mercoledì 27 novembre 2019

La rinascita dell’umano è la sola crescita che ci conviene - Nous sommes là où tout commence - Raoul Vaneigem 17 novembre 2019





La rinascita dell’umano è
la sola crescita che ci conviene


Camarades,
Il momento storico è unico, particolare e planetario, anche se, vista relativamente da lontano, l’Italia mi sembra una luna cloroformizzata da un’idiozia atemporale. Il mondo cambia, ma nello stivale di una Lega di troppo, delle stelle cadenti e di una piccola borghesia sinistra, Salvini, Di Maio e Zingaretti sono soltanto gli ultimi guitti di una demenza ereditata da un clericalismo plurisecolare, finito nel marciume di Berlusconi prima e di Renzi poi. Tuttavia, la lista sarebbe lunga per citare tutti i miserabili opportunisti che hanno prodotto lo (s)fascio mafioso di una nazione arraffando en passant i denari della comunità. Come i peggiori siano riusciti a farsi passare per statisti e politici di qualità, è un mistero che un popolo in perdizione ha subito sconcertato e impotente, quando non ha applaudito beceramente. Usque tandem?
Ciononostante, oltre l’imbarazzo di non sentirsi italiani pur rimanendolo intimamente per affetti e memoria storica, è con grande piacere che vi traduco nella lingua di Dante e di De André questo testo di Raoul Vaneigem che ho appena ricevuto.La sua poesia sovversiva, lucida e concreta, ci riporta al cuore della riflessione che, volenti o nolenti, finirà per riguardare anche l’Italia.
Buona lettura e felice rivoluzione sociale.
Sergio Ghirardi


Le mazzate che la libertà porta all’idra capitalista che la soffoca fanno fluttuare di continuo l’epicentro delle perturbazioni sismiche. I territori mondialmente defraudati dal sistema del profitto sono in preda a un afflusso improvviso di movimenti insurrezionali. La coscienza è obbligata a inseguire ondate successive di avvenimenti, a reagire a degli sconvolgimenti costanti, paradossalmente prevedibili e inopinati.
Due realtà si combattono e si urtano con violenza. Una è la realtà della menzogna. Beneficiando del progresso delle tecnologie, essa s’impegna nel manipolare l’opinione pubblica a favore dei poteri costituiti. L’altra è la realtà di quel che è vissuto quotidianamente dalle popolazioni.
Da un lato delle parole vuote partecipano al gergo degli affari, dimostrano l’importanza delle cifre, dei sondaggi, delle statistiche; architettano dei falsi dibattiti la cui proliferazione maschera i veri problemi: le rivendicazioni esistenziali e sociali. Le loro finestre mediatiche riversano ogni giorno la banalità delle truffe e dei conflitti d’interesse che ci riguardano unicamente per le loro conseguenze negative. Le loro guerre di devastazione redditizia non sono le nostre, non hanno altro scopo che dissuaderci dal combattere la sola guerra che ci riguarda, quella contro la disumanità mondialmente propagata.
Da un lato, secondo l’assurda verità dei dirigenti, le cose sono chiare: rivendicare i diritti dell’essere umano rileva della violenza antidemocratica. La democrazia consisterebbe dunque nel reprimere il popolo, nel lanciare contro di lui un’orda di poliziotti spinti a comportamenti di stampo fascista, la cui l’impunità è garantita dal governo e dai candidati dell’opposizione vogliosi di occuparne il posto. Immaginate a quali tremiti si dedicheranno gli zombi mediatici se l’immolazione tramite il fuoco di una vittima della pauperizzazione genererà l’incendio del sistema responsabile!
Dall'altro, la realtà vissuta dal popolo è altrettanto chiara. Nessuno ci farà ammettere che si possa ridurre a un oggetto di transazione mercantile l’obbligo del lavoro mal retribuito, la pressione burocratica che aumenta le tasse, diminuendo il montante delle pensioni e delle conquiste sociali, la pressione salariale che riduce la vita a una limitata sopravvivenza. La realtà vissuta non è una cifra, è un sentimento d’indegnità, è la sensazione di essere niente tra le grinfie dello Stato, un mostro che si riduce sempre di più a causa del prelievo delle malversazioni finanziarie internazionali.
Sì. È nello scontro tra queste due realtà – una imposta dal feticismo del denaro, l’altra che si rivendica del vivente – che una scintilla, spesso impercettibile, ha dato fuoco alle polveri.
Non c’è futilità che non  rischi oggi di scatenare la violenza della vita repressa, della vita risoluta a frantumare quel che la minaccia d’estinzione.
L’inerzia secolare e la letargia, tanto confortata dalla vecchia ricetta “panem et circenses”, fondano la formidabile potenza della servitù volontaria. Già denunciata da La Boétie nel XVI secolo, essa resta il nostro nemico più implacabile. Attaccandoci dall’interno, la servitù volontaria favorisce una propensione che agisce su molti come una droga: la volontà di esercitare un potere, di assumere il ruolo di guida. L’autorità di alcuni ha molto spesso infestato gli ambienti libertari con la sua morbosità. Bisogna dunque rallegrarsi della determinazione dei Gilet Jaunes e degli insorti della vita quotidiana nel ricordare senza sosta il loro rifiuto dei capi, dei delegati autoproclamati, dei maîtres à penser, delle ranocchie da acqua benedetta sia politiche che sindacali.
Liberi di attendere la morte nel confort congiunto della cassa da morto e della televisione quanti vogliono morire in pace, ma non permetteremo che il loro rimbambimento infesti la nostra volontà di vivere.
Quel che vogliamo, è la sovranità dell’essere umano. Niente di più e niente di meno!
La pauperizzazione bussa alla porta con una violenza crescente che finirà per sfondarla. Stop all’edonismo degli ultimi giorni martellato dallo slogan consumista e governativo: “Godete oggi che domani sarà peggiore!” Il peggio è ora, se continuiamo ad accomodarcene. Smettiamo di credere all’onnipotenza del capitalismo e del feticismo del denaro. Abbiamo imparato che la grande farsa macabra che fa ballare il mondo non obbedisce ormai più che a una piccola sordida molla, quella del profitto immediato dell’assurda rapacità di un negoziante fallito che raschia i fondi del cassetto.
Io non parlo di speranza. La speranza non è che l’illusione della disperazione. Parlo della realtà di tutte le regioni della terra in cui un’insurrezione della vita quotidiana – chiamatela pure come volete – si è messa a smantellare la dittatura del profitto e a rigettare gli Stati che l’impongono a dei popoli che pretendono di rappresentare. Quel che vogliamo, non è per domani ma adesso, come lo esprimono rigorosamente gli inservienti ospedalieri, le infermiere, gli infermieri, i medici del pronto soccorso e quelli confrontati alla gestione economica che disumanizza il settore ospedaliero.
Il sistema di sfruttamento della natura terrestre e della natura umana ha reso cupo l’orizzonte mondiale. La cappa della redditività a ogni costo non lascia alcuno sbocco alla generosità della vita e al senso umano che ne favorisce la pratica.
In tutta evidenza, sfruttatori e sfruttati sono persuasi che la marmitta sta per esplodere. La violenza è ineluttabile, ma non è questo il problema. La questione da risolvere senza ambiguità riposa su un’alternativa.


