MORTE E TRASFIGURAZIONE
Parole di Gustavo Esteva al Seminario Zapatista Il pensiero critico di fronte all’Idra capitalista. Oventic e San Crtistobal de Las Casas – Chiapas (Mex) 3-9 maggio 2015
La mia generazione creò la sua prima formazione politica nel 1958, istituendo l’Unione Generale degli Operai e Contadini del Messico –nientedimeno!- o il Movimento Rivoluzionario Magisteriale, di Othón Salazar, che con certezza studiò a Ayotzinapa nel 2° anno di normale[1]. Fu la settimana santa del 1959, con lo sciopero che paralizzò il paese, Vallejo incarcerato, 9mila ferrovieri licenziati, l’ingresso di Fidel a L’Avana …
Alcuni di noi cercarono un impegno, più o meno sfortunato, sulle orme del Che. Però fu decisivo lo spirito degli anni ’60.
Furono gli anni del manifesto di Port Huron, allorché i giovani statunitensi scrissero l’agenda per tutta una generazione, per imparare da soli, più che dagli adulti, e porre i propri privilegi a servizio del cambiamento.
Si misero in marcia … ma senza saper bene verso dove dirigersi. Furono il ribelle senza causa incarnato da James Dean. Allorché chiesero a Marlon Brando contro cosa si stesse ribellando in The Wild One ringhiò seccamente: “Che accade qua dentro?”. Non lo sapevano. Ma i Beatles avevano ascolto ancor prima di nascere.
Furono gli anni del sogno di Martin Luther King: non era il momento di sorbire la droga del gradualismo, ma il tempo di rendere subito reali tutte le promesse.
Leader politici fra loro assai diversi simboleggiavano il cambiamento, Krusciov e Giovanni XXIII, Fidel e Nasser …
Autori inattesi aprivano nuove strade. Apparvero i manoscritti del 1844 …
Nel 1960 solo il 10% dei nordamericani aveva la televisione; dieci anni dopo, solo il 10% ne era privo. McLuhan ci spiegò come si stesse così formando una tribù mondiale che abitava il villaggio globale.
Fu il momento di Atlantic City, Betty Friedan, il decollo del movimento femminista.
Negli Stati Uniti nacquero un milione di ‘comuni’ e prese forza il Movimento di Ritorno alla Terra: radicarsi nel campo.
La lista è interminabile. È esistito realmente uno spirito degli anni sessanta, in tensione fra una corrente individualista e un’altra solidaristica e comunitaria.
Tutto venne messo in discussione: la famiglia, il lavoro, l’educazione, il successo, la saggezza, la pazzia, l’educazione dei bambini, l’amore, la scienza, la tecnologia, il progresso, la ricchezza …
Improvvisamente, tutta la gioventù del mondo era unita e trovava un linguaggio comune per rispondere a tutte le domande. Era necessario cambiare tutto. Vi furono momenti in cui all’improvviso si vide tutto quello che una società aveva di intollerabile, assieme alle possibilità di un’altra realtà sociale.
Vi fu una profonda rivoluzione di tutte le problematiche umane. Per una gran parte della popolazione del mondo il Medio Evo ebbe fine negli anni sessanta. In questo clima, con questa visione, in queste condizioni, si desiderò tutto. “Il cielo è il limite”, “Assalto al paradiso” divennero espressioni correnti. La prima oggi viene tradotta con “tutto è possibile”. Questo era ciò che significava e che pensavamo dicendolo. La seconda esprimeva un’intenzione precisa: assaltare il cielo, prenderlo nelle mani. Era stato possibile camminare sulla luna. Come non era possibile assaltare il cielo politico e sociale? E non fu casuale che venisse usata la stessa frase forgiata da Marx, in una lettera a un amico, per parlare della Comune di Parigi, dove per la prima volta si vide il popolo cacciare i governanti e dare l’assalto al cielo.
Quegli ‘anni dorati’, dal 1960 al 1973, furono il vertice di un periodo di prosperità senza precedenti. Traballante, per i suoi stessi eccessi, il capitale aveva fatto concessioni. Era riuscito ad uscire dalla ‘grande depressione’ con la Grande Guerra, ma il suo recupero fu possibile solo grazie al New Deal (Nuovo Corso). I sindacati divennero forza reale della politica pubblica, fecero aumentare anno dopo anno i salari reali e nacque lo ‘stato del benessere’ (Welfar State). Ricette keynesiane crearono la domanda che il capitale era incapace di creare. La guerra, la morte di cento milioni di persone, assicurò il successo del pacchetto … e così si ebbero i ‘30 anni gloriosi’, con miglioramenti nelle condizioni della gente, un’espansione capitalista spettacolare e mobilitazioni dei lavoratori che andavano dalla cucina alle scuole e alle fabbriche, con ‘comuni’, picchettaggi e guerre di guerriglia. Sembrava proprio che la rivoluzione stesse arrivando.
