La
rinascita dell’umano è
la
sola crescita che ci conviene
Camarades,
Il momento storico è
unico, particolare e planetario, anche se, vista relativamente da lontano,
l’Italia mi sembra una luna cloroformizzata da un’idiozia atemporale. Il mondo cambia,
ma nello stivale di una Lega di troppo, delle stelle cadenti e di una piccola
borghesia sinistra, Salvini, Di Maio e Zingaretti sono soltanto gli ultimi
guitti di una demenza ereditata da un clericalismo plurisecolare, finito nel
marciume di Berlusconi prima e di Renzi poi. Tuttavia, la lista sarebbe lunga
per citare tutti i miserabili opportunisti che hanno prodotto lo (s)fascio mafioso
di una nazione arraffando en passant i denari della comunità. Come i peggiori
siano riusciti a farsi passare per statisti e politici di qualità, è un mistero
che un popolo in perdizione ha subito sconcertato e impotente, quando non ha
applaudito beceramente. Usque tandem?
Ciononostante, oltre
l’imbarazzo di non sentirsi italiani pur rimanendolo intimamente per affetti e
memoria storica, è con grande piacere che vi traduco nella lingua di Dante e di
De André questo testo di Raoul Vaneigem che ho appena ricevuto.La sua poesia
sovversiva, lucida e concreta, ci riporta al cuore della riflessione che,
volenti o nolenti, finirà per riguardare anche l’Italia.
Buona lettura e felice rivoluzione sociale.
Sergio Ghirardi
Le mazzate che la libertà
porta all’idra capitalista che la soffoca fanno fluttuare di continuo
l’epicentro delle perturbazioni sismiche. I territori mondialmente defraudati
dal sistema del profitto sono in preda a un afflusso improvviso di movimenti
insurrezionali. La coscienza è obbligata a inseguire ondate successive di
avvenimenti, a reagire a degli sconvolgimenti costanti, paradossalmente
prevedibili e inopinati.
Due realtà si combattono
e si urtano con violenza. Una è la realtà della menzogna. Beneficiando del
progresso delle tecnologie, essa s’impegna nel manipolare l’opinione pubblica a
favore dei poteri costituiti. L’altra è la realtà di quel che è vissuto
quotidianamente dalle popolazioni.
Da un lato delle parole
vuote partecipano al gergo degli affari, dimostrano l’importanza delle cifre,
dei sondaggi, delle statistiche; architettano dei falsi dibattiti la cui
proliferazione maschera i veri problemi: le rivendicazioni esistenziali e
sociali. Le loro finestre mediatiche riversano ogni giorno la banalità delle
truffe e dei conflitti d’interesse che ci riguardano unicamente per le loro
conseguenze negative. Le loro guerre di devastazione
redditizia non sono le nostre, non hanno altro scopo che dissuaderci dal
combattere la sola guerra che ci riguarda, quella contro la disumanità
mondialmente propagata.
Da un lato, secondo
l’assurda verità dei dirigenti, le cose sono chiare: rivendicare i diritti
dell’essere umano rileva della violenza antidemocratica. La democrazia
consisterebbe dunque nel reprimere il popolo, nel lanciare contro di lui
un’orda di poliziotti spinti a comportamenti di stampo fascista, la cui
l’impunità è garantita dal governo e dai candidati dell’opposizione vogliosi di
occuparne il posto. Immaginate a quali tremiti si dedicheranno gli zombi
mediatici se l’immolazione tramite il fuoco di una vittima della
pauperizzazione genererà l’incendio del sistema responsabile!
Dall'altro, la realtà
vissuta dal popolo è altrettanto chiara. Nessuno ci farà ammettere che si possa
ridurre a un oggetto di transazione
mercantile l’obbligo del lavoro mal retribuito, la pressione burocratica che aumenta
le tasse, diminuendo il montante delle pensioni e delle conquiste sociali, la
pressione salariale che riduce la vita a una limitata sopravvivenza. La realtà
vissuta non è una cifra, è un sentimento d’indegnità, è la sensazione di essere
niente tra le grinfie dello Stato, un mostro che si riduce sempre di più a
causa del prelievo delle malversazioni finanziarie internazionali.
Sì. È nello scontro tra
queste due realtà – una imposta dal feticismo del denaro, l’altra che si
rivendica del vivente – che una scintilla, spesso impercettibile, ha dato fuoco
alle polveri.
Non c’è futilità che non rischi oggi di scatenare la violenza della vita repressa, della vita
risoluta a frantumare quel che la minaccia d’estinzione.
