Prefazione
all'uguaglianza alla fiducia che si
può cambiare
per quanto duro
è prendere coscienza d’essere al
mondo e non saper che fare Fare
di tutto il mondo un carnevale dove ci s'abbandona con languore dove
diverso è il senso dell'uguale
e in ogni gesto
il vecchio mondo muore
Da quella prima locomotiva E dal primo
sciopero operaio nel paese dove sono nato
la città del
mare e dell'acciaio (Roberto
Ballerini “La prima locomotiva”)
Qualche decennio fa,
quando ancora partivano i transatlantici da Ponte dei Mille, in tutte le
agenzie di viaggio si poteva vedere affisso un grande manifesto, nello stile
già datato di Dudovich: sopra una composizione di prore, flutti e tricolori,
campeggiava una grande scritta “Da Genova, destinazione Nuovo Mondo”.
Questo libro era stato
inizialmente concepito come un “instant- book”.
Forse, di questo proposito
originario i lettori più attenti sapranno rinvenire traccia in alcuni
contributi.
Tuttavia, per quanto si
possa essere convinti della necessità di uscire dalla morsa della
contemporaneità, della tempestività, risulterà a tutta prima difficile
ammettere la possibilità di un istante talmente esteso e, per così dire,
indefinito.
Nostro obiettivo, nel raccogliere
documenti, testimonianze e analisi, pareva, allora, quello di contribuire alla
verità di quanto a Genova era appena accaduto, smentendo così le falsificazioni degli spacciatori di memoria
prefabbricata. La battaglia fra la falsificazione e la verità,
che ha sempre
accompagnato la storia dei
tentativi di azione libera e di vera e propria liberazione umana, per la prima
volta era principiata in assoluta contemporaneità con gli eventi cui si
riferiva. L’azione esplicita sulla strada e l’opera di esplicitazione della sua
coscienza, dire la verità e agire direttamente, dovevano divenire un unico processo. La pressione dei meccanismi di
alienazione e di falsificazione – pervenuti a un grado di capillarità mai
conosciuto prima – imponeva un grado di radicalità ugualmente efficace. Come
era prevedibile, la capacità di distinguere il senso degli eventi mentre li si
andava costruendo, non sempre è stata pari a quanto sarebbe stato desiderabile.
Pur tuttavia l’autenticità ha saputo trovare i propri strumenti, inventandoli,
o riprendendoli dalla storia ormai lunga dell’emancipazione umana.
Per vari motivi, l’istante è passato.
Il primo, e non il meno
nobile, è senza dubbio la pigrizia dei partecipi del progetto, e prima di tutto
mia personale: una pigrizia composta uniformemente di un’inerzia del corpo come
pure di una difficoltà e quasi di una ripugnanza di farsi carico fino in fondo
della costruzione di un’opera, e di condurla a compimento. Ma anche di una
cauta attenzione di fronte alla difficile decifrazione di segnali complessi e
suggestivi, ma anche tali da appiattirsi muti e indecifrabili a fronte di
qualsiasi volontaristica semplificazione. Si può dire che, poiché i posti di
chi aveva capito tutto subito, erano già occupati, ci si è dovuti rassegnare a
prendere del tempo per una riflessione a partire da una prospettiva più ampia.
Un ben più duro colpo al
miraggio di poter suonare il tamburo dell’attualità, lo ha inferto
l’accelerazione forzata che l’11 settembre ha imposto alla percezione della
realtà, contribuendo a precipitarci tutti in una sequenza di storia
premasticata e confezionata dove più o meno tutti, inclusi gli infelici
kamikaze, appaiono spettatori. E gli unici che non sono stati spettatori ma
artefici del proprio destino, i passeggeri ribelli del quarto aereo (che poi
forse non è stato il quarto, o forse non sono nemmeno
mai esistiti), vengono
lasciati da tutti all’oblio della loro sorte disgraziata. Con le torri, una
polvere di passività – non meno mefitica della polvere d’amianto che in pochi
anni finirà per uccidere più newyorkesi del crollo vero e proprio – si è sparsa
per il mondo, restituendo fiato a tutti i mediatori e a tutti i prevaricatori:
la speranza levatasi da Genova, di una ripresa dell’agire storico, non poteva
essere ricacciata indietro e schiacciata con maggiore potenza. L’occasione di
riprendere il destino precisamente dove l’avevamo lasciato, la sera del 21
luglio, è andata perduta sotto le pire giganti di Manhattan. Anche se viene da
chiedersi: a quali vertici di distruzione dovranno pervenire, la prossima
volta, per costringere a un nuovo arresto il corso della libertà?
Così, la forza dei nostri
nemici e un concorso infausto di circostanze – ma lo sfruttamento compiuto
delle circostanze è sempre appannaggio di chi ha saputo imporre il terreno che
meglio gli conveniva - ci hanno ridotto una volta ancora a renderci custodi
della storia e della memoria. Anche se raramente una circostanza si é
presentata più propizia.
Perché un evento partecipi
della costruzione della storia, occorre che sia memorabile, e non permetta
ritorni al passato: che costituisca uno spartiacque oggettivo fra il passato e
il futuro.
In quale misura i tre
giorni di Genova hanno presentato queste caratteristiche? E se le hanno
presentate, qual è il segno che essi hanno apportato alla storia, tale da
arricchire e modificare la nostra percezione dei tempi?
Diciamo subito che, per
chi era lì, e forse anche per molti che hanno seguito i fatti da lontano,
queste giornate potranno assai difficilmente essere scordate o confuse con
altre simili, che pure tanti
avevano già vissuto e auspicabilmente vivranno in futuro. Una grande città
interamente attraversata dal fuoco del non ripetitivo, del non ciclico, del non
commerciale, del gratuito, dell’inventato, è cosa non riconducibile agevolmente agli
equilibri della
contemplazione sociale, e di sicuro gli organizzatori sono pentiti d’averla
posta a nostra disposizione, in questo stato di sospensione non già dello stato
di diritto, come si lagnano i cani da grembo della querimonia rispettosa, ma
della quotidianità coatta e ottusa. Serrati i negozi, sbarrate le strade,
pattugliato il territorio, interdetti gli spostamenti, genovesi di nascita e
d’elezione si sono ritrovati ad interrogarsi su tutto ciò che è percepito
regolarmente come indiscutibile, come naturale. Si sono interrogati e non
l’hanno trovato buono. Una buona metà degli abitanti si era allontanata,
proprio per l’orrore che ispirava loro il confronto con la nudità dei luoghi
della loro sopravvivenza, spogliati della loro ripetitività ipnotica e rassicurante;
gli altri, quelli che erano rimasti e i tanti chiamati e attratti lì da ogni
continente, hanno, in mille modi differenti, manifestato quel misto di
fascinazione e disgusto che ispirano i cadaveri abbandonati. Il cadavere, in
questo caso, della sopravvivenza sociale, esibita nella sua infinita miseria e
vanità. A Genova erano convenuti individui mossi da intenti diversi, non sempre
dichiarati e nemmeno sempre pienamente consapevoli: chi per protestare sotto le
finestre dei potenti, chi per chiedere loro ascolto, chi per chiedere ascolto
al mondo, chi per pregare, chi per
prendersi qualche rivincita, chi per reclutare
e ingrossare le fila del suo partito/organizzazione, chi per fare
"comunicazione", chi per distruggere ciò che gli premeva fosse
distrutto, chi per vedere se si riusciva a far volgere gli eventi e le
situazioni in qualcosa di piacevole e affascinante, chi per “ esserci” in quel
che prometteva di convertirsi nell’evento mediatico dell’anno, chi per veder
passare magari Agnoletto, Casarini, Susan George o Manu Chao, o – magari – le
vere star fatte baluginare
(verranno? Non verranno? Si limiteranno a una presenza? O suoneranno qualcuno
dei loro pezzi fiammeggianti eppure
oscuri?) dai media, neri come la notte, erotici come un sogno, oscuri come un
verso, i grandi, i mitici, gli impareggiabili Black Block. Incerti fra la
possibilità di dare sostanza alle passioni di così tanti, e quella di poter
contemplare sé stessi sul
palcoscenico più
illuminato del momento, a centinaia di migliaia la chimera di Genova ci
chiamava.
Così, a decine e –
l’ultimo giorno – a centinaia di migliaia ci si è ritrovati alla deriva, avendo
come unici riferimenti i battaglioni catafratti della non-vita nelle mille
divise che il delirio burocratico nazionale mette a disposizione per la
repressione, il variopinto bazar delle ideologie antiglobali, col suo mix di
“qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa di rosso” che si direbbe
tratto da un giornale di consigli per la moderna massaia: e le pietre, i vetri,
i metalli della città inerte. Con tali materiali, davvero poveri, ciascuno ha
ricostruito l’ambiente di questi tre giorni. E la diversità e la contraddittorietà
dei ricordi la dice lunga sia sulla natura essenzialmente soggettiva di questa
esperienza, sia sull’insufficienza di una costruzione collettiva, sia sul
parallelo fallimento di una ricomposizione autoritaria della memoria consentita.
In questo senso, e anche
questo libro partecipa del medesimo disegno, la memoria e la coscienza hanno
assunto forma non lineare ma reticolare, si sono dimostrate incomprimibili alla
semplificazione ideologica, malgrado l’immensità degli sforzi operati dai
mentitori per conseguire il loro intento. Questa novità, che speriamo la storia
a venire venga a confermare e a radicalizzare, deve moltissimo al complesso di
sistemi informativi e di discussione in tempo reale, che internet e le radio
hanno messo a disposizione. Questa presa diretta ha consentito che, da una
parte, i fatti, a distanza di poche settimane, fossero già pacificamente di
pubblico dominio, in forma tutto sommato veritiera: questo ha costretto i
falsificatori in agguato a ridurre il proprio raggio d’azione al solo terreno
delle interpretazioni. Non è poco. E non è poco neppure che questo movimento,
mentre ancora si sfilava, o ci si batteva, o si cercava la salvezza, abbia da
subito principiato a pensarsi e a dirsi, estraendo teoria da ogni pratica, e
viceversa. Molti interventi che citiamo e cui facciamo riferimento, aldilà del
loro
specifico contenuto, che
magari risente ancora di analisi e di argomenti appesantiti da decenni o magari
secoli di teoria sovversiva, sono importanti soprattutto per il fatto di essere
stati diffusi contemporaneamente agli eventi cui si riferivano.
Se procediamo verso un
movimento senza capi, lo dobbiamo anche alla crescente possibilità, per
ciascuno, di confrontare pubblicamente il senso di ciò che fa, mentre lo sta
facendo, di affrontare in prima persona «una nuova narrazione del mondo»…
A Genova la teoria e la
prassi si sono incontrate e rispecchiate: per scoprirsi, indubbiamente,
insufficienti entrambe.
Eppure, chi era lì, e ha
potuto vedere Genova bella come mai l’aveva veduta, come chi, da lontano, ha
saputo trarsi d’impaccio nel labirinto dei media, ha percepito, con emozione ed
angoscia, il riaffacciarsi del tempo storico.
Genova è stata, in questo
senso, la prima grande sommossa “situazionista”. Il suo limite, il limite che
ne ha permesso la parziale sterilizzazione, si situa precisamente nel fatto che
questa situazione è stata tuttavia ricevuta, colta al volo (e, per molti
aspetti, “acquistata”) già confezionata, e non costruita autonomamente e
coscientemente. E, come rileva Sergio Ghirardi, “ In situazioni casuali si
incontrano degli individui separati che si muovono a caso. Le loro emozioni
divergenti si neutralizzano, mantenendo il loro solido ambiente di noia”.
In quel momento della
scrittura in cui un tempo si cercava l'esplicazione, io voglio ormai che ci si
trovi il regolamento dei conti: se questo libro avrà un senso, esso lo potrà
trovare unicamente al di fuori del campo della lettura e della scrittura. Il
suo successo non si misurerà sui borderò delle case editrici sulle pagine di
critica dei giornali e tanto meno nei talk show del pensiero predigerito. Ma
per le strade, quelle di Genova, da cui ha preso le mosse, e quelle simili di
ogni altra città del mondo,
Così, queste parole che
Vaneigem scriveva alla vigilia del primo
grande tentativo collettivo di fuoruscita dalla vita quotidiana, e
che allora parevano
riferirsi solo a individui impazienti e isolati, oggi risultano ben
diversamente attuali.
“Sono i miei gesti
incompiuti quelli che vengono a ossessionarmi, e non l'avvenire della razza
umana, né lo stato del mondo nell'anno 2000, né il futuro condizionale, né gli orsetti lavatori dell'astratto. Se
scrivo non è, come si dice, "per gli altri", né per esorcizzare me
stesso contro i loro fantasmi! Io annodo i capi delle parole uno dopo l'altro
per poter uscire dal pozzo dell'isolamento, dal quale bisognerà bene che gli
altri mi tirino fuori. Io scrivo per impazienza e con impazienza. Per vivere
senza tempo morto. Degli altri non voglio sapere nulla che a tutta prima non
concerna me stesso. Bisogna che essi si salvino da me come io mi salvo da loro.
Il nostro progetto è comune. È escluso che il progetto dell'uomo totale possa
mai basarsi su una riduzione apportata all'individuo. Non esiste castrazione
più o meno valida. La violenza apolitica delle giovani generazioni, il loro
disprezzo per i reparti a prezzo unico della cultura, dell'arte, dell'ideologia
ne sono la conferma nei fatti: la realizzazione individuale sarà l'opera del
"ciascuno per sé" collettivamente inteso. E in maniera radicale.“ "
2. ZONA ROSSA (Lontano da dove?)
Tutti, in un modo o nell’altro, siamo stati testimoni di questa strana doppiezza per
cui la possibilità di scegliere
tra una vasta gamma di prodotti va di pari passo
con nuove orwelliane restrizioni dello spazio pubblico
(…) esercitando una sorta di attrazione gravitazionale
che James Howard Kunstler descrive
come la “geografia del non-luogo”.
(Naomi Klein)
Il fatto nuovo della
politica che viene è che essa non sarà più lotta per la conquista o il
controllo dello stato, ma lotta fra lo stato e il non-stato
(l'umanità)....Poiché lo stato, come ha mostrato Badiou, non si fonda sul
legame sociale, di cui sarebbe espressione, ma sul suo scioglimento, che vieta.
(Giorgio Agamben)
Dappertutto l'urbanistica ti opprime, dietro le sbarre della prigione,
dentro le caserme, dentro le scuole. Dovunque le telecamere ti osservano,
dovunque ti offrono illusioni, sugli schermi della tv, dentro i night club e
nei centri commerciali. Dovunque i soldi sono adorati, dentro le banche e nella
borsa valori, dentro i palazzi di governo e le ambasciate, dovunque i
poliziotti respirano e i giornalisti strisciano...
Volantino
“La zona rossa è ovunque” firmato
con A cerchiata
Salonicco, giugno 2003
La combinazione di
promesse, minacce, avvertimenti mafiosi e proclami con cui le giornate del G8
erano state annunciate, aveva suggerito a più d’uno che, grazie all'insipiente
sospensione della normalità operata dai governi in preda a
delirio di onnipotenza,
davvero a Genova si sarebbe potuto produrre l'avvento di quel mondo alla
rovescia, in cui consiste il segreto del carnevale.
Sospesi la produzione
(ditte, uffici serrati) e il consumo (botteghe sbarrate), il turismo (né
stazioni, né porto – tre milioni di dollari il danno economico della serrata,
se si presta fede alle stime degli esperti - né aeroporti, posti di blocco per
tutti i cantoni) e lo svago (chiusi cinema, rinviate mostre e concerti, chiuse
scuole e chiese e campi sportivi e bocciofile), nel nulla imposto che smaschera
il nulla reale celato sotto l'andirivieni incessante della quotidianità coatta,
ecco che hanno modo di riemergere i viventi.
A condizione, beninteso,
che alla sospensione dall'erogazione di merci e di ideologie da parte dei
potenti, non provvedano a supplire l'autoproduzione e l'autovalorizzazione di
ideologie (e anche di merci, con i banchetti equi e solidali, i wurstel e
crauti del proletariato, le salamine della classe operaia, i kebab del terzo
mondo in marcia) da parte degli impotenti, antagonisti immaginari e veri
concorrenti alla spartizione del cadavere del mondo. Lo smascheramento della
connivenza strategica fra gli uni e gli altri, era perciò la condizione,
quindi, perché accadesse ciò che io
stesso, alla vigilia, avevo previsto con queste parole “Ma se, come é
verosimile, la sostanza di migliaia
di persone vere sarà ingestibile per gli ammaestratori di fantasmi, può uscirne
qualcosa di non banale, il principio della festa della storia che attendiamo in
tanti, da così tanto.”
In tal senso appare
davvero opportuno che, malgrado i ripetuti inviti e qualch3e cauto tentativo,
quelli che avrebbero operato come Black Bloc a Genova si siano ben guardati, a
differenza di quel che si era fatto a Seattle, praga, Nizza, e si sarebbe
ugualmente fatto in futuro, dal definire tattiche coordinate con il Genoa
Social Forum
Ma perché questa
inversione di rotta possa principiare a cogliere i primi frutti, è necessario,
innanzi tutto, riflettere come
questa nuova tappa verso
lo spossessamento totale e visibile (totale lo era da tempo), rappresentata
dalle zone rosse, sia il proseguimento diretto di una lunga serie di incursioni
a danno della libertà individuale e collettiva: da quelle vergognose operazioni
di chiusura del traffico con argomenti estetici, ecologici, urbanistici,
commerciali, alle crescenti operazioni di controllo del movimento pedonale ed
automobilistico con giustificazioni sicuritarie, fino alle deportazioni,
recentissime e sepre più numerose, di quartieri urbani o di intere città in
Italia, Francia, Germania, Stati Uniti, per sperimentare tecniche di protezione
civile, disinnescare bombe d’aereo, provare l’efficacia dei sistemi di
evacuazione in caso di catastrofe. Ma chi, ammonito da Benjamin, sia
consapevole di come la catastrofe sia già avvenuta, riconosce che questa
intromissione crescente nel ritmo delle vite individuali e insita nel concetto
stesso di progresso, nella nozione mostruosa di «governare le emergenze», si è
da tempo convertita nel produrre un vero e proprio calendario delle emergenze
per meglio governare.
le giornate oltre che di
proibizioni, si riempiono di obblighi, di adempimenti, di fioretti alla
divinità sociale di cui lo stato é l'officiante, il carabiniere il sagrestano
burbero, ma a fin di bene. Già oggi, chi fissa le date per manifestazioni ed assemblee,
incomincia ad avvertire “salvo blocco del traffico”: l’ambito di ciò che
richiede un’autorizzazione preventiva per essere fatto si estende giorno dopo
giorno. Lo stato assalta alla baionetta l’ambito privato, nel nome della cui
salvaguardia lo spazio pubblico era stato da tempo polverizzato, mostrandone la
povera autonomia residuale. Ognuno vive salvo contrordini dell’autorità, in uno
stato d’assedio permanente, nel quale si permettono delle soste unicamente per
raccogliere i propri morti, come negli ultimi giorni di Cartagine .