Una eccitazione carica di speranza percorreva il mondo. Sembrava di essere alla vigilia del parto della nuova società. Sembrava che il delirio tecnologico della civiltà occidentale avesse incontrato la sua nemesi. La triste alternativa fra un mondo occidentale democratico che aveva venduto l’anima alla burocrazia sembrava giungere finalmente a una reliquia del passato. E la nuova alternativa era una società democratica diretta … piena di anima. Dietro lo splendore di questa grande visione, confluiva una sola ondata poderosissima e inarrestabile, l’emancipazione.
Nel maggio di Parigi, nel ‘68, stava confluendo tutto questo. Si mescolavano socialisti utopici con anarchici, freudo-marxisti e surrealisti. I nomi dei gruppi danno l’idea del momento: il “Comitato d’Azione Freud-Che Guevara”, il “Comitato Rivoluzionario di Agitazione Transessuale” … I loro lemmi erano chiari: “Tutto il potere all’immaginazione”; “È il sogno che è reale”. Per i situazionisti le rivoluzioni che si avvicinavano sarebbero state dei festival, “perché festoso è il tono stesso della vita che annunciano”. Sartre sottolineava: i giovani “non desiderano un futuro come il nostro, noi che abbiamo dimostrato di essere codardi, avviliti dall’obbedienza, vittime di un sistema chiuso”. Morin vedeva “l’estasi della storia”, Touraine “il primo movimento sociale antitecnocratico”, Malraux “la risposta a una crisi della civiltà” …
I giovani contaminarono gli adulti. A Parigi ci fu lo sciopero generale più partecipato e prolungato della storia.
Una nuova era sembrava essere sulla soglia. L’agenda dei giovani di Port Huron sarebbe divenuta realtà:
Cercare alternative autentiche a ciò che abbiamo, fare tramite queste esperienze sociali per auto-governarsi. Dare un senso alla vita … Senza egoismi individualisti … rimpiazzeremo il potere basato sul possesso, il privilegio o le convenzioni col potere e la relazione basati sull’amore, la riflessione, la ragione e la creatività … il lavoro deve avere come incentivo qualcosa di più importante del denaro o della sopravvivenza. Deve essere educativo, non abbrutente; creativo, non meccanico; auto-diretto, non manipolato; che stimola l’indipendenza, il rispetto degli altri, un senso di dignità e la disponibilità a accettare le responsabilità sociali.
Bello, nevvero? In questo clima vivevamo, a questo credevamo … però venimmo sconfitti.
De Gaulle minacciò di portare i carri armati a Parigi e il movimento ebbe termine. In Messico accadde il 2 di ottobre. La primavera di Praga venne cancellata dai carri armati. Le guardie rosse in Cina fecero quello che fecero. Martin Luther King e Robert Kennedy furono assassinati. A Woodstock, “la nuova società abortì, drogata e felice” …
Vi é una lunga serie di spiegazioni per la nostra sconfitta. Il food power che modificò contro di noi il modello mondiale dell’alimentazione; l’embargo petrolifero e gli interventi della Banca Centrale statunitense, che contaminarono tutto; l’individualismo di molti giovani rivoluzionari che impedì al movimento di andare oltre … Tutto questo ha pesato. Era parte della guerra che la famosa Commissione Trilaterale andava tessendo segretamente, la fusione del gran capitale con il grande governo. Ma il fattore decisivo può essere stato il fatto che si pensò possibile che il cambiamento venisse realizzato attraverso le strutture di governo. Si voleva cambiarle, trasformarle in altra cosa, ma allo stesso tempo si voleva utilizzarle per la grande trasformazione che si cercava di realizzare. Su questo terreno, che non è quello della gente, subimmo la grande sconfitta. Alcuni di noi impararono la lezione. Non c’era nulla da sperare dai governi, dall’alto. Il cambiamento non può venire da lì. Continuiamo a sorprenderci che alcuni continuino a guardare in questa direzione.
