questo scritto di Marco Minoletti vuole essere una bozza di discussione e di lavoro attorno al tema che interessa a molti in modo che ne nasca un confronto e un approfondimento per procedere un po' alla volta, insieme, speriamo .....
aggiornato a : 07-07-2019
L'economia
sta […] crollando. La speculazione ha ucciso il dinamismo della Borsa e le
illusioni che alimentava. Non offre più un piedistallo al dispotismo personale:
tutt'al più lascia qualche sgabello a certi arroganti effimeri e flatulenti che
gonfiano di corruzione le democrazie.
Raul
Vaneigem, Né vendetta né perdono [1]
Di tanto
in tanto, e a seconda degli interessi dei detentori e manipolatori dei players
del sistema di distribuzione dell'informazione, l'attenzione
dei media viene canalizzata su temi quali il destino del pianeta Terra,
l'ecosistema, la globalizzazione, i fondamentalismi religiosi e di mercato
e via di questo passo. Temi che, pur riguardando noi tutti, non ci distraggono
dal consumo dei beni generosamente offerti dalla società
spettacolare-mercantile fintanto che non ci toccano di persona. É il caso
dell'ormai apparentemente fagocitata crisi dei mercati finanziari, dei suoi
effetti e della ricerca di nuove vie per uscirne. Crisi che, stando alle
lungimiranti previsioni degli analisti della finanza e alla diffusa credenza
nelle infinite risorse del sistema capitalistico, si sarebbe risolta a medio
termine, dopo una breve fase di recessione. Tutto vero, se si considerano il
mondo della finanza e quello dell'economia reale come due sfere separate e a sé
stanti. Il problema è che non lo sono. Vista da questa angolatura si scopre non
solo che la crisi del 2008 non è stata una sana e normale crisi di
assestamento dei mercati finanziari,[2]
ma anche che essa ha evidenziato le prime crepe dell'attuale assetto
del sistema finanziario ed economico mondiale, strappando il velo di Maya che celava il vero volto
dell'attuale fase di dominio reale del capitale totale: quello della
globalizzazione selvaggia. Per inquadrare il problema occorre fare un paio di
passi indietro.
Primo
passo. Le radici filosofiche del problema
Nel campo
filosofico, uno dei grossi limiti del pensiero occidentale è stato quello di far
proprie, metabolizzandole, le elucubrazioni sistematiche del più noto pensatore
di Stoccarda, (Hegel), il quale, in una sintesi grandiosa e - per fortuna - mai
più ripetuta, considerava la Storia come processo lineare e ineluttabile della
vita dello Spirito. Anche il suo principale discepolo (Marx) - pur dandogli del
cane morto,[3]
nel tentativo di rimetterlo sui suoi piedi - rimase allineato alla tradizione
filosofica, mutuando la storia della Storia da quella dello Spirito. Invertendo
l'ordine dei fattori il prodotto non è cambiato: entrambi pensavano –
erroneamente - che la dialettica dello Spirito e quella della Storia fossero un
work in progress giunto a maturazione, guarda caso, proprio in
coincidenza del periodo storico in cui loro lo prendevano in esame. E così in una
notte in cui tutte le vacche sono nere,[4]
uno vide passare lo Spirito a cavallo e l'altro, prendendo le distanze
dalla tradizione filosofica, individuò nello stalliere il giudice e il boia
della preistoria dell'umanità. Il vero limite della faccenda non consiste tanto
nello smacco subito dalle due teorie quanto nelle derivazioni assiomatiche che
hanno prodotto: dato che tutto ciò che è avvenuto è spiegabile attraverso la
storia dello Spirito o della lotta di classe, ciò che avverrà non dipende tanto
da noi, quanto dal seguito degli inevitabili sviluppi e dispiegamenti della
vita dello Spirito o della lotta di classe assunti, a seconda dei punti di
vista, come chiave interpretativa della storia universale. Risultato: la
graduale evoluzione dell'animale uomo che, nel giro di poco più di mille anni,
da animale politico (Aristotele) è diventato animale da lavoro (Marx), per poi
chiudere il cerchio con l'attuale status di animale da consumo (Bauman).
Secondo
passo. Breve
excursus storico
Per
mettere a fuoco l'attuale crisi finanziaria è necessario tenere presente, dal
punto di vista storico ed economico, la più grande crisi della storia dei
mercati finanziari: quella del 1929. Essa si differenzia da tutte quelle che
l'hanno preceduta o seguita per la rapidità con cui fece irruzione sulla scena
dei mercati internazionali e per l'intensità dei suoi effetti devastanti. Le
origini della “grande crisi” sono da ricercarsi nelle conseguenze della Prima
guerra mondiale in campo economico, finanziario e monetario, anche se alcune
sue ragioni di fondo restano un mistero insoluto a tutt'oggi.