L’inerzia secolare e la
letargia, tanto confortata dalla vecchia ricetta “panem et circenses”, fondano la formidabile potenza della servitù
volontaria. Già denunciata da La Boétie nel XVI secolo, essa resta il nostro
nemico più implacabile. Attaccandoci dall’interno, la servitù volontaria favorisce
una propensione che agisce su molti come una droga: la volontà di esercitare un
potere, di assumere il ruolo di guida. L’autorità di alcuni ha molto spesso
infestato gli ambienti libertari con la sua morbosità. Bisogna dunque
rallegrarsi della determinazione dei Gilet Jaunes e degli insorti della vita
quotidiana nel ricordare senza sosta il loro rifiuto dei capi, dei delegati
autoproclamati, dei maîtres à penser,
delle ranocchie da acqua benedetta sia politiche che sindacali.
Liberi di attendere la
morte nel confort congiunto della cassa da morto e della televisione quanti
vogliono morire in pace, ma non permetteremo che il loro rimbambimento infesti la
nostra volontà di vivere.
Quel che vogliamo, è la
sovranità dell’essere umano. Niente di più e niente di meno!
La pauperizzazione bussa
alla porta con una violenza crescente che finirà per sfondarla. Stop
all’edonismo degli ultimi giorni martellato dallo slogan consumista e
governativo: “Godete oggi che domani sarà peggiore!” Il peggio è ora, se
continuiamo ad accomodarcene. Smettiamo di credere all’onnipotenza del
capitalismo e del feticismo del denaro. Abbiamo imparato che la grande farsa
macabra che fa ballare il mondo non obbedisce ormai più che a una piccola
sordida molla, quella del profitto immediato dell’assurda rapacità di un
negoziante fallito che raschia i fondi del cassetto.
Io non parlo di speranza.
La speranza non è che l’illusione della disperazione. Parlo della realtà di
tutte le regioni della terra in cui un’insurrezione della vita quotidiana –
chiamatela pure come volete – si è messa a smantellare la dittatura del
profitto e a rigettare gli Stati che l’impongono a dei popoli che pretendono di
rappresentare. Quel che vogliamo, non è per domani ma adesso, come lo esprimono
rigorosamente gli inservienti ospedalieri, le infermiere, gli infermieri, i
medici del pronto soccorso e quelli confrontati alla gestione economica che
disumanizza il settore ospedaliero.
Il sistema di
sfruttamento della natura terrestre e della natura umana ha reso cupo
l’orizzonte mondiale. La cappa della redditività a ogni costo non lascia alcuno
sbocco alla generosità della vita e al senso umano che ne favorisce la pratica.
In tutta evidenza,
sfruttatori e sfruttati sono persuasi che la marmitta sta per esplodere. La
violenza è ineluttabile, ma non è questo il problema. La questione da risolvere
senza ambiguità riposa su un’alternativa.
Tollereremo, dunque, che
l’esplosione sociale sfoci in uno stato di guerra civile endemica, su un caos
di vendette e di odi di cui beneficeranno in fin dei conti le mafie multinazionali,
libere di proseguire impunemente, e fino all’autodistruzione, il loro progetto
di desertificazione lucrativa?
Oppure ci decideremo a
creare delle microsocietà affrancate dalla tirannia statale e mercantile, dei
territori federati in cui l’intelligenza degli individui si liberi
dell’individualismo gregario sempre in cerca di una guida suprema che lo
conduca al macello? Oseremo finalmente prendere in mano il nostro destino e
fare piazza pulita di una giungla sociale in cui le bestie da soma non hanno
altra libertà che eleggere i predatori che le mangiano?
Nel 1888 Octave Mirbeau
scriveva: “Le pecore vanno al macello. Non dicono nulla e non sperano niente.
Almeno, però, non votano per il macellaio che le ucciderà e per il borghese che
le mangerà. Più bestia delle bestie, più pecorone che le pecore, l’elettore
nomina il suo macellaio e sceglie il suo borghese. Ha fatto delle rivoluzioni
per conquistare questo diritto”.
Non siete forse stanchi
di gettare in aria di generazione in generazione la stessa inutilizzabile moneta:
testa il manganello dell’ordine, croce la menzogna umanitaristica? Non esiste
il voto del “male minore”, c’è solo una democrazia totalitaria che solo la
democrazia diretta esercitata dal popolo per il popolo potrà revocare. Di
passaggio, mi ha divertito uno slogan che, per quanto sommario, invita a una
riflessione più profonda: “Macron, Le Pen, Mélenchon, stessa lotta di coglioni!”.
(Avrei preferito “stessa lotta di capponi”, ma il rifiuto di ogni forma di
potere e di dialogo con lo Stato fa parte di quei piccoli piaceri da cui
scaturiscono le grandi ondate del godimento individuale e collettivo).
Autonomie. Autorganizzazione,
autodifesa
Le istanze al potere non
tollereranno che il popolo si liberi della loro tirannia. Dobbiamo prepararci a
una lunga lotta. Quella da condurre contro la servitù volontaria non sarà la
meno importante. Il solo elemento di cui il dispotismo possa farsi forte è
l’aggressivo bisogno di sicurezza dei rassegnati, il rancore suicida di una
maggioranza definita silenziosa che urla il suo odio per la vita.