L’‘apertura democratica’ di Luis Echeverria, la sua lettura del ‘68, aveva tre componenti: inventare l’opposizione politica, dare denaro alle università e offrire opportunità agli universitari. Vari leader del ‘68 passarono dalle carceri a posti di governo. Altri incentrarono la loro vita nel nuovo partito che avrebbe catturato l’anima della sinistra e altri ancora si misero a insegnare e studiare.
In questo decennio ebbe luogo un grande dibattito nazionale e internazionale, che si svolse soprattutto fra marxisti, per decidere cosa fare dei contadini. Quelli di noi che credevamo nei contadini vennero chiamati campesinisti, per squalificarli. Quelli, cosa ancor peggiore, che credevano nei popoli indigeni, vennero qualificati etnicisti.
Ci afferrammo a una filiazione di Zapata per creare con scompiglio il Coordinamento Nazionale Piano di Ayala[2]. Per questa ragione, e altre ancora, Reyes Heroles, ministro degli interni, parlò del risveglio del Messico selvaggio. López Portillo si autodefinì l’ultimo presidente della rivoluzione quando nazionalizzò le banche … e rovinò il paese.
Eravamo confusi, è fuor di dubbio. Tardammo a renderci conto della sconfitta e ancor di più nel capirne le ragioni. Tuttavia qualcosa stavamo imparando.
La mia organizzazione nel 1980 si chiamò Autonomia, Decentramento e Gestione perché, ci dissero, era ciò che voleva la gente con la quale lavoravamo. Celebrammo, nel centro di Città del Messico, la ‘festa dell’autonomia’ che era sbocciata dopo il terremoto[3]. Alcuni di noi andarono sulle montagne del Guerrero. Da lì, come ho scoperto in un ritaglio di giornale giallognolo che mi è capitato fra le mani venendo qua, dissi a un giornalista fuorviato, il 3 marzo del 1985, parole che mi paiono aver ancora oggi un senso.
Per dialogare, diceva Machado, prima cosa é ascoltare; poi, di nuovo ascoltare. Ma dobbiamo, quindi, saltare giù dal treno delle concezioni mitiche. Come possiamo dialogare se abbiamo occhiali opachi e i nostri auricolari lasciano ascoltare solo la nostra musica? Come dialogare se non è possibile guardare l’altro negli occhi, ascoltare le sue parole e osservare assieme a lui la nostra realtà comune, perché lo impediscono le bende ideologiche che ci paralizzano come se fossero camice di forza?
Era questa, la difficoltà. Continuavamo ad essere paralizzati da una specie di accecamento. Così ci aveva ridotto la sconfitta che oggi conosciamo col nome di ‘globalizzazione neoliberista’ …
Ormai sappiamo cosa ha prodotto: ha smantellato tutti i progressi sociali e riportato alla situazione precedente al nuovo corso … e alla crisi del 1929. Riallocò i mezzi di produzione, deterritorializzò il capitale, accrebbe la concorrenza fra lavoratori, smantellò il potere sindacale e lo ‘stato del benessere’ e organizzò la spoliazione delle terre.
Il massacro di Ludlow, nell’aprile del 1914, dove vennero assassinati i minatori del Colorado in sciopero, descrive la situazione dei lavoratori di cent’anni or sono: solo il 5% di essi era sindacalizzato. Fu ciò che il nuovo accordo ha voluto correggere. Ormai siamo tornati lì. Solo il 6,6% dei lavoratori del settore privato degli Stati Uniti è attualmente iscritto ad un sindacato. Si era arrivati a una cifra cinque volte maggiore. Il declino del settore è oggi una realtà irreversibile.
Sono stati cancellati i progressi di un secolo in materia di disuguaglianza economica e di accumulazione della ricchezza, quelli che avevano creato l’illusione che la società capitalista avrebbe potuto essere ugualitaria e che tutta la gente avrebbe potuto appartenere alla classe media.
Aldous Huxley nel 1958 pronosticò quanto sarebbe accaduto:
Grazie a metodi sempre più efficaci di manipolazione mentale, la natura della democrazia verrà cambiata. Permarranno le vecchie forme pittoresche; le elezioni, i parlamenti le supreme corti e tutto il resto. Però la realtà sottostante sarà una nuova categoria di totalitarismo non violento.
Si sbagliò. Questo totalitarismo ricorre oggi a forme terribili di violenza in una guerra aperta contro la gente.
