angosce umane!” Con lui la pigrizia non è più madre di tutti i vizi
ma virtù politica.
Verrebbe
da credere che la pigrizia sia di sinistra…
Non è detto. Nel corso della storia
essa ha oscillato da un campo all’altro. Ricordiamo, tuttavia che l’illuminismo
ha condannato l’aristocrazia che si concedeva il privilegio di non dover
lavorare, ispirandosi forse ai re
fainéants.
È
dunque una garanzia di felicità?
No, perché non ci sono solo dei pigri
felici. Senza il paese di cuccagna, il pigro soffre, è malinconico, amaro,
misantropo. Può precipitare in un abbattimento profondo, in una prostrazione
venuta da chissa dove e che attacca all’improvviso. Di questa bile nera, di
questa malinconia alcuni, come Baudelaire, hanno saputo farne una forza
creatrice. La felicità però…
Avremo
ancora, un giorno, il diritto di essere pigri?
Dopo l’invenzione e il successo degli
svaghi attivi, dalle cadenza anch’esse sostenute, il languore è diventato
l’allegoria contemporanea della pigrizia. Esso coniuga apatia, passività,
disincanto. Lo si illustra spesso con il sonno ma non ha niente a che vedere
con le sieste goderecce dei paesaggi impressionisti. Sono delle sonnolenze
della rassegnazione, della capitolazione. Bisogna anche sapere “disincantare il lavoro” secondo
un’espressione della sociologa Dominique Méda; per godere del riposo senza
sensi di colpa, è anche necessario affrancarsi dalle prescrizioni della società
degli svaghi.