Madiba |
Nel
clima putrescente della santificazione di Mandela da parte di tutti quelli che
non hanno mosso e mai muoveranno un dito contro le apartheid diverse, la
repressione, i genocidi, l’inquinamento del vivente e i soprusi in genere, vi
ho tradotto dal francese questo articolo del luglio 2010 di Alain Gresh che
denuncia anticipatamente l’ipocrita imbalsamazione mediatica di Madiba e
l’orribile amnesia politica dei servitori volontari del capitalismo planetario.
Sergio Ghirardi
“Un eroe del nostro tempo”, titola un
numero speciale del Courrier
international (giugno-agosto 2010). “Ha cambiato la storia” aggiunge il
Nouvel Observateur del 27 maggio 2010. Accompagnate dal ritratto di un Nelson
Mandela sorridente queste due copertine testimoniano di un’adorazione
consensuale di cui il film Invictus di Clint Eastwood costituisce l’apoteosi.
Con la coppa del mondo di calcio il
pianeta intero comunica nel culto del profeta visionario che rifiuta la
violenza, che ha guidato il suo popolo verso una terra promessa dove vivono in
armonia neri, meticci e bianchi. Il penitenziario di Robben Island dove fu
rinchiuso per lunghi anni colui che i suoi compagni chiamavano Madiba - luogo
di pellegrinaggio obbligato per gli ospiti stranieri – richiama un “prima” un
po’ sfuocato, il tempo odiato dell’apartheid che non poteva che suscitare una
condanna universale e innanzitutto quella delle democrazie occidentali.
Cristo è morto in croce circa 2000
anni fa. Numerosi ricercatori si interrogano sulle concomitanze tra il Gesù dei vangeli e quello storico. Che cosa
si sa della vita terrestre del “figlio di Dio”? Di quali documenti disponiamo
per rintracciare la sua predicazione? Le testimonianze riprese nel Nuovo Testamento
sono affidabili?
Si potrebbe presumere che sia più
facile inquadrare il Mandela storico tanto più che disponiamo di un vangelo
scritto di suo pugno, ma anche di numerose testimonianze dirette. Eppure la
leggenda di Mandela appare altrettanto lontana dalla realtà, se non di più, di
quella del Gesù dei Vangeli, talmente sembra intollerabile ammettere che il
nuovo messia era un “terrorista”, un “alleato dei comunisti” e dell’Unione
Sovietica (quella del gulag), un rivoluzionario determinato.
Il Congresso nazionale africano (ANC),
alleato strategico del Partito comunista sudafricano, si è lanciato nella lotta
armata nel 1960, dopo il massacro nella township di Sharpeville, il 21 marzo,
che fece diverse decine di morti; i neri manifestavano contro il sistema dei pass (passaporti interni). Mister
Mandela fino ad allora adepto della lotta legale se ne persuase allora: la
minoranza bianca non avrebbe mai rinunciato pacificamente al proprio potere
alle proprie prerogative.
Dopo avere in un primo tempo
privilegiato il sabotaggio, l’ANC utilizzò anche, certamente in modo limitato,
l’arma del “terrorismo”, non esitando a mettere qualche bomba nei caffè.
Arrestato nel 1962 e condannato,
Madiba rifiutò, a partire dal 1985 diverse offerte di liberazione in cambio di
una rinuncia alla violenza. “È sempre l’oppressore,
non l’oppresso, che determina la forma della lotta”, scriveva nelle sue
memorie. “Se l’oppressore utilizza la
violenza, l’oppresso non ha altra scelta che di rispondere con la violenza”.
E fu questa soltanto, appoggiata dalla mobilitazione popolare crescente e sostenuta
da sanzioni sempre più sostenute con il passare del tempo, riuscì a dimostrare
l’inanità del sistema repressivo e a portare il potere bianco a fare
autocritica. Acquisito il principio “un uomo, una voce”, Mandela e l’ANC
seppero allora fare prova di souplesse mettendo in atto la “società arcobaleno”
e accordando garanzie alla minoranza bianca. Dovettero persino – ma questa è
un’altra storia – ridurre il loro progetto di trasformazione sociale.
La strategia dell’ANC beneficiò di un
sostegno materiale e morale da parte dell’Unione sovietica e del “campo
socialista”. Parecchi dei suoi quadri furono formati e preparati a Mosca o ad
Hanoi. La lotta si estese a tutta l’Africa australe, dove l’esercito
sudafricano tentava d’instaurare la sua egemonia. L’intervento delle truppe
cubane in Angola nel 1975 e le vittorie riportate, in particolare a Cuito
Carnevale nel gennaio 1988, contribuirono a far tentennare la macchina da
guerra del potere razzista e a confermare il vicolo cieco nel quale si trovava.
La battaglia di Cuito Carnevale costituì, secondo Mandela, “un crocevia nella liberazione del nostro
continente e del mio popolo”. Non lo avrebbe dimenticato: fece del
presidente Fidel Castro uno degli ospiti d’onore delle cerimonie della sua elezione
alla presidenza, nel 1994.
In questo choc tra la maggioranza
della popolazione e il potere bianco, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Israele e la
Francia (quest’ultima fino al 1981) combatterono dal “lato sbagliato”, quello
dei difensori dell’apartheid, in nome della lotta contro il pericolo comunista.