Non so quanti della mia generazione si sentirono orfani dopo il collasso dell’Unione Sovietica o l’apertura della Cina. Non fu il caso mio, perché da tempo questi paesi avevano cessato di essere i miei referenti, però condividevo la perplessità di quasi tutti. Andai a vivere a otto chilometri da dove era nata la mia nonna zapoteca, in un villaggio in Oaxaca. Lì ruminavo il mio sconcerto … e mi aggrappavo ai miei, ai popoli che mi fecero nascere.
Il primo gennaio del 1994 mi trovavo lì. Si è affermato con ragione che la sollevazione fu il risveglio per tutti i movimenti antisistemici. Ma vorrei affrontare il tema in termini più personali. Fu una scossa turbinosa e ingarbugliata. Vi erano cose evidenti da fare. Uscire nelle strade, ad es., per dire che non erano soli. A marzo, afferrai la mano di non so chi in un cerchio di pace nella cattedrale di San Cristóbal. Era cosa giusta. Erano gesti anonimi. Ma in aprile commisi uno sproposito: scrissi un libro sullo zapatismo … per spiegarlo. Feci di peggio: lo pubblicai.
Non mi sono emendato. Dieci anni dopo tornai a fare la stessa cosa. Ne sono pentito[4].
Seguitai a bussare a varie porte per chiarirmi le idee. Paul Baran e Paul Sweezy negli anni sessanta erano stati fari intellettuali importanti per la mia generazione. Tornai a dar loro un’occhiata, a quello che scrissero allora e a quello di ora.
La dinamica neoliberista, dicevano, creò una forma di stasi prolungata, stabile e permanente, che mise nell’angolo il capitale. Venne rotta la tregua sociale: fin dal 2.000 si arrestò la creazione di nuovi posti di lavoro. Secondo Sweezy, la finanziarizzazione del processo di accumulazione del capitale costituiva lo sforzo disperato di sfuggire alla stagnazione economica. La finanziarizzazione agiva come una droga o come uno stimolante come per alcuni atleti. Consente di vincere una battaglia … ma porta a perdere la guerra.
Noialtri -scrissero Magdoff e Sweezy nel 1987- diventammo adulti negli anni 30 e così ricevemmo la nostra iniziazione alle realtà dell’economia politica capitalista. Per noi, la stagnazione economica, nella sua forma più atroce e penetrante, comprese le sue ramificazioni di forte portata su tutti gli aspetti della vita sociale, fu un’esperienza personale marcante. Sappiamo di cosa si tratta e quello che comporta; non abbiamo necessità di definizioni né spiegazioni.
Deploravano il modo in cui le nuove generazioni ignoravano l’idea stessa di stagnazione e non trovavano il modo per collegare la propria esperienza a quanto stava accadendo. Si, avevano ragione. La tendenza alla stagnazione sta alla radice di ogni società capitalista matura. Una cosa è certa: la finanziarizzazione è un rimedio salvifico tanto disperato quanto pericoloso.
Nel 1997, Sweezy sottolineò che la questione cruciale della sovra-accumulazione attuale deve essere letta nella inevitabile interrelazione fra la monopolizzazione globale, la stagnazione e la finanziarizzazione del processo di accumulazione. Non è una crisi, che ha sempre una soluzione ed è transitoria, ma uno stato di cose permanente, con conseguenze catastrofiche per la vita sociale, che non ha vie di uscita nel suo proprio contesto.
Gli anni della prosperità, ora lo si vede con chiarezza, sono stati un’anomalia, un periodo di follia nel quale il padre ha sperperato ciecamente il patrimonio familiare. Tutti ora ne soffrono le conseguenze. Dato che ora il capitale non può più investire nella produzione, l’idra attuale si consegna senza riserve a una febbre distruttiva. Come altri hanno detto in questo incontro, i danni per la Madre Terra mettono a rischio la sopravvivenza della specie umana.
La distruzione del tessuto sociale e politico è ancora più grave. Ogni settimana scompare una lingua. Scompaiono culture intere. Forme antichissime di esistenza sociale, che erano riuscite a resistere a tutti gli attacchi e nutrivano la convivenza umana, sono gravemente minacciate. La cosa più grave è la frammentazione individualista che esaspera la violenza e limita le possibilità di organizzare una risposta collettiva al disastro.
L’impeto distruttore è a volte cieco, folle, del tutto irrazionale, puro furore avido. Però altre volte è frutto di un calcolo patologico, che pensa ai precedenti, quando grandi distruzioni favorirono la rinascita capitalista. Si è tornati a sognare questo incubo in termini da togliere il respiro.