Tollereremo, dunque, che l’esplosione sociale sfoci in uno stato di guerra civile endemica, su un caos di vendette e di odi di cui beneficeranno in fin dei conti le mafie multinazionali, libere di proseguire impunemente, e fino all’autodistruzione, il loro progetto di desertificazione lucrativa?
Oppure ci decideremo a creare delle microsocietà affrancate dalla tirannia statale e mercantile, dei territori federati in cui l’intelligenza degli individui si liberi dell’individualismo gregario sempre in cerca di una guida suprema che lo conduca al macello? Oseremo finalmente prendere in mano il nostro destino e fare piazza pulita di una giungla sociale in cui le bestie da soma non hanno altra libertà che eleggere i predatori che le mangiano?
Nel 1888 Octave Mirbeau scriveva: “Le pecore vanno al macello. Non dicono nulla e non sperano niente. Almeno, però, non votano per il macellaio che le ucciderà e per il borghese che le mangerà. Più bestia delle bestie, più pecorone che le pecore, l’elettore nomina il suo macellaio e sceglie il suo borghese. Ha fatto delle rivoluzioni per conquistare questo diritto”.
Non siete forse stanchi di gettare in aria di generazione in generazione la stessa inutilizzabile moneta: testa il manganello dell’ordine, croce la menzogna umanitaristica? Non esiste il voto del “male minore”, c’è solo una democrazia totalitaria che solo la democrazia diretta esercitata dal popolo per il popolo potrà revocare. Di passaggio, mi ha divertito uno slogan che, per quanto sommario, invita a una riflessione più profonda: “Macron, Le Pen, Mélenchon, stessa lotta di coglioni!”. (Avrei preferito “stessa lotta di capponi”, ma il rifiuto di ogni forma di potere e di dialogo con lo Stato fa parte di quei piccoli piaceri da cui scaturiscono le grandi ondate del godimento individuale e collettivo).