La miglior difesa è
sempre l’attacco. A questo principio ampiamente dimostrato dalla tradizione
militare, preferirei sostituire quello dell’apertura, perché al vantaggio di
rompere l’accerchiamento si aggiunge il piacere di rompere l’incasermamento.
L’apertura alla vita la
vediamo all’opera nella feroce determinazione delle insurrezioni in corso.
Anche se alcune si spengono, ripartono poi con rinnovato vigore. Lo si percepisce
nel carattere festoso delle manifestazioni di protesta che durano anche se si
scontrano con la cecità, la sordità, la rabbia repressiva dei governi. È
fondandomi su quest’apertura che ho parlato di pacifismo insurrezionale.
Il pacifismo
insurrezionale non è né pacifico nel senso belante del termine, né
insurrezionale nel senso inteso dalle aberrazioni della guerriglia urbana e
guevarista.
Non ho la vocazione del
guerriero né del martire. Mi rimetto alla vita e alla sua poesia per quel che
riguarda l’attenzione a superare i contrari affinché non diventino contrarietà,
affinché sfuggano al dualismo manicheo del per e del contro. Scommetto sulla
creatività degli individui per inventare una rivoluzione della quale non esiste
alcun esempio passato. I turbamenti e le incertezze di una civiltà che nasce
non hanno niente in comune con lo sgomento di una civiltà che non ha che la certezza
di crepare.
Filosofi, sociologi,
esperti del pensiero, risparmiateci le eterne discussioni sulla malignità del
capitalismo che rende redditizia la sua agonia. Siamo tutti d’accordo su questo
punto, anche i capitalisti. I veri problemi, per contro, non sono stati
abbordati. Sono quelli della base, quelli dei villaggi e dei quartieri urbani,
quelli del nostro corpo che in fondo – bisogna dunque ricordarlo? – è l’unico a
decidere veramente del nostro destino, no?
Più le lotte si
diffondono a livello planetario, più il loro senso acquista radicalità,
profondità, esperienza vissuta, più fanno a meno di impegno militante, più se
la ridono degli intellettuali, degli specialisti in manipolazione sovversiva o
reazionaria (perché la manipolazione tratta entrambi come il diritto e il
rovescio di una stessa moneta). Contemporaneamente, nel loro vissuto
esistenziale e nella loro funzione sociale, gli individui si scoprono sul
terreno in cui la loro aspirazione a vivere comincia a picconare e spazzare via
il muro che le cifre d’affari oppongono loro come se il loro destino si
fermasse lì.
No, non si può più
parlare dell’uomo astratto, il solo riconosciuto dalle statistiche, dai calcoli
di bilancio, dalla retorica di quanti – laici o religiosi, umanisti o razzisti, progressisti o
conservatori – fanno bastonare, accecare violentare, imprigionare,
massacrare mentre, rintanati nei loro ghetti di codardi, contano sull’arrogante
cretinismo del denaro per assicurare la loro impunità e la loro sicurezza.
La
dittatura del profitto è un’aggressione contro il corpo. Affidare alla vita la
cura d’immunizzarci contro la cancrena finanziaria che corrompe la nostra carne,
implica una lotta poetica e solidale. Niente è meglio dei falò della gioia di
vivere per ridurre in cenere la morbosità del mondo! La rivoluzione ha delle
virtù terapeutiche finora insospettate.
Ecologisti,
a che pro sbraitare sul miglioramento del clima dialogando con Stati che vi
prendono in giro inquinando ogni giorno di più mentre è urgente agire su un
terreno in cui le questioni non hanno niente delle mondanità intellettuali.
Delle questioni tipo:
Come
passare dalle terre avvelenate dall'’industria agroalimentare alla loro rinaturazione
attraverso la permacultura?
Come
vietare i pesticidi senza danneggiare il contadino che intrappolato da
Monsanto, Total e affini, danneggia la sua salute danneggiando quella altrui?
Come
ricostruire su nuove basi quelle piccole scuole di villaggio e di quartiere che
lo Stato ha rovinato e chiuso per promuovere un insegnamento concentrazionario?
Come
boicottare i prodotti nocivi e inutili che le molestie della pubblicità ci
ingiungono di comprare?
Come
creare delle banche d’investimento locale la cui moneta di scambio compenserà
opportunamente il crollo monetario e il crac finanziario programmato?
Come
decurtare i prelevamenti fiscali che lo Stato attribuisce alle malversazioni
bancarie per investirli invece nell’autofinanziamento di progetti locali e
regionali?
