venerdì 13 dicembre 2013

IL VANGELO SECONDO MANDELA


Madiba




Nel clima putrescente della santificazione di Mandela da parte di tutti quelli che non hanno mosso e mai muoveranno un dito contro le apartheid diverse, la repressione, i genocidi, l’inquinamento del vivente e i soprusi in genere, vi ho tradotto dal francese questo articolo del luglio 2010 di Alain Gresh che denuncia anticipatamente l’ipocrita imbalsamazione mediatica di Madiba e l’orribile amnesia politica dei servitori volontari del capitalismo planetario.

Sergio Ghirardi



“Un eroe del nostro tempo”, titola un numero speciale del Courrier international (giugno-agosto 2010). “Ha cambiato la storia” aggiunge il Nouvel Observateur del 27 maggio 2010. Accompagnate dal ritratto di un Nelson Mandela sorridente queste due copertine testimoniano di un’adorazione consensuale di cui il film Invictus di Clint Eastwood costituisce l’apoteosi.
Con la coppa del mondo di calcio il pianeta intero comunica nel culto del profeta visionario che rifiuta la violenza, che ha guidato il suo popolo verso una terra promessa dove vivono in armonia neri, meticci e bianchi. Il penitenziario di Robben Island dove fu rinchiuso per lunghi anni colui che i suoi compagni chiamavano Madiba - luogo di pellegrinaggio obbligato per gli ospiti stranieri – richiama un “prima” un po’ sfuocato, il tempo odiato dell’apartheid che non poteva che suscitare una condanna universale e innanzitutto quella delle democrazie occidentali.

Cristo è morto in croce circa 2000 anni fa. Numerosi ricercatori si interrogano sulle concomitanze tra il  Gesù dei vangeli e quello storico. Che cosa si sa della vita terrestre del “figlio di Dio”? Di quali documenti disponiamo per rintracciare la sua predicazione? Le testimonianze riprese nel Nuovo Testamento sono affidabili?
Si potrebbe presumere che sia più facile inquadrare il Mandela storico tanto più che disponiamo di un vangelo scritto di suo pugno, ma anche di numerose testimonianze dirette. Eppure la leggenda di Mandela appare altrettanto lontana dalla realtà, se non di più, di quella del Gesù dei Vangeli, talmente sembra intollerabile ammettere che il nuovo messia era un “terrorista”, un “alleato dei comunisti” e dell’Unione Sovietica (quella del gulag), un rivoluzionario determinato.

Il Congresso nazionale africano (ANC), alleato strategico del Partito comunista sudafricano, si è lanciato nella lotta armata nel 1960, dopo il massacro nella township di Sharpeville, il 21 marzo, che fece diverse decine di morti; i neri manifestavano contro il sistema dei pass (passaporti interni). Mister Mandela fino ad allora adepto della lotta legale se ne persuase allora: la minoranza bianca non avrebbe mai rinunciato pacificamente al proprio potere alle proprie prerogative.
Dopo avere in un primo tempo privilegiato il sabotaggio, l’ANC utilizzò anche, certamente in modo limitato, l’arma del “terrorismo”, non esitando a mettere qualche bomba nei caffè.

Arrestato nel 1962 e condannato, Madiba rifiutò, a partire dal 1985 diverse offerte di liberazione in cambio di una rinuncia alla violenza. “È sempre l’oppressore, non l’oppresso, che determina la forma della lotta”, scriveva nelle sue memorie. “Se l’oppressore utilizza la violenza, l’oppresso non ha altra scelta che di rispondere con la violenza”. E fu questa soltanto, appoggiata dalla mobilitazione popolare crescente e sostenuta da sanzioni sempre più sostenute con il passare del tempo, riuscì a dimostrare l’inanità del sistema repressivo e a portare il potere bianco a fare autocritica. Acquisito il principio “un uomo, una voce”, Mandela e l’ANC seppero allora fare prova di souplesse mettendo in atto la “società arcobaleno” e accordando garanzie alla minoranza bianca. Dovettero persino – ma questa è un’altra storia – ridurre il loro progetto di trasformazione sociale.

La strategia dell’ANC beneficiò di un sostegno materiale e morale da parte dell’Unione sovietica e del “campo socialista”. Parecchi dei suoi quadri furono formati e preparati a Mosca o ad Hanoi. La lotta si estese a tutta l’Africa australe, dove l’esercito sudafricano tentava d’instaurare la sua egemonia. L’intervento delle truppe cubane in Angola nel 1975 e le vittorie riportate, in particolare a Cuito Carnevale nel gennaio 1988, contribuirono a far tentennare la macchina da guerra del potere razzista e a confermare il vicolo cieco nel quale si trovava. La battaglia di Cuito Carnevale costituì, secondo Mandela, “un crocevia nella liberazione del nostro continente e del mio popolo”. Non lo avrebbe dimenticato: fece del presidente Fidel Castro uno degli ospiti d’onore delle cerimonie della sua elezione alla presidenza, nel 1994.