Autonomie. Autorganizzazione, autodifesa
Le istanze al potere non tollereranno che il popolo si liberi della loro tirannia. Dobbiamo prepararci a una lunga lotta. Quella da condurre contro la servitù volontaria non sarà la meno importante. Il solo elemento di cui il dispotismo possa farsi forte è l’aggressivo bisogno di sicurezza dei rassegnati, il rancore suicida di una maggioranza definita silenziosa che urla il suo odio per la vita.
La miglior difesa è sempre l’attacco. A questo principio ampiamente dimostrato dalla tradizione militare, preferirei sostituire quello dell’apertura, perché al vantaggio di rompere l’accerchiamento si aggiunge il piacere di rompere l’incasermamento.
L’apertura alla vita la vediamo all’opera nella feroce determinazione delle insurrezioni in corso. Anche se alcune si spengono, ripartono poi con rinnovato vigore. Lo si percepisce nel carattere festoso delle manifestazioni di protesta che durano anche se si scontrano con la cecità, la sordità, la rabbia repressiva dei governi. È fondandomi su quest’apertura che ho parlato di pacifismo insurrezionale.
Il pacifismo insurrezionale non è né pacifico nel senso belante del termine, né insurrezionale nel senso inteso dalle aberrazioni della guerriglia urbana e guevarista.
Non ho la vocazione del guerriero né del martire. Mi rimetto alla vita e alla sua poesia per quel che riguarda l’attenzione a superare i contrari affinché non diventino contrarietà, affinché sfuggano al dualismo manicheo del per e del contro. Scommetto sulla creatività degli individui per inventare una rivoluzione della quale non esiste alcun esempio passato. I turbamenti e le incertezze di una civiltà che nasce non hanno niente in comune con lo sgomento di una civiltà che non ha che la certezza di crepare.
Filosofi, sociologi, esperti del pensiero, risparmiateci le eterne discussioni sulla malignità del capitalismo che rende redditizia la sua agonia. Siamo tutti d’accordo su questo punto, anche i capitalisti. I veri problemi, per contro, non sono stati abbordati. Sono quelli della base, quelli dei villaggi e dei quartieri urbani, quelli del nostro corpo che in fondo – bisogna dunque ricordarlo? – è l’unico a decidere veramente del nostro destino, no?