Dopo i
primi segnali di ripresa all'insegna di una congiuntura positiva, nella metà
degli anni Venti, gli Stati Uniti - che dopo la Prima guerra mondiale, oltre ad
essere il Paese che aveva mostrato la maggior potenzialità di ripresa erano
divenuti il centro della finanza mondiale e gli artefici della ripresa
economica europea - cominciano ad evidenziare sintomi di una crisi dei
meccanismi economici. A portare alla superficie il processo di crisi latente
avviatosi col primo conflitto mondiale contribuì, in ottobre, il crollo delle
azioni e dei titoli contrattati alla Borsa di New York. Crollo causato
principalmente dagli eccessi speculativi, dall'avventurismo di alcuni parvenus
della finanza americana, dalla ripresa della produzione agricola europea e
dalla conseguente caduta dei prezzi agricoli sul mercato americano.
A questi
fattori, che di per sé non spiegherebbero l'immane portata della crisi, occorre
aggiungere la subalternità del capitale mondiale a quello americano, gli scarsi
investimenti nei principali settori produttivi, l'incremento del potere
d'acquisto surrettiziamente sostenuto dagli acquisti a rate, la sproporzione
tra ricchezza nominale e ricchezza reale, l'eccessivo costo del denaro, il
derisorio controllo da parte degli Stati sul sistema bancario privato che, coi
soldi dei risparmiatori, si lanciò in spericolate avventure sia nei settori
industriale e commerciale, che del mercato azionario.
L'effetto
domino provocato dal crollo della Borsa americana fu quasi immediato e si
ripercosse sui principali paesi industrializzati europei, sudamericani e
asiatici. Le conseguenze furono devastanti e provocarono una riduzione su scala
planetaria di produzione, salari, redditi, consumi, investimenti e risparmi. In
breve, si passò da una fase di espansione ad una fase di contrazione.
All'euforia dei principali agenti pubblicitari dell'automobile (Majakovskij e i
Futuristi italiani), all'ottimismo imperante, al consumismo a rate, alla bolla
speculativa, agli anni ruggenti seguirono gli anni della depressione,
della disoccupazione e del tramonto dell'ottimismo liberista.
Il crollo
del mercato azionario diede il via al vortice della catastrofe. Vortice nel
quale finirono per essere risucchiate migliaia di società fallimentari, aziende
e banche che, impossibilitate a recuperare i crediti, trascinavano nella rovina
le banche collegate. Si diffuse il panico tra i piccoli risparmiatori che
diedero vita a code interminabili presso gli sportelli bancari, nel tentativo
di ottenere la restituzione dei capitali investiti.
Nel 1930
fallì, tra le tante, la Bank of the United States a New York,
danneggiando un terzo della popolazione della City. In Europa fallirono
alcune tra le maggiori banche come l’austriaca Kredit Anstalt e la
tedesca Dresdner Bank. Inevitabilmente la crisi bancaria ebbe
ripercussioni sulle banche centrali e sulla moneta, che fu svalutata. La
disoccupazione raggiunse picchi impensabili. Tra la popolazione si diffuse un
clima da girone infernale; aumentarono i suicidi e si diffuse un ventaglio di
reazioni che oscillavano tra il fatalismo e una ripresa dell'ortodossia
calvinista. Il mondo economico invocò misure deflazionistiche per salvaguardare
il valore della moneta e il bilancio dello Stato. Il presidente americano, il
repubblicano Herbert Hoover, cercò invano di diffondere un'atmosfera
ottimistica negli States. Le elezioni del 1932 decretarono la sua fine
politica e la vittoria del democratico Franklin Roosevelt, che diede corso ad
una politica inflazionistica e favorì l’aumento della spesa pubblica mirata a
favorire la spesa corrente più che a incrementare gli investimenti. Roosevelt
si presentò alle elezioni con un programma molto chiaro: il superamento della
miseria sul versante sociale e l'intervento dello stato su quello economico.
Tramontava il liberalismo puro e nasceva il New Deal, un insieme di
misure tese soprattutto a contenere e possibilmente liquidare la speculazione,
a ridurre il potere dei grandi gruppi finanziari e a intervenire a sostegno
degli agricoltori.
