Tra
i prodotti dello spettacolo in mutazione ci mancava il giovane filosofo
confusionista che mescola Marx e Gentile; che si dice laico e fa professione di
fede fino a partecipare all'imbalsamazione preventiva del gesuita francescano,
volgare promotore, sul mercato in crisi delle ideologie, dell'immagine
grottesca di un papa pauperista, se non addirittura marxista e rivoluzionario.
Per
un prete, l’amore mieloso per i poveri è sempre il miglior modo per
eternizzarne la condizione. Per un filosofo, mescolare qualche formula radicale
al sostegno peloso delle nuove tendenze reazionarie assolve il ruolo
d’intellettuale-castratore di ogni sovversione che s’annuncia.
La
Chiesa (nel caso specifico quella formale arcaica cattolica e romana,
coadiuvata da quella universale e inconscia dell’umanità capitalizzata e
ridotta a nulla su tutto il pianeta) s’incarica di un ultimo disperato
tentativo di vampirizzare la teoria materialista del proletariato in quanto
teoria rivoluzionaria dell’emancipazione dell’umano da tutti i poteri.
Il
sistema è in crisi e ha in un rinnovamento dell’autoritarismo la sola chance di
durare. Nello stato attuale di decomposizione della società, solo se gli
schiavi rinunciano volontariamente alla libertà la schiavitù potrà continuare.
Peggio
della schiavitù cosciente c’è solo quella di schiavi che si credono liberi. Per
questo la personalità autoritaria e i suoi servitori volontari variano da fasi
fasciste a fasi democraticiste ma stanno sempre dalla parte del superio, cioè
del totalitarismo dominante spettacolar-mercantile che ha bisogno di individui
inginocchiati in chiesa o al supermercato, di fronte a Stato e Mercato, in
guerra o in una pace che assomiglia a un armistizio sempre più fragile.
Il
pensiero critico merita di meglio che di essere ridotto, ancora una volta, dalla
palabra filosofica accademica ad ancilla
theologiae come nell’intervista che segue.
Sergio Ghirardi
Dov’è la vittoria? Diego Fusaro: “Devastati dall’eurocrazia. Ma nontutto è perduto”
Intervista di Paolo Barbieri sul Fatto del 15 dicembre
Diego Fusaro,
ricercatore in Storia della Filosofia presso l’Università San Raffaele, è uno
studioso di Marx, di Hegel e della tradizione dell’idealismo italiano. Oltre ad
aver creato a 16 anni il sito Filosofico.net, il più cliccato per il settore,
ha scritto libri importanti come “Bentornato Marx”, “Minima Mercatalia”,
“Essere senza tempo”, “Idealismo e prassi. Fichte, Marx e Gentile” ed è
segretario delle due collane di filosofia Bompiani “Testi a fronte” e “Il
pensiero Occidentale” dirette da Giovanni Reale.
L’Italia
e la crisi. C’è un aspetto tipicamente italiano nell’affrontare una crisi
economica che fa impallidire quella del ’29?
La crisi che
stiamo vivendo non è, ovviamente, solo italiana. Personalmente, ritengo che
l’aspetto più drammatico dell’odierna crisi globale stia nel fatto – del tutto
coerente con le logiche di sviluppo del capitalismo post-1989 – che essa non
venga percepita e affrontata come un prodotto storico e sociale, ma come un fenomeno
naturale inemendabile, come un terremoto che non abbiamo prodotto e da
cui non possiamo salvarci. Ciò vale a maggior ragione in Italia, dove la crisi
è vissuta come l’analogon della peste dei Promessi
sposi: lungi dall’essere considerata l’esito delle politiche
neoliberali, la crisi è presentata dall’ordine del discorso dominante come una
realtà minacciosa e indipendente dall’agire umano, un flagello naturale da cui
– in attesa che cessi così come è iniziato – è possibile salvarsi unicamente in
forma individuale, in coerenza con l’odierno individualismo trionfante.
Gramsci
parlava di “cretinismo economico”. È questa una delle malattie italiane? La
finanza che detta le leggi alla politica?
È una
malattia, certo, ma non solo italiana. È la patologia tipica dell’era della
tecnica capitalistica e della sua “immagine del mondo”, incentrata – come
sapeva Heidegger – sulla riduzione dell’essente a pura quantità calcolabile,
misurabile e illimitatamente sfruttabile. Gramsci come Gentile – i due più
grandi filosofi italiani del ‘900 – ci insegnano che la realtà non coincide con
una fredda somma di dati oggettivi che chiedono di essere asetticamente
registrati dal pensiero calcolante, cifra dell’odierno “cretinismo economico”.
Al contrario, è la risultante di una costruzione e di una mediazione simbolica
operata dalla coscienza umana che si determina storicamente: è l’esito di un
fare soggettivo che può sempre da capo essere trasformato, con buona pace della
mistica della necessità oggi dominante sotto il cielo. La finanza come
espressione del monoteismo del mercato e del fanatismo dell’economia segna il
trionfo di quest’oblio dell’uomo e della cultura, ma poi anche
del senso della possibile trasformazione socio-politica dell’esistente.
Come
giudica lo stato della scuola e dell’università italiane?
Anche in
questo caso, la situazione è tragica, ma non seria. Nella
notte del mondo propria del fanatismo dell’economia, tutto è ridotto al
rito del consumo e dello scambio, alla fanatica liturgia della circolazione
senza misura. Non vi si sottrae nemmeno più la scuola. Valutati secondo un demenziale
sistema di “debiti” e “crediti”, gli studenti delle scuole secondarie
siano oggi ministerialmente definiti “consumatori di formazione”; i
presidi sono sviliti a managers d’azienda, e la lingua greca
è sostituita da una orwelliana neo-lingua, l’inglese non di Wilde e di
Shakespeare, ma dello spread e della spending
review. Ciò segnala l’avvenuta riduzione, in forma compiuta,
dell’umano a merce, della nuda vita a funzione variabile della logica
mercatistica. Mai prima d’oggi la forma merce si era elevata a mezzo di
comunicazione totale di una cultura.