Più le lotte si diffondono a livello planetario, più il loro senso acquista radicalità, profondità, esperienza vissuta, più fanno a meno di impegno militante, più se la ridono degli intellettuali, degli specialisti in manipolazione sovversiva o reazionaria (perché la manipolazione tratta entrambi come il diritto e il rovescio di una stessa moneta). Contemporaneamente, nel loro vissuto esistenziale e nella loro funzione sociale, gli individui si scoprono sul terreno in cui la loro aspirazione a vivere comincia a picconare e spazzare via il muro che le cifre d’affari oppongono loro come se il loro destino si fermasse lì.
No, non si può più parlare dell’uomo astratto, il solo riconosciuto dalle statistiche, dai calcoli di bilancio, dalla retorica di quanti laici o religiosi, umanisti o razzisti, progressisti o conservatori – fanno bastonare, accecare violentare, imprigionare, massacrare mentre, rintanati nei loro ghetti di codardi, contano sull’arrogante cretinismo del denaro per assicurare la loro impunità e la loro sicurezza.
La dittatura del profitto è un’aggressione contro il corpo. Affidare alla vita la cura d’immunizzarci contro la cancrena finanziaria che corrompe la nostra carne, implica una lotta poetica e solidale. Niente è meglio dei falò della gioia di vivere per ridurre in cenere la morbosità del mondo! La rivoluzione ha delle virtù terapeutiche finora insospettate.
Ecologisti, a che pro sbraitare sul miglioramento del clima dialogando con Stati che vi prendono in giro inquinando ogni giorno di più mentre è urgente agire su un terreno in cui le questioni non hanno niente delle mondanità intellettuali. Delle questioni tipo:
Come passare dalle terre avvelenate dall'’industria agroalimentare alla loro rinaturazione attraverso la permacultura?
Come vietare i pesticidi senza danneggiare il contadino che intrappolato da Monsanto, Total e affini, danneggia la sua salute danneggiando quella altrui?
Come ricostruire su nuove basi quelle piccole scuole di villaggio e di quartiere che lo Stato ha rovinato e chiuso per promuovere un insegnamento concentrazionario?
Come boicottare i prodotti nocivi e inutili che le molestie della pubblicità ci ingiungono di comprare?
Come creare delle banche d’investimento locale la cui moneta di scambio compenserà opportunamente il crollo monetario e il crac finanziario programmato?
Come decurtare i prelevamenti fiscali che lo Stato attribuisce alle malversazioni bancarie per investirli invece nell’autofinanziamento di progetti locali e regionali?
Soprattutto come propagare dappertutto il principio di una gratuità che la vita rivendica in modo naturale e che il feticismo del denaro snatura. Gratuità dei treni e dei trasporti pubblici, gratuità delle cure, gratuità dell’alloggio e dell’autocostruzione, gratuità graduale della produzione artigianale e dell’alimentazione locale.
Utopia? C’è forse peggiore utopia del mucchio di progetti assurdi e deleteri che snocciolano, sotto gli occhi stanchi dei telespettatori, gli istrioni senza talento che agitano lo spettro delle loro guerre di commessi viaggiatori? Questi buffoni ripetono senza fine la pagliacciata della lotta dei capi, velano sotto falsi dibattiti le vere questioni esistenziali e sociali, eclissano il terrorismo di Stato dando spazio a un terrorismo dei fatti di cronaca la cui follia suicida aumenta con la pauperizzazione e un clima sociale sempre più irrespirabile.
Abbiamo preso davvero coscienza che nelle loro diversità, vuoi nelle loro divergenze, i Gilet jaunes e i movimenti rivendicativi formavano un formidabile gruppo di pressione capace di boicottare, bloccare, paralizzare, distruggere tutto quel che inquina, avvelena, impoverisce, minaccia la nostra vita e il nostro ambiente? Farci sottovalutare la nostra potenza e creatività rileva dei meccanismi democratici della tirannia statale e mercantile. Più che sui suoi gendarmi, la forza illusoria dello Stato riposa su un effetto di propaganda che ci spinge in ogni momento a rinunciare alla potenza poetica che è in noi, a quella forza di vita che nessuna tirannia vincerà.
Ebbene, nel frattempo...
In Cile la lotta contro i vermi che proliferano sul cadavere di Pinochet ha ravvivato la consapevolezza che tutto deve ripartire dalla base, che i rappresentanti del popolo non sono il popolo, che l’individualista manipolato dallo spirito gregario non è un individuo capace di riflettere autonomamente e di prendere partito per la vita contro il partito del denaro che uccide. Bisogna lasciare al popolo la conquista di un’intelligenza che gli appartiene e che le diverse forme di potere s’impegnano a togliergli.
Lo stesso avviene in Algeria, nel Sudan, nel Libano, in Iraq. Ho fiducia nel Rojava perché trasformi la sua ritirata momentanea in offensiva. Quanto agli zapatisti del Chiapas, rispondono agli argomenti economicistici del socialista Lopès Obrador aumentando il numero delle loro basi (caracoles) e dei loro Consigli di buon governo in cui le decisioni sono prese dal popolo per il popolo.
La rivendicazione testarda di una democrazia a Hong Kong oscilla tra una collera cieca pronta a soddisfarsi di un parlamentarismo rimesso in causa dappertutto, da un lato e dall'’altro una collera lucida che scuote e fa tremare per la sua persistenza la gigantesca piramide del regime totalitario cinese (inquieto per la minaccia di un crac finanziario). Chissà. L’edera s’infiltra dappertutto e il passato insurrezionale di Shangai non è lontano.
Il Sudan scuote il giogo della tirannia e del potere militare, l’Iran vacilla. Il Libano dà una bella botta all’Hezbollah e all’islamismo la cui copertura religiosa non maschera più l’obiettivo politico petrolifero. L’Algeria non vuole un governo riverniciato. L’Iraq scopre che la realtà sociale è più importante delle rivalità religiose. Restano i Catalani, gli unici a volere uno Stato quando “il più freddo dei mostri freddi” è trafitto dovunque di frecce. Tuttavia, non è impossibile che gli indipendentisti, finiti nell’impasse del braccio di ferro tra lo Stato madrileno e la non meno statale Generalitat, respirino improvvisamente i cattivi odori del cadavere franchista che lo spirito nazionalista ha tirato fuori dai suoi cimiteri. Non è dunque impossibile che tornino loro in memoria le collettività libertarie della rivoluzione del 1936 in cui si forgiò una vera indipendenza, prima che il partito comunista e lo Stato catalano, suo alleato, le schiacciassero.
Non è una chimera ma la vita è un sogno e siamo entrati in un’era in cui la poesia è il passaggio dal sogno alla realtà, un passaggio che marca la fine dell’incubo e della sua valle di lacrime.
Aprire uno spazio vitale a chiunque sia paralizzato dallo sgomento e dall'’angoscia per il futuro, non è forse la pratica poetica che marca l’insolente novità dell’insurrezione della vita quotidiana? Non la cogliamo forse nella disgregazione del militantismo, nell’erosione di quel vecchio riflesso militare che moltiplica i capetti e i loro greggi timorosi?
Sotto la diversità dei suoi pretesti, l’unica rivendicazione odierna senza riserve è la vita piena e intera.
Chi potrebbe sbagliarsi? Non siamo nel tumulto delle rivolte prevedibili o inattese, siamo in seno a un processo rivoluzionario. Il mondo cambia base, una vecchia civiltà crolla, una nuova appare. Le mentalità compassate e i comportamenti arcaici possono pure perpetuarsi sotto un’apparenza di modernità, un nuovo Rinascimento emerge in seno a una storia fatta a pezzi dalla sua disumanità sotto i nostri occhi. Occhi che si aprono poco a poco. Scoprono nella donna, nell’uomo, nel bambino il genio di sperimentare innocentemente delle novità incredibili, delle energie insolite, delle forme di resistenza alla morte, degli universi che nessuna immaginazione aveva osato mettere in moto per il passato.
Siamo là, dove tutto comincia.