Per ridurre lo strapotere dei
gruppi finanziari e far fronte alle speculazioni selvagge lo Stato, oltre a
giocare un ruolo centrale nella riorganizzazione del sistema bancario, decise
di aumentare il livello di controllo e di sorveglianza sulle borse e sul
mercato azionario dando vita alla Securities Exchange Commission. Parallelamente
lo Stato, oltre a farsi carico di ipoteche gravanti sugli agricoltori,
incoraggiò la riduzione della coltura di alcuni prodotti agricoli come grano e
cotone, di cui vi erano eccessive scorte non facilmente smerciabili ed infine
gestì lo sfruttamento delle fonti energetiche sottraendole al controllo
esclusivo delle compagnie private. Il piano d'intervento messo in atto da
Roosevelt e dal gruppo di esperti che lo concepì fu osteggiato dalle classi
privilegiate che non vedevano di buon occhio l'intromissione del potere
pubblico in affari ritenuti privati. A trarne beneficio furono coloro i quali
erano stati particolarmente colpiti dalla crisi del capitalismo, vale a dire
gli esponenti delle classi meno agiate.
Quelli
che vanno dal 1933 al 1937 furono gli anni della ripresa economica e
dell'avvento al potere (gennaio 1933) di colui che più di ogni altro fu
favorito dalla tremenda crisi del 1929: Adolf Hitler. Il dittatore, per ridare
linfa vitale alla macchina produttiva e rimetterla in movimento, sostenne una
politica economica tesa a privilegiare l'industria bellica. Sul finire del
1937, quando già alcuni "esperti" parlavano di nuovo boom economico,
comparvero qua e là i primi segnali di recessione. Recessione che rimase
contenuta e non si trasformò in una nuova macroscopica crisi mondiale per la
sola ragione che il mondo aveva già imboccato la via del riarmo. Il secondo
conflitto mondiale era ormai alle porte...
Note di
chiusura: l’ epoca degli equilibri difficili, globalizzazione, unità e
pluralità
Col
trascorrere degli anni le cose sono assai mutate, ma il principio di base del
sistema capitalistico è rimasto invariato. Esso si fonda, oggi come ieri, sulla
produzione, la circolazione e il consumo di merci. Anche dal punto di vista
delle gerarchie sociali e spettacolari, oggi come ieri, il prestigio e il
potere di un individuo, di una famiglia, di un clan o di uno Stato dipendono
più dal possesso di beni materiali che da ragioni di altra natura. Ciò che
invece è radicalmente mutato, è il modo in cui i mondi commerciale, industriale
e finanziario si rapportano tra loro e con gli Stati, con le conseguenze che ne
derivano.
Stiamo
parlando di un'epoca, la nostra, in cui ai processi di globalizzazione
dell'economia transnazionale non corrispondono adeguate istituzioni
democratiche transnazionali. La globalizzazione dei mercati, che non conosce
confini territoriali, ha progressivamente eroso il potere di intervento degli
Stati sovrani, relegandoli al ruolo di attori comprimari. A prendere decisioni
di vitale importanza per il destino di milioni di esseri umani e dell'economia
non sono più gli Stati, ma gruppi di esperti che agiscono esclusivamente in
base al principio della massimizzazione dei profitti, infischiandosene dei
principi elementari della democrazia e del senso di responsabilità per la
comunità.
La
globalizzazione, imposta al mondo come promessa di felicità in terra, si sta
rivelando una falsa promessa di crescita economica, stabilità, sicurezza e
pace. La crescita economica infatti si sta trasformando in progressivo declino
delle economie forti (Usa, Giappone). La stabilità è minacciata dalla crisi dei
mercati finanziari, dalla crescente disoccupazione e dalle incertezze che
serpeggiano tra i piccoli risparmiatori. La sicurezza è messa a dura prova non
tanto dalle immense ondate migratorie provenienti dai cosiddetti paesi del
terzo mondo, quanto dall'incapacità degli Stati nazionali di dare una risposta
positiva a questa situazione di emergenza. Alle promesse di pace si sono
rapidamente sostituiti i proclami di guerra dei vari fondamentalismi religiosi
e ultranazionalisti. Paradossalmente, mentre da un lato il processo di
globalizzazione e liberalizzazione dei mercati non conosce limiti, dall'altro
proprio le istituzioni politiche globali che, a partire dalla Seconda guerra
mondiale, ne avrebbero dovuto controllare il funzionamento, sono state
imbavagliate e poste nella condizione di non interferire più di tanto.
In questi
tempi di crisi economica essi stanno riscoprendo l'importanza del tanto
disprezzato contribuente. Il contribuente (la mano che dà) tramite lo Stato (la
mano che prende) è chiamato in causa non fosse altro che per arginare il
disastro. I cittadini pagano e lo Stato ha così la possibilità di riscattarsi
dalla condizione di esiliato dal regno dei mercati globali transnazionali.