Nel
mondo globale la cultura italiana sembra marginalizzata. Colpa della
globalizzazione o dell’Italia?
Colpa di
entrambe, direi. Della globalizzazione, giacché essa consiste non
certo in un pacifico universalismo che diffonde la cultura e le tradizioni
diverse, ma in una perversa logica di reductio ad unum, con cui
la pluralità linguistica e culturale dei popoli viene annientata in nome dell’unico
profilo globalizzato del consumatore. Ciò è la negazione perfetta
della cultura, dato che quest’ultima esiste solo là dove vi siano almeno due
culture che dialogano e si relazionano. Ma poi è anche colpa
dell’Italia, giacché – Gramsci docet – ha da sempre,
inscritta nelle sue radici, una vocazione cosmopolitica e non nazionale della
cultura: vocazione che oggi culmina nell’osceno oblio della lingua nazionale,
sostituita da indecorosi inviti a parlare in inglese; ma poi anche nella vergognosa
rimozione degli autori e dei pensatori della tradizione italiana: chi studia
ancora, ad esempio, i grandi Croce, Gramsci e
Gentile?
La
corruzione è un cancro del paese. Da cosa dipende la mancanza di senso dello
stato e di senso etico da parte degli italiani?
Da molteplici
fattori, temo. È difficile per me giudicare l’Italia e gli Italiani, poiché io
stesso sono italiano: e, per inciso, sono fiero di esserlo. Provo un disprezzo
totale per chi (a destra come a sinistra) sta distruggendo l’Italia oggi, svendendola
alla finanza europea e annientando la cultura italiana, di cui bisognerebbe
invece essere fieri. Ad ogni modo, credo che la ragione principale della
corruzione e dallo scarso senso statale ed etico del nostro popolo debba essere
ravvisata non solo nel fatto che siamo pervenuti solo tardi a un’unità statale,
peraltro più fragile rispetto a quella di altre realtà europee. Accanto a
questo motivo, vi è quello – sia detto al di là di ogni troppo facile retorica
– che abbiamo avuto le peggiori classi politiche di sempre.
A suo
giudizio la presenza del Vaticano è negativa per lo sviluppo civile del paese?
Giovanni Gentile, filosofo da lei studiato, era contrario ai Patti Lateranensi…
È una domanda
difficile. In questo, resto hegeliano: la Chiesa dev’essere non sullo stesso
piano dello Stato, ma sottomessa ad esso. E, tuttavia, la presenza del
cristianesimo in Italia è, per molti versi, positiva: come insegna Gentile, là
dove non arriva la filosofia, è giusto che arrivi la religione. Prova ne è,
oltretutto, che, morto il marxismo, il solo oggi a farsi carico della questione
sociale, se non altro a livello simbolico, è Papa Francesco:
là dove la cosiddetta sinistra si è del tutto deproletarizzata (ha cioè
abbandonato ogni interesse per gli ultimi e per i lavoratori), proprio mentre
la società si è venuta sempre più proletarizzando, complici anche le oscene
logiche del precariato. Se per laicità intendiamo il giusto riconoscimento
della libertà di coscienza e delle sue conseguenze in ogni campo, allora io
sono laico al cento per cento. Se per laicità intendiamo l’armata Brancaleone
dei laicisti à la Odifreddi o à la Flores
D’Arcais, che trasformano la laicità in un fronte integralista e
fanatico nemico di ogni religione, allora non sono laico e credo anzi
che il laicismo sia una patologia pericolosissima.
Lei è
molto giovane. Cosa pensa dei giovani italiani?
Non penso
affatto di essere giovane. Ho 30 anni, poco mi manca per essere “nel mezzo del
cammin di nostra vita”, come cantava il Poeta. L’ultracapitalismo
flessibile e precario è per sua stessa natura “giovanilistico”:
se oggi si è considerati “diversamente giovani” fino a cinquant’anni, questo
accade perché si è idealmente precari fino al termine della propria attività
lavorativa sia nella vita sociale, sia in quella affettiva, incapaci cioè di
stabilizzare la propria esistenza nelle tradizionali forme familiari (non
a caso continuamente irrise come istituzioni borghesi del passato) e lavorative
(il posto fisso e stabile, garantito e, dunque, tale da rendere possibile la
stabile progettazione di un futuro). Con la grammatica di Marx, i giovani di
oggi sono la prima generazione disintegrata nella struttura e integrata
nella sovrastruttura: costretti al precariato e alle forme contrattuali
più meschine, essi non oppongono resistenza all’esistente, accettandolo in
forma irriflessa come una sciagura ineluttabile.
Ha
fiducia nel futuro del nostro paese?
Con Gramsci, pessimismo
dell’intelligenza, ottimismo della volontà. L’Italia versa attualmente
nella situazione più tragica dal tempo di Attila ad oggi: il progetto criminale
impropriamente detto “Europa” – sarebbe meglio chiamarlo “eurocrazia”
– è il modo in cui la finanza sta distruggendo il nostro Paese amato dal sole e
dal debito. Ma non tutto è perduto. Siamo ancora in tempo per invertire la
marcia e per riprenderci tutto. Il primo gesto da compiere è abbandonare l’euro
e tornare alla sovranità nazionale. Ci vuole un moto d’orgoglio, occorre
trovare la fierezza di essere italiani o, come diceva Gentile, “sinceramente
zelanti di un’Italia che conti nel mondo, degna del suo passato”.