Raoul Vaneigem, 17 novembre 2019


La renaissance de l'humain est la

seule croissance qui nous agrée

            Les coups de boutoirs que la liberté porte à l'hydre capitaliste qui l'étouffe, font fluctuer sans cesse l'épicentre des perturbations sismiques. Les territoires mondialement ponctionnés par le système du profit sont en butte à un déferlement des mouvements insurrectionnels. La conscience est mise en demeure de courir sus à des vagues successives d'événements, de réagir à des bouleversements constants, paradoxalement  prévisibles et inopinés.
            Deux réalités se combattent et se heurtent violemment. L'une est la réalité du mensonge. Bénéficiant du progrès des technologies, elle s'emploie à manipuler l'opinion publique en faveur des pouvoirs constitués. L'autre est la réalité de ce qui est vécu quotidiennement par les populations.
            D'un côté, des mots vides travaillent au jargon des affaires, ils démontrent l'importance des chiffres, des sondages, des statistiques ; ils manigancent de faux débats dont la prolifération masque les vrais problèmes : les revendications existentielles et sociales. Leurs fenêtres médiatiques déversent chaque jour la banalité de magouilles et de conflits d'intérêts qui ne nous touchent que par leurs retombées négatives. Leurs guerres de dévastation rentable ne sont pas les nôtres, elles n'ont d'autre but que de nous dissuader de mener la seule guerre qui nous concerne, la guerre contre l'inhumanité mondialement propagée.
            D'un côté, selon l'absurde vérité des dirigeants, les choses sont claires : revendiquer les droits de l'être humain relève de la violence anti-démocratique. La démocratie consisterait donc à réprimer le peuple, à lancer contre lui une horde de policiers que pousse à des comportements fascisant, l'impunité garantie par le gouvernement et par les candidats d'opposition, avides de lui succéder. Imaginez à quels trémolos se livreront les zombies médiatiques si l'immolation par le feu d'une victime de la paupérisation débouche sur l'incendie du système responsable !
            De l'autre, la réalité vécue par le peuple est tout aussi claire. On ne nous fera pas admettre que l'on puisse réduire à un objet de transactions marchandes l'astreinte du travail mal rémunéré, la pression bureaucratique accroissant les taxes, diminuant le montant des retraites et des acquis sociaux, la pression salariale qui réduit la vie à une stricte survie. La réalité vécue n'est pas un chiffre, c'est un sentiment d'indignité, c'est le sentiment de n'être rien entre les griffes de l’État, un monstre qui se racornit en peau de chagrin sous la ponction des malversations financières internationales.
            Oui, c'est dans le choc de ces deux réalités - l'une imposée par le fétichisme de l'argent, l'autre qui se revendique du vivant - qu'une étincelle, souvent infime, a mis le feu aux poudres.
            Il n'est pas de futilité qui ne soit aujourd'hui de nature à déchaîner la violence de la vie réprimée, de la vie résolue à briser ce qui la menace d'extinction.
            L'inertie séculaire, la léthargie si bien confortées par la vieille recette « du pain et des jeux », fondent la formidable puissance de la servitude volontaire. Déjà dénoncée au XVIe siècle par La Boétie, elle demeure notre ennemi le plus implacable. En nous attaquant de l'intérieur, la servitude volontaire favorise une propension qui agit chez beaucoup comme une drogue : la volonté d’exercer un pouvoir, d'endosser le rôle de guide. L'autorité de quelques uns a bien souvent infesté les milieux libertaires de sa morbidité. Aussi faut-il se réjouir de la détermination des Gilets jaunes et des insurgés de la vie quotidienne à rappeler sans trêve leur refus de chefs, de délégués autoproclamés, de maîtres à penser, de grenouilles de bénitiers politiques et syndicales.