L’architetto Haussmann
aveva sventrato Parigi per difendere da rivoluzioni future un governo espresso
precisamente dalle forze vittoriose della rivoluzione precedente. E i
cosiddetti antagonisti che oggi strepitano, ieri erano e domani saranno o
potrebbero
essere favorevoli ad
analoghe misure, per ragioni di sicurezza, per la pubblica salute, per
imprecisati interessi generali, filantropici, sociali, che non solo non é dato
discutere, ma neppure conoscere. O magari – come accadrà proprio a Genova, dove
ci sarà fra gli organizzatori chi si lagnerà della polizia che avrebbe mancato
ai propri compiti - per difendere sé stessi dai sovversivi.
Gli amici dei divieti
perciò, sono essenzialmente solidali fra loro, anche quando propugnano divieti
contrapposti. In definitiva, lo stato racchiude e riassume in sé tutti i
divieti possibili, tanto attuali quanto potenziali, giacché fin dal primo
istante vieta la libera espressione delle volontà individuali
Non è possibile
intravedere un futuro per questo movimento che nasce, senza il ripudio
definitivo della sottomissione delle libertà individuali agli interessi
collettivi, astrazione maligna di cui finisce fatalmente per incaricarsi un
ceto di specialisti del potere. Rileva opportunamente Claudio Fausti in “Il
Vaso di Pandora”: “la mia (…) rabbia (…) si nutre da tempo della convinzione
che i "privilegi di classe" non siano superabili puntando ad un
aumento organico delle "coesioni sociali", in una crescita
dell'organicità sociale come tale, in un plus di società se volete, pur
regolata ed integrata, ma in un "meno", in un sottrarre….”
E Hakim Bey avverte:”
…solo il desiderio offre un principio d'ordine e perciò l'unica possibile
società (come Fourier aveva capito) è quella degli amanti."
Ma, se queste kermesse
della prepotenza (WTO, Nato, G8, Tebio, FAO, Banca Mondiale…) che negli ultimi
si erano moltiplicate in forma esponenziale, avevano, fra gli altri fini,
quello di misurare a quali picchi massimi di manipolazione e di sottomissione –
in una parola, di socializzazione - gli esseri umani potessero essere
impunemente esposti, la risposta è venuta e non è, dal loro punto di vista,
incoraggiante.
La violenza dispiegata a
Genova da decine di migliaia di non sottomessi, la reazione fulminante al
delirio concentrazionario dei governi, ha rammentato che la passività sociale
si mantiene reversibile, grazie a quella che Marx chiamava "la parte
cattiva che produce il movimento della storia, istituendo la lotta".
3.
VANDALISMO (Eccoli)
Sedere in un drugstore, con lo sguardo perduto
nel nulla, annoiati, bevendo un caffè senza
sapore? Oppure, forse, farlo
saltare o bruciarlo?»
(The Angry Brigade)
«Chi incendia, sta
dando fuoco alle sue passioni»
(Nosferatu, lista libertari)
“Ormai la vita del prodotto fabbricato è di colpo volontariamente
accorciata. Esso non è più durevole ma effimero,
il suo consumo non è più differito ma immediato.
Ciò che è solido e stabile ha cessato di essere
desiderato e gli americani hanno creato anche un’espressione
che designa questi prodotti garantiti senza
durata. In relazione a questa situazione, ci sembra
che il vandalismo sia semplicemente un
consumo come un altro” (Asger
Jorn Selvatichezza, barbarie e civiltà)
Il Black ha catalizzato" le angosce
emergenti nell'evento”…."efficace"
o meno che fosse, la loro azione
rappresentava una minaccia psicologica: bruciavano
tutto quello che una persona normalmente compra
per rendersi gradevole la vita..
(Black Jihad – lista movimento 10 giugno 2002)
Scrivere "Il problema reale è che siano individuati i mandanti e gli
esecutori di azioni teppistiche" è roba Unità dei tempi del compromesso
storico. Quando si cercava di ridurre le occupazioni delle case, delle
università, gli espropri a un problema di mandanti di un più generale
complotto, oggettivamente colluso con la Dc più retriva (che poi era l'alleata del Pci). Caro Paloscia se uno sfascia
una vetrina ha
un mandante facilmente individuabile: se stesso. Se leggi queste righe ti
assicuro personalmente che entrare in un negozio e portar via quel che puoi,
rimpiangendo di non avere tre mani, e partecipare a quel rito del declino della
merce che è il saccheggio è un sentirsi liberi, emancipati e felici come poche
altre cose nella vita. Ed è una scuola di vita: chi ha imparato a prendersi la
libertà difficilmente se ne dimenticherà o cercherà di negarla agli altri.
Nella speranza che tu sia abbastanza giovane da poterti mettere un bel
cappuccio nero in testa e da non rimpiangere anni perduti ti saluto.
da Indymedia, 5 10 03 PECCHIOLI SI NASCE – Enemy at the Gates
"Come lo splendido e grandioso incivilimento romano fu distrutto
dalle orde tremende dei Vandali, degli Eruli e degli Unni, credo che
l'incivilimento nostro, di cui non senza ragione meniamo gran vanto, potrebbe
essere distrutto da orde di barbari interni, formate da proletari appassionati
e sedotti dalle fallaci ma seducenti teoriche del comunismo. Già il pericolo di
un simile sconvolgimento ha minacciato ben da vicino la società europea".
(Gustavo
di Cavour, allocuzione al Parlamento Subalpino, 1854)
La mattina del 20 il
nichilismo allegro dei vandali diede la nota d’avvio al ripresentarsi atteso e
temuto della storia vissuta e non subita.
Lungi dal radere al suolo
ogni cosa, come avrebbero fatto di lì a poco gli armigeri statali, si videro i
«distruttori» convenuti a Genova dai cinque
continenti, condursi con l’accuratezza e la
«professionalità» del
bonificatore, del derattizzatore, del disinfestatore, smontando qui una grata,
demolendo là la sede di una società finanziaria, bruciando agenzie
d’assicurazioni e banche un po’ dappertutto banche e, appena più oltre, ponendo
a disposizione di tutti
bevande e cibi rinchiusi nei supermercati, snidando ad uno ad uno i simboli
dell’abbondanza di merci e dell’assenza di vita vera. I loro metodi, visti in
azione a Genova, hanno richiamato una critica dell’urbanistica, che meriterebbe
di essere inscritta in un’antiarchitettura, fondata su una correzione
passionale dell’esistente di sapore fourieriano. «Una vetrata di un megastore
diventa una fessura attraverso la quale passa una ventata di aria fresca…la
facciata di un palazzo diventa una bacheca per registrare idee illuminanti per
un futuro migliore» avevano scritto dopo Seattle dimostrando che la loro azione
spontanea non era bensì casuale. Chi brucia, infatti, non é mai isolato da
qualunque contesto – come spesso si afferma da parte dei mille detrattori
interessati – ma partecipa ad una catena di incendi che dura ininterrotta da
secoli e che illumina ogni regione del mondo e ogni epoca della storia.
A quei primi “Fiori
velenosi venuti solo per sfasciare”, col procedere delle ore e delle violenze,
si aggiunsero a migliaia, impegnati in una disperata autodifesa o, più
semplicemente, trascinati da quello che è stato definito «il carnevale
permanente dei proletari». gente incazzata, sospesa fra lo schifo che ispira
l'arredo di una città comntemporanea, in quanto ritratto somigliante della vita
che vi si conduce, e l'urgenza di smontare questa costruzione odiosa e inutile
che é la società per rimodellare con i suoi cocci una civiltà nuova.
Incapace di vedere altro
che una teppaglia neoluddista la dirigente di ATTAC, Susan George, si affrettò
a dichiarare: "A causa di qualche cretino ingestibile, ci prendono per
anticapitalisti primari e antieuropeisti violenti. Queste violenze anarchiche
sono più antidemocratiche delle istituzioni che pretendono di combattere”. Nel
gennaio 2002, la stessa avrebbe illuminato meglio la propria concezione di
democrazia, ringraziando pubblicamente Bush per i bombardamenti con cui si
liberava l’Afghanistan dai Talebani.
Sempre, fin dai tempi di
Spartaco, una rivoluzione appare
barbara, antisociale,
violenta e antidemocratica; e tale in effetti è, non solo ad opera delle sue
frange, ma nella sua sostanza, giacché spezzando l'involucro sociale, abbatte
il principio del potere della maggioranza sugli individui, riaffermando il
potere di ciascuno su sé stesso e sul proprio mondo. È difficilissimo
ipotizzare un affrancamento dall'impotenza sociale che non preveda questo
viaggio, sia individuale sia collettivo, al fondo della notte...
Infatti, come recitano gli
antichi a proposito della proprietà, che è la radice del potere della società
fondata sulla separazione e l’alienazione, il potere è potere di usare e di
abusare. In poche parole, è libertà di scegliere quale uso fare di ciò che
esiste: per questo la libertà tende regolarmente ad esprimersi preliminarmente
in forma distruttiva, proprio per segnare l’affrancamento di chi opera dalle
norme vigenti su quanto sia uso e quanto abuso, per segnalare che è entrato in
vigore un nuovo criterio, che un nuovo soggetto si è presentato per decidere.
Quando si distrugge, è
esplicita l'idea che quegli oggetti sono in nostro potere, quindi sono NOSTRI.
Affermando il massimo del diritto di proprietà, il diritto di abusare di ciò
che è nostro, di gettarlo via, si distrugge la proprietà. E quindi distruggere, come no? ma sapendo che un oggetto che
prima aveva un uso, poi non ce l'avrà più. Può essere spesso un bene,
beninteso. Bruciare un McDonald migliora di sicuro la qualità media del vitto
in una certa area: ancor meglio bruciare una piantagione transgenica, un
istituto di ricerca, una chiesa. Le automobili viceversa rispondono
efficacemente all’esigenza cui
pretendono di dare una risposta, ed è semmai questa esigenza che
richiede d’essere indagata: penso che convenga distruggerle solo laddove
servono meglio da distrutte, per esempio in una barricata. In genere poi quella
di colpire le macchine belle per salvare i catorci, credo corrisponda a un'idea
davvero cretina di lotta dei poveri contro i ricchi, quando i ricchi, le
persone cioé che godrebbero di questo mondo, sono
estinti da tempo. Quelli
che oggi si chiamano ricchi dispongono più che altro di un superiore accumulo
di merci povere, di zavorre, di prove della loro confidenza gaglioffa con la
merce
Questa proposizione consiste nel costruire concretamente delle atmosfere
momentanee della vita, spingendo quest’ultima
verso una qualità passionale superiore. In questa costruzione si
manifesta la volontà di mettere a punto un intervento ordinato sui fattori
complessi di due grandi componenti in costante interazione: lo scenario
materiale della vita ed i comportamenti che esso produce e che lo sconvolgono.
La
concezione situazionista di una « situazione costruita » non si riduce ad un
impiego unitario dei mezzi artistici concorrenti a creare un ambiente, per
quanto grandi possano essere l’estensione spazio-temporale e la forza di questo
ambiente. La situazione è contemporaneamente un’unità di comportamento nel
tempo.
La
situazione costruita è dunque un momento della vita, concretamente e
deliberatamente costruito attraverso l’organizzazione collettiva di un ambiente
unitario e di un gioco di avvenimenti.
Essa è fatta di gesti contenuti nello scenario di un momento. Questi
gesti sono il prodotto tanto dello scenario che di loro stessi. Producono altre
forme di scenario ed altri gesti.
Ciascuno
di coloro che partecipano a quest’avventura deve ricercare quello che ama, ciò
che l’attira, ma il compimento reale dell’individuo passa necessariamente per
il dominio collettivo del mondo; prima del quale non esistono ancora individui
ma solo ombre che assillano le cose date loro anarchicamente da altri.
È
nelle questioni della vita quotidiana che si percepisce in maniera più netta
fino a che punto ogni uomo individualmente è il prodotto della situazione e non
il suo creatore. La costruzione di situazioni vuole rovinare queste condizioni,
facendo apparire in qualche punto il segnale incendiario di un gioco superiore.
L’arte può allora smettere di essere un rapporto sulle sensazioni per
diventare un’organizzazione diretta di sensazioni
affinate nella loro qualità. La direzione effettivamente sperimentale
dell’attività situazionista favorisce lo stabilirsi, a partire da desideri più
o meno nettamente riconosciuti, di un campo di attività temporaneo favorevole a
questi stessi desideri. Ciò soltanto può portare chiarimento ai desideri
primitivi e favorire la comparsa di nuovi desideri, la cui radice materiale
sarà precisamente la nuova realtà costituita dalle costruzioni situazioniste.
Sergio Ghirardi.- Appunti per un libro sull’IS
La libertà contiene la
libertà di devastare, incendiare, saccheggiare: semmai, chiediamoci perché lo
si fa così di rado, così superficialmente, e soprattutto si fa solo quello,
quando le libertà sarebbero e sono infinite come le passioni. Fra la passione di
creare e la passione di distruggere esiste solo un'oscillazione, che distrugge
il potere
Ciò che fai libera (per
momenti brevi, da principio) spazi e
tempi, di questi tempi e questi spazi molti possono profittare per agire, e
avanti così. Per pervenire a questa possibilità di azione libera che scatena le
passioni del mondo, occorre farsi capaci di
costruire situazioni (e non solo affastellarne pezzi sparsi com'é stato a
Genova), attrezzandosi e - prima di tutto e sopra tutto - parlando e
ascoltando. Se anche solo questo, di avere spinto milioni di persone a cercare
insieme domande e risposte, fosse l'esito di Genova (perché tutta l'Italia si
interroga, e forse tantissimi pure altrove) e delle sue vetrine rotte - perché
converrai che le stesse persone che sfilavano in piazza non avrebbero fatto
parlare nessuno e neppure sé stesse - a me parrebbe un esito buono. Migliore
sarà se sapremo dirci cose memorabili e saremo capaci di rammentarle e riprenderle.
Trovo che il vandalismo
sia sopravvalutato da molti compagni, a fronte di altre azioni possibili
ugualmente soddisfacenti, tipo il
sabotaggio di macchine e
installazioni, la scritta murale, i boicottaggi di lezioni, conferenze,
convegni, consigli l'amministrazione, l'incendio doloso, etc
Perché alla prossima
Genova, che dovremo inventare (perché dubito ce ne serviranno una pronta, dopo
la recente esperienza) si possa agire con la leggerezza e la sveltezza dei
Blacks, ma con la capacità di andare ben oltre qualche devastazione ripetitiva
e consolatoria.
non penso che I Black
Block abbiano svegliato qualcuno - questa é la loro illusione, non la mia. Ho
detto che Genova viene ricordata a causa loro. Francamente io credo che tu
ti sia svegliata perché eri stanca di dormire
e facendo dei brutti sogni per di più, come tanti e tanti altri. Che poi Genova
a questi tanti abbia regalato una colonna sonora, é un'altra cosa. Ma il film
ciascuno se lo deve costruire da sè, con la fatica anche che ciò comporta
Esposto alla mazza e alla
benzina del distruttore, ciò che c’è non può pretendere più a lungo di essere
«ciò che è stato, è e sempre sarà», riprecipita nel gorgo darwiniano della
storia dove sopravvive il più adatto e ciò che esiste ora si batte ad armi pari
con ciò che vuole nascere ed affermarsi, o con ciò che è stato e pervicacemente
resiste e ritorna.
Chi leva il capo per
ammirare le città che ha contribuito ad incendiare, forse domani sarà costretto
nuovamente a chinarlo ma mai più lo chinerà così facilmente, così
«naturalmente» come prima. In questo senso l’atto violento che spariglia
oggetti e significati provvede a sciogliere dall’incantesimo sociale, esercita
la funzione dello schioccar delle dita con cui il mesmerista pone termine
all’ipnosi. Risveglia dal cattivo sogno dello spettacolo, in cui le merci
ripetono senza posa la loro macabra danza. Ogni gesto iscritto in questo
registro, per quanto significativo, rimane tuttavia niente più che uno schiocco
delle dita, povero e strumentale. Interrompe, è vero, il flusso metabolico del
lavoro e del consumo ma in una forma che si mantiene «al grado zero» della
critica della vita quotidiana.
Infatti, non già la
violenza è ludica e bella, ma l'autoliberazione che può accompagnarla; senza di
essa la violenza diviene coazione a ripetere, assorbita nella ciclicità
fantasmagorica del tempo sociale, si aliena dalla storia: e non riesce a
trascendere la figura dell'ultras, che, grazie all’esplosione domenicale,
finisce semplicemente per accumulare migliori forze per sostenere la propria condizione
alienata, in cui sta per rientrare nel seguente, inevitabile, lunedì.
Va detto che contrapporre
creazione e distruzione (fra cui sussiste una sola oscillazione, come ci
ammonisce la teoria) ha senso solo per chi abbia deciso di castrarsi in una
prospettiva utilitarista, che si limita a valutare le azioni in base al
vantaggio che procurerebbero, vantaggio definito in base a degli aprioristici
criteri universali. In effetti, chi incendia una città, distrugge quel luogo
che essa era e crea al medesimo tempo un nuovo habitat di rovine e di materiali
liberi, adatti a nuovi usi e a diversi sogni. Chi lancia gli aerei contro le
torri distrugge un gigantesco luogo di lavoro e costruisce Ground Zero, un
nuovo gigantesco luogo di lavoro. Sia il processo mercantile sia il vandalo
infaticabilmente distruggono e ricostruiscono o, meglio, giacché nulla davvero
si crea e nulla si distrugge, trasformano. Oggi, risulta chiaro che nessuno
sarà mai capace di essere vandalo in un’intera esistenza votata a tal fine,
quanto lo sia il capitalismo in una normale giornata di produzione. Il
confronto rimane bloccato al rinnovato trionfo della produzione di massa di
distruzione, a fronte di una distruzione artigianale, operata a mano. Quindi,
occorre avere la coscienza che distruzioni anche su vasta scala non possono
essere un obiettivo interessante per chi operi nel senso del superamento delle
condizioni di sopravvivenza in atto. Né dal punto di vista pratico né dal punto
di vista simbolico, perché su ambedue i piani l’organizzazione sociale è già
compattamente padrona del campo. Né la distruzione dell’una o dell’altra delle
vestigia di queste società, ispira facilmente solidarietà: chi più chi meno
tutti percepiscono semmai l’esistente come attraversato da un eccesso di
distruzione e di perdita
di ogni capacità di durare. È proprio perché il mondo si presenta così fragile
e caduco, che gli individui si volgono a un’intimità assurdamente votata alla
durevolezza, incentivando deliri religiosi e relazioni blindate. Così, il
crollo di edifici orribili e odiosi tuttavia trasmette piuttosto la rassegnazione abbrutita e schiamazzante degli
ultimi giorni di Pompei, che il
piacere di vedere il mondo restituito a una forma umana. Il lavoro ed il
consumo ci hanno resi troppo simili alle cose perché la loro morte non ci
faccia stringere il cuore, rinviandoci alla visione del misero destino cui
siamo stati condannati.