M. Chester Crocker, l’uomo chiave della politica dell’impegno costruttivo del
presidente Ronald Reagan nell’Africa australe degli anni ottanta, sciveva: “Per la sua natura e la sua storia, l’Africa
del Sud fa parte dell’esperienza occidentale ed è parte integrante
dell’economia occidentale” (Foreign
Affairs, inverno 1980-81). Washington che aveva sostenuto Pretoria in
Angola nel 1975, non esitava ad aggirare l’embargo sulle armi collaborando
a stretto contatto con i servizi di intelligence sudafricani, rifiutando ogni misura
coercitiva contro Pretoria. Nell’attesa di un’evoluzione graduale, la
maggioranza nera era chiamata alla moderazione.
Il 22 giugno 1988, diciotto mesi prima
della liberazione di Mandela e della legalizzazione dell’ANC, il
sottosegretario del dipartimento di Stato americano, M. John C. Whitehead,
spiegava ancora davanti a una commissione del senato: “Dobbiamo riconoscere che la transizione verso una democrazia non
razziale in Africa del Sud prenderà inevitabilmente più tempo del voluto”.
Pretendeva che le sanzioni non avrebbero avuto “alcun effetto demoralizzatore sulle elites bianche” e avrebbero
penalizzato in primo luogo la popolazione nera.
Nell’ultimo anno del suo mandato,
Reagan tentò un’ultima volta, senza successo, di impedire che il Congresso
punisse il regime dell’apartheid. Era il tempo in cui celebrava i “combattenti
della libertà” afgani o del Nicaragua e denunciava il terrorismo dell’ANC e
dell’Organizzazione di liberazione della Palestina (OLP).
Il Regno Unito non fu da meno; il
governo di Margaret Thatcher rifiutò ogni incontro con l’ANC fino alla
liberazione di Mandela nel 1990. Al summit del Commonwealth di Vancouver,
nell’ottobre 1987, essa s’oppose all’adozione delle sanzioni. Interrogata sulla
minaccia dell’ANC di colpire gli interessi britannici in Africa del Sud essa
rispose “Ciò mostra quale organizzazione
terrorista sia l’ANC”.
Era l’epoca in cui l’associazione
degli studenti conservatori, affiliata al partito distribuiva dei poster che
proclamavano: “Impiccate Nelson Mandela e
tutti i terroristi dell’ANC, sono dei macellai!”. Il nuovo primo ministro
David Cameroun ha infine deciso di scusarsi per un tale comportamento, nel
febbraio 2010! La stampa ha avuto buon gioco nel ricordargli che anche lui si
era recato in Sud Africa nel 1989 su invito di una lobby anti sanzioni.
Israele rimase fino all’ultimo
l’alleato indefettibile del regime razzista di Pretoria, fornendogli armi e
aiutandolo nel suo programma militare nucleare e missilistico. Nell’aprile
1975, l’attuale capo di Stato Shimon Peres, allora ministro della difesa, segnò
un accordo di sicurezza tra i due paesi. Un anno dopo, il primo ministro
sudafricano Balthazar J. Vorster, antico simpatizzante nazista, era ricevuto
con tutti gli onori in Israele. I responsabili dei due servizi di intelligence
si riunivano annualmente e coordinavano la lotta contro il “terrorismo”
dell’ANC e dell’OLP.
E la Francia? Quella del gen. De
Gaulle e dei suoi successori di destra tesse delle relazioni senza complessi
con Pretoria. In un ‘intervista pubblicata dal Nouvel Observateur citato prima,
Jacques Chirac si fa gloria del suo sostegno antico a Mandela. Come numerosi
dirigenti di destra ha su questo soggetto la memoria corta, mentre il
giornalista che lo interroga non fa il minimo caso alla sua amnesia. Primo
ministro tra il 1974 e il 1976, Chirac confermò nel giugno 1976 il contratto
con Framatome per la costruzione della prima centrale nucleare in Africa del
Sud. Nell’occasione l’editoriale di Le
monde del 1 giugno 1976, notava: “La
Francia è in curiosa compagnia nel piccolo plotone di partner considerati
“sicuri” da Pretoria”. “Viva la Francia.
L’Africa del Sud diventa una potenza atomica”, titolava su
nove colonne, in prima pagina il quotidiano sudafricano a grande tiratura Sunday Time. Pur avendo precedentemente
deciso, nel 1975, sulla pressione dei paesi africani, di non vendere più
direttamente armi all’Africa del Sud, la francia onorerà per molti anni ancora
i contratti in corso, mentre i suoi blindati Panhard e gli elicotteri Alouette
e Puma saranno costruiti localmente sotto licenza.
Nonostante il discorso ufficiale di
condanna dell’apartheid, Parigi mantenne almeno fino al 1981 numerose forme di
cooperazione con il regime razzista. Alexandre de Marenches, l’uomo che
dirigeva il servizio di documentazione esterno e di controspionaggio (Sdece)
tra il 1970 e il 1981, riassumeva la filosofia della destra francese: “L’apartheid è certamente un sistema da
deplorare ma bisogna farlo evolvere dolcemente”.
Se l’ANC avesse ascoltato i suoi
consigli di moderazione (o quelli del presidente Reagan) Nelson Mandela sarebbe
morto in prigione, l’Africa del sud sarebbe finita nel caos e il mondo non
avrebbe potuto fabbricare la leggenda del nuovo messia.
Alain Gresh