           

Libre à ceux qui souhaitent mourir en paix d'attendre la mort dans le confort conjoint du cercueil et de la télévision, mais nous ne laisserons pas leur gâtisme infester notre volonté de vivre.
            Ce que nous voulons, c'est la souveraineté de l'être humain. Rien de plus, rien de moins !
            La paupérisation frappe à la porte avec une violence accrue, qui va la défoncer. C'en est fini de l'hédonisme des derniers jours que martèle le slogan consumériste et gouvernemental : « Jouissez d'aujourd'hui car demain sera pire ! » Le pire, c'est maintenant, si nous continuons à nous en accommoder. Cessons de croire à la toute puissance du capitalisme et du fétichisme de l'argent. Nous avons appris que la grande farce macabre qui fait valser le monde n'obéit plus qu'à un petit ressort sordide, celui du profit à court terme, de l'absurde rapacité d'un boutiquier en faillite raclant les fonds de tiroirs.

            Je ne parle pas d'espoir. L'espoir n'est que le leurre de la désespérance. Je parle de la réalité de toutes les régions de la terre où une insurrection de la vie quotidienne – appelez cela comme vous voulez – a entrepris de démanteler la dictature du profit et de jeter à bas les États qui l'imposent à des peuples, censés être représentes par eux. Ce que nous voulons, ce n'est pas demain, c'est maintenant, comme l'expriment très bien les aides-soignants, infirmières, infirmiers, urgentistes, médecins confrontés à la gestion économique qui déshumanise le secteur hospitalier.

            Le système d'exploitation de la nature terrestre et de la nature humaine a mondialement plombé l'horizon. La chape de la rentabilité à tous prix ne laisse aucune issue à la générosité de la vie et au sens humain qui en favorise la pratique.
            De toute évidence, exploiteurs et exploités sont persuadés que la marmite va exploser. La violence est inéluctable. Le problème n'est pas là. La question à résoudre sans ambiguïté repose sur une alternative.
            Allons-nous tolérer que l'explosion sociale débouche sur un état de guerre civile endémique, sur un chaos de vengeances et de haines qui bénéficiera en fin de compte aux mafias multinationales, libres de poursuivre impunément, et jusqu'à l'autodestruction, leur projet de désertification lucrative ?
            Ou bien, allons-nous créer des microsociétés affranchies de la tyrannie étatique et marchande, des territoires fédérés où l'intelligence des individus se libère de cet individualisme de troupeau en mal d'un guide suprême qui les mène à l'abattoir ? Allons-nous enfin oser prendre en mains notre propre destinée et araser une jungle sociale où les bêtes de somme n'ont d'autre liberté que celle d'élire les bêtes de proie qui les dévorent ?
            En 1888, Octave Mirbeau écrivait : « Les moutons vont à l'abattoir. Ils ne disent rien et n'espèrent rien. Mais du moins, ils ne votent pas pour le boucher qui les tuera et pour le bourgeois qui les mangera. Plus bête que les bêtes, plus moutonnier que les moutons, l'électeur nomme son boucher et choisit son bourgeois. Il a fait des révolutions pour conquérir ce droit. »
            N'êtes-vous pas lassés de faire virevolter de génération en génération la même et inusable pièce de monnaie : pile la matraque de l'Ordre, face le mensonge humanitariste ?
            Il n'y a pas de « vote du moindre mal, » il n'y a qu'une démocratie totalitaire, que seule révoquera la démocratie directe exercée par le peuple et pour le peuple. Je me suis amusé au passage d'un slogan qui, si sommaire qu'il soit, appelle à une réflexion plus poussée : « Macron, Le Pen, Mélenchon, même combat de cons ! » (J’aurais préféré « même combat de capons», mais le rejet de toute forme de pouvoir et de dialogue avec l’État fait partie de ces petits plaisirs d'où viennent les grandes vagues de la jouissance individuelle et collective.)

Autonomie, auto-organisation, autodéfense.

            Les instances au pouvoir ne vont pas tolérer que le peuple s'affranchisse de leur tyrannie. Nous devons nous préparer à une longue lutte. Celle à mener contre la servitude volontaire ne sera pas la moindre. La seule assise dont le despotisme puisse se prévaloir, c'est la hargne sécuritaire des résignés, c'est le ressentiment suicidaire d'une majorité prétendument silencieuse qui hurle sa haine de la vie.