Perché chi distrugge
affermi efficacemente la propria signoria sulle cose che lo circondano, non può
non chiamare sé stesso e ognuno alla responsabilità di edificare. Ma questo
appare verosimile solo in un'ottica pubblica, di una "comunità adulta",
che metta a disposizione della pratica della libertà spazi e tempi maturi e
complessi. Infatti, se ci si soffermasse a riflettere che, nelle luci delle
botteghe, le vetrine ci separano dalla merce, converrebbe, piuttosto che
abbatterle, murarle.
E, simbolo per simbolo,
appaiono ben più eloquenti, e perciò censurate a più non posso dai media,le
pratiche di sabotaggio consistenti nel bloccare le serrature dei negozi,
impedendo per qualche tempo agli individui il mefitico contatto con il veleno
delle merci.
A questo proposito
converrebbe interrogarsi, ad esempio, sul significato della devastazione dei
MacDonald’s. Questi sono, senza dubbio, i terminali di una megamacchina per
l’avvelenamento di massa dei corpi e degli spiriti. Tali azioni possono
tuttavia condurre – e conducono, ad esempio, nelle interpretazioni di un José
Bové – a sostituire l’intossicazione a stelle e strisce della multinazionale
con quella eurostellata, pretesa biocompatibile.
Distinguere fra grandi commercianti – assimilati a «pescecani»
– e piccoli commercianti –
arruolati spensieratamente fra le vittime,
comporta uno slittamento
esiziale della critica dalla
merce alla critica dei
cosiddetti «eccessi» del sistema mercantile, raccoglie facili e inutilizzabili
simpatie nell’universo dei cretini dello «slow food», autoproclamatisi
testimoni e conservatori di un piacere di vivere che essi situano nel crescione
e nel tartufo, e di una critica presunta radicale che avrebbe per oggetto la
panna, la rucola o il gamberetto, miseri status symbol della massa televisiva.
"Il capitalismo non sono solo le grandi multinazionali, ma una relazione
sociale che si manifesta tanto quanto nei grandi magazzini e simboli (Mc
Donald's) come nei piccoli negozi. La distruzione del capitalismo non significa
che il mondo sarà trasformato in botteghe locali di venditori cibo biologico,
rispettosi dell'ambiente, ma che l'economia e il denaro dovranno sparire nella
loro totalità. (Comunicato « Proletari contro le macchine ») "
In effetti, a Genova
meriterebbe indagare se siano state più numerose le auto distrutte dai
manifestanti o quelle fatte brillare dalla polizia che sospettava celassero
delle bombe: ma la giustificazione della sicurezza pubblica pare tacitare
tutti, a destra come a sinistra, escluso forse il proprietario. E allora chi si
impegna a distruggere l’intero mortifero sistema delle macchine, non potrebbe
verosimilmente, molto più verosimilmente di governi corrotti e inquinatori,
affermare di agire nell’interesse della salvezza dell’umanità e del mondo? Alla
fine ciò che veramente dà fastidio del vandalo, non è la distruzione, sia essa
di una Mercedes oppure di una Panda, ma il suo agire in perfetta autonomia, con
l’unico mandato che gli proviene da sé stesso. Di non agire né con la giustificazione
dell’interesse sociale, né con quella del diritto proprietario.
Se noi ci rendiamo conto
della sostanziale identità di costruzione e distruzione, l’una e l’altra
semplici punti di vista relativi a una trasformazione, comprendiamo facilmente
che ciò che rifiutiamo come “distruttivo” non è più distruttivo di qualsiasi
altro atto, ma è semplicemente una trasformazione percepita come abusiva perché
non operata dal proprietario legittimo in
base ai codici, e non
condotta secondo le leggi e le usanze. La Uno dell’operaio su cui piangono
tanti miserabili fessi, è distrutta dai Black Block, e questa appare
un’insopportabile violenza. Diversa è l’idea che si avrebbe se la stessa
vettura fosse portata a demolire grazie agli incentivi governativi alla
rottamazione. In ambedue i casi un’auto funzionante viene distrutta, ma in un
caso si tratta dell’arbitrio di quattro forsennati, nell’altro di un valido
supporto all’industria automobilistica nazionale. Coloro i quali piangono sulle
distruzioni dei vandali, non sopportano la mancanza di rispetto per le
proprietà e per le norme
Del pari, la medesima
lagna pauperistica che piange sull’ortolano saccheggiato conduce molti
offuscati a plaudire all’incendio delle macchine, delle ville, dei palazzi, dei
patetici avanzi di un tempo in cui il plusvalore estorto si materializzava in
una realtà tuttavia ancora appetibile, per levarsi in difesa del pattume oggi
riservato ai proletari, gli edifici in serie, le villette bifamiliari
vista-inceneritore, le utilitarie che inquinano il panorama più ancora che
l’atmosfera, tutto l’arredo infelice di un’esistenza da schiavi: non ci si
rende conto, fra l’altro, che nulla suscita legittimo sospetto e inevitabile
irrisione fra le fasce meno ricche di merci miserabili, di questa decerebrata
ammirazione per la povertà e per i suoi disprezzabili riti. Da sempre e
maggiormente dopo la distruzione di ogni socialità autonoma dal processo
mercantile, i proletari aspirano all’abbondanza e ne godono sfrenatamente. Una
cosa è sottolineare come l’abbondanza di merci rimanga insoddisfacente rispetto
alla ricchezza di una vita libera; altra cosa è predicare le meraviglie
dell’austerità, il fascino delle Uno e delle Panda, la virile povertà della
tuta e della divisa.
Così come è rovinoso
degradare la critica pratica dell’esistente a critica simbolica dei suoi
eccessi, meno ancora si può concepire la distruzione come vendetta del povero
nei confronti del meno povero, come risentita proclamazione di una
democrazia della povertà
del laido e del miserando, dove la Uno prende la propria rivincita sulla
Mercedes, ma rimpiangendo nel fondo del cuore quella Trabant che ci avrebbe infine resi tutti felicemente
uguali e socialisti.
Una macchina é una
macchina: non puoi illuderti di risalire da essa alla vita di chi la possiede.
Distruggere é anche un modo per separare la sorte degli umani da quella delle
loro proprietà, che invece i codici e lo stato mirano a tenere riuniti, se non
addirittura a identificare gli uni con le altre
si crea una penuria
indotta e all'originale, si sostituisce la copia degradata, riprodotta in
serie, premasticata. Questo é il motivo per cui la fruizione deve sempre di più
rarefarsi in contemplazione: perché un unico prodotto, con un unico costo di
produzione, possa soddisfare gli appetiti mercantili di un numero massimo di
disgraziati. In realtà, si dovrebbe guardare coloro che bruciano negozi e merci
con la medesima simpatia che abbiamo per coloro che bruciano le coltivazioni
transgeniche, perché é tutta la merce ad essere una mutazione mostruosa e
miseranda della realtà se la gente in piazza riesce a inventarsi solo qualche
vetrina rotta e qualche macchina bruciata, la soluzione non consiste di
impedirglielo in quel momento, ma nell'aver creato situazioni durature e non
estemporanee di comunicazione/partecipazione/realizzazione. La guerra si vince
in tempo di pace. Quando i sampietrini volano, é tardi: puoi solo ripararti
accanto a un muro, o lanciarli a tua volta
Se un oggetto é incatenato
e inafferrabile, pare comprensibile il moto che induce ad applicarvi il fuoco:
tuttavia, io non solo non suggerisco di accettare acriticamente ma neppure
criticamente la pratica di vandalismi simbolici dei BB, per molti versi ancora
interna a una pratica politica che reputo tuttavia specialistica,
militantistica, e orientata verso una sopravvalutazione degli strumenti
mediatici. E molti dei compagni teppisti disorganizzati,
che sono stati il motore primo e più radicale delle violenze
genovesi, siano, a loro
volta, eccessivamente attraversati da un cortocircuito emozionale che
necessiterebbe di trovare un respiro più ampio e più sereno.
Semmai, una volta
sgombrato il terreno dalle calunnie, che costringono - fra le altre conseguenze
nefaste - a soprassedere a qualsiasi critica, in nome dell’indispensabile
solidarietà, merita osservare che
le distruzioni sostenute negli scritti di questi compagni, e praticate a
Genova, hanno scelto di mantenersi ancora sul piano tradizionale della propaganda
con i fatti, dell’azione simbolica intesa a scuotere le coscienze.
Mentre, forse, una parte
del movimento reale di cui i BB sono stati parte a Genova, sta già
oltrepassando una tale impostazione, nemmeno troppo dissimile da quella
propugnata dalle Tute Bianche, avvicinandosi a rimodellare direttamente lo
spazio e il tempo, a creare ambiti liberi per una sperimentazione non soltanto
distruttiva.
E va detto che furono
proprio questi sovversivi senza tamburi e senza bandiera, neppure la bandiera
nera, i protagonisti di un episodio importante, anche se da tutti gli
specialisti solidalmente abbandonato alla rimozione e all’oblio: l’assalto alle
carceri. Un tale atto, infatti, va ben oltre il vandalismo immediato e oltre
anche la distruzione simbolica per collocarsi sul terreno dell’affermazione di
un altro mondo, un mondo senza galere. Oppure la devastazione operata
nottetempo nelle scuole (comunque cento volte inferiore a quella realizzata
nella scuola Pertini dai difensori dell’ordine), vere e proprie galere senza
sbarre per bambini e giovinetti, che è essenziale d’ora in avanti mantenere nel
mirino dei distruttori, nell’intento di inceppare quanto più possibile questa
catena di montaggio di cittadini con l’uso dei minori come materia prima.
Io stesso scrivevo, nei
giorni immediatamente successivi: “Ma tutto questo può essere detto e
analizzato solo DOPO che saranno stati messi a tacere tutti i mentitori
schifosi, i burocrati., i recuperatori, i mediatori (da Carta agli anarchici
del coordinamento Lupo de Lupis, da Agnoletto a Casarini, da
Rifondazione a
Liberazione, al Manifesto, a Radio Popolare, e via scagazzando), che sperano di
convertire in valuta pregiata le mazzate prese a Genova, pagando il prezzo di
qualche anarchico arrestato e di un intero movimento nascente sputtanato. DOPO
che questi filistei saranno stati dispersi e i loro nomi disonorevoli scritti
sulle tavole dell'infamia e consegnati all'abbraccio mefitico della sinistra
istituzionale, allora ci si potrà confrontare fra compagni e interrogare non
soltanto se abbia davvero senso abbruciare e devastare, ma se abbia
principalmente senso la manifestazione di piazza, tanto più nelle ricorrenze
inventate dal nemico.
Ma lasciateci godere, per
ora, questo carnevale dispettoso scatenato sotto i palazzi degli otto
non-morti. “
sapevamo benissimo che ci
sarebbero state violenze. Ci sono violenze ovunque, continuamente. E sempre di
più ce ne saranno. Ciò che ha causato un mezzo disastro a Genova è stato il mix
fra "dichiariamo guerra",
"violeremo", etc. e
lo stile sindacale del corteo di
sabato, con i pullmann e i gonfaloni dei municipi. La rivoluzione costituisce
sempre reato, come ebbe a dichiarare il Procuratore Generale presso la
Cassazione, Pascalino: la pretesa di farla passare per un diritto crea solo
tragedie e sconfitte.
obiettivamente, é vero che
noi manifestanti eravamo fuori legge, sia nelle intenzioni (violare la zona
rossa, che era il proposito di TUTTI, era illegale) sia nella pratica (quella
di chi devastava, e quella di chi lasciava devastare): ora uno (ad esempio io) può considerare
meraviglioso essere dei fuorilegge,
altri (ad esempio molti di Lilliput, che si sono autocriticati parecchio per
essersi fatti coinvolgere in una situazione profondamente illegale) lo può stimare
terribile. Ma i fatti sono là: a
centinaia di migliaia ci siamo battuti contro la legge e contro lo stato. Molti
senza rendersene conto del tutto, nemmeno dopo, credendo
di essersi battuti
contro una
prepotenza illecita dello
stato, non comprendendo che é lo stato
a stabilire ciò che é illecito e ciò che non lo é (notare bene che la zona
rossa era stata ideata dal governo precedente che si era ampiamente illustrato
a Napoli, a riprova del fatto che i governi cambiano, ma lo stato é sempre
quello che é). In questo senso le inchieste giudiziarie falsificano
ipocritamente il quadro trasmettendo l'idea che non fosse lo stato ad
opprimerci a Genova ma le sue forze deviate. Che esisterebbe uno stato giusto
ed equo, di cui lo stato reale sarebbe un’approssimazione imperfetta, esposta
alle mille insufficienze umane. Che lo stato, in fin dei conti, promani da Dio.
E così la legge: per cui, per i codici contingenti, saremmo noi fuorilegge e i poliziotti assassini i difensori
della legge; ma per la legge eterna, per la vera giustizia, Carlo Giuliani,
lanciando l'estintore, riaffermava e ricostituiva il diritto contro gli
usurpatori. E perché questo? per la forza dei numeri: voi G8, noi sei miliardi.
La maggioranza diviene
così simile a Dio, principio primo delle ragioni del mondo.
Di qui, come una condanna,
ne segue che: male i poliziotti, servi degli usurpatori della maggioranza, ma
soprattutto malissimo i vandali senza legge, coloro che hanno attaccato fin dal
mattino del 20, senza attendere l'assalto della legge. Malissimo, perché loro,
neri e reietti, sono la minoranza. I numeri li
condannano.
4. Azione rivendicativa,
azione simbolica, azione diretta (Viviamo il presente con un giorno d'anticipo,
perché ci siamo stancati d'inseguire il futuro)
“…tale "violenza simbolica"
costituisce, come ha detto qualcuno,
l'unico "ufficio stampa alla portata dei dannati della
terra", essa è massimamente temuta da quegli apparati
di potere che in essa intuiscono la potenzialità di
una pratica autonoma di massa in grado di autodeterminarsi
sul terreno dell'azione diretta, fuori e contro
ogni presuntivo "specialismo bellicistico", fuori e contro
qualsiasi autonomia sia della politica che del
militare.” Marco M.
Per lo stato è indispensabile che nessuno
abbia una sua volontà; se uno l'avesse,
lo stato dovrebbe escluderlo, chiuderlo
in carcere o metterlo al bando; se tutti avessero
una volontà propria, farebbero piazza pulita
dello stato."
Max Stirner
“…50.000 persone potrebbero raccogliersi insieme
e deliberare piani di azione strategica ed organizzativa, in modo autogestito e su base
locale - per libera associazione - attraverso
reti di gruppi di affinità e di
consigli di portavoce.. Invece,
quelle stesse 50.000 persone scelgono di andare
a protestare come massa amorfa - cantando, mostrando
striscioni, urlando al governo (Usa) quanto è cattivo
ed inumano e di smettere di finanziare stati assassini
- e praticamente si mettono nell'umiliante posizione
dell'impotenza. I dimostranti alla fine assumono
il classico ruolo dei "clientes",
persone senza potere
reale sulle proprie vite che per ottenere qualcosa
deve richiederlo alla classe dirigente. Le dimostrazioni inoltre
mostrano una mancanza di creatività; l'unica cosa
che facciamo è di cantare le canzoni e ballare le danze
dei nostri governanti. Quanto a lungo queste proteste
dureranno? Se riuscissimo a convincere altre diecimila
persone a protestare, riusciremmo a buttar giù il
capitalismo, lo stato e la schiavitù del salario? …
Non fermarsi al sabotaggio e alla destrutturazione, ma sollecitare all'esperienza
dell'azione diretta come esperienza
dell'eccezionale realizzabile, come fine
dell'azione servile.
Claudio Angelini
“…il suo gesto era virtualmente in tutte le
teste. Lui solo lo
ha concretizzato, lui solo ha varcato la barriera radioattiva
dell'isolamento: l'isolamento interno, questa separazione
introversa del mondo esterno e dell'io.
Nessuno ha risposto a un segno che egli
aveva creduto
esplicito. Egli è restato solo
come resta solo il blouson noir che incendia una chiesa o ammazza
un poliziotto, in accordo con se stesso ma votato all'esilio finché gli altri vivranno
esiliati dalla propria
esistenza. Non esisterà che una comune dannazione finché ogni essere
isolato rifiuterà di comprendere che un gesto di libertà, per quanto debole e
maldestro possa essere, è sempre portatore di una comunicazione autentica, di un
messaggio
personale appropriato. La
repressione che colpisce il ribelle libertario si abbatte
su tutti
gli uomini. Il
sangue di tutti gli uomini gronda con il sangue dei
Durruti assassinati.
Dovunque la libertà arretra di un palmo, aumenta
di cento volte il peso dell'ordine delle cose[...]
Raoul Vaneigem
Il gesto più eclatante È stato l'occupazione della
scuola Diaz (l'anno scorso teatro di cruenti
episodi di violenza da parte di esponenti non
ancora ben identificati delle forze
dell'ordine ai danni di numerosi manifestanti) da parte
di un gruppo di circa trenta persone guidate da Luca
Casarini. La zona È sorvegliata da molti agenti di polizia
e della Digos. Il questore di Genova però minimizza:
"Si tratta di un gesto simbolico, e lo
consideriamo come tale". Nelle
mani dello Stato la forza si chiama
<>, nelle
mani dell'individuo si chiama <>.
Max. Stirner
tu stesso, mi par di capire, sei molto
attento ai tuoi comportamenti di
"consumatore", e in questo magari ci rientra
non andare al MacDonald's. Forse anche perchè, da
solo, uno è difficile che riesca a fare di più. Magari se capita
il giorno che sono con un mio amico ci organizziamo
e gli intasiamo i bagni. Capita anche il giono
che ci ritroviamo in 10 e ci va di picchettare l'entrata.
Quando capita che siamo in 300, bè, io
propongo di sfasciarlo. A
Genova eccezionale era chi stava lì per riprodurre i meccanismi
di sempre, le rimostranze e le manifestazioni,
e non chi adeguava la propria azione quotidiana
alle diverse e forse nuove possibilità della situazione;
e non erano solo black bloc, che è una cosa
che ci si dimentica troppo spesso. Claudio
– Lista libertari 30 giugno 2002
SE CIASCUNO PROVVEDESSE SEMPLICEMENTE A
LIBERARE SE STESSO, TUTTI SAREBBERO
LiBERI...