La frammentazione colpisce sempre più persone appartenenti allo stesso gruppo, ragazzi contro ragazzi, lavoratori contro lavoratori, comunità contro comunità. Ci stiamo avvicinando alla sindrome jugoslava, al di là della guerra civile in cui ci troviamo, quando amici e vicini che erano vissuti assieme per secoli cominciarono ad ammazzarsi gli uni gli altri. Appena poche settimane or sono a Oaxaca si fu sul punto di una rissa spaventosa. Lavoratori semischiavi delle mafie del trasporto urbano presero dei tubi metallici per scontrarsi con lavoratori semischiavi delle mafie del mercato centrale. Accade fra loro, nelle famiglie, fra vicini, fra comunità …
L’espropriazione generale si aggrava. Parole eleganti quali ‘estrattivismo’ minerario o urbano, nascondono la rapina brutale.
La facciata democratica della quale il capitale aveva necessità per la libera azione del mercato si è trasformata in ostacolo, come pure le frontiere dello Stato nazionale, che erano state strumento privilegiato per l’espansione del capitale. La nozione di sovranità nazionale è sempre più un ricordo di tempi passati.
Nella storia vi sono stati momenti simili a questo. Però forse non ve ne è stato alcuno in cui il disastro sia tanto grande e spaventoso. Fa parte del disastro il fatto anche il fatto che si distenda uno spesso velo sopra quello che accade; si pensa perfino che le difficoltà presenti presto termineranno e torneranno i ‘bei tempi’.
I messaggi che a volte inviano coloro che protestano nelle strade, in Europa, è ambiguo: vi è qualcosa di peggiore dell’essere sfruttati, ci dicono: è il non essere sfruttati. Non c’è per caso qui attorno qualche capitalista disposto a rimetterci le catene? Si lotta per il posto di lavoro così come si lotta per l’aumento del salario, e non vi è dubbio che siano lotte legittime e che sia necessario continuare a farle. Ma esse restano all’interno del quadro dominante, con la convinzione che è possibile vincere alcune di queste battaglie –cosa certa- ma si sta perdendo la guerra[5].
Il soggetto storico della trasformazione si è disarticolato. Gli eroi sono stanchi. Non tornerà a esistere un’organizzazione potente del proletariato industriale che per tanti anni fu per la mia generazione la promessa e la speranza del cambiamento. Quello che ne rimane è come un vascello alla deriva.
Il regime politico creato dalla Rivoluzione Messicana[6] e che era una variante di quello configuratosi nel secolo XIX, é stato ormai smantellato. Non è solo il fatto che la Costituzione sia ormai un documento senza coerenza né sostanza, uno strumento per la manipolazione, il controllo e la rapina. Il fatto è che lo stesso ‘stato di diritto’, che mai è stato forte in questo paese, ha cessato di esistere. Nel 2009 la Corte Suprema ha battuto gli ultimi chiodi sulla sua bara, certificando per scritto che il governo può sopprimere le garanzie costituzionali e reprimere i movimenti sociali. Così, criminalizzando la protesta sociale e l’iniziativa cittadina, le istituzioni statali sbarrano adeguatamente l’unico cammino che ci resta per riorganizzare la società dalla base, e stabilire da lì le norme che devono regolare la nostra convivenza.
Nella confusione, per la mia fretta di distinguere il capitalismo di prima da quello di ora, mi sono azzardato a suggerire che forse non si chiamava capitalismo perché ormai non accumulava relazioni capitaliste di produzione. È una provocazione, interessante, ma la sua analisi tecnica è lunga, complessa, noiosa e poco fruttuosa. Non è utile per l’azione.
La vecchia domanda del che fare circola nuovamente fra noi e genera ansietà perché le vecchie risposte non sono più attuali. Con il secolo è morta la formula leninista che lo presidiò. Ma l’immaginazione resta paralizzata una volta che si abbandonano leader, avanguardie e partiti, come qualsiasi idea di occupare gli apparati dello Stato.
Consentitemi di affrontare di nuovo la questione in termini personali. Non ho programmato di morire nei prossimi giorni, ma sono cosciente di essere nella fase ultima della mia vita. La gente della mia età, dalle mie parti, viene giudicata persona di giudizio. Ma io credo di averlo perso, il mio, e a chi mi domanda che fare, rispondo sempre: non lo so.