Esemplari, dopo la crisi finanziaria del 2008, sono stati l'intervento salvifico
e le politiche messe in atto dal nuovo presidente degli Stati Uniti d'America
come anche dell'ex presidente del consiglio inglese Brown. Il collasso ed il
salvataggio in extremis della Bear Stearns (la quinta finanziaria di
Wall Street) orchestrata dalla Fed con la complicità di J. P. Morgan e i
fiumi di liquidità riversati sul mercato interbancario, le azioni concentrate
da parte di governi, banche centrali e rappresentanti del mondo della finanza,
hanno rappresentato già un primo inequivocabile segnale in tale direzione. A
questo punto non si possono escludere azioni concentrate da parte di governi,
banche centrali e rappresentanti del mondo della finanza. Ormai è chiaro a
tutti che né gli Stati né la politica sono il soggetto dell'economia globale,
ma è altrettanto chiaro che, nell'attuale fase di pericolo, sono gli Stati ad
essere evocati e a rimettersi i panni del demiurgo. Sono gli Stati, ri-animati
e chiamati in causa dallo stesso mondo dei «geni-bambini» della finanza, che
tentano di ripristinare forme politiche di vigilanza globale e transnazionale
in grado di contrastare l'espansione selvaggia del mercato globale e
transnazionale. Un secondo incidente, simile alla défaillance
finanziaria scatenata dai mutui subprime, potrebbe essere fatale e mettere in moto una catastrofe
economica mondiale simile a quella scoppiata a partire dal 1929.
In questa
fase di crisi occorre dunque ripensare non solo al ruolo delle economie e degli
Stati (come fanno gli “specialisti” al soldo dei vari regimi) ma, soprattutto,
è necessaria una nuova politica che affronti al contempo la violenza e
l'esclusione prodotte dalla globalizzazione, la violenza del terrorismo e del
fondamentalismo e quella della guerra. Immaginiamoci quanto sarebbe diverso il
mondo se si basasse su una filosofia di reciproca interdipendenza, invece che
sulla filosofia attualmente dominante per cui l'esistenza dell'altro è vista
come minaccia alla propria.
In
un'epoca come la nostra, in cui l'essere
equivale all'avere, è tempo che
l'uomo si sforzi non solo di uscire dalla empasse
dell'universo finanziario ma, soprattutto, che avvii un processo di
ripensamento radicale di se stesso, del suo rapporto con l'altro e con il mondo
circostante. Se, infatti, gli amanti riescono ancora ad amarsi, i poeti a
poetare, i filosofi a muoversi tra le nebbie fenomenologiche della Foresta
Nera, ciò che è realmente in crisi non è la capacità dell'uomo di esprimersi
singolarmente, ma quella di declinarsi pluralmente, così come quella capacità
di mantenere un equilibrio tra unità e pluralità.
Ecco
perché attuali e dense di significato suonano le parole di Hanna Arendt, la più
acuta pensatrice politica del XX secolo:
“Ciò che è andato storto è la politica, ossia noi
in quanto esistiamo al plurale – e non ciò
che possiamo fare o produrre, esistendo al singolare”.[5]
[1] Raul Vaneigem Né vendetta né
perdono. Giustizia moderna e crimini contro l'umanità, Eleuthera 2010, pag. 18
[2] È
ormai noto che la crisi del 2008 sia nata negli Stati Uniti e sia stata causata
da un eccessivo ricorso al debito. Come ci ricorda Ottone Ferro nel saggio Una
lettura dell’attuale crisi finanziaria e i suoi riflessi sulla economia reale pubblicato
sulla rivista scientifica on-line Agriregionieuropa anno 5 n°18, Settembre
2009, “l’aumento del debito è stato reso possibile con il ricorso ai subprime,
ossia ai derivati da un primario contratto finanziario e la maggiore
responsabilità ricade sulle cinque più grandi banche di investimento […]”
https://agriregionieuropa.univpm.it/it/content/issue/31/agriregionieuropa-anno-5-ndeg18-set-2009
[3] “Ho criticato il
lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent'anni fa, quando era
ancora la moda del giorno. Ma proprio mentre elaboravo il primo volume
del Capitale i molesti, presuntuosi e mediocri epigoni che
dominano nella Germania cólta si compiacevano di trattare Hegel come ai tempi
di Lessing il bravo Moses Mendelssohn trattava Spinoza: come un “cane morto”.
Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore e ho perfino
civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, con il modo di
esprimersi che gli è peculiare. La mistificazione alla quale soggiace la
dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il
primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento
della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per
scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico”. K. Marx, Il
capitale, libro I, Editori Riuniti, Roma, 1964, pagg. 44-45
[4] G.W.F. Hegel, Fenomenologia
dello Spirito, Prefazione, pag. 13, La Nuova Italia editrice, Firenze, 1979.
[5] Hanna
Arendt, Von den Wüste und den Oasen. Fragment 4
(conclusione di una conferenza tenuta nella primavera del 1955 all'Università
di California, Berkeley).