A parte osservazioni
lapalissiane, e in quanto tali sempre un poco imbarazzanti, come la presente,
occorre meditare sul fatto che, se il fine e il senso ultimo di una distruzione
della società spettacolare e mercantile consiste nella costruzione di relazioni
di assoluta autonomia, diretta responsabilità, di ciascun individuo, questo
obiettivo può realisticamente realizzarsi solo attraverso scelte e azioni che
pubblicamente, collettivamente mettano in gioco i medesimi ingredienti. Per
conseguenza, si può operare una distinzione, per molti aspetti arbitraria, fra
“rivoluzione” e “dopo la rivoluzione”, solo nel senso di chiamare rivoluzione
quei percorsi individuali che, fin da subito, operano nell’autonomia e per
l’autonomia, e chiamare “post-rivoluzione” una fase in cui i processi di
istituzione della libertà saranno divenuti compiutamente pubblici e collettivi,
ed avranno abolito ogni altro istituto al di fuori di sé stessi.
L'essenziale é cercare di
sviluppare "azioni esemplari" (azioni, cioè, capaci di PARLARE, ma
dotate di un proprio autonomo senso) e non semplici gesti o manifestazioni,
destinate a richiedere che ALTRI (di solito lo stato) agiscano.
È essenziale che l’atto
violento, il sasso, la bastonata, il fiammifero, svolgano rispetto al momento
del confronto e della riflessione, la medesima funzione catalizzante che svolge
il bicchiere di vino, o il calumet, o il rito del tè, nelle diverse culture:
quella di “bagnar la parola” come si usa dire in Piemonte, di rendere fluida la
relazione, di affratellare attraverso una pratica comune. Mentre viceversa,
sempre più spesso, si percepisce la parola come esplicazione, rivendicazione
del gesto, che, esso solo, rappresenterebbe l’evento reale.
Non giova a nessuno fare
un fronte unito che assommi solo debolezze e parzialità Il personaggio che a
mani alzate avrebbe potuto raggiungere i cancelli e appendervi uno striscione
(e perché non darsi fuoco? con questa storia della non-violenza mal compresa si finisce sempre per
identificarsi con il ruolo
della vittima e per
raschiare spietatamente il fondo della marmitta dei sensi di colpa) alla fine
avrebbe fatto solo un gesto il cui uso sarebbe poi dovuto essere gestito
altrove, da opportuni specialisti, attraverso mediazioni politiche, per
ottenere qualcosa solo simbolicamente collegabile con lo striscione, il G8, la
Zona Rossa. Quindi la separazione fra avanguardia e masse che i fautori dei
cosiddetti movimenti di tipo nuovo, che prendono le mosse “dal basso”
contestano ai superstiti bolscevichi, cacciata dalla finestra, rientra
trionfalmente dalla porta: i ribelli non agiscono concretamente in prima persona (magari proponendosi
obiettivi più alla portata della Zona Rossa che nelle condizioni date era un
obiettivo sensato solo per chi ricercava la visibilità, quindi il gesto, e non
l'efficacia, quindi l'azione) ma rappresentano uno scontro i cui passaggi
sostanziali avvengono altrove. Il meccanismo della politica simbolica si
insinua ovunque, e trova facilmente la maniera per imporsi e per installarsi, perché
ripete e riproduce un meccanismo nefasto e verminoso, ma straordinariamente
domestico e quotidiano: quello del lavoro salariato. Attraverso un atto privo
di senso in quanto tale, e in particolare per noi che lo compiamo, ma
redditizio per altri, questi ultimi ci retribuiranno. L’atto simbolico, come
ogni prodotto del lavoro, è insieme utile al quadro complessivo, agli interessi
del compratore (nello specifico il compratore si identifica con la borsa dello
spettacolo sociale, presso cui il militante si quota) e veicolo di
socializzazione (leggi: alienazione e sottomissione) per chi lo compie.
Esattamente come l’azione libera concorre alla definizione del mondo, come il
lavoro concorre alla crescita della miseria, così la pratica della politica
separata estende le frontiere dell’inautentico, perfeziona e radicalizza la
separazione perfetta fra ciascuno e il mondo, attraverso la valorizzazione
sacrificale del militante.
Con questo non intendo
affermare che solo allorché si agisce in massa, questo pericolo non si dà:
tutte le rivoluzioni hanno
preso le mosse da
un'azione di pochi. Solo, era l'azione giusta al momento giusto. Si pensi solo
alla presa della Bastiglia, alla difesa dei cannoni di Montmartre il 18 marzo
1871, alle barricate di rue Gay Lussac nel maggio...Non é questione di
avanguardie, é questione di fare ciò che si ritiene giusto in quel momento. Se
la tua azione é in sintonia con molti, parte la scintilla; altrimenti no, ma tu
hai fatto in ogni caso ciò che
reputavi giusto. Che cosa potresti fare di diverso? L'autorità va
essenzialmente svuotata; la rivoluzione non serve ad abbattere l'autorità, che
è una forma di fede e come tale promana dal basso, dal credente, e non già
dall’alto, dove Dio – non scordiamolo –non esiste, poiché questa si può
abbattere solo se é già priva di coesione interna. Ma per creare un momento
collettivo che segna la discontinuità del tempo della libertà rispetto al tempo
della necessità. Le azioni dirette, più che a un percorso rivoluzionario,
servono ad essere momenti della creatività di ciascuno, ragioni del suo
esistere nel mondo. Quale senso ha
vivere se non battendosi contro gli oppressori? Se non distruggendo i muri
della galera di ciascuno? Chiedere al Black Bloc “a che cosa serve distruggere
quella vetrina” è altrettanto ridicolo che chiedere a Mozart “a che cosa serve
comporre quella sinfonia”
"Niente è più raro in un uomo di un atto che sia suo"
rifletteva
un compagno all’epoca di
Genova.
Ho sempre creduto
possibile trovare il paradigma della manifestazione nella presa della
Bastiglia. Mossa da una passione di ricostituzione di ciò che è bello e degno,
da un’analisi essenziale ma non già da una reazione cieca e speculare, una
folla preme contro un obiettivo simbolico (l'oppressione della legge) ma anche
materiale (gli esseri umani rinchiusi da altri esseri umani), e lo CANCELLA.
Ecco l'azione esemplare:
qualcosa di buono in sé (la fine di un carcere) ma anche simbolico (la resa del
potere) ma anche riproducibile (sono duecento anni che ci si sforza di fare lo
stesso). Non si ha la forza per un obiettivo così imponente?
vada per l'obiettivo alla
tua portata. La distruzione del consolato americano a Skoplje, ecco un'azione
sensata. Più piccolo ancora? l'incendio dell'Iberia quando fu giustiziato Puig
Antich. per dieci anni e più l'Iberia annerita e chiusa ha ingentilito Milano
come per dire: non c'é posto per i franchisti qui). E via via nel bonsai: siamo
in tre? ci troviamo qualcosa su misura. Se il rapporto di forze é negativo si
lascia perdere, ma altrimenti per che cosa si scende in piazza? Perché ciascun
militante possa ripiegare alla fine, la sera, la rossa sua bandiera e ritornare
alle case-prigione, alle officine-lager, alle scuole- manicomio? A questo punto
lo specialista politico che pretende di utilizzare la "massa" (essere
tanti é meglio ma l'importante é essere affini, é essere insieme e non
rappresentarsi una comunità che non esiste) tirando le molotov verrebbe
sostituito dagli specialisti politici che "interpretano" la
manifestazione nei consigli comunali, nei parlamenti, nei talk-show, nelle
cattedrali o in altre simili latrine della delega e della sottomissione. Se non
si é in grado che di fare scontri perdenti che non mettono a ferro e fuoco un
bel cazzo o di belare il proprio scontento che non interessa nessuno, é meglio
non farne più di manifestazioni così...ma cercare piuttosto altre strade
occupando spazi, innestando discussioni, facendo casino nelle maniere più adatte a tutti i gusti. Perché fra
l'altro la manifestazione, oggi, è, sempre più spesso, una scampagnata per
famiglie che non modifica nulla o un affare per militanti che interessa solo loro.
Occorre inventare di più,
senza un creare uno jato fra "violenti" e "non violenti",
senza decidere impostazioni: nessun eccesso sia troppo eccessivo Che senso ha
giudicare chi agisce in prima persona? Non ci obbligano a partecipare, sono non
solo liberi di fare quello che vogliono. come la puttana di Dante che
"libito fÈ licito in sua legge",
Si chiama costruzione di
situazioni, azione diretta, azione esemplare, etc. La loro caratteristica é
quella di contenere in un solo profilo, la soddisfazione immediata di un
desiderio, il conseguimento di un risultato, la creazione di un momento
irripetibile, la messa in
reazione di tutte le persone coinvolte, la capacità di sedurre, la possibilità
di essere ripresa, riprodotta, deturnata. Uno sciopero, un'occupazione, un
sabotaggio, un esproprio, un atto vandalico, una scritta su un muro, e tante
altre cose, possono corrispondere a un tale disegno. Occorrono un certo numero
di partecipanti validi, autonomi, appassionati, qualcuno che - sulla base della
propria esperienza o di una predilezione particolare per il gioco in questione
- si proponga come delineatore iniziale dei temi e dei criteri. E poi dare
libertà alle passioni e alle attitudini, rilevando sempre criticamente il senso
della condotta propria e altrui, usando come filo conduttore il principio del
piacere, affinando,a mano a mano, sia il piacere sia il principio stesso
Non é che
l'antimilitanza, l'antisacrificio, l'antilavoro non abbiano criteri e storia:
il punto é che la rivoluzione é come l'amore. Non si impara studiando ma per le
vie infinite dei corpi. Occorre abbandonarsi e riafferrarsi, in un ritmo
indipendente da quello di questo mondo. Hai mai provato a cercare di principiare una canzone, che ne so?
Jealous Guy di John Lennon, mentre ti rimbomba nelle orecchie Morti di Reggio
Emilia? È quasi impossibile, lo sforzo iniziale è indicibile. Poi, afferri il
tuo passo e altri ti rispondono e la musica che hai dentro è lei a suonare nel
tuo corpo e il fragore di fuori si disfa e si sfuma...Così é l'autonomia, il
vivere in base a criteri propri, il cantare la canzone propria e non quella che
ti suonano nei timpani. Ed é qualcosa che un po' si apprende e un po' si
inventa, precisamente come quando si va la prima volta con le ragazze, e scopri
che le cose che credevi difficili erano semplicissime, ma che di lì innanzi ci
sono un sacco di cose difficili che non sospettavi nemmeno.
Ecco, io la rivoluzione me la vivo così.
Da quando la vita
quotidiana ha cessato di svolgersi in piazza, in uno spazio comune, per
dipanarsi in infinite celle individuali (il condominio, l’automobile, la
postazione di lavoro, la sdraio al
mare, il posto prenotato
su aerei, treni, cinema, teatri, stadi, il computer…) UN MOVIMENTO CHE SCENDA
IN PIAZZA
presuppone una riemersione
di ciò che significa agire insieme ed agire visibilmente. Senza la coscienza di
scendere su un terreno disseminato di trappole, e pensato come radicalmente
nemico di qualsiasi espressione umana, la piazza diviene volgarmente
palcoscenico, dove lo spettatore, per i dieci minuti di celebrità cari a Andy
Warhol, esibisce sé stesso, per essere poi richiamato, come un pezzo di scacchi
giocato e perduto, nella scatola del nulla mediatico, da cui avevo avuto la
sfrontatezza di evadere ma che aveva avuto la sprovvedutezza di non distruggere
immediatamente. Bruciarsi le navialle spalle è sempre un ottimo criterio, ma è
l’unica speranza di sopravvivenza per chi su quelle navi era forzato a remare.
Un movimento sulle strade
HA SENSO SE RAPIDAMENTE PROCEDE VERSO LO SCIOPERO GENERALE, LE OCCUPAZIONI, LA
DISTRUZIONE DELLO STATO; ALTRIMENTI SERVE UNICAMENTE COME ESIBIZIONE DI FORZA
SUL MERCATO DEL POTERE SEPARATO, A CONDIZIONE LA FORZA DI AVERLA E DI CONTROLLARLA.
PER QUESTO – AGLI OCCHI DEI BUROCRATI E DEI GIORNALISTI - CONTA IL NUMERO DEI
PARTECIPANTI, OCCORRE CHE LA PIAZZA SIA MINACCIOSA MA SOTTO
CONTROLLO. La capacità di
imbrigliare la piazza serve a mostrare la capacità politico-militare in base
alla quale i candidati si propongono come governanti del futuro: per questo il
servizio d’ordine che ti irreggimenta è altrettanto indispensabile dello slogan
guerriero, del simbolo aggressivo, della coreografia militare.
È efficace se distrugge le
televisioni che intenderebbero riprodurne l’immagine, e soprattutto se lascia
vuoti i posti dinanzi i televisori, se richiama all’azione chi finora si è
mantenuto spettatore. Mentre a Genova moltissimi parevano non vedere l’ora di
poter rientrare per verificarsi in televisione, o magari nelle cassette
autoprodotte, con cui ciascuno rivendica
non già la fine delle
immagini, ma il diritto di ciascuno ad apparire a sé stesso
l'azione diretta non è,
come propagandano in buona fede molti, una forma violenta e estremista di
attività politica, ma é in tutti i campi di critica della vita quotidiana, IL
CONTRARIO DEL LAVORO, del sacrificio, dell’economia
L'azione diretta é
precisamente questo: esiste un luogo dove si pratica la sopraffazione e
l'alienazione? vai e lo devasti. Una situazione intollerabile? Che ne so? le
ronde padane? vai e li disperdi. Etc. Non solo é utile, ma é la sola cosa utile
che esiste, perché contiene in sé il proprio risultato, ma al tempo stesso
comunica un discorso e una prospettiva. È insieme azione sovversiva e critica
del lavoro politico.
questo potere che ci viene
estorto, si consolida e diviene qualcosa di ben reale. Insomma la polizia è
forte perché la nostra passività le consente di essere forte; ma se cessi di
essere passivo, come prima cosa ti scontri DAVVERO con la polizia
L'individuo isolato o
saccheggia o si chiude in casa. La cosa straordinaria è che migliaia di persone
che, pure, avevano trovato la capacità, l'energia, l’autonomia per uscire da
casa, non riescano però ad altro che ad alludere alla condizione del loro
isolamento, recitando brevemente una parte (quella del vandalo, o quella del
pacifico manifestante, poco rileva) per poi correre ad assorbirla, a
perfezionarla dinanzi allo schermo televisivo, che solo pare rendere vero, in
quanto memorabile, ciò che prima era solo gesto abbozzato, in quanto effimero.
Anche i kamikaze ormai paiono trovare il loro paradiso in vita, e incontrare la
propria verità, e, come in ogni paradiso che si rispetti, godere della visione di
Dio, cioè di sé stessi alienati, in quei disgustosi video di congedo girati
alla vigilia del mistico botto.
Nulla indica con migliore
chiarezza la natura mortifera dello spettacolo, quanto l’immagine mediata di
ciascuno non sia che
il suo lavoro morto, la
sua alienazione in atto. Infine la merce che ciascuno produce nella
quotidianità è quell’immagine di sè che gli viene restituita, ostile e
separata, attraverso il video.
Ciò che mi piace dei Black
Bloc, é "che hanno messo mano al mondo”
Particolare inquietante,
quei silenziosi distruttori agivano senza avanzare né proposte né
rivendicazioni.
distruggere bancomat non
serve a molto: può però ricordarti o prepararti a quel che accade in Argentina
dove i bancomat magari non sono distrutti ma non cacciano più soldi, e mostrano la loro natura di separazione
fra te e il tuo danaro, che, in effetti,
c'é da chiedersi se è tuo, visto che é firmato da un altro, o se piuttosto non
ce l'hai solo in prestito finché fai comodo al sistema.
do la precedenza
all'azione diretta – che crea qualcosa di ciò che desidero - rispetto alla
rivendicazione, al messaggio, alla strategia. La mia strategia consiste nel
cercare di vivere da subito ciò che mi appassiona e per questa via contagiare
altri a fare lo stesso, e farmene a mia volta contagiare. Prendo i miei
desideri per realtà, come si diceva ai tempi Quindi considero un mio compagno
possibile chi fa lo stesso con i propri desideri anche se non sono identici ai
miei, mentre considero impossibile agire insieme con chi mira a influenzare i
potenti, indirizzare la società, promuovere leggi e regolamenti, e in sostanza
dice che i potenti non usano efficacemente il loro potere. Quel che voglio
edificare è una civiltà in cui ciascuno abbia desideri unici e incomprimibili a
una semplificazione collettiva, in cui tutti siano liberi di sperimentare ogni
possibile diversità, e siano quindi uguali fra loro, siano pari nella libertà
di essere diversi
L’azione rivendicativa può
risultare violenta (talvolta
violentissima: si pensi ad
esempio al sequestro di persona per imporre una scarcerazione), molto più di
un’azione diretta (che può viceversa essere del tutto scevra da violenza; si
pensi solo all’astensione dal pagamento di tasse, multe, contributi
obbligatori) tuttavia, mentre la seconda trova senso nella realizzazione
immediata dell’obiettivo prefissato, la prima intende imporre a chi detiene il
potere questa o quella condotta, imporre – in ultima analisi – l’emanazione di
decreti conformi alla volontà del rivendicante. L’azione rivendicativa, perciò,
non rifiuta né la legge, né lo stato, né – che è quel che maggiormente conta –
l’obbligo individuale di obbedire alla legge. Né critica altresì la passività
del cittadino, cui viene richiesto semplicemente di sottomettersi non alle
leggi attuali, ma ad altre – estorte mediante la minaccia o la violenza – e
supposte migliori in conseguenza del loro proclamato carattere sociale, in
ragione di un postulato ideologico non meno autoritario di quello vigente,
Essa è semplicemente
l’esibizione di forza di un particolare nucleo di interessi che mira a spostare
in proprio favore gli equilibri del potere separato, che però viene per
conseguenza non solo accettato, ma – nella prospettiva – una volta piegato ai
propri interessi, addirittura rafforzato. Il meccanismo ha una tale potenza da
condurre sindacati e partiti socialdemocratici che fanno della rivendicazione
la forma perfetta della propria
attività, a difendere fin da subito lo stato borghese, che non hanno
ancora conquistato e sovente non ha ancora accolto nessuna delle loro rivendicazioni,
semplicemente per le sue potenzialità, percepite come una risorsa disponibile
per un ipotetico futuro. Come insegna Clausewitz, “non vanno distrutti i ponti
e le strade che si intende percorrere”. La speranza di un potere futuro diviene
così la migliore spinta al sostegno al potere presente: ciò che in ogni caso va
evitato sono la sfiducia nelle istituzioni, il vuoto di potere, l’anarchia. Chi
si pone in un’ottica rivendicativa dunque, nella misura in cui opera su un
piano di cui riafferma e sostiene la separatezza, quand’anche
operi da solo e nel
proprio diretto interesse, agisce comunque come rappresentante, al limite,
della sua stessa persona.