Non è facile ammettere questo alla mia età. Si pensa che uno lo sappia. Ma non è così.
Come avrete notato sono una persona lenta a capire. Ma sono cocciuto. Non desisto. Voglio continuare a capire. Per questo vengo spesso in questo luogo per vedere cosa posso pescare. Si, lo so. Non devo idealizzarvi né copiarvi. Ma allora cosa … ci sono cose che molti di noi hanno portato via con sé: un mondo in cui stanno molti mondi, comandare obbedendo, camminare domandando, i sette principi … sono buone guide, indirizzano su buoni sentieri, alcuni impervi e difficili …
In verità non credo di poter offrire ciò che ci hanno chiesto. Vedo, soffro, mi addoloro, sperimento ogni giorno la tormenta che essi vedono. Ma non ho idee da proporre, orientamenti da indicare. Il massimo che posso fare è condividere quello che vedo nel mio mondo o nelle mie avventure quaggiù, quello che ascolto, e continuo a cercare di imparare.
Nel mio mondo, fra gente indigena, contadina e emarginati urbani, vedo molta gente che si muove nel senso di organizzarsi. Alcuni hanno già recuperato le loro assemblee comunali, municipali, di quartiere. Devono impegnarsi a proteggerle continuamente dai partiti che li frazionano, dalle chiese che li dividono, dai funzionari che vogliono comprarli, dalle corporation che cercano di fregarli. Ma così fanno. Ci sono anche alcuni che vogliono spingere più avanti questa organizzazione che hanno realizzato e concordano coalizioni.
Altri non arrivano a tanto, ma hanno già un collettivo, un mezzo di comunicazione libero, una cooperativa.
Vedo che molti di questi cercano sempre più maggior autonomia. Decidono di produrre il proprio cibo, curarsi e imparare da soli, non dipendere da nulla e da nessuno.
Vedo anche fare cose che mi affascinano. Il nuovo per loro non è tanto organizzarsi ma il perché farlo: non lottano per conquistare gli apparati statali o per sedurli, per ottenerne qualcosa, perché soddisfino qualche loro richiesta. Ciò che vogliono è renderli irrilevanti, non necessari. Vi sono molti che non possono, sia perché dipendono dalla lana che perviene da essi o perché devono scontrarsi col governo per resistere a qualche puttanata.
Vedo sempre più fra loro una pratica che anni or sono chiamavamo circolazioni di lotte popolari, senza saper bene di cosa parlavamo. Oggi parlano di mutua educazione. Così come si sono lasciati educare da piante, animali e boschi, ora dedicano il tempo a educarsi gli uni gli altri, a imparare dalla lotta di ciascuno.
A volte questo assume forme affascinanti. A San Diego un mese fa mi hanno avvicinato i compagni della Sesta di Tijuana e mi hanno consegnano una maglietta con la scritta Ayotzinapa, Ferguson, Palestina. Ci hanno tolto talmente tanto che ci hanno tolto perfino la paura. Non è stato un fatto isolato. Compagni palestinesi hanno scritto a coloro i erano pieni di rabbia per il razzismo selvaggio della polizia di Ferguson. Collegare tre lotte che sembrano non avere nulla in comune spinge a pensare perché alcuni le hanno collegate. E quindi imparare a collegare quello che c’è da collegare. E mi ha sbalordito, alcuni giorni dopo, vedere che la maglietta era già emigrata al centro degli Stati Uniti e poi all’Est, e che i compagni del Movimento per la Giustizia di Quartiere, a Nuova York, che continuano imperterriti la loro solidarietà con Bachajón, avevano già la maglietta. Suppongo che da tutto ciò vi sia qualcosa da apprendere.
Il 22 marzo di quest’anno, da Amatlán, Morelos, il Congresso Nazionale Indigeno ha indicato con chiarezza che per resistere all’orrore e arrestare la guerra scatenata contro di noi “non bastano gli slogan” e “neppure lo si potrà fare affannandosi a seguire i calendari, le geografie e i modi di quelli che stanno in alto, ma abbiamo bisogno di costruire un nuovo paese, un nuovo mondo.”
Nelle loro dichiarazione, hanno rinnovato la decisione di “continuare a tessere un nuovo mondo possibile e necessario, infatti solo così potrà risplendere la pace sui nostri popoli e aver fine la repressione.”
È questo il clamore generale. Lo ha detto brillantemente Arundati Roy: “L’altro mondo non solo è possibile ma è già in marcia; se, in un giorno tranquillo, ascoltate con attenzione, potete sentire il suo respiro”.
