Depuis dimanche soir, les défenseurs de Chambaran dans l'Isère occupent une maison forestière (abandonnée de l'ONF) à 5 km du village de Roybon : |
All’indirizzo
degli Zadisti* – Quando può, lo Stato s’appoggia sempre su qualche complicità
locale.
* Le Zad sono in francese le Zone da difendere (Zones A Défendre) dall’appetito e
dall’alienazione produttivista come in Val di Susa, all’Expo e altrove nel
mondo.
Prima di tutto, per eliminare ogni ambiguità, noi siamo
solidali con le lotte di occupazione sostenute contro diversi progetti
industriali e capitalisti che per ristrutturare il territorio, contribuiscono a
ristrutturare le nostre vite. Siamo non solo solidali con le ZAD ma vi
contribuiamo attivamente anche se non ci definiamo come zadisti. Tuttavia non
siamo sempre d’accordo con quel che vi è portato. Il che è logico se si tiene
conto della diversità della gente che lotta. Passeremo oltre, per ora sulla
questione del mettersi d’accordo e della maniera di farlo, sulla quale
torneremo forse in seguito. Abbiamo deciso di redigere questo primo contatto
non per impartire delle lezioni che saremmo assai poco legittimate a dare, ma
per condividere le nostre osservazioni, i dubbi e le inquietudini.
In questi ultimi tempi ci ha fatto evidentemente arrabbiare
il fatto di aver saputo che dei “pro sbarramento” a Sivens o dei “pro Center parcs” a Roybon, si sono
organizzati contro gli zadisti: sbarrare le strade per impedire l’arrivo di
nuove persone in lotta e ridurre l’approvvigionamento logistico, degradare i
veicoli degli zadisti o le capanne di accampamento, minacce, insulti,
aggressioni ecc. Solidali con la gente sul posto, le reazioni e i discorsi di
alcune/i zadisti ci hanno a volte lasciate perplesse. A Sivens certuni
s’indignavano del fatto che la polizia non si sia interposta almeno per
proteggere i veicoli amici e le persone. A Roybon certuni s’indignavano del
fatto che i gendarmi non prendessero il tempo d’indagare sul sito in seguito al
lancio di molotov allorché il fatto stesso che essi potessero penetrare sul
sito non dovrebbe apparire come un’evidenza. Anche lì si sospettava e ci si
indignava che i poliziotti abbiano lasciato fare senza interporsi... Lo Stato
si ritrova di colpo con una nuova legittimità, chiamato a interporsi alla
maniera dei caschi blu tra pro e anti e a fare l’arbitro del conflitto per
mezzo della sua polizia, la stessa che ha già colpito e che non attende che un
ordine per radere al suolo la ZAD, gli stessi che hanno assassinato Rémi
Fraisse qualche mese fa. È un errore credere che ci sia la FNSEA o i piccoli
padroni di Roybon da un lato e lo Stato con i suoi deputati eletti, i suoi
servizi e i suoi poliziotti dall’altro; Vinci
e Pierre et Vacances da un lato e lo
Stato dall’altro. C’è invece un’unità di interessi convergenti. Del resto le
comunità rurali, coinvolte nei progetti in questione non sono delle entità
omogenee. Sembrerebbe persino che ci siano degli interessi di classe, delle
gerarchie, delle imprese morali, materiali, ideologiche religiose... Stato e
capitale trovano dei complici per interesse o adesione ideologica. Non bisogna
dunque aspettarsi di vedere solo gente in uniforme a fronteggiarci.
Stato e capitale avanzano insieme. Questi progetti non
possono vedere il giorno se non con la complicità dello Stato ma neppure senza
il suo appoggio amministrativo, politico, finanziario e attraverso delle
infrastrutture che lo Stato è il solo abilitato ad autorizzare. E se necessario
con i suoi poliziotti. A Chefresne che doveva essere attraversato da una linea
THT, i poliziotti hanno sloggiato un proprietario dal suo campo per permettere
alla società industriale RTE di continuare a fare danni allorché l’industria in
questione non aveva l’autorizzazione della giustizia, la quale a sua volta ha
chiuso gli occhi... “Polizia nazionale,
milizia del capitale” e “giustizia
complice”. All’occorrenza certi slogan colpiscono giusto, ma a forza di
ripeterli per riflesso non si prende più atto di quel che significano
realmente.
È curioso che mentre tutto dovrebbe spingere a prendere atto
e assumere una lotta contro lo Stato e il Capitale, lo Stato ridiventi d’un
colpo una sorta d’entità neutra. Prendere atto, vuol dire anche tentare di
organizzarsi al meglio per difendere la zona e le attività di lotta in modo autonomo.
Evidentemente, la situazione sul terreno è complicata e l’autodifesa vuol dire
porre qualche questione ambiziosa. Tuttavia abbiamo forse altra scelta?