Esemplare é un'azione
diretta, capace di avere senso anche se, per avventura, nessuno la venisse a
conoscere; simbolica un'azione che, se sconosciuta, perderebbe ogni utilità.
Pensa la porca Sindone (purtroppo miracolata all'ultimo istante). I più ignorano
che si é trattato dell'azione radicale di qualcuno: come azione simbolica un
fallimento. Ma se fosse bruciata come meritava ecco desindonizzata Torino.
Eccoti l'azione diretta. E pure esemplare perché quegli stessi che ignoravano
la dolosità del fatto, pure avrebbero potuto pensare: stavolta é stato culo, ma
la prossima...e avviarsi senz'altro con congrue taniche verso uno degli
infiniti oggetti odiosi di questo odiosissimo mondo
L’azione simbolica,
viceversa, si propone di influenzare non già il potere, come l’azione
rivendicativa, ma gli individui. Mentre l’azione rivendicativa tende a
modificare, creare, imporre norme, l’azione simbolica mira a modificare,
creare, imporre, opinioni. Essa pone perciò in primo piano, la coscienza
individuale destinata a decodificare il simbolo e a ricavarne indicazioni di
condotta; mentre considera irrilevante o, al più, strumentale, l’interlocuzione
con il potere, percepito non come controparte ma come potenziale “utile idiota”
da far recitare suo malgrado nella scena concepita ed approntata dal demiurgo.
Questa irrilevanza potrà volgersi verso una maggiore conflittualità o una
maggiore strumentalizzazione a misura che il
contenuto dell’azione simbolica alluderà a una maggiore o minore
destabilizzazione dell’apparato normativo
L’azione diretta, quando
ha la capacità di incidere nei punti di snodo dell’oppressione sociale, è anche
la più efficace nel simboleggiare il senso complessivo di un’epoca, la più
immediata nel comunicare l’avvenuta conquista del punto di non ritorno, del
momento in cui nulla sarà più come prima, neanche un po’ meglio di prima. La
presa della Bastiglia è insieme la più chiara delle notizie, il più eloquente
dei simboli, la
più efficace delle
vittorie sul campo. Nella conquista del carcere dove stanno rinchiusi gli
oppositori del potere, azione e comunicazione, presente e futuro si fondono e
fondono tutte le illusioni precedenti nel loro fuoco.
Conviene cercare di
praticare quelle liberazioni che ci è possibile praticare subito: del doman non
v'é certezza.
E senza dubbio ha le sue
ragioni chi scrive sulla lista Movimento, a firma Emile Henry: “dopo essermi un
po' sfogato con quelli che aspettano S.Lucia (come dicono loro "il giorno
più grande che ci sia")”
Se l'azione diretta ha un
limite é quello di risalire alle cause partendo dagli effetti, dai sintomi, e
non sempre è facilissimo. Anche nel caso da cui prendiamo le mosse: in fine dei
conti il custode avrebbe potuto, e forse fatto meglio, a prendere e andarsene
per i cazzi propri. Da un lato questo avrebbe creato meno problemi a lui, alla
moglie, oltre che al padrone bastardo; ma ne avrebbe creati di più a chi lo
avesse sostituito nell'incarico. Oggi invece il Laganà lo custodisce il
guardiano dell'obitorio, e domani
quello del cimitero,
e non potrà tiranneggiarli più che tanto... Il
problema insomma é che molte azioni, sono in effetti semplicemente reazioni,
cioè non hanno la capacità di scegliere il proprio luogo, il proprio momento,
il proprio terreno, ma rimangono semplicemente all'interno dell'esistente sia
pure per negarlo. Pensa a quella che é stato l'abbozzo di azione diretta più
degno degli ultimi anni, l'assalto al carcere di marassi nel luglio 2001. Metti
pure che riuscisse: l'impatto sarebbe stato immenso, certo, anche perché
sarebbe stato ben leggibile per tutti che cosa significala parola libertà. Ma,
se nel contempo lla capacità di liberare i prigionieri non acquisti la capacità
di non carcerare te stesso e gli altri, se non agisci sulla richiesta di carcere
e di legge che quasi tutti rinnovellano, sarebbe comunque stato più un segnale che un fatto. Ma é ancor più
vero che tu puoi fare tutta un'opera profonda
a e capillare di rovesciamento di prospettive, ma se
non trovi la forza, al
momento giusto, di aprire quei portoni e svuotare galere, manicomi, fabbriche e
scuole, l'ipnosi che le rinnova troverà sempre modo di rinascere.
Uccidere i padroni non é
sufficiente; e, per assurdo, nel momento in cui davvero fosse sufficiente,
forse non sarebbe più necessario. Ma
oggi, quando tutti subiamo come nessuno aveva mai accettato di subire prima,
quando ci vuole ci vuole.
Promozione della creazione
di attrezzatura teorica e pratica per la produzione di azioni esemplari con chiare
indicazioni tutte verificabili
1.
originalità
del soggetto e cioè i protagonisti esercitino la propria unicità e partecipino
lasciando a casa ogni etichetta passata e/o futura
2.
autenticità
dell'azione che deve essere studiata e creata senza mediazioni in totale
autogestione
3.
le
azioni devono prevedere una reale soddisfazione dei soggetti agenti - non si
fanno le cose a nome di nessun altro
4.
le
persone interessate dovranno dichiarare la propria disponibilità in modo
esplicito e personale con serietà e prendersi incarichi da svolgere di cui poi dovranno rispondere
5.
la
gratuità deve essere il peso e la misura per la verifica qualitativa e
quantitativa delle azioni
Boccadorata (alias gilda
caronti) primavera 2001
non é che sia nobile, é
autonoma, ciascuno se la sbriga da sé, e quindi mostra tutti i limiti di chi
vive in quest'epoca. Anche la rivoluzione che poi non é che una combinazione di
infinite azioni dirette, che si confrontano e si dialettizzano, da principio
mostrerebbe un sacco di falle: la gente é molto nella merda, e non puoi
pretendere che ne esca tutta insieme magicamente. Ma agire in prima persona ti
educa tantissimo, perché crea dell'esperienza vera; non solo ma l'esperienza
vera é comunicabile, leggibile dagli altri. Anche noi, che non abbiamo fatto a
pezzi nessuno, possiamo ragionare ora su che cosa sia il caso di fare e
metterci dal punto di vista di chi, oppresso,
vuol
porre fine alla propria
oppressione. In questo senso l'atto di quel simpatico tipo ha liberato un
pochino tutti, perfino più di quanto abbia liberato lui, che sta in galera.
Idem per quelli che evadono, distruggono le piantagioni transgeniche, buttano i
controllori giù dal tram. Uno lo fa e tutti possono chiedersi se lo farebbero,
perché non lo hanno ancora fatto, se non ci sia una soluzione migliore, etc. Ma
tutto questo funziona perché qualcuno agisce, e non marcia lagnandosi sotto le
finestre dei potenti, sventolando bandiere flosce e incanutite. Agire é
contagioso. Precisamente quanto lo é subire.
5.
MEDIA
…non comprate giornali, non
"aggiornatevi" su questa guerra:
non sta succedendo niente, niente che non sappiamo
già, niente contro cui già non ci siamo/stiamo rivoltando.
Ricordo nel 1991 l'incremento di vendite de "il
Manifesto" (e lo dice uno che contribuì): non foraggiamo
più sciacalli. E soprattutto, usciamo dalla notizia.
Usciamo fuori. Disperdiamoci.
(Claudio LISTA LIBERTARI 29.3.03)
Lo spazio simbolico, solitamente appannaggio dei recuperatori politici e
mediatici, è stato espugnato, invaso
ed egemonizzato dalla concretezza di migliaia e migliaia
di uomini e donne, dalla materialità del conflitto
di classe.
Vis-à-Vis -
Quaderni per l'autonomia di classe
"Tra gli scaltriti pratici di oggi, la
menzogna ha perso da tempo la
sua onorevole funzione di ingannare intorno a
qualcosa di reale.
Nessuno crede più a nessuno, tutti sanno il fatto loro. Si mente
solo per fare capire all'altro che di lui non
c'importa nulla, che
non ne abbiamo bisogno, che ci è indifferente
che cosa pensa
di noi. La bugia, un tempo strumento liberale di comunicazione,
è diventata oggi una tecnica della sfrontatezza, con
cui ciascuno spande intorno a sé il gelo di cui ha bisogno per
vivere e prosperare." (T. W. Adorno, Minima moralia)
La democrazia occidentale prospetta una
regressione ad un modello
di libertà astratta ed inverificabile, di carattere pre- moderno
e pre-civile, non basata cioè su equilibri,
pesi e contrappesi,
controlli dal basso, bensì su un richiamo carismatico
- fideistico, e sul sistematico confronto con regimi aberranti,
le cui aberrazioni sono, peraltro, il diretto risultato della
plurisecolare ingerenza occidentale sui paesi
più deboli (basti
pensare all'Iraq). In democrazia l'informazione gode di
uno status privilegiato, che è diretta
conseguenza del suo sfuggire
alla verifica dell'esperienza individuale.
È una gerarchizzazione della realtà, che
rende irreale ciò che è vissuto
e sperimentato dai singoli, mentre pone al di
sopra del sospetto
ciò che non lo è: in democrazia solo il debole è sospettabile.
Il dato che i giornalisti vengano uccisi non appena cerchino
di assumere direttamente informazioni sulla guerra, viene
fatto passare come un problema di cattiveria dei Talebani,
perciò l'informazione a riguardo consiste nello spremere
lagrimucce e non nel verificare l'applicazione delle garanzie
sull'informazione. Il dogma ufficiale non teme smentite e
contraddizioni, ogni crimine può essere giustificato, perché la democrazia
sarebbe perfetta, se non fosse per le imperfezioni dei
nemici della democrazia. Il sistema democratico è ufficialmente
ridondante di garanzie, ma la loro sistematica disapplicazione
non è soggetta a meccanismi di garanzia, per cui
alla fine il garante garantisce soltanto se stesso. Su tutto questo
l'opposizione pretenderebbe di opporsi senza dissentire, senza chiedere
conto e senza chiedere spiegazioni, cioè senza
sospettare
di nulla. La
mistificazione non è altro che controllo, dominio; e un dominio
che non mistificasse, non sarebbe in effetti
neanche un dominio,
bensì Provvidenza, una Provvidenza che concede generosamente
all'opposizione di esistere soltanto per mero esercizio
del libero arbitrio, e non certo perché ci
sia realmente qualcosa
a cui opporsi. In fondo anche Dio, a propria maggior gloria, concede
al Diavolo di esistere, per poi inserirlo nel suo
disegno provvidenziale. Qui
non si tratta di possedere, già pronta per l'uso, una verità alternativa
all'attuale mondo fittizio, ma semplicemente di assumere
la verità come problema sociale e, quindi, il sospetto come
contrappeso, riequilibrio, autogarantismo sociale.
(Comidad Dicembre 2001
) Joseph
Pulitzer, il famoso giornalista statunitense, scriveva: "Non esiste
delitto, inganno, trucco,
imbroglio e vizio che non
vivano della loro
segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli,
rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e, prima o poi, la pubblica opinione li
getterà via. La sola divulgazione non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo
senza il quale falliscono tutti gli altri".
Sono passati cento anni da
allora, e l’opinione pubblica, che in Italia forse non è nemmeno mai riuscita a
nascere, agonizza da tempo anche negli Stati Uniti. Non perché sia mancata la
divulgazione, ché forse mai è stata come ora capillare, e spesso impudica,
oppure si siano estinte la mediocrità, la disonestà, l’inconsistenza, la
melensaggine dei potenti, ma perché il concetto di opinione pubblica é stato
interamente assorbito e sottomesso dal sistema del potere separato: viene
chiamata opinione pubblica l'opinione attribuita agli individui attraverso un
capillare sistema di falsificazione, cui gli individui sono chiamati – con
aggressività sempre maggiore - a riconoscersi ed uniformarsi. L'opinione
pubblica é quanto si intima alla gente di riconoscere come opinione della
maggioranza. Domani, potrebbe essere ciò che ci si troverà obbligati a pensare.
Se nei paesi dittatoriali è concesso un solo pensiero per volta, però
gratuitamente, in quelli a democrazia di mercato si può scegliere fra più
pensieri prefabbricati, con l’aggravante che poi occorre pagarli. Nei primi si
è costretti a cedere la propria autonomia di giudizio una volta per tutte, in
cambio di un programma chiuso che contiene la risposta già data a ogni domanda possibile.
È il regno dei libretti rossi, o verdi, delle bibbie, dei corani, dei diamat.
Il movimento sociale è organizzato
in forma centripeta, in un panottico del pensiero che avrebbe entusiasmato il
generale ideologo di Musil, ansioso di
schierare ordinatamente, alla maniera dei corpi d’armata, tutte le idee del
mondo. Nei secondi le opinioni sono merci, alcune di largo consumo, altre di
lusso, o, come usa dire ora, di nicchia, ciascuna con il proprio ambito di
pubblicità e di confezioni, ciascuna a simboleggiare un particolare status, una
specifica combinazione di socializzazione e di misantropia, col
cui fango costruire
l’immagine di un sedicente individuo. Il modello è di tipo circolare, come un
rotare perpetuo di sfere tolomeiane, dove si incastonano come stelle i pensieri
separati e crocifissi. Mentre nel primo caso l’impotenza determinata dal monoteismo
forzato, si percepisce come una cappa plumbea, è la rarefazione ideologica, lo
spaesamento da sovrabbondanza, a determinare inerzia e passività nel secondo
caso. Da una parte l’individuo non ha titolo di decidere alcunché, neppure le
cose più modeste relative alla propria esistenza. Nel secondo, chi sia stato
condotto a questa particolare perversione, godrebbe della possibilità, 24 ore
su 24, di partecipare a sondaggi d’ogni sorta, tracciando, registrando e
omologando ogni possibile declinazione della propria particolare predilezione.
Risultato di ogni sondaggio è unicamente confrontare la propria opinione con
quella della maggioranza, per ricavarvi quella dialettica dell’identificazione
e della distinzione, della massa (sono normale, sono come tutti gli altri) e
dell’elite, (sono molto meno fesso, non sono mica come gli altri), con cui il
cittadino atomizzato consola il proprio bisogno di pace e di calore e la
propria nostalgia di luce e di unicità. L’uno e l’altro parimenti
insoddisfatti, ma sempre riattizzati dall’eretismo dell’attualità coatta.
Pure, come il limite dello sfruttamento dei produttori, consiste
nella loro insopprimibile
autonomia, che sola consente loro di produrre; così il limite di quella figura
passiva che è il consumatore, consiste precisamente nella sua passività, che
necessita di crescenti iniezioni di umiliazione, di scarsità, di
insoddisfazione. Il meccanismo impone che, per vendere le prossime ideologie e
le prossime merci, vengano svalutate a ritmo accelerato le merci e le ideologie
contemplate ieri, e neppure finite di pagare. Ciò che crea la necessità di
comprare la nuova dose, non solo mina la fiducia nel rimedio precedente, ma
infine la fiducia nel meccanismo complessivo, la cui fantasmagoria, accelerata
parossisticamente, mostra pesantemente
i fili e
le carrucole dell’artificio. Per
questo, i
pacchetti di merci
presentano, ogni giorno dosi più massicce di merce religiosa, così da supplire
con la fede ai conti sconnessi del credito.
Nell’un caso come
nell’altro, tuttavia, l’identificazione con la passività è essa stessa passiva,
la rinuncia a sé stessi rinunciataria, l’oblio di sé distratto e smemorato;
poiché pensare costa fatica e
appare inutile, un sacco di persone si aggancia negligentemente al carro
dell'opinione pubblica, ma senza crederci davvero, facendosi semplicemente
portare dall'onda, nella speranza di dimenticarsi di tutto. A furia di
scordarsi di sé stessi, si scordano delle ragioni della loro fiducia, della
loro obbedienza, della loro speranza. Se il messaggio che viene istillato
tenacemente è: tutto è vero, nulla è permesso, lo scambiarsi vorticoso delle
verità in vendita mina alla radice il credito. I consumatori si impigriscono,
gli elettori si riducono, come pure i lettori di giornali: incomincia a montare
l’idea che tutto è falso ma è obbligatorio dichiararlo vero pubblicamente,
salvo strizzarsi l’occhio in privato, con la petulante e gaglioffa baldanza di
chi crede di assistere a una truffa, ma di non essere del numero dei truffati.
Quindi, non urge svelare
che quelle ufficiali sono balle, perché nel loro cuore tutti lo sanno, ma
piuttosto dimostrare che farsi carico dell'esistente, essere presenti é ciò che
veramente merita vivere.
Da anni disavvezzi a
vivere direttamente le proprie esperienze, abituati ad avere l’impressione di
poter vedere ogni cosa, e di poter mutare la propria percezione pigiando sul
telecomando, si risulta, a un tempo, inadeguati a percepire realmente ciò che
si sta vivendo e a CONTENTARSI di questo soltanto. Nel proprio delirio
solipsistico, lo spettatore, convinto che la sua anima viva come diecimila, a
somiglianza del Vate, non riesce più a rendersi conto che il suo corpo, nel
frattempo, vive come zero. Come lo spettatore televisivo– se per avventura va
allo stadio -
, fatica a comprendere
quel che accade in campo, sprovvisto com’è
di commento, replay,
primi piani, interruzioni
pubblicitarie, e si
annoia; ugualmente in ogni settore. L’incubo ricorrente nei primi anni
televisivi, il mostro che esce dal video per ghermirti, si ritrova infine
capovolto. A Genova migliaia di persone si trascinavano qua e là con l’aria di
essere stati non già risucchiati, ma violentemente estromessi dal televisore, e
vagavano in vana ricerca del varco per rientrare nel tubo amniotico della
comunità virtuale, da cui avevano avuto la malaugurata idea di allontanarsi.
Molta della festosità becera e coatta dei successivi appuntamenti, tanto
oceanici quanto rapidamente risucchiati dall’oblio, dal Cofferati-day fino a
Firenze, è derivata dalla sensazione di aver finalmente trovato il modo di
stare in piazza come dentro un televisore, con e niente più di un jingle
ribelle dentro al cuore.
Hanno scritto dei
compagni: ”Se c'È una cosa che abbiamo potuto constatare a Genova, per chi ci è
stato/a live e non in videocassetta, è stata la potenza del controllo mediatico
sulle persone: malgrado che le persone avessero partecipato ai fatti, dopo aver
visto il telegiornale, ascoltato la radio, letto i giornali... quella verità ufficiale valeva di
più di ciò che avevano visto, fatto e sentito addosso in prima persona e
parlavano conseguentemente riallineati al pensiero "ufficiale"
Io credo che questa sia
una delle questioni (…) che dovremmo affrontare se vogliamo un altro mondo. Che
vuol dire un mondo diverso da questo, non un mondo uguale con leader diversi.