Com’è questo respiro?
Gli studiosi della rivoluzione, e fra loro alcuni che avevano partecipato a qualcuna di esse, già da tempo hanno enumerato le condizioni che indicano una situazione rivoluzionaria. Secondo questi, la possibilità esiste quando si combinano varie condizioni: crisi nel modo di funzionare della società, allorché le istituzioni cessano di svolgere correttamente le loro funzioni; una rapida cristallizzazione delle classi sociali e dei gruppi in conflitto; quando le loro idee e pratiche si coagulano e quando gruppi di solito dispersi, come gli studenti e i gruppi etnici, mostrano capacità di dare risposte collettive; nascita di organizzazioni e di ideologie che offrono una prospettiva alternativa a quella dominante; crisi dell’elite di governo, delle classi dominanti e degli apparati statali, e crisi morale, che mette in dubbio le strutture accettate del potere, dell’egemonia ideologica e del senso comune; tutto ciò in un contesto internazionale che facilita o almeno consente che accadano processi rivoluzionari.
Il fatto che tutte queste condizioni siano evidenti a tutti con crescente chiarezza, sollecita ovunque la tentazione rivoluzionaria, ma spesso conduce a reazioni tradizionali. Non si è generalizzata la convinzione che le vecchie forme di rivoluzione sono esauste, che ormai mancano di realismo e di senso. Questo stesso stende un velo sopra le iniziative che sono andate gestendo e costruendo questo nuovo ordine sociale il cui respiro è udibile in un giorno tranquillo.
Per molte ragioni e motivi diversi, milioni di persone in Messico e nel mondo intero sono in movimento. Questo è il momento di valorizzare le loro iniziative e di ascoltare la gente comune.
Oggi non si tratta di fare la rivoluzione, o di programmarla e prepararla. Vi siamo dentro. Si tratta di decidere quale posizione assumiamo di fronte ad essa. Come diceva Benjamin, “non si può essere neutrali su un treno in corsa”. Il mondo si sta muovendo verso certe direzioni, alcune delle quali terrificanti. Essere neutrali davanti a questa situazione significa collaborare con tutto questo dramma.
Non abbiamo parole per descrivere quello che sta accadendo. Non siamo sull’orlo dell’abisso. Già vi siamo caduti dentro e sembra essere senza fondo. Dobbiamo agire. E la prima cosa da fare può essere quella di riscattare le infinite piccole azioni della gente comune, che è l’unica cosa che può produrre i grandi cambiamenti. Così è sempre stato. Perfino le più piccole azioni di protesta alle quali partecipiamo potrebbero trasformarsi nelle radici invisibili del cambiamento sociale.
Il mondo si è capovolto, diceva Howard Zinn, le cose vanno completamente male. Non è una questione di disobbedienza civile. Il nostro problema è l’obbedienza civile. Il nostro problema è che in tutto il mondo la gente è obbediente davanti alla povertà, alla fame, alla stoltezza, la guerra e la crudeltà. Il nostro problema è che la gente è obbediente quando le carceri sono piene di ladruncoli mentre i ladroni sono a carico del paese. Questo è il nostro problema.
Avere speranza in tempi difficili è fondato sul fatto che la storia umana non è solo crudeltà. È anche compassione, sacrificio, valore, bontà. Ricordarlo ci dà l’energia per agire, e quanto meno la possibilità di orientare questa trottola di mondo a girare in un’altra direzione[7].
E se agiamo, per piccola che sia l’azione, possiamo sperare in un grande futuro utopico. Il futuro è una successione infinita di attimi presenti, e vivere ora così come pensiamo che dovrebbero vivere gli umani, sfidando tutto il male che ci circonda, è in sé già un trionfo meraviglioso.
Il cambiamento rivoluzionario non arriva come un cataclisma improvviso ma come successione interminabile di sorprese.
Oggi regnano la violenza, il caos, il disordine, l’incertezza. Abbiamo bisogno di portare ordine e senso in questo mondo. E dobbiamo farlo adesso. Il cambiamento rivoluzionario è qualcosa di immediato, qualcosa che dobbiamo fare oggi stesso, dove ci troviamo, dove viviamo, dove lavoriamo. Implica iniziare ora stesso a disfarsi delle relazioni autoritarie e crudeli fra uomini e donne, padri e figli, fra un genere di lavoratori e un altro genere di lavoratori.