Immaginiamo che possa esistere presso certune/i delle strategie mediatiche - “guardate come i professionisti e lo Stato
sono cattivi e noi buoni” - che mirano a legittimare la lotta, ma ciò vuol
dire, ancora una volta, dimenticare il ruolo dei mass media in queste storie,
la loro complicità con quelli che comandano, la loro sottomissione ideologica e
materiale all’aria del tempo. Ci sembra più pertinente proporre delle analisi e
rispondere a partire da una posizione chiara d’opposizione allo Stato,
piuttosto che ridargli un po’ di colore, passando per di più per una
comunicazione di cui sarebbe altrettanto necessaria la critica, compreso in
seno a una stampa “alternativa” che più si sviluppa meno sembra incarnare la
sua dimensione sovversiva. Ridare in tal modo vita allo Stato vuol dire
soccombere all’ideale astratto del cittadino in quanto amministrato. Il “cittadinismo” radicale stadio supremo
dell’alienazione?
Non è solo che Stato e Capitale marciano insieme. Lo Stato si
è sempre impegnato a trovare dei relais, dei notabili locali, delle frange
reazionarie fino a lasciarle organizzarsi in milizie. Creare una situazione
putrefatta è per lui pane benedetto. Così come lasciare ad altri fare il lavoro
sporco. Lo Stato favorisce un clima di tensione poco propizio allo sviluppo del
movimento, mantiene la pressione e la paura sulla gente che lotta, semina il
dubbio in certune/i in riferimento alla legittimità delle lotte. Aggiungiamo
che i primi a subire le pressioni da parte di poliziotti o dei loro sostituti
cittadini sono quelli che lottano e abitano già il luogo prima dell’inizio del
conflitto. Non è una ragione per vietare di sostenere alcune posizioni e
compiere certe azioni, né di rendere asettiche le proprie attività di lotta, ma
organizzarsi insieme è innanzitutto prendere coscienza delle realtà differenti
di ciascuna e ciascuno, tentando di partorire qualcosa di comune senza tacere
le divergenze.
Lo Stato e le industrie s’appoggiano quando possono sulle
popolazioni locali. Era già il caso al momento dell’installazione della
centrale nucleare di Flamanville, nella Manica, tra il 1975 e il 1977. Molti
siti in bassa Normandia erano allora in ballottaggio per ricevere gli effetti
benefici dell’atomo. Flamanville è stata l’eletta, meno per ragioni tecniche
che per la mobilitazione immediata delle opposizioni negli altri siti (nel
Calvados delle macchine di cantiere erano state immediatamente bruciate) e
soprattutto per il sostegno della popolazione locale. In effetti, certi notabili
erano adepti del nucleare dopo l’installazione dell’impianto di trattamento
delle scorie de La Hague a qualche decina di chilometri. Anche dei pretonzoli
predicavano la buona parola atomica. Ma soprattutto a Flamanville c’era una
popolazione operaia che aveva perduto il lavoro. Una miniera di ferro aveva
chiuso le porte qualche anno prima. Evidentemente l’installazione è stata vista
di buon occhio da una parte di loro. La falaise
sulla quale si arrampicavano per scovare il ferro avrebbe lasciato il posto a
un cantiere titanico, poi a una centrale che si sarebbe dovuta ben
intrattenere. Ricatto al lavoro. Di fatto gli oppositori/oppositrici che
conducevano già un’occupazione del sito non si sono urtati soltanto con lo
Stato e EDF, ma anche con cittadini locali arrabbiati e pronti a battersi.
Comunque sia, gli industriali e lo Stato scelgono i siti in funzione delle
mobilitazioni che incontrano e dei relais possibili in seno alle popolazioni
locali.
Il sito di Notre Dame des Landes fa forse eccezione a causa
della sua lunga storia di opposizioni. In quel sito ci sono state molteplici
lotte in passato, dalle relazioni tra contadini e operai del 68 alle lotte
antinucleari contro le centrali di Carnet e del Pellerin. Anche per questo la
lotta si è fatta cisti, come direbbe Valls. Non si può, tuttavia, riprodurre dovunque
questo contesto in maniera identica senza prendere atto delle situazioni
locali. Ciò vuol dire, forse, che far vivere queste lotte e soprattutto
amplificarle è più difficile di quanto si creda. Ma non importa. Già a Chooz,
all’inizio degli anni ottanta, operai siderurgici e antinucleari avevano capito
che un’ipotetica vittoria (quale vittoria?) non era necessariamente il solo
scopo della lotta. La loro parola d’ordine era “costerà caro farci saltare”. La stessa lucidità ha percorso la
ripresa delle lotte anti THT nella Manica, dopo il campo di Valognes del 2011.
In quel caso sembra proprio che dei documenti interni degli industriali
coinvolti confermino un certo effetto dei sabotaggi e delle diverse attività di
lotta. Che ciò si generalizzi e gli effetti si faranno ancora più sentire.
Caen, Marzo 2015.
Laura Blanchard e Emilie Sievert
Blanchard.sievert@riseup.net