Per questo la foto di un
BB che butta una telecamera da 100 milioni dentro una macchina in fiamme a
Genova mi sembra un manifesto per una nuova prospettiva di rivolta a partire
dal far marcire la CNN, la RAI ecc.”
In Tv passano solo
fiction, e i più fittizi sono i programmi di informazione. Chi vuol sapere ciò
che accade, é bene che la tenga spenta.
gli operai hanno dovuto
conoscere l'opinione altrui tramite i giornali e la tv, immediatamente non solo
non hanno avuto un'idea chiara di ciò che pensava la maggioranza, ma
addirittura di ciò che pensavano
essi stessi. Perché il punto di
vista, da cui cresce il
giudizio, non esiste se non nel confronto dei punti di vista, da solo non
distingue, é piatto, non produce ombra, non crea prospettiva. Quindi qualsiasi
cosa uno faccia, é spinto a pensarsi come "the only living boy in New
York", perché, nei fatti, era già isolato fin dal principio.
«Per non vedere la realtà,
lo struzzo infila la testa nel televisore», afferma lo scrittore brasiliano
Millor Fernandes.
La gente guarda la tv e
scopre che cosa deve pensare di quel che ha veduto nella strada: oppure,
ascolta la sua radio (purché sia una radio libera, ma libera veramente) e
scopre in presa diretta ciò che le sta accadendo. Ascolta le previsioni
meteorologiche e scopre se ciò che avverte va chiamato freddo oppure caldo, nel
rispetto di infiniti parametri. Piove o c’è il sole, relativamente: di assoluto
vi è solo la statistica, quella che situa ciò che sperimentiamo nella scala
degli eventi possibili. Solo con questa falsificazione crescente e spudorata,
riesce possibile celare il mutamento drammatico del clima, del quale non è
lecito parlare perché ancora nessuno ha messo sul mercato delle merci adatte a
fronteggiarlo. La catastrofe non esiste finché sugli scaffali non è disponibile
il kit-anticatastrofe. Prima o poi, ciascuno, prestando orecchio ai necrologi,
vedrà infine confermata quella morte che ha scontato vivendo.
6.
PROVOCATORI E INFILTRATI
“…più che Black, i carabinieri travestiti parevano truzzi, diretti
a
un concerto di
Vasco Rossi”
Rivista “Breccia”
" Ho passato gli ultimi 4 giorni a
Seattle. L’informazione che la gente
riceve dai mass media è falsa. Questa non è
stata, come sostiene
Clinton, una protesta pacifica rovinata dall'azione violenta
di alcuni manifestanti. Questa è stata una manifestazione
di massa, forte ma pacifica, che è stata attaccata
ripetutamente dalla polizia, con il preciso
scopo di provocare
una risposta violenta, in modo da fornire ai media occidentali l'opportunità di scattare foto. Dico questo
perché l'ho
visto mentre accadeva. Danno
collaterale a Seattle.
Jim Desyllas, studente/reporter di Portland.
“…canaglia era un
titolo onorifico, così come oggi teppismo è
un titolo di disprezzo(…) chi si rifiuta di subire servilmente i soprusi di
una società che è una provocazione continua è, per definizione, il rappresentante
della feccia. (…)
Erano, ecco tutto, dei proletari autentici, dei senza riserve. Chi
li aveva "organizzati"? Si erano organizzati da sé.
(…) Per i borghesi, i proletari possono
soltanto muoversi come un
gregge: se il loro movimento ubbidisce a una logica, a un metodo,
perfino ad una strategia, bisogna che ci sia in mezzo a loro
qualcuno, e il "qualcuno" per gli idealisti borghesi può essere
soltanto l'organizzatore uscito dalle scuole di partito, il provocatore
formatosi all'alta accademia della polizia, magari il
gesuita travestito. (…)
C'era un provocatore, in mezzo a loro? Certo,
ma questo provocatore
si chiama la società borghese, il capitale e
i suoi sgherri,
la vendita quotidiana di forza-lavoro, l'estorsione
quotidiana di lavoro non pagato, l'inganno
della "libertà di lavoro"
e della "libertà del cittadino", la
beffa dell'eguaglianza per
tutti la menzogna della democrazia e delle riforme, la realtà del
miracolo economico che è, per i proletari, sinonimo di
lacrime, sudore e sangue. (…)
Apriamo le pagine del vecchio Marx nell'Indirizzo 1850 del Comitato
Centrale della Lega dei Comunisti:
"Ben lungi dall'opporsi ai cosiddetti
eccessi, casi di vendetta popolare
su persone odiate o su edifici pubblici cui
non si connettono
altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare
quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano
la
direzione". (…) Cada
sui "deploratori", sui costituzionalisti, sugli esperti
in denunzie
alla polizia e alla giustizia, il disprezzo e la
maledizione di
tutti gli sfruttati.
(EVVIVA I TEPPISTI
DELLA GUERRA DI CLASSE!
Abbasso gli adoratori dell'ordine costituito! Da
"Il programma comunista" n. 14 del 17 luglio 1962)
Woody Allen ammonisce:
" Chiamiamo pornografia l'erotismo degli altri."
Ugualmente, e per le
medesime ragioni, la libertà degli altri, la chiamiamo provocazione.
In tutti i paesi e in
tutte le epoche. in mezzo ai manifestanti di tutte le manifestazioni, gli
apparati dello stato hanno immesso i propri infiltrati.
Ugualmente a Genova: con
la complicazione ulteriore che ciascuno dei governi del G8, e parecchi altri in
più, avevano inviato il proprio personale, alcuni per aggiungere oppure
raccogliere know-how, altri per semplici questioni di prestigio.
Risulta essere esistita
addirittura – e in fondo non è neppure sorprendente – un’intera manualistica
per infiltrati, con una meticolosa serie di segni di riconoscimento (foulard,
giubboni, tatuaggi, orecchini, braccialetti, etc) intesi ad evitare spiacevoli
equivoci. Che, forse, non
hanno funzionato troppo bene se è vera la vicenda della poliziotta austriaca in
vesti di manifestante, travolta e uccisa
da un gippone nel pomeriggio del 20 luglio, un’ora prima della morte di Giuliani.
Diamo pure tutto questo
per acclarato, anche se le famose prove fotografiche, testimoniali, filmate cui
ci si riferisce ossessivamente, guardate con animo critico, provano davvero
poco.
1)
in
TV si sono veduti giovani col cappuccio nero, la canottiera e un bastone in
mano in relazione amichevole con celerini in uniforme –più che BB, però,
parevano NOCS, anche perché in varie immagini si notavano perfettamente i
foulard cremisi della polizia e quelli rossoblu dei carabinieri; bastone e
mefisto nero d'ordinanza
2)
nessuno
di coloro che conosco di persona e di cui ho personale fiducia ha visto
alcunché, né conosce personalmente coloro i quali avrebbero visto; nessuna
persona che stimo conosce personalmente qualcuno a sua volta degno di stima che
abbia visto con i propri occhi. Tutti indistintamente si riferiscono a
informazioni filtrate da specialisti, siano essi leader politici, giornalisti,
teatranti del palcoscenico o dell’altare; in sostanza ciascuno può affermare
che, “a vedere gli infiltrati, è stato mio cugino”
3)
possiamo
dire che, come gli accusatori dei BB sono ben noti nelle sedi di partiti,
sindacati, giornali ed altri centri della menzogna organizzata, i BB fin dai
tempi di Seattle (e da prima ancora, per chi conosca le questioni da presso)
scrivono le proprie ragioni, esprimono le loro analisi: noti da tempo, a Genova
hanno operato in maniera perfettamente conseguente con ciò che ci si poteva
attendere da loro. (da una descrizione di un partecipante agli scontri di
SEATTLE 5/12/99 mi sono sdraiato davanti macchine incendiato autoblindati ho
sfilato con i gay con i preti con gli ecologisti con i comunisti con i
traveller con gli anarcociclisti con i contadini
ho preso i getti degli idranti
sulla schiena ho
rovesciato cassonetti lanciato petardi preparato molotov ho scritto sui muri ho
ballato) I Black Block, tutti li conoscevano e a Genova tutti li aspettavano e
non vedevano l'ora di vederli all'opera: quando li si vide apparire, alla
manifestazione del 19, vi fu un brivido, simile a quello che attraversa il
PUBBLICO quando entra sul campo Ronaldo o sale sul palco Mick Jagger. Un tipo
di brivido che è identico, o più precisamente speculare, per il fan amico come
per il fan avverso. Forse non tutti li amavano, ma tutti li aspettavano. A
decine di migliaia erano affluiti a Genova per
VEDERLI.
E, va detto, a loro volta,
parecchi di loro erano scesi a Genova per ESSERE VISTI
4)
parecchi
- fra cui io - hanno avuto per le strade diretti rapporti con alcuni di questi
ragazzi che sono apparsi compagni stranieri
e/o italiani normalissimi, e - sia detto di passata - non più violenti e
irriducibili di tanti altri compagni non in nero, non aggregati con nessuno.
Ciò che i BB hanno fatto, a Genova lo hanno fatto, insieme con loro migliaia e
migliaia di compagni, in nero e in altri colori, venuti a Genova per spaccare
tutto o improvvisamente folgorati dall’idea di provare a saggiare la robustezza
della gabbia. O davvero c’è chi crede che quelli che hanno devastato la valle
del Bisagno fossero tutti infiltrati?
5) la tesi per cui l'informalità anarchica favorirebbe le infiltrazioni
- a parte che i BB tanto
informali non sono, operano per gruppi d'affinità, nel cui ambito le persone si
conoscono, si riconoscono e si stimano - a differenza delle organizzazioni
gerarchiche e ideologicamente epurate, oltre ad essere un vecchio arnese della
propaganda di partito, è sintomatica del pensiero di fondo per cui la fiducia
si fonda sulla fedeltà, la virtù che contraddistingue il buon cane e il buon
poliziotto, sottovaluta il fatto che il burocrate trotsko-stalinista non ha
bisogno di essere infiltrato dai poliziotti, perché é già uno sbirro egli stesso, nei confronti
dell'umanità, dei propri compagni e di
sé medesimo; e infatti la
connivenza fra questi farabutti e le questure non abbisogna di operare
sotterraneamente, o di essere dimostrata con foto, filmati, testimonianze, ma é
visibile alla luce del sole, nel comportamento quotidiano di questi nemici
della decenza, presenti in ogni istituzione, devoti alla costituzione,
praticanti indefessi della prostituzione, della falsificazione, della
disinformazione
6)
non
appare verosimile questa connivenza fra anarchici e poliziotti (e la diffusione
di questa notizia sembra adattissima a schermare le - queste sì - acclarate
connivenze, peraltro fallimentari, fra portavoce del GSF e esponenti
istituzionali ), perché non si comprendono assolutamente gli interessi che avrebbero potuto trovarvi questi
anarchici (misteriosi: nessuno é
stato capace di dire - il gruppo zwx di yzq risulta essersi incontrato col
questurino Tizio o col carabiniere Zempronio) e assai poco anche quelli dello
stato. È verosimile che lo stato fosse perfettamente a conoscenza di ciò di cui
ciascuno era perfettamente a conoscenza (compresi i portavoce del GSF, che,
infatti, dichiarano di aver preavvertito le autorità del loro arrivo) della
presenza a Genova di migliaia di compagni intesi ad agire con la massima
violenza.. Anche ammettendo che lo stato abbia bisogno di un detonatore per
fare esplodere la propria violenza, a qual pro avrebbe mobilitato i propri
uomini quando era sufficiente attendere qualche attimo, per beneficiare del detonatore spontaneo dei
compagni vandali?
Perché sprecare professionisti addestrati per bruciare,
invece
che cinque, dieci
cassonetti? Perché rischiare che la connivenza fosse smascherata? A che cosa
sarebbero serviti questi infiltrati, dunque? Se non a farsi fotografare dai
leccaculo riaffondatori e socialforati, per diffondere e consolidare l'idea che
chi ti sta vicino, specie se violento, potrebbe essere un poliziotto; che la
spontaneità é sospetta, sospetti gli sconosciuti,
ancor più sospetti gli stranieri (uno schema conosciuto, ma sempre efficace:
il
cattivo
anarchico
non
può
essere
un
prodotto nostrano), e che
comunque sono quasi sempre provocatori, spesso poliziotti travestiti, in ogni
caso sprovveduti e utili idioti tutti coloro i quali non si sono lasciati
inquadrare dal ciarpame stalino-trotskista e dai suoi servizi d'ordine di
centometristi, campioni mondiali di corsa all'indietro .
Perché, a fondamento del
teorema per cui il vandalo potrebbe essere poliziotto, sta il postulato per cui
il vandalo è oggettivamente un provocatore. Ne risulta che il punto è: quelli che
fanno una particolare azione (ad esempio, bruciare una banca) lo fanno perché
questo é il loro modo di operare sovversivo e gli infiltrati non c'entrano,
oppure gli infiltrati hanno suggerito, sobillato, oppure sono tutti infiltrati
quelli che lo fanno? E per concludere, bruciare una banca, é un'idea che,
comunque, può venire solo a un infiltrato? Perché, non si potrebbe supporre che
siano quelli che propongono di levare le mani imbiancate, o di inginocchiarsi,
o di pregare, o di scappare, e di travestirsi da uomini-Michelin e
donne-Micheline, a loro volta infiltrati (perché mica solo fra i BB si
infiltrano, ma in ogni spezzone, com'é ovvio) per accapponare la giusta rabbia
delle masse? Non sono forse, proprio loro, degli infiltrati del Papa?
Si può affermare perciò,
con tranquillità, che la presenza di infiltrati, quand’anche qualcuno fosse
riuscito a provarla, e così non è stato, sarebbe stata sostanzialmente
irrilevante. La loro presenza non comporta che il vandalismo, il teppismo, la
devastazione, il saccheggio siano azioni che fanno comodo allo stato, come
molti si affannano a sostenere e non disinteressatamente. Ciò che fa comodo
allo stato è, se mai, che quattro mentitori di professione sostengano di aver
visto quattro poliziotti mascherati nella speranza di far dimenticare migliaia
e migliaia di distruttori in prima persona, perfettamente inseriti nel tessuto
del corteo e certo compresi da molti genovesi. I quali, lo si nota persino nei
servizi televisivi, non ci erano ostili, e certo non ci erano ostili quanto lo
erano ai “grigi”. Non tutti, certo – ma sicuramente pure il 14 luglio ci
saranno
stati dei parigini che
rimpiangevano la loro bella e storica Bastiglia...
Gli scontri coinvolsero
attivamente, nei diversi momenti delle giornate del 20 e del 21 luglio, qualche
decina di migliaia di persone, ed è proprio sfruttando queste cifre
incontestabili, che i falsificatori più sottili e più arditi nel maneggiare il
paradosso ritennero di operare un’astuta distinzione intesa a salvare la capra
estremista insieme con i cavoli legalitari, difendendo «i veri BB», che a
Genova sarebbero stati assenti o si sarebbero presto ritirati, schifati e
delusi, denunciando, per contro, coloro che avevano effettivamente agito, come
volgari imitatori, come teppisti da stadio (esattamente come Carlo Giuliani,
sulla cui bara gli amici deporranno la bandiera giallorossa della sua squadra),
portatori di una violenza cieca e barbara.
La calunnia smisurata
contro i BB fu il collante attraverso il quale si sperava di tenere insieme
quel municipio di anime morte che si erano autoproclamate social forum.
Attraverso la devota sottomissione a una menzogna che tutti sapevano
perfettamente essere tale, si poteva essere ammessi alla corte dei mentitori:
il progressivo disfacimento di certe aree, il network, radioGap, e la
confluenza in quella rete per allocchi che fu quella dei social forum, prese le
mosse essenzialmente dal capovolgimento sistematico dell'esperienza genovese,
condotto con dovizia di mezzi, film, libri, giornali, trasmissioni televisive,
numeri unici (si pensi a quel noto numero di
A-Rivista Anarchica, che avrebbe meritato di essere pubblicato in forma
di rotolo).
Quando si parla di
provocatori, di soggetti che fanno (quanto meno oggettivamente, come recita
l’ipocrisia di rito) il gioco del nemico, forse sarebbe il caso di chiarire,
innanzi tutto, QUALE SIA, oggi, IL GIOCO DEL NEMICO: non credo sia quello di
trovare giustificazioni per la repressione (non che questo non si sia fatto in
altre epoche o in altri paesi: il governo nazista, per fare solo un esempio,
era attentissimo a presentare ogni
propria mossa come reazione a una provocazione,
accuratamente predisposta
con l’impiego di personale specializzato). Prima di tutto, perché credo che
anzi l’idea che preme oggi affermare, é proprio che le giustificazioni sono
divenute superflue, che i governi stanno sopra e non sotto, non dico le leggi,
ma addirittura i fatti (esemplare Bush che dice "forse le armi di Saddam
non c'erano, ma di sicuro non ci sono oggi, visto che lo abbiamo
abbattuto" e tutti applaudono).
La novità quindi non
consiste nella repressione che non è mai davvero cessata, ma nella sua quieta
esibizione, quasi si fosse rinunciato una volta per tutte a coinvolgere la
popolazione nelle ragioni della pace sociale: e patetica appare la rincorsa
delle diverse sinistre per cogestire le repressioni, per non farsi sfuggire il
banchetto del sangue. Ormai, sembra ci venga detto, la pretesa di impiegare la
carota come un bastone, secondo la famosa metafora de “L’utopia capitalista”, è
a sua volta superata: non ce n’è più di carote, sono rimasti unicamente i
bastoni.
Non pare che, malgrado il
moltiplicarsi di legislazioni antiterrorismo in tutto il mondo, la repressione
delle lotte sia al vertice delle preoccupazioni dei governi, nemmeno di quello
Usa. Anche perché magari si sono accorti che quel tipo di lotte serve a evitare
ai cittadini ogni giorno più inerti fastidiose
piaghe da decubito: la repressione sociale e politica è una misura che
deprime l’economia come poche altre. E i meccanismi sociali sembrano già oggi
in preda a una terribile glaciazione che nessuno dei vecchi rimedi pare in
grado di frenare.
7.
Violenza, non-violenza,
autonomia
"… sebbene la violenza non sia lecita,
quando viene usata per autodifesa o
a protezione degli indifesi essa è
un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda
sottomissione. Quest'ultima
non reca beneficio a nessun uomo e
nessuna donna. Nella violenza esistono
molti gradi e varietà di coraggio. Ciascun uomo deve
saperli giudicare da solo. Nessuno può farlo o ha il
diritto di
farlo al suo posto." M.T.Gandhi,
Teoria e pratica della non violenza,
Einaudi,
Torino,1973,p.22
“La morale non è che un freno a chi vuole attaccare il potere. Un freno costruito
appositamente. Il suo obiettivo è
di trasformare la vita in una somma di occasioni sprecate.