            La meilleure défense est toujours l'offensive. A ce principe, amplement démontré par la tradition militaire, j'aimerais substituer celui de l'ouverture, car, à l'avantage de briser l'encerclement s'ajoute le plaisir de briser l'encasernement.
            L'ouverture à la vie, nous la voyons à l’œuvre dans la farouche détermination des insurrections en cours. Même si certaines s'éteignent, elles repartent de plus belle. Nous le sentons dans le caractère festif des manifestations de protestations qui perdurent bien qu'elles se heurtent à l'aveuglement, à la surdité, à la rage répressive des gouvernements. C'est en me fondant sur cette ouverture que j'ai parlé de pacifisme insurrectionnel.
            Le pacifisme insurrectionnel n'est ni pacifique, au sens bêlant du terme, ni insurrectionnel, si l'on entend par là les aberrations de la guérilla urbaine et guévariste.
            Je n'ai ni vocation de guerrier, ni vocation de martyr. Je m'en remets à la vie et à sa poésie du soin de dépasser les contraires afin qu'ils ne deviennent pas contrariétés, afin qu'ils échappent à la dualité manichéenne du pour et du contre. Je mise sur la créativité des individus pour inventer une révolution dont il n'existe aucun exemple par le passé. Le désarroi et les incertitudes d'une civilisation qui naît n'ont rien de commun avec le désarroi d'une civilisation qui n'a que la certitude de crever.

            Philosophes, sociologues, experts en pensées, épargnez-nous les sempiternelles discussions sur la malignité du capitalisme qui rentabilise son agonie. Tout le monde est d'accord sur ce point, même les capitalistes. Les vrais problèmes en revanche n'ont pas été abordés. Ce sont ceux de la base, ceux des villages et des quartiers urbains, ceux de notre propre corps, qui est tout de même, faut-il le rappeler, le vrai décideur de notre destinée, non ? 

            Plus les luttes se répandent planétairement, plus leur sens gagne en radicalité, en profondeur, en expérience vécue, plus elles se passent d'engagement militant, plus elles se moquent des intellectuels, spécialistes en manipulation subversive ou réactionnaire (car la manipulation traite l'une et l'autre comme l'avers et le revers d'une pièce de monnaie). C'est à la fois dans leur vécu existentiel et dans leur fonction sociale que les individus se découvrent sur le terrain où leur aspiration à vivre commence à saper et à déblayer le mur que les chiffres d'affaires leur opposent, comme si là s'arrêtait leur destin.
            Non, on ne peut plus parler de l'homme abstrait, le seul que reconnaissent les statistiques, les calculs budgétaires, la rhétorique de celles et ceux qui – laïcs ou religieux, humanistes ou racistes, progressistes ou conservateurs – font matraquer, éborgner, violer, emprisonner, massacrer, tandis que, tapis dans leurs ghettos de lâches, ils comptent sur l'arrogant crétinisme de l'argent pour assurer leur impunité et leur sécurité.

            La dictature du profit est une agression contre le corps. Confier à la vie le soin de nous immuniser contre le chancre financier qui corrompt notre chair implique une lutte poétique et solidaire. Rien de tels que les feux de la joie de vivre pour réduire en cendre la morbidité du monde ! La révolution a des vertus thérapeutiques, insoupçonnées jusqu'à nos jours.

            Écologistes, qu'allez-vous brailler à l'amélioration climatique auprès d’États qui vous narguent en polluant chaque jour davantage, alors qu'il est urgent d'agir sur un terrain où les questions n'ont rien de mondanités intellectuelles. Des questions telles que :
            Comment passer des terres empoisonnées par l'agro-alimentaire à leur renaturation par la permaculture ?
            Comment interdire les pesticides sans léser le paysan qui, piégé par Monsanto, Total et consorts, détruit sa santé en détruisant celle des autres ? Comment rebâtir sur des bases nouvelles ces petites écoles de village et de quartiers que l’État a ruinées et interdites pour promouvoir un enseignement concentrationnaire ?
            Comment boycotter les produits nocifs et inutiles que le harcèlement publicitaire nous enjoint d'acheter ?
            Comment constituer des banques d'investissement local où la monnaie d'échange palliera opportunément l'effondrement monétaire et le krach financier programmé ?
            Comment couper court aux prélèvements fiscaux que l’État affecte aux malversations bancaires, et entreprendre de les investir dans l'autofinancement de projets locaux et régionaux ?
            Surtout, comment propager partout le principe d'une gratuité que la vie revendique par nature et que le fétichisme de l'argent dénature. Gratuité des trains et des transports publics, gratuité des soins, gratuité de l'habitat et de l'auto construction, gratuité graduelle de la production artisanale et alimentaire locale.
            Utopie ? Y a-t-il pire utopie que le fatras de projets absurdes et délétères que déballent, sous les yeux fatigués des téléspectateurs, ces cabotins sans talent qui agitent le spectre de leurs guerres de commis-voyageurs, réitèrent sans fin la pitrerie du combat des chefs, voilent sous de faux débats les vraies questions existentielles et sociales, éclipsent le terrorisme d’État par un terrorisme de faits-divers où la folie suicidaire croît avec la paupérisation et un air ambiant de plus en plus irrespirable ?
            A-t-on assez pris conscience que, dans leur diversité, voire dans leurs divergences, les Gilets jaunes et les mouvements revendicatifs formaient un formidable groupe de pression capable de boycotter, bloquer, paralyser, détruire tout ce qui pollue, empoisonne, appauvrit, menace notre vie et notre environnement ? Nous faire sous-estimer notre puissance et notre créativité relève des mécanismes démocratiques de la tyrannie étatique et marchande. Plus que sur ses gendarmes, la force illusoire de l’État repose sur un effet de propagande qui nous presse à chaque instant de renoncer à la puissance poétique qui est en nous, à cette force de vie dont aucune tyrannie ne viendra à bout.
            Or, pendant ce temps-là...
            Au Chili, la lutte contre la vermine qui prolifère sur le cadavre de Pinochet a ravivé la conscience que tout doit repartir de la base, que les représentants du peuple ne sont pas le peuple, que l'individualiste manipulé par l'esprit grégaire n'est pas l'individu capable de réfléchir par lui-même et de prendre le parti de la vie contre le parti de l'argent qui tue. Il faut laisser au peuple la conquête d'une intelligence qui lui appartient et que les diverses formes de pouvoir s'attachent à lui ôter.
            Il en va de même en Algérie, au Soudan, au Liban, en Irak. Je fais confiance au Rojava pour transformer sa retraite momentanée en offensive. Les zapatistes ont, quant à eux, répondu aux arguments économistes du socialiste Lopès Obrador en accroissant le nombre de leurs bases (caracoles) et de leurs Conseils de bon gouvernement, où les décisions sont prises par le peuple et pour le peuple.