Soprattutto
come propagare dappertutto il principio di una gratuità che la vita rivendica
in modo naturale e che il feticismo del denaro snatura. Gratuità dei treni e
dei trasporti pubblici, gratuità delle cure, gratuità dell’alloggio e
dell’autocostruzione, gratuità graduale della produzione artigianale e
dell’alimentazione locale.
Utopia?
C’è forse peggiore utopia del mucchio di progetti assurdi e deleteri che
snocciolano, sotto gli occhi stanchi dei telespettatori, gli istrioni senza
talento che agitano lo spettro delle loro guerre di commessi viaggiatori?
Questi buffoni ripetono senza fine la pagliacciata della lotta dei capi, velano sotto falsi dibattiti le vere
questioni esistenziali e sociali, eclissano il terrorismo di Stato dando spazio
a un terrorismo dei fatti di cronaca la cui follia suicida aumenta con la
pauperizzazione e un clima sociale sempre più irrespirabile.
Abbiamo
preso davvero coscienza che nelle loro diversità, vuoi nelle loro divergenze, i
Gilet jaunes e i movimenti rivendicativi formavano un formidabile gruppo di
pressione capace di boicottare, bloccare, paralizzare, distruggere tutto quel
che inquina, avvelena, impoverisce, minaccia la nostra vita e il nostro
ambiente? Farci sottovalutare la nostra potenza e creatività rileva dei
meccanismi democratici della tirannia statale e mercantile. Più che sui suoi
gendarmi, la forza illusoria dello Stato riposa su un effetto di propaganda che
ci spinge in ogni momento a rinunciare alla potenza poetica che è in noi, a
quella forza di vita che nessuna tirannia vincerà.
Ebbene,
nel frattempo...
In
Cile la lotta contro i vermi che proliferano sul cadavere di Pinochet ha
ravvivato la consapevolezza che tutto deve ripartire dalla base, che i
rappresentanti del popolo non sono il popolo, che l’individualista manipolato
dallo spirito gregario non è un individuo capace di riflettere autonomamente e
di prendere partito per la vita contro il partito del denaro che uccide.
Bisogna lasciare al popolo la conquista di un’intelligenza che gli appartiene e
che le diverse forme di potere s’impegnano a togliergli.
Lo
stesso avviene in Algeria, nel Sudan, nel Libano, in Iraq. Ho fiducia nel
Rojava perché trasformi la sua ritirata momentanea in offensiva. Quanto agli
zapatisti del Chiapas, rispondono agli argomenti economicistici del socialista
Lopès Obrador aumentando il numero delle loro basi (caracoles) e dei loro Consigli di buon governo in cui le decisioni
sono prese dal popolo per il popolo.
La
rivendicazione testarda di una democrazia a Hong Kong oscilla tra una collera
cieca pronta a soddisfarsi di un parlamentarismo rimesso in causa dappertutto,
da un lato e dall'’altro una collera lucida che scuote e fa tremare per la sua
persistenza la gigantesca piramide del regime totalitario cinese (inquieto per
la minaccia di un crac finanziario). Chissà. L’edera s’infiltra dappertutto e
il passato insurrezionale di Shangai non è lontano.
Il
Sudan scuote il giogo della tirannia e del potere militare, l’Iran vacilla. Il
Libano dà una bella botta all’Hezbollah e all’islamismo la cui copertura
religiosa non maschera più l’obiettivo politico petrolifero. L’Algeria non
vuole un governo riverniciato. L’Iraq scopre che la realtà sociale è più
importante delle rivalità religiose. Restano i Catalani, gli unici a volere uno
Stato quando “il più freddo dei mostri freddi” è trafitto dovunque di frecce.
Tuttavia, non è impossibile che gli indipendentisti, finiti nell’impasse del
braccio di ferro tra lo Stato madrileno e la non meno statale Generalitat,
respirino improvvisamente i cattivi odori del cadavere franchista che lo
spirito nazionalista ha tirato fuori dai suoi cimiteri. Non è dunque
impossibile che tornino loro in memoria le collettività libertarie della
rivoluzione del 1936 in cui si forgiò una vera indipendenza, prima che il
partito comunista e lo Stato catalano, suo alleato, le schiacciassero.
Non
è una chimera ma la vita è un sogno e siamo entrati in un’era in cui la poesia
è il passaggio dal sogno alla realtà, un passaggio che marca la fine
dell’incubo e della sua valle di lacrime.
Aprire
uno spazio vitale a chiunque sia paralizzato dallo sgomento e dall'’angoscia
per il futuro, non è forse la pratica poetica che marca l’insolente novità
dell’insurrezione della vita quotidiana? Non la cogliamo forse nella
disgregazione del militantismo, nell’erosione di quel vecchio riflesso militare
che moltiplica i capetti e i loro greggi timorosi?
Sotto
la diversità dei suoi pretesti, l’unica rivendicazione odierna senza riserve è
la vita piena e intera.