Cerca di affogare i nostri desideri proprio
in
questi pregiudizi. In
realtà la vita quotidiana continua al margine
di queste fantasie
egocentriche. Ci sono continue attività illegali contro
il nemico: furti a danni di imprese o supermercati, distruzione
di macchinari da lavoro, sabotaggi vari, attacchi
alla polizia ecc.. continuamente anche in questo momento
in ogni angolo del mondo. Le rivolte non vengono
dai libri né dalla mente di nessun illuminato, le rivolte
nascono dell'esplosione di disobbedienza di coloro
che hanno accumulato sufficiente rabbia da
essere stufi delle proteste ufficiali. Il
cittadino progressista vede gli sfruttati come persone da
organizzare e educare per fini rivendicativi. La mistificazione
con la quale osserva le autorità lo spinge a
vedere la gente come una massa di esseri incapaci di ogni
reale iniziativa, eredita degli "illustri" del 18° secolo un’adorazione
mistica per il razionalismo, la
pianificazione e una fobia accesa contro la
passione, i
desideri e la rivolta dis-ordinata.” anarcolista
(Drunk Block)
lista libertari
“La non-violenza è anzitutto una radicale non- collaborazione culturale,
una sottrazione di ruolo.”
Vincenzo
Guagliardo Opera, agosto 2001
La distinzione fra
violenza e non-violenza, che si presenta come assolutamente “obiettiva”
nell’universo presente, non solo non esiste da sempre, ma è relativamente
moderna. Trova radice infatti in una concezione già integralmente sociale, in
cui le relazioni fra i due soggettive presuppongono un terzo, CHE GUARDA. Si è
violenti (o non-violenti) a seconda di ciò che appare a questo testimone, a
questo spettatore. Così, per la valutazione della quantità di violenza presente
in un atto non si può mancare di riferirsi all’occhio di chi guarda, e al tempo
che egli utilizza per la propria osservazione e per il conseguente giudizio.
Il prigioniero che strappa
i legacci della camicia di forza, che sega le sbarre della cella, che abbatte
le mura del carcere, che sabota gli ingranaggi della macchina cui è incatenato,
rispetto all’aguzzino che quei legacci ha artisticamente annodato, che sbarre e
muri ha pacificamente innalzato, che lo ricatta con il codice e la proprietà,
appare certamente mille volte più violento,
a condizione che ci si limiti a guardare la realtà un fotogramma per volta...
L’impressione è
esattamente opposta, se, viceversa, tenendo conto di questo, si vuol guardare
alle origini, alle cause di ciò che accade: questa ascesa alle cause, o , se si
preferisce, questa ricerca delle radici, ai tempi del 68, fu tra le principali
cause dello scatenarsi di un’insubordinazione mondiale scatenata
dall’individuazione della violenza che stava celata
dietro le leggi, le norme,
le consuetudini, le usanze, le istituzioni. Nel momento in cui si riconquista
la capacità, non solo di giudicare, ma di scegliere ciò che si giudica, in cui
si agisce e non si risponde ai sondaggi, in cui si costruisce il mondo e non se
ne acquistano dei frammenti prefabbricati, la questione della violenza cambia
totalmente di segno. Ne è peraltro consapevole anche l’apparato di potere che,
infatti, tende a considerare il blocco stradale che è pratica passiva come
poche altre, come atto violento e tendenzialmente terroristico, giacché
impedisce la circolazione. La discriminante quindi si situa sempre di più su
violenza legittima, promanante dallo stato o in ogni modo autorizzata, e
violenza illegittima, illegittima non perché violenta, ma violenta
semplicemente perché illegittima. Se, quindi, per valutare ciò che è violento
siamo costretti a proiettare il ragionamento nel futuro e contemporaneamente
risalire al passato, occorre considerare che il mondo (quello che nel 1968
chiamavamo il "vecchio mondo" e nel frattempo si è tal punto
invecchiato da non essere più nemmeno un mondo) ha dichiarato guerra agli
esseri umani da molto, molto, tempo...
Come si fa a stabilire chi è stato davvero violento a Genova?
La camionetta che caricava
i manifestanti? I manifestanti in piazza senza permesso e trasgredendo le
leggi? I governi che hanno stabilito quelle leggi che distinguono fra violenti
buoni e autorizzati («noi siamo sempre con le forze dell’ordine» dichiarano sia
il governo – Berlusconi, sia l’opposizione - Violante) e violenti abusivi e
malvagi? L’insopprimibile bestialità delle creature? La tirannia nefasta di un
creatore che ci ha scaraventato in un mondo avaro e sterile e condannati a
«lavorare col sudore della
fronte”? Chi definisce che cos'é violenza? Le frontiere, i documenti
d'identità, i permessi di soggiorno, le serrature, i titoli di proprietà, il
denaro stesso, non sono realtà che impongono violentemente uno stato di cose? È
violento il curdo che arriva illegalmente col gommone, o il finanziere che
legalmente lo
sperona? Questa
seconda
violenza, quella legale,
avviene con la complicità di tutti, mentre della prima almeno ciascuno si fa
carico direttamente.
Scaricare, come fanno
tantissimi, la responsabilità di avere scatenato l’inferno sui primi
distruttori in nero, quelli di piazza Paolo da Novi, deriva da un’illusione
ipnotica, che è il prodotto di questa società degradata: che vi sia tuttavia
una possibilità di esistere al di fuori della violenza, al riparo dai
manganelli. Che il potere sia una belva che diviene pericolosa solo allorché
provocato, ma che, per sua natura, adeguatamente placato, rispetterebbe
l’esistenza privata. Dimenticando che la pretesa di manifestare contro i potenti, è già inaccettabile, o al
massimo accettabile purché si manifesti alternando continui gesti di
sottomissione e prove di obbedienza. In questo senso, il danno che procura la
concertazione di orari e percorsi, modalità e limiti, con le forze di polizia,
è infinitamente superiore alla positività del messaggio. In questo senso ogni
manifestazione autorizzata, prima di tutto manifesta il diritto dello stato ad
autorizzare, e quindi è, in quanto tale, un atto di partecipazione all’universo
permesso. Quindi, risulta meno sorprendente, ad un’analisi più attenta,
l’accusa rivolta alla polizia dal GSF, di non aver saputo proteggere la
manifestazione dai violenti, e a quella rivolta ai violenti, di aver avuto,
come principale bersaglio, le manifestazioni stesse. In questo senso anche
l’accusa di essere anarchici rivolta ai violenti, trova fondamento anche aldilà
delle elaborazioni teoriche dei singoli vandali, nell’approccio radicalmente
nemico di ogni potere separato, di ogni diritto sociale, di ogni dovere individuale.
Ma non si può non
ammettere che, per certi aspetti, il più violento è chi si proclama portavoce
di chi non l’ha mai incaricato di questo, e che, forte di un tale titolo
abusivo, perviene all’estremo vergognoso di recarsi ad omaggiare cadaveri
eccellenti, sindaci, conduttori televisivi
Il coordinamento fra associazioni ha
mostrato i propri limiti
perché il più gran numero,
a Genova, non apparteneva a nessuna associazione e molti le avevano tutte o
quasi tutte in uggia. La pretesa di stabilire arbitrariamente un concetto come
quello di non-violenza (inteso nella sua forma più loffia, cioé di
compatibilità con le istituzioni) ha fatto sì che il coordinamento fra realtà
dissimili che aveva funzionato bene a Seattle e così così a Praga, non é stato
all'altezza - anche se in realtà le "piazze tematiche" erano state
appunto un compromesso anche
decente. Ma l'ipocrisia di fingere di non sapere che in alcune piazze le
violenze erano preordinate e certe, ha fatto sì che il vantaggio di agire in
varie forme e con diverse tecniche, sia andato in buona misura disperso (non
del tutto, a piazza Manin venerdì, i mansueti hanno rapidamente convinto i BB
che salivano dagli incendi di Marassi a non attaccare e in parte i due gruppi
si sono coperti a vicenda, quando di lì a poco la polizia ha caricato). In
realtà, perciò, i difetti "partitici" e "frontisti" erano
già presenti nella disposizione originale del GSF.
Con l’occhio volto ai
«grandi numeri», e ad una peculiare battaglia rivendicativa sul tema del «no
profit» – settore da cui traevano sussistenza e visibilità un buon numero delle
associazioni rappresentate, e, soprattutto, dei 16 «portavoce» (portavoce
particolarissimi giacché furono ben poche le occasioni in cui essi si degnarono
di prestare ascolto a quelle voci collettive che avrebbero dovuto «portare»),
cui un certo livello di violenza, prima scatenata e poi imbrigliata, poteva pure fare comodo, essi da un aparte
finsero che i BB non sarebbero venuti (perché ufficialmente inesistenti e
sprovvisti di una piazza propria), dall’altra inviarono prima e durante gli
scontri messaggi discreti alle autorità
Questo portò infine alla
conclusione per cui ciascuna anima del movimento marciò divisa, esponendo tutti
indistintamente al grossolano «i pacifisti buoni sono quelli morti» della
polizia italiana. – Che una simile impostazione lasciasse spazio alle più ardite sperimentazioni soggettive fu subito evidente a tutti,
anche e soprattutto perché
il GSF aveva fissato un criterio di assoluta nonviolenza sulle persone e sulle
cose; e, in conseguenza di ciò, dissuase, di fatto, i BB da una programmazione
unitaria, simile a quella delle passate esperienze. D’altra parte, troppo
diversi e incompatibili erano i soggetti che avrebbero dovuto materialmente
condurre queste trattative.
La discriminante non
violenta imposta dal GSF era ipocrita, forse due volte ipocrita.
Tutta la crisi di Seattle
é stata causata dalla capacità che c'è stata di impedire fisicamente l'apertura
dei lavori: senza quella azione di forza (in parte non violenta, in parte
violenta - nei fatti la scelta dell'una o dell'altra tattica é relativa ai
rapporti di forza sul territorio) le sane parole di tanta gente nessuno avrebbe
saputo che venivano pronunciate (tranne te, tranne me, o Ermione...).
Ma credo che in un ottica
di protesta "utile" che riesca a sensibilizzare l'opinione pubblica
non necessariamente anarchica o antagonista (e questa
"sensibilizzazione" serve se non vogliamo trovarci tra pochi anni in
un 1984 orwelliano !) specialmente se in un contesto, con una forte copertura
massmediatica che strumentalizza ogni atto, come quello delle società
occidentali il metodo di azione non violento come metodo base per ogni azione
credo diventi sempre più indispensabile..Non si tratta di essere
"buoni" ma di avere efficacia delle proprie azioni....
Ma scusa, non vedi che
proprio gli scontri hanno reso visibile tutto quanto? che proprio la violenza é
stata efficace (in questo caso: se la violenza diviene a sua volta banale,
routinaria, la sua capacità espressiva si riduce fino a zero) sul piano
massmediatico? il potere teme di più la protesta non violenta ma proprio perché
essa presuppone grandi numeri e grandi spostamenti sociali. Violenza e non
violenza non sono antitetiche: c'è chi fa questo e non farebbe quello, chi viceversa,
chi passa da una all'altra
secondo le circostanze. È evidente che questa é stata la modalità più
caratteristica a Seattle, fra l'altro.
Tu sembri credere che
l'opinione pubblica apprezzi gli sfigati che sfilano con i cartelli e detesti i
violenti che rompono le vetrine e che quindi chi vuole ingraziarsela dovrebbe
tacere le proprie passioni violente e fingersi pecorella (o piuttosto pecorone)
per piacere alle damine dei giornali e delle TV? Non credi che sarebbe più
efficace dire a tutti ciò che abbiamo nel cuore, senza tanti balletti e
belletti per egemonizzare quei fessi della pubblica opinione? Non vedi quale
disprezzo terzinternazionalista per le masse cela la tua idea di ricercare
l'egemonia attraverso il rabbonimento degli estremisti?
E poi, quello che
tralasci, é che io quelle frasi le ho scritte in risposta al sospetto avanzato
da Andrew Bacelis, che i casseurs fossero prezzolati dal FBI o federali essi
stessi. Una volta ancora non sono coloro che creano i disordini a voler
dividere il movimento ma quei vigliacchi travestiti da non violenti per schivare le mazzate e meglio
accedere ai microfoni della TV. La non violenza seria é tutta un'altra cosa e
si propone di oltrepassare la violenza perché troppo poco radicale, e non perché
troppo estremista
Le motivazioni del Riesame
contro la scarcerazione dei teatranti
austriaci «...Di connivenza, in senso giuridico, potrebbe parlarsi per i tanti
che, scesi in piazza per manifestare pacificamente, hanno mantenuto un
atteggiamento meramente passivo di fronte ai gruppi di devastatori, nemmeno
troppo numerosi, che hanno agito indisturbati davanti ai loro occhi, pur avendo
la possibilità di tentare di bloccarli...»
obiettivamente, é vero che
noi manifestanti eravamo fuori legge, sia nelle intenzioni (violare la zona
rossa, che era il proposito di TUTTI, era illegale) sia nella pratica (quella
di chi devastava, e quella di chi lasciava devastare): ora uno (ad esempio io) può considerare
meraviglioso essere dei fuorilegge, altri (ad esempio
molti di Lilliput,
che si sono
autocriticati parecchio
per essersi fatti coinvolgere in una situazione
profondamente illegale) lo può stimare terribile. Ma i fatti sono là: a
centinaia di migliaia ci siamo battuti contro la legge e contro lo stato. Molti
senza rendersene conto del tutto, nemmeno dopo, credendo di essersi battuti
contro una prepotenza illecita dello stato, non comprendendo che é lo stato a stabilire ciò che é illecito e
ciò che non lo é (notare bene che la zona rossa era stata ideata dal governo
precedente che si era ampiamente illustrato a Napoli, a riprova del fatto che i
governi cambiano, ma lo stato é sempre quello che é). In questo senso, le
inchieste giudiziarie falsificano ipocritamnete il quadro, trasmettendo l'idea
che non fosse lo stato ad opprimerci a Genova ma le sue forze deviate. Che
esisterebbe uno stato giusto ed equo (che nessuno ha mai veduto in nessun luogo e in nessun momento, dammene
atto) di cui lo stato reale sarebbe un'approssimazione imperfetta, esposta alle mille insufficienze umane. Che lo
stato, in fin dei conti, promani da Dio. E così la legge: per cui, per i codici
contingenti, saremmo noi fuorilegge e i poliziotti assassini i difensori della
legge; ma per la legge eterna, per la vera giustizia, Carlo Giuliani, lanciando
l'estintore, riaffermava e ricostituiva il diritto contro gli usurpatori. E
perché questo? per la forza dei numeri: voi G8, noi sei miliardi. La
maggioranza diviene così simile a Dio, principio primo delle ragioni del mondo.
Di qui, come una condanna, ne segue che: male i poliziotti, servi degli
usurpatori della maggioranza, ma soprattutto malissimo i vandali senza legge,
coloro che hanno attaccato fin dal mattino del 20, senza attendere l'assalto
della legge. Malissimo, perché loro, neri e reietti, sono la minoranza. I
numeri li condannano.
-e non da chi la pratica
per mascherare la propria impotenza e la propria viltà.
Molte dissociazioni dai
violenti, sono risultate – prima e più ancora che infami, come a volte sono
state definite con un eccesso di reattività – prove di un’incomprensione della
portata
della posta in gioco: «Non
si tratta di irresponsabile massimalismo, ma di lucido pragmatismo: anche chi
si volesse limitare alle mere riforme, unico orizzonte politico che la miopia
dei "grandi leader" di movimento riesce a concepire, dovrebbe tenere
a mente l'ammonimento di Marx secondo cui esse si possono ottenere <>.
Una peculiare battaglia
rivendicativa sul tema del «no profit» – settore da cui traevano sussistenza e
visibilità un buon numero delle associazioni rappresentate, e, soprattutto, dei
16
«portavoce» (portavoce
particolarissimi giacché furono ben poche le occasioni in cui essi si degnarono
di prestare ascolto a quelle voci collettive che avrebbero dovuto «portare»),
cui un certo livello di violenza, prima scatenata e poi imbrigliata, poteva
pure fare comodo.
Qui si nota come
l’obiettivo non sia più neppure la violenza, ma proprio un’azione che non sia
pura e semplice militanza, con coerenza meritevole di miglior causa, si propone
una lotta noiosa per realizzare una società mediocre.
anche a quel 99% (che poi
é meno rilevante, credo) i BB facciano un po' d'invidia. La gente non parteggia
così tanto con gli sfigati, come vogliono far credere i giornali. Chi si batte
per le proprie idee, trasmette
l'impressione che quelle idee sono degne di battersi per esse. In questo
momento penso che ciò che é urgente é appunto che un altro mondo é possibile, e
che milioni di persone sono pronte a battersi per questa possibilità. Quindi
occorre guardarsi non dal vero pacifico che tale possibilità vuole affermare
con le mani nude, ma con il pacifista furbastro che mira non a fondare un altro
mondo, ma a far carriera in QUESTO mondo. Sono questi personaggi che possono
rendere odioso un movimento, con le loro furbizie e le loro viltà
rimane la questione della
non-violenza organizzata. Diciamo subito che é fallace scegliere la
non-violenza perché non si dispone della forza per fare azioni violente: la
non-violenza per
essere efficace presuppone
grandi numeri, grande coesione, grande esperienza dei singoli. Un'azione
violenta la si può fare in pochissimi, armati solo di buona volontà, e non
richiede nessuna condizione particolare, e nemmeno
rapporti di forza
assolutamente favorevoli. Basta che siano favorevoli in QUEL punto dove agisci.
Come già notato, gli sbirri
antisommossa hanno già mostrato i loro limiti quindici giorni fa a Napoli, dove qualche migliaio di
ultras li ha dispersi per quei cagoni che sono.
Si
è parlato e straparlato a lungo, prima, durante e dopo Genova, di violenti e
nonviolenza. Innanzi tutto la questione viene sempre dibattuta in modo univoco.
La non-violenza è agitata, in direzione di chi si solleva di fronte al potere,
mai mettendo in questione il potere stesso.( )Ma i poteri costituiti,
altrimenti detto lo Stato, sono nati attraverso un processo di accumulo
dei monopoli: la fiscalità, la moneta e la forza. La macchina statale è per
definizione il luogo di massima concentrazione della forza, è l'istituto che si
distingue da una banda qualsiasi perché può esercitarla in modo legittimo,
attraverso la regola dell'autolimitazione.
Ma per i non-violenti italiani questa lezione non vale. Strano modo di
rovesciare il segno di quella che pure è nata come forma radicalissima di
lotta. Da momento di delegittimazione etica dei poteri costituiti, dei
detentori del monopolio della forza legittima ("coercizione",
indicano con un eufemismo i manuali di diritto), viene fatta diventare strumento
di selezione, delegittimazione e criminalizzazione di coloro che si ribellano
contro i poteri costituiti.