            La revendication opiniâtre d'une démocratie à Hong-Kong oscille entre d'une part une colère aveugle, prête à se satisfaire d'un parlementarisme partout remis en cause, et d'autre part une colère lucide qui ébranle et fait trembler par sa persistance la gigantesque pyramide du régime totalitaire chinois (qu'inquiète la menace d'un krach financier.) Qui sait ? Le lierre s'infiltre partout, et le passé insurrectionnel de Shanghai n'est pas loin.
            Le Soudan secoue le joug de la tyrannie et du pouvoir militaire, l'Iran vacille. Le Liban est un coup de semonce pour le Hezbollah et pour l'islamisme dont la défroque religieuse ne masque plus l'objectif politico-pétrolier. L'Algérie ne veut pas d'un ripolinage gouvernemental. L'Irak découvre que la réalité sociale l'emporte sur l'importance accordée aux rivalités religieuses. Restent les Catalans, les seuls à vouloir un État alors que le « plus froid des monstres froids » est partout criblé de flèches. Mais il n'est pas impossible que les indépendantistes, engagés dans une impasse par le bras de fer opposant l’État madrilène à la non moins étatique Generalitat, respirent soudain les remugles du cadavre franquiste que l'esprit nationaliste a sorti de ses cimetières. Donc il n'est pas impossible que leur revienne la mémoire des collectivités libertaires de la révolution de 1936 où se forgea une véritable indépendance, avant que le parti communiste et son allié, l’État catalan, les écrasent. 
            Ce n'est qu'un rêve mais la vie est un songe et nous sommes entrés dans une ère où la poésie est le passage du rêve à la réalité, un passage qui marque la fin du cauchemar et de sa vallée de larmes.
            Ouvrir un espace vital à celles et ceux que paralysent le désarroi et l'angoisse du futur, n'est-ce pas la pratique poétique qui fait l'insolente nouveauté de l'insurrection de la vie quotidienne ? Ne la voyons-nous pas dans la déperdition du militantisme, dans l'érosion de ce vieux réflexe militaire qui multiplie les petits chefs et leurs troupeaux apeurés ?
            Sous la diversité de ses prétextes, l'unique revendication qui s'exprime aujourd'hui sans réserve, c'est la vie pleine et entière.
            Qui s'y tromperait ? Nous ne sommes pas dans le tumulte de révoltes prévisibles ou inattendues, nous sommes au sein d'un processus révolutionnaire. Le monde change de base, une vieille civilisation s'effondre, une civilisation nouvelle apparaît. Les mentalités compassées et les comportements archaïques ont beau se perpétuer sous un ersatz de modernité, une nouvelle Renaissance émerge au sein d'une histoire que son inhumanité met en capilotade sous nos yeux. Et ces yeux se dessillent peu à peu. Ils découvrent chez la femme, l'homme et l'enfant un génie d'expérimenter innocemment des innovations inouïes, des énergies insolites, des formes de résistances à la mort, des univers qu'aucune imagination n'avait osé mettre en branle par le passé.
Nous sommes là où tout commence.



Raoul Vaneigem 17 novembre 2019