Chi potrebbe sbagliarsi? Non siamo nel tumulto delle
rivolte prevedibili o inattese, siamo in seno a un processo rivoluzionario. Il
mondo cambia base, una vecchia civiltà crolla, una nuova appare. Le mentalità
compassate e i comportamenti arcaici possono pure perpetuarsi sotto
un’apparenza di modernità, un nuovo Rinascimento emerge in seno a una storia
fatta a pezzi dalla sua disumanità sotto i nostri occhi. Occhi che si aprono
poco a poco. Scoprono nella donna, nell’uomo, nel bambino il genio di
sperimentare innocentemente delle novità incredibili, delle energie insolite,
delle forme di resistenza alla morte, degli universi che nessuna immaginazione
aveva osato mettere in moto per il passato.
Siamo
là, dove tutto comincia.
Raoul Vaneigem, 17 novembre 2019
La renaissance de l'humain est
la
seule croissance qui nous agrée
Les coups
de boutoirs que la liberté porte à l'hydre capitaliste qui l'étouffe, font
fluctuer sans cesse l'épicentre des perturbations sismiques. Les territoires
mondialement ponctionnés par le système du profit sont en butte à un
déferlement des mouvements insurrectionnels. La conscience est mise en
demeure de courir sus à des vagues successives d'événements, de réagir à des
bouleversements constants, paradoxalement
prévisibles et inopinés.
Deux
réalités se combattent et se heurtent violemment. L'une est la réalité du
mensonge. Bénéficiant du progrès des technologies, elle s'emploie à manipuler
l'opinion publique en faveur des pouvoirs constitués. L'autre est la réalité de
ce qui est vécu quotidiennement par les populations.
D'un côté,
des mots vides travaillent au jargon des affaires, ils démontrent l'importance
des chiffres, des sondages, des statistiques ; ils manigancent de faux
débats dont la prolifération masque les vrais problèmes : les
revendications existentielles et sociales. Leurs fenêtres médiatiques déversent
chaque jour la banalité de magouilles et de conflits d'intérêts qui ne nous
touchent que par leurs retombées négatives. Leurs guerres de dévastation
rentable ne sont pas les nôtres, elles n'ont d'autre but que de nous
dissuader de mener la seule guerre qui nous concerne, la guerre contre
l'inhumanité mondialement propagée.
D'un côté,
selon l'absurde vérité des dirigeants, les choses sont claires :
revendiquer les droits de l'être humain relève de la violence
anti-démocratique. La démocratie consisterait donc à réprimer le peuple, à
lancer contre lui une horde de policiers que pousse à des comportements
fascisant, l'impunité garantie par le gouvernement et par les candidats
d'opposition, avides de lui succéder. Imaginez à quels trémolos se livreront
les zombies médiatiques si l'immolation par le feu d'une victime de la
paupérisation débouche sur l'incendie du système responsable !
De l'autre,
la réalité vécue par le peuple est tout aussi claire. On ne nous fera pas
admettre que l'on puisse réduire à un objet de transactions marchandes
l'astreinte du travail mal rémunéré, la pression bureaucratique accroissant les
taxes, diminuant le montant des retraites et des acquis sociaux, la pression
salariale qui réduit la vie à une stricte survie. La réalité vécue n'est pas un
chiffre, c'est un sentiment d'indignité, c'est le sentiment de n'être rien
entre les griffes de l’État, un monstre qui se racornit en peau de chagrin sous
la ponction des malversations financières internationales.
Oui, c'est
dans le choc de ces deux réalités - l'une imposée par le fétichisme de
l'argent, l'autre qui se revendique du vivant - qu'une étincelle, souvent
infime, a mis le feu aux poudres.
Il n'est
pas de futilité qui ne soit aujourd'hui de nature à déchaîner la violence de la
vie réprimée, de la vie résolue à briser ce qui la menace d'extinction.
L'inertie
séculaire, la léthargie si bien confortées par la vieille recette « du
pain et des jeux », fondent la formidable puissance de la servitude
volontaire. Déjà dénoncée au XVIe siècle par La Boétie, elle demeure
notre ennemi le plus implacable. En nous attaquant de l'intérieur, la servitude
volontaire favorise une propension qui agit chez beaucoup comme une
drogue : la volonté d’exercer un pouvoir, d'endosser le rôle de guide.
L'autorité de quelques uns a bien souvent infesté les milieux libertaires de sa
morbidité. Aussi faut-il se réjouir de la détermination des Gilets jaunes et
des insurgés de la vie quotidienne à rappeler sans trêve leur refus de chefs,
de délégués autoproclamés, de maîtres à penser, de grenouilles de bénitiers
politiques et syndicales.
Libre à
ceux qui souhaitent mourir en paix d'attendre la mort dans le confort conjoint
du cercueil et de la télévision, mais nous ne laisserons pas leur
gâtisme infester notre volonté de vivre.