In questo choc tra la maggioranza della popolazione e il potere bianco, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Israele e la Francia (quest’ultima fino al 1981) combatterono dal “lato sbagliato”, quello dei difensori dell’apartheid, in nome della lotta contro il pericolo comunista. M. Chester Crocker, l’uomo chiave della politica dell’impegno costruttivo del presidente Ronald Reagan nell’Africa australe degli anni ottanta, sciveva: “Per la sua natura e la sua storia, l’Africa del Sud fa parte dell’esperienza occidentale ed è parte integrante dell’economia occidentale” (Foreign Affairs, inverno 1980-81). Washington che aveva sostenuto Pretoria in Angola nel 1975, non esitava ad aggirare l’embargo sulle armi collaborando a stretto contatto con i servizi di intelligence sudafricani, rifiutando ogni misura coercitiva contro Pretoria. Nell’attesa di un’evoluzione graduale, la maggioranza nera era chiamata alla moderazione.

Il 22 giugno 1988, diciotto mesi prima della liberazione di Mandela e della legalizzazione dell’ANC, il sottosegretario del dipartimento di Stato americano, M. John C. Whitehead, spiegava ancora davanti a una commissione del senato: “Dobbiamo riconoscere che la transizione verso una democrazia non razziale in Africa del Sud prenderà inevitabilmente più tempo del voluto”. Pretendeva che le sanzioni non avrebbero avuto “alcun effetto demoralizzatore sulle elites bianche” e avrebbero penalizzato in primo luogo la popolazione nera.

Nell’ultimo anno del suo mandato, Reagan tentò un’ultima volta, senza successo, di impedire che il Congresso punisse il regime dell’apartheid. Era il tempo in cui celebrava i “combattenti della libertà” afgani o del Nicaragua e denunciava il terrorismo dell’ANC e dell’Organizzazione di liberazione della Palestina (OLP).

Il Regno Unito non fu da meno; il governo di Margaret Thatcher rifiutò ogni incontro con l’ANC fino alla liberazione di Mandela nel 1990. Al summit del Commonwealth di Vancouver, nell’ottobre 1987, essa s’oppose all’adozione delle sanzioni. Interrogata sulla minaccia dell’ANC di colpire gli interessi britannici in Africa del Sud essa rispose “Ciò mostra quale organizzazione terrorista sia l’ANC”.
Era l’epoca in cui l’associazione degli studenti conservatori, affiliata al partito distribuiva dei poster che proclamavano: “Impiccate Nelson Mandela e tutti i terroristi dell’ANC, sono dei macellai!”. Il nuovo primo ministro David Cameroun ha infine deciso di scusarsi per un tale comportamento, nel febbraio 2010! La stampa ha avuto buon gioco nel ricordargli che anche lui si era recato in Sud Africa nel 1989 su invito di una lobby anti sanzioni.

Israele rimase fino all’ultimo l’alleato indefettibile del regime razzista di Pretoria, fornendogli armi e aiutandolo nel suo programma militare nucleare e missilistico. Nell’aprile 1975, l’attuale capo di Stato Shimon Peres, allora ministro della difesa, segnò un accordo di sicurezza tra i due paesi. Un anno dopo, il primo ministro sudafricano Balthazar J. Vorster, antico simpatizzante nazista, era ricevuto con tutti gli onori in Israele. I responsabili dei due servizi di intelligence si riunivano annualmente e coordinavano la lotta contro il “terrorismo” dell’ANC e dell’OLP.

E la Francia? Quella del gen. De Gaulle e dei suoi successori di destra tesse delle relazioni senza complessi con Pretoria. In un ‘intervista pubblicata dal Nouvel Observateur citato prima, Jacques Chirac si fa gloria del suo sostegno antico a Mandela. Come numerosi dirigenti di destra ha su questo soggetto la memoria corta, mentre il giornalista che lo interroga non fa il minimo caso alla sua amnesia. Primo ministro tra il 1974 e il 1976, Chirac confermò nel giugno 1976 il contratto con Framatome per la costruzione della prima centrale nucleare in Africa del Sud. Nell’occasione l’editoriale di Le monde del 1 giugno 1976, notava: “La Francia è in curiosa compagnia nel piccolo plotone di partner considerati “sicuri” da Pretoria”. “Viva la Francia. L’Africa del Sud diventa una potenza atomica”, titolava su nove colonne, in prima pagina il quotidiano sudafricano a grande tiratura Sunday Time. Pur avendo precedentemente deciso, nel 1975, sulla pressione dei paesi africani, di non vendere più direttamente armi all’Africa del Sud, la francia onorerà per molti anni ancora i contratti in corso, mentre i suoi blindati Panhard e gli elicotteri Alouette e Puma saranno costruiti localmente sotto licenza.

Nonostante il discorso ufficiale di condanna dell’apartheid, Parigi mantenne almeno fino al 1981 numerose forme di cooperazione con il regime razzista. Alexandre de Marenches, l’uomo che dirigeva il servizio di documentazione esterno e di controspionaggio (Sdece) tra il 1970 e il 1981, riassumeva la filosofia della destra francese: “L’apartheid è certamente un sistema da deplorare ma bisogna farlo evolvere dolcemente”.
Se l’ANC avesse ascoltato i suoi consigli di moderazione (o quelli del presidente Reagan) Nelson Mandela sarebbe morto in prigione, l’Africa del sud sarebbe finita nel caos e il mondo non avrebbe potuto fabbricare la leggenda del nuovo messia.

Alain Gresh