Questa azione rivoluzionaria non può essere repressa come un’insurrezione armata. Si sviluppa nella vita quotidiana, nei piccoli luoghi dove le mani potenti ma goffe del potere statale non possono arrivare facilmente. Non è centralizzata né isolata, e pertanto non può essere distrutta dai ricchi, dalla polizia, dai militari. Si svolge in 100 mila luoghi nello stesso momento, nelle famiglie, nelle strade, nei quartieri, nei luoghi di lavoro. Repressa in un luogo, riappare fino ad essere ovunque.
Questa rivoluzione è un’arte. Richiede il valore, non la resistenza, piuttosto l’immaginazione.
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Le cose cadono a pezzi, il centro non può tenere. Pura anarchia dilaga nel mondo La marea insanguinata s’innalza e dovunque La cerimonia dell’innocenza è annegata. I migliori mancano di ogni convinzione mentre i peggiori Sono pieni di intensità appassionata.
William Butler Yeats scrisse queste righe quasi cento anni or sono al termine della prima guerra mondiale. Fanno parte di The Second Coming, uno dei poemi più conosciuti e citati della lingua inglese. Ma nessuno vi pose attenzione. Dopo l’irresponsabilità del decennio del 1920 soffrimmo uno dei periodi più oscuri della storia umana. Oggi ci troviamo in un altro, che può essere anche peggiore. Non possiamo, non dobbiamo offrirci il lusso di alzare le spalle; chiudere gli occhi sarebbe suicida e criminale.
Si sono accese molte candele in questa oscurità ed esse brillano con intensità crescente[8]. Non c’è spazio per l’ottimismo, ma c’è spazio per la speranza, che non è la convinzione che qualcosa avverrà in un certo modo, ma la convinzione che qualcosa ha senso, indipendentemente da ciò che avverrà.
Oggi ha senso lottare.
Ha senso trasformare ogni giorno, dovunque ci troviamo, tutte le relazioni crudeli e insensate che persistono fra di noi, e forgiare le nuove.
Ha senso far valere la nostra dignità contro tutti i sistemi.
Ha senso rendere irrilevanti quanti dominano e opprimono, forgiando l’emancipazione in ogni atto, ogni gesto, ogni parola, tutti i giorni.
Forse, lo dico timidamente e con titubanza, e mi trema la voce, ma solo questa, forse, dico, forse è arrivata la nostra ora. E si, sei un bastardo. Non so se saremo più bastardi o più porci. Però so che non staremo dormendo e non saremo codardi.
Traduzione a cura di Camminar domandando (www.camminardomandando.wordpress.com)
Le note sono tutte dei traduttori.
[1] Con riferimento è ai 43 studenti normalisti di questa scuola desaparecidos da fine settembre 2014, quasi certamente massacrati da esercito e polizia.
[2] Il Plan de Ayala (1911) fu un documento stilato dal leader rivoluzionario Emiliano Zapata durante la rivoluzione messicana.
[3] Un terribile terremoto sconvolse la città nel 1985. Di fronte all’inerzia delle autorità la gente reagì dando prova di notevoli capacità di autoorganizzazione.
[4] Elogio dello zapatismo Quaderni della Fondazione Neno Zanchetta, n.2, 1995 Lucca Libri ediz.
[5] Su questo tema, qui appena accennato, vedi: Dalla precarietà alla convivialità (o Buen Vivir) a partire dalla osservazione dei movimenti sociali latinoamericani di Gustavo Esteva e Irene Ragazzini – Relazione scritta per il Convegno “Avere il coraggio dell’incertezza. Culture del precariato” , Parigi, 6-7 dicembre 2012, – comune-info.net/…/dalla-precarieta-alla-convivialita/
[6] Quella del 1910.
[7] Sul significato e valore della speranza vedi, di Esteva, La crisis como esperanza Bajo el Volcán, vol. 8, núm. 14, 2009, pp. 17-53 www.redalyc.org/pdf/286/28620136001.pdf.
[8] Ivan Illich, che certamente Esteva, suo ammiratore, ha avuto presente nel pronunciare queste parole, aveva scritto: “No. (Il consiglio) è quello di portare una candela nelle tenebre. Di essere una fiammella nelle tenebre” (Cayley D. Conversazioni con Ivan Illich. Un profeta contro la modernità, Elèuthera, 1994, pag 101.
29 maggio 2015 di Comitato Chiapas "Maribel" Bergamo
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