Ce que nous
voulons, c'est la souveraineté de l'être humain. Rien de plus, rien de
moins !
La
paupérisation frappe à la porte avec une violence accrue, qui va la défoncer.
C'en est fini de l'hédonisme des derniers jours que martèle le slogan
consumériste et gouvernemental : « Jouissez d'aujourd'hui car demain
sera pire ! » Le pire, c'est maintenant, si nous continuons à nous en
accommoder. Cessons de croire à la toute puissance du capitalisme et du
fétichisme de l'argent. Nous avons appris que la grande farce macabre qui fait
valser le monde n'obéit plus qu'à un petit ressort sordide, celui du profit à
court terme, de l'absurde rapacité d'un boutiquier en faillite raclant les
fonds de tiroirs.
Je ne parle
pas d'espoir. L'espoir n'est que le leurre de la désespérance. Je parle de la
réalité de toutes les régions de la terre où une insurrection de la vie
quotidienne – appelez cela comme vous voulez – a entrepris de démanteler la
dictature du profit et de jeter à bas les États qui l'imposent à des peuples,
censés être représentes par eux. Ce que nous voulons, ce n'est pas demain,
c'est maintenant, comme l'expriment très bien les aides-soignants, infirmières,
infirmiers, urgentistes, médecins confrontés à la gestion économique qui
déshumanise le secteur hospitalier.
Le système
d'exploitation de la nature terrestre et de la nature humaine a mondialement
plombé l'horizon. La chape de la rentabilité à tous prix ne laisse aucune issue
à la générosité de la vie et au sens humain qui en favorise la pratique.
De toute
évidence, exploiteurs et exploités sont persuadés que la marmite va exploser.
La violence est inéluctable. Le problème n'est pas là. La question à résoudre
sans ambiguïté repose sur une alternative.
Allons-nous
tolérer que l'explosion sociale débouche sur un état de guerre civile
endémique, sur un chaos de vengeances et de haines qui bénéficiera en fin de
compte aux mafias multinationales, libres de poursuivre impunément, et jusqu'à
l'autodestruction, leur projet de désertification lucrative ?
Ou bien,
allons-nous créer des microsociétés affranchies de la tyrannie étatique et
marchande, des territoires fédérés où l'intelligence des individus se libère de
cet individualisme de troupeau en mal d'un guide suprême qui les mène à
l'abattoir ? Allons-nous enfin oser prendre en mains notre propre destinée
et araser une jungle sociale où les bêtes de somme n'ont d'autre liberté que
celle d'élire les bêtes de proie qui les dévorent ?
En 1888,
Octave Mirbeau écrivait : « Les moutons vont à l'abattoir. Ils ne
disent rien et n'espèrent rien. Mais du moins, ils ne votent pas pour le
boucher qui les tuera et pour le bourgeois qui les mangera. Plus bête que les
bêtes, plus moutonnier que les moutons, l'électeur nomme son boucher et choisit
son bourgeois. Il a fait des révolutions pour conquérir ce droit. »
N'êtes-vous
pas lassés de faire virevolter de génération en génération la même et inusable
pièce de monnaie : pile la matraque de l'Ordre, face le mensonge
humanitariste ?
Il n'y a
pas de « vote du moindre mal, » il n'y a qu'une démocratie
totalitaire, que seule révoquera la démocratie directe exercée par le peuple et
pour le peuple. Je me suis amusé au passage d'un slogan qui, si sommaire qu'il
soit, appelle à une réflexion plus poussée : « Macron, Le Pen,
Mélenchon, même combat de cons ! » (J’aurais préféré « même
combat de capons», mais le rejet de toute forme de pouvoir et de dialogue avec
l’État fait partie de ces petits plaisirs d'où viennent les grandes vagues de
la jouissance individuelle et collective.)
Autonomie, auto-organisation, autodéfense.
Les
instances au pouvoir ne vont pas tolérer que le peuple s'affranchisse de leur
tyrannie. Nous devons nous préparer à une longue lutte. Celle à mener contre la
servitude volontaire ne sera pas la moindre. La seule assise dont le despotisme
puisse se prévaloir, c'est la hargne sécuritaire des résignés, c'est le
ressentiment suicidaire d'une majorité prétendument silencieuse qui hurle sa
haine de la vie.
La
meilleure défense est toujours l'offensive. A ce principe, amplement démontré
par la tradition militaire, j'aimerais substituer celui de l'ouverture, car, à
l'avantage de briser l'encerclement s'ajoute le plaisir de briser l'encasernement.
L'ouverture
à la vie, nous la voyons à l’œuvre dans la farouche détermination des
insurrections en cours. Même si certaines s'éteignent, elles repartent de plus
belle. Nous le sentons dans le caractère festif des manifestations de
protestations qui perdurent bien qu'elles se heurtent à l'aveuglement, à la
surdité, à la rage répressive des gouvernements. C'est en me fondant sur cette
ouverture que j'ai parlé de pacifisme insurrectionnel.
Le
pacifisme insurrectionnel n'est ni pacifique, au sens bêlant du terme, ni
insurrectionnel, si l'on entend par là les aberrations de la guérilla urbaine
et guévariste.
Je n'ai ni
vocation de guerrier, ni vocation de martyr. Je m'en remets à la vie et à sa
poésie du soin de dépasser les contraires afin qu'ils ne deviennent pas contrariétés, afin qu'ils échappent à la
dualité manichéenne du pour et du contre. Je mise sur la créativité des
individus pour inventer une révolution dont il n'existe aucun exemple par le
passé. Le désarroi et les incertitudes d'une civilisation qui naît n'ont rien
de commun avec le désarroi d'une civilisation qui n'a que la certitude de
crever.
Philosophes,
sociologues, experts en pensées, épargnez-nous les sempiternelles discussions
sur la malignité du capitalisme qui rentabilise son agonie. Tout le monde est
d'accord sur ce point, même les capitalistes. Les vrais problèmes en revanche
n'ont pas été abordés. Ce sont ceux de la base, ceux des villages et des
quartiers urbains, ceux de notre propre corps, qui est tout de même, faut-il le
rappeler, le vrai décideur de notre destinée, non ?
Plus les
luttes se répandent planétairement, plus leur sens gagne en radicalité, en
profondeur, en expérience vécue, plus elles se passent d'engagement militant,
plus elles se moquent des intellectuels, spécialistes en manipulation
subversive ou réactionnaire (car la manipulation traite l'une et l'autre comme
l'avers et le revers d'une pièce de monnaie). C'est à la fois dans leur vécu
existentiel et dans leur fonction sociale que les individus se découvrent sur le
terrain où leur aspiration à vivre commence à saper et à déblayer le mur que
les chiffres d'affaires leur opposent, comme si là s'arrêtait leur destin.
Non, on ne
peut plus parler de l'homme abstrait, le seul que reconnaissent les
statistiques, les calculs budgétaires, la rhétorique de celles et ceux qui –
laïcs ou religieux, humanistes ou racistes, progressistes ou conservateurs –
font matraquer, éborgner, violer, emprisonner, massacrer, tandis que, tapis
dans leurs ghettos de lâches, ils comptent sur l'arrogant crétinisme de
l'argent pour assurer leur impunité et leur sécurité.
La
dictature du profit est une agression contre le corps. Confier à la vie le soin
de nous immuniser contre le chancre financier qui corrompt notre chair implique
une lutte poétique et solidaire. Rien de tels que les feux de la joie de vivre
pour réduire en cendre la morbidité du monde ! La révolution a des vertus
thérapeutiques, insoupçonnées jusqu'à nos jours.
Écologistes,
qu'allez-vous brailler à l'amélioration climatique auprès d’États qui vous
narguent en polluant chaque jour davantage, alors qu'il est urgent d'agir sur
un terrain où les questions n'ont rien de mondanités intellectuelles. Des
questions telles que :
Comment
passer des terres empoisonnées par l'agro-alimentaire à leur renaturation par
la permaculture ?
Comment
interdire les pesticides sans léser le paysan qui, piégé par Monsanto, Total et
consorts, détruit sa santé en détruisant celle des autres ? Comment rebâtir sur
des bases nouvelles ces petites écoles de village et de quartiers que l’État a
ruinées et interdites pour promouvoir un enseignement concentrationnaire ?
Comment
boycotter les produits nocifs et inutiles que le harcèlement publicitaire nous
enjoint d'acheter ?
Comment
constituer des banques d'investissement local où la monnaie d'échange palliera
opportunément l'effondrement monétaire et le krach financier programmé ?
Comment
couper court aux prélèvements fiscaux que l’État affecte aux malversations
bancaires, et entreprendre de les investir dans l'autofinancement de projets
locaux et régionaux ?
Surtout,
comment propager partout le principe d'une gratuité que la vie revendique par
nature et que le fétichisme de l'argent dénature. Gratuité des trains et des
transports publics, gratuité des soins, gratuité de l'habitat et de l'auto
construction, gratuité graduelle de la production artisanale et alimentaire
locale.
Utopie ? Y
a-t-il pire utopie que le fatras de projets absurdes et délétères que
déballent, sous les yeux fatigués des téléspectateurs, ces cabotins sans talent
qui agitent le spectre de leurs guerres de commis-voyageurs, réitèrent sans fin
la pitrerie du combat des chefs, voilent sous de faux débats les vraies
questions existentielles et sociales, éclipsent le terrorisme d’État par un
terrorisme de faits-divers où la folie suicidaire croît avec la paupérisation
et un air ambiant de plus en plus irrespirable ?
A-t-on
assez pris conscience que, dans leur diversité, voire dans leurs divergences,
les Gilets jaunes et les mouvements revendicatifs formaient un formidable groupe
de pression capable de boycotter, bloquer, paralyser, détruire tout ce qui
pollue, empoisonne, appauvrit, menace notre vie et notre environnement ?
Nous faire sous-estimer notre puissance et notre créativité relève des
mécanismes démocratiques de la tyrannie étatique et marchande. Plus que sur ses
gendarmes, la force illusoire de l’État repose sur un effet de propagande qui
nous presse à chaque instant de renoncer à la puissance poétique qui est en
nous, à cette force de vie dont aucune tyrannie ne viendra à bout.
Or, pendant
ce temps-là...
Au Chili,
la lutte contre la vermine qui prolifère sur le cadavre de Pinochet a ravivé la
conscience que tout doit repartir de la base, que les représentants du peuple
ne sont pas le peuple, que l'individualiste manipulé par l'esprit grégaire
n'est pas l'individu capable de réfléchir par lui-même et de prendre le parti
de la vie contre le parti de l'argent qui tue. Il faut laisser au peuple la
conquête d'une intelligence qui lui appartient et que les diverses formes de
pouvoir s'attachent à lui ôter.
Il en va de
même en Algérie, au Soudan, au Liban, en Irak. Je fais confiance au Rojava pour
transformer sa retraite momentanée en offensive. Les zapatistes ont, quant à
eux, répondu aux arguments économistes du socialiste Lopès Obrador en
accroissant le nombre de leurs bases (caracoles) et de leurs Conseils de bon
gouvernement, où les décisions sont prises par le peuple et pour le peuple.
La
revendication opiniâtre d'une démocratie à Hong-Kong oscille entre d'une part
une colère aveugle, prête à se satisfaire d'un parlementarisme partout remis en
cause, et d'autre part une colère lucide qui ébranle et fait trembler par sa
persistance la gigantesque pyramide du régime totalitaire chinois (qu'inquiète
la menace d'un krach financier.) Qui sait ? Le lierre s'infiltre partout,
et le passé insurrectionnel de Shanghai n'est pas loin.
Le Soudan
secoue le joug de la tyrannie et du pouvoir militaire, l'Iran vacille. Le Liban
est un coup de semonce pour le Hezbollah et pour l'islamisme dont la défroque
religieuse ne masque plus l'objectif politico-pétrolier. L'Algérie ne veut pas
d'un ripolinage gouvernemental. L'Irak découvre que la réalité sociale
l'emporte sur l'importance accordée aux rivalités religieuses. Restent les
Catalans, les seuls à vouloir un État alors que le « plus froid des
monstres froids » est partout criblé de flèches. Mais il n'est pas
impossible que les indépendantistes, engagés dans une impasse par le bras de
fer opposant l’État madrilène à la non moins étatique Generalitat, respirent
soudain les remugles du cadavre franquiste que l'esprit nationaliste a sorti de
ses cimetières. Donc il n'est pas impossible que leur revienne la mémoire des
collectivités libertaires de la révolution de 1936 où se forgea une véritable
indépendance, avant que le parti communiste et son allié, l’État catalan, les
écrasent.
Ce n'est
qu'un rêve mais la vie est un songe et nous sommes entrés dans une ère où la
poésie est le passage du rêve à la réalité, un passage qui marque la fin du
cauchemar et de sa vallée de larmes.
Ouvrir un espace vital à celles et ceux que paralysent le
désarroi et l'angoisse du futur, n'est-ce pas la pratique poétique qui fait
l'insolente nouveauté de l'insurrection de la vie quotidienne ? Ne la
voyons-nous pas dans la déperdition du militantisme, dans l'érosion de ce vieux
réflexe militaire qui multiplie les petits chefs et leurs troupeaux
apeurés ?
Sous la diversité de ses prétextes, l'unique
revendication qui s'exprime aujourd'hui sans réserve, c'est la vie pleine et
entière.
Qui s'y
tromperait ? Nous ne sommes pas dans le tumulte de révoltes prévisibles ou
inattendues, nous sommes au sein d'un processus révolutionnaire. Le monde
change de base, une vieille civilisation s'effondre, une civilisation nouvelle
apparaît. Les mentalités compassées et les comportements archaïques ont beau se
perpétuer sous un ersatz de modernité, une nouvelle Renaissance émerge au sein
d'une histoire que son inhumanité met en capilotade sous nos yeux. Et ces yeux
se dessillent peu à peu. Ils découvrent chez la femme, l'homme et l'enfant un
génie d'expérimenter innocemment des innovations inouïes, des énergies
insolites, des formes de résistances à la mort, des univers qu'aucune
imagination n'avait osé mettre en branle par le passé.
Nous sommes là où tout commence.
Raoul
Vaneigem 17 novembre 2019