Vittorio Agnoletto, uno dei prendiparola più solerti e sponsorizzati da
alcuni poteri mediatici forti, è uno dei maggiori campioni della caccia al
diverso, al dissidente, in nome di quella
che potremmo definire chiaramente come una forma di non- violenza autoritaria e
ultraistituzionalizzata. Si è detto: "se pratichi la violenza, contro beni
o contro terzi, mi fai
violenza",
ma una volta accettata, la stessa logica vale anche all'inverso "se
mi imponi la tua non-violenza, mi fai violenza". Non credo che se ne esca,
salvo un'accettazione reciproca di principio, che riconosca la pari legittimità
delle due ipotesi e accetti il confronto, la sfida, sul terreno della
competizione e persuasione degli
argomenti e dell'azione. Unico luogo di verifica che può attribuire l'egemonia
In Italia, con un malizioso malinteso, viene chiamata non- violenza un
tipo di cultura politica che si è costruita sul rifiuto e sulle ceneri della
violenza politica dei movimenti sociali sovversivi degli anni 70 e
sull'accettazione della legalità, altrimenti detta l'esercizio del
"monopolio legittimo della forza" da parte dello Stato. In questo
caso siamo di fronte al vero e proprio stupro semantico d'un termine e di una
pratica che ha ben altra storia e ben altre pretese, e che da sempre è nemica
dello Stato e della sua legalità.
Viene definita non-violenza la semplice acquiescenza all'ordine
costituito, il che vuol dire piuttosto sottomissione o comunque subalternità,
domesticazione nei confronti di chi esercita il monopolio legale della forza.
Babi
Lista movimento 30 maggio 2002
Ciò che Adriano Sofri
scrive « La premessa di ogni tentativo nonviolento sta in una difficile
banalità: nel fare come se chiunque potesse essere persuaso della buona ragione
delle idee per le quali ci si impegna. » potrebbe, in effetti, essere
riconosciuto, non dai soli pacifisti, ma da tutti coloro i quali non aspirano a
imporre le idee giuste, le parole vere, le condotte libere, ma piuttosto
regalare libertà e verità al mondo.
i mansueti, che in una
vita aliena dalla violenza scorgono non un semplice strumento ma il primo e
principale contenuto della loro azione, percependo essi la violenza come
costitutiva di ciò che oggi esiste, in quanto negazione dell’armonia cordiale
fra i viventi (il più delle volte percepiti come creature: tale attitudine
é in buona misura di fonte
religiosa, gandhiana, buddista, francescana, tolstoiana, etc), per certi
aspetti sono – al pari dei più veementi sovversivi (non a caso gli uni e gli
altri praticano il medesimo strumento dei «gruppi d’affinità») – coscienti
dell’esigenza di far attraversare ciascuno dalla medesima rivoluzione che si
richiede al mondo.
Ma i suoi stessi
sostenitori riconoscono che la parola «non violenza» viene sempre più spesso
immiserita a sinonimo di comportamenti compatibili ed accettati dalle leggi
vigenti, e
«rischia di subire un
degrado entropico», come lamenta Nanni Salio della rete Lilliput, coordinamento
delle associazioni non violente presente nel GSF. E, nel medesimo ambito, si
rincara: "nonviolenza" non deve più voler dire solamente
"assenza di aggressività", "astenersi", "essere
neutrali", ma anche "disobbedienza", "determinazione",
"azione", "costruzione di altro".
il difetto della
non-violenza sta nel fatto che - per funzionare - abbisogna necessariamente
dell'apporto di molti mentre per strangolare un sindacalista con la tecnica dei
thugs basta un laccio di seta e una volontà di ferro
Aggiungi che la non
violenza per essere efficace presuppone il riferirsi ad un universo di valori
in qualche modo comune: presuppone un'"opinione pubblica" libera e
influente.
Non violenza è il nome che
molti danno a ciò che è in realtà legalitarismo, rifiuto di fare violenza al
sistema delle leggi: il legalitarismo impone che le riforme derivino dal potere
costituito. Il legalitario è perciò obbligato a conquistare il potere, o quanto
meno a guadagnare potere, rispetto a chi lo detiene. Ugualmente è OBBLIGATO a
una violenta contesa di potere all’interno del movimento, per poterlo
costringere a strumento di battaglia politica. Non solo non è sorprendente che
i legalitari aggrediscano gli illegalisti, ma è inevitabile; perché la forza
del legalitario non gli appartiene, consiste nella sua capacità di vendere sul
mercato del potere i non legalitari, dopo averli ridotti all’impotenza
In nome del rischio
oggettivo (indiscutibile, anche se sopravvalutato) che i violenti farebbero
correre a coloro che violenti non sono, i nonviolenti si arrogano il diritto di
additare senz’altro consegnare i primi alla polizia, gettando di passata fra
l’altro un lampo sinistro sul tipo di società moralmente blindata e mortalmente
appiattita che vorrebbero edificare. Ma si tratta di una motivazione del tutto fallace
Altri pensano invece che,
a fronte della tendenza del presente sistema a distruggere tutto ciò che esiste
di umano e di vivente, sarebbe semmai urgente non disporci a nostra volta a
distruggere, ma piuttosto a costruire; e che questa sarebbe, oggi, la vera
radicalità. Giova loro rammentare che questo sistema distrugge non già
eliminando ciò che gli preesisteva, ma piuttosto attraverso la produzione di
una concrezione mostruosa, quasi un cancro o un colesterolo, chiamata
correntemente società, che ostruisce e avviluppa i flussi del vivente ,
mortificandoli, soffocandoli, pietrificandoli. E che quindi urge, per poter
costruire, un'opera preventiva di desedimentazione, di scioglimento, di
liberazione del futuro dalla costrizione del presente.
è comunque vero che il
capitale si valorizza in grazia della distruzione (distrugge lui stesso
ricchezza a più non posso) e in quest'ottica si potrebbero vedere tutte le
distruzioni come inutili, se non addirittura dannose; ma va considerato che i
motivi per cui si distrugge possono essere altri, ad esempio bonificare
un'area.
Corso Torino e Corso
Sardegna avrebbero ben potuto innalzare
l'insegna "zona definanziarizzata": insegna simbolica finché si
vuole, ma capace di rallegrare.
Risulta perciò che – in
considerazione della natura distruttiva del capitalismo pervenuta ormai a
livelli devastanti – ciò che urge è una “distruzione della distruzione” che non può perciò affermarsi né come un surplus
di distruzione, quantitativamente
e qualitativamente
irrilevante (che cosa possono rappresentare un paio di blindati in fiamme, una
dozzina di banche devastate, a fronte della settimanale distruzione equivalente
nella zona degli stadi, della violenza stessa dei reparti antisommossa a
Goteborg, Genova, Istanbul, e dei miliziani a Mazar-I-Sharif, ma ancor di più
dei disastri di Tolosa, del Monte Bianco, del Gottardo, dell’attacco alle Twin
Towers, ma soprattutto all’immensa demolizione operata trent’anni fa per
erigere le Twin Towers?
ogni costruzione è anche
una distruzione e viceversa: per costruire le torri gemelle erano stati
distrutti edifici a decine; abbattendole si é costruito Ground Zero; ogni
costruzione distrugge ciò che c'era prima, ogni distruzione costruisce uno
spazio libero da ciò che c'era prima. In certo modo i BB hanno costruito una
banca devastata, una macchina bruciata. provate a pensarci, é un buon esercizio
dialettico. Quindi il punto é sempre ciò che si distrugge, facendo qualsiasi
cosa; e ciò che si costruisce, facendo quella stessa cosa.
Nessuno riesce a competere
con il processo mercantile sul terreno della distruzione, che è il terreno suo
proprio: il processo mercantile è un processo attraverso il quale il mondo
divora ed evacua sé stesso senza posa, e la passività sociale che impone una
crescente contemplazione del prodotto del lavoro sociale, e un parallelo
schiacciamento di ogni residuo uso dell’esistente, è il perfetto contraltare
all’iperattività compulsiva e forsennata del processo di metabolizzazione
dell’esistente da parte del valore in processo: la mazza del vandalo appare
così come un ingenuo fai da te a fronte della palla d’acciaio e dell’esplosivo
dei demolitori autorizzati), né come una pura e semplice attività di
riproduzione sociale, che finirebbe per essere convertita in combustibile per
l’attività metabolica del processo di valorizzazione. Deve perciò affermarsi
non come “distruzione socialmente costruttiva” (come si ostina tuttora
ad essere gran parte dell’attuale
contestazione sociale9),
ma come “costruzione socialmente distruttiva”, non come pratica ancora una
volta costituente e legificante, ma decostituente e delegificante
Un movimento che si
proponga la soppressione della società della merce e della passività, non può
quindi che essere coerentemente e coscientemente antilegale, critica in ogni
momento sia di ogni legge, sia di ogni trasgressione parziale. Molto più che
commettere particolari atti illegali occorre volgersi alla negazione totale
della legge, esplicita nell’agire libero, nella costruzione di situazioni,
nella loro difesa attrezzata ed appassionata.
La violenza ha oggi
cambiato campo, non perché i proletari assoluti del nuovo millennio debbano in
qualche modo abdicare alla libertà di scegliere senza remore i modi del proprio
agire, ma perché l’opera dell’attuale capitalismo si è fatta in tale misura
violenta, da sussumere in sé ogni violenza, lasciando ai suoi avversari la
possibilità – su tale terreno – unicamente del gesto, speculare, inefficace,
spettacolare. Tutta la violenza disponibile appare già in vendita sui banchi
del mercato spettacolare
che il funzionamento
sociale presente non
si regga, lo pensa mezzo mondo, sia
prima sia dopo Genova. A me pare che Genova abbia detto che non solo un altro
mondo é possibile, ma che molti son pronti a battersi perché ciò accada. Questo
é stato il frutto dell'ampio arco di azioni create a Genova, e in particolare
del fatto che molti hanno spezzato la pace sociale, restituendo a ciascuno la
propria parte nel discorso. Questo non è che sia opera dei BB soltanto, ma del
fatto che il movimento comprendeva pure loro. Vorrei ricordarvi una volta
ancora che la gente - fra cui la casalinga di Voghera - é molto più violenta di
quel che sembrerebbe sentendo le cazzate buoniste dei telegiornali. A
moltissimi la violenza piace, pare segno di forza, di convinzione, di soluzione
radicale. Convinciamoci che la non-violenza arriva
come superamento
della violenza affrontata,
e non come sua elisione. Se Genova fosse stata del tutto pacifica, nessuno
l'avrebbe cagata, e questo era vero già per Seattle. Malgrado i trecentomila
che poi non sarebbero stati trecentomila, perché tantissimi erano lì per fare
casino: senza il casino sarebbero stati a casa. Quelli che sono a favore della
non-violenza sarà ora che si rendano conto di dover sedurre e convincere la
gente e non partire dal presupposto che la maggioranza è pacifista. Molti si
comportano da pacifisti per paura, pochi sono non violenti davvero. chi si
comporta da pacifista per paura, ma non lo é, appena smetterà di avere paura
smetterà pure di essere pacifista. La paura non é una buona amica, é una
padrona feroce
Rimane in ombra che la
manifestazione violenta e la manifestazione non violenta hanno origini e storia
completamente diverse: in sostanza non sono due cose simili in cui ci si
comporta diversamente ma due cose totalmente distinte unite solo dai fenomeni
superficiali di accadere in piazza e di coinvolgere un numero significativo di persone.
Proporrei di usare per la
manifestazione nonviolenta il termine di dimostrazione. Si tratta, infatti, di
un'azione simbolica con un programma esplicito e predefinito (spesso in maniera
informale ma mai spontanea) che mira in prima istanza a dire (agli avversari,
agli amici, a tutti - esistono varie possibilità) qualcosa che si reputa
importante (per es.: lo sapete che siamo in tanti a non essere d'accordo? lo
sapete che cosa pensiamo? lo sapete che su questa questione siamo uniti? etc).
In più esiste spesso un intento sabotativo e in fin dei conti, simile in ciò
alla tradizione dello sciopero: se non fate ciò che vi chiediamo, vi blocchiamo
le strade, vi rompiamo il cazzo mortalmente, vi rendiamo la vita impossibile, etc.
Essenziale comunque nella
dimostrazione nonviolenta é il rapporto mediato con l'oggetto del contendere:
l'azione pubblica non ha il fine di
cambiare di per sé nulla ma di incitare qualcuno
ad operare i cambiamenti
prospettati, oppure di costringere l'antagonista a sottomettersi, o ambedue le cose. Esistono sempre più spesso
dimostrazioni analoghe alle prime ma di carattere violento: i meccanismi e gli
intenti sono identici ma il comportamento in itinere è inteso a recare danno.
Rimane però vero che si tratta di atti simbolici: caso tipico la giornata
antiturca conclusa con l'infame operazione Girasole. Danneggiando la Turkish
non si agisce direttamente per liberare Ocalan ma si minaccia la Turchia di
fargliene passare di tutti i colori. Violenta o non violenta che sia la
dimostrazione presuppone una regia accurata (ed é il caso pressoché generale,
motivo per cui io non amo queste dimostrazioni e, salvo che per incontrare
qualche amico, non ci vado mai) oppure una capacità individuale di azione
pubblica collettiva, capacità della quale a queste nostre latitudini si é
perduta financo la memoria (personalmente ho veduto qualcosa di interessante in
Chiapas e anche piazza Tien An Men mi è apparsa notevole da questo punto di
vista). La manifestazione violenta, viceversa, può benissimo essere spontanea
ed anzi é proprio in questi casi che produce i suoi esiti migliori. Essa mira
regolarmente a un duplice fine: il primo é quello di esprimere uno stato
d'animo (hanno condannato a morte un compagno in Spagna? corro al consolato
spagnolo a strangolare il console e chiunque si metta sulla mia strada; il
consolato è blindato peggio che Fort Knox? mi scaravento a dar fuoco all'Iberia
e sulla via devasto tutto ciò che in qualche maniera rinnovella il mio furore)
essenzialmente spaccando tutto (e tutto non è
ancora abbastanza), il secondo quello di realizzare immediatamente un passaggio
chiave del mio fine ultimo (già in passato ho citato la presa della Bastiglia,
il carcere speciale della Parigi di quei tempi: potrei citare la cancellazione
dell'ambasciata USA a Skopije), giungendo fin lì dove le mie forze lo
consentono. Occorre dirvi che, sebbene le mie personali forze mi consentano
ormai solo vandalismi adatti alla mezza età, a una situazione del genere accorrerei sempre di
lieto animo? Benché questo
tipo di manifestazione non ne necessiti, pur tuttavia una qualche forma di
organizzazione e di regia può essere concepita, ma solo all'interno di un
movimento sperimentato e nell'ambito di un dibattito collettivo leale, cosa non
proprio frequente (gli anni 68-69 in vari paesi, il 77 in Italia hanno
intravisto simili momenti, ma solo qualche volta). Io reputo la dimostrazione
violenta (caso 1b), che è poi la più diffusa, sempre inutile e solitamente
dannosa, perché isola da un sacco di gente che direbbe cose simili ma non ha
voglia di sniffarsi il lacrimogeno o di prendere a cornate il bullone e il
manganello (mentre in quell'ottica il numero é tutto), perché consolida dirigenze
più o meno occulte, composte rigorosamente da teste di cazzo (perché se uno ha
bramosia di potere e di successo il capitale si becca i migliori agli
antagonisti lascia le scartine), perché, fondandosi su un programma estorsivo
(ti costringerò a fare ciò che voglio) mira
a rafforzare l'antagonista che é poi quello che deve davvero agire,
perché in ultima analisi - mentre finge di voler esprimere qualcosa - spinge
nel senso di una semplificazione del discorso che é l'opposto della radicalità
(secondo Marx, andare alla radice delle questioni, non secondo Pannella).
La dimostrazione non
violenta, funziona bene se c'é Gandhi o Martin Luther King, figure carismatiche
ad alto tasso di religiosità, e se l'idea di riferimento é, a parole, condivisa
dalla grande maggioranza e, nei fatti, disattesa: altrimenti tende a ridurre la
manifestazione a una sorta di testimonianza (nel senso cattolico non in quello
ancor più nefasto amato dai Buscetta e dai Peci) impotente e vittimistica. Ma
può essere anche un modo per ascoltare insieme il battere del cuore: però in
tale ottica é chiaro che la nonviolenza é irrinunciabile altrimenti chi agisce
violentemente (oltre ad ottenere ben poco sul piano operativo) spezza
l'incantesimo che é la sola forza di simili situazioni.
Resta il caso 2, che é il mio preferito. Ho premesso che é anche il
più difficile da realizzare ma va detto,
però, che: 1) non é
indispensabile partire con
la Bastiglia, si può incominciare che ne so? con il carcere di Chiavari; 2) si
possono individuare temi meno impegnativi di quelli del carcere; 3) un buon
passaggio é quello dell'occupazione di edifici sia per convertirli a proprio
uso, sia per dissiparli semplicemente (quando ci furono le lotte contro il
degradante governo Berlusconi sarebbe stato simpatico deviare verso la Standa e
polverizzarla, locali, merci e liquidi: della cosa il vile gnomo si é reso
perfettamente conto, infatti ha deciso di orientarsi integralmente sul
virtuale; 4) allorché il rapporto sia molto favorevole, il che accade ogni qual
volta si spiazzino gli sbirri,
si può tralasciare o comunque
ridurre al minimo la violenza, perché gli obiettivi immediati si realizzano
senza incontrare ostacoli.
Piacere e libertà
rimangono a fare la fila, mentre la noia recita il proprio ennesimo monologo.
Semmai, c'é da chiedersi -
in situazioni come Genova - quale senso abbia commettere azioni di violenza, e
a me non pare che ne abbia molto.
Argomenti
a favore:
-
terrorizzare
le guardie (cosa validissima, ma a condizione di avere le capacità di farlo,
cosa che mi pare incerta)
-
evidenziare
che non esiste un terreno comune con stato e padroni (cosa mille volte meglio
dimostrabile in altra sede)
-
fare
un dispetto ai pecoroni scanii e agli agnoletti del GSF (ma é un obiettivo di
portata davvero infima)
Argomenti contro:
-
rischio
di beccarsi un fracco di mazzate (cosa negativissima, che darebbe fiato a tutti
i pacifisti, i trattativisti, le mamme, i
parlamentari, i sindacalisti, i preti - per non parlare dei fastidi di chi le
mazzate dovesse beccarsele in prima persona)
-
aggravamento
della tendenza di porre la questione insurrezionale come cosa specialistica,
peculiare di combattenti stradali di lungo corso, inadatta alle persone
normali, ai refrattari senza divisa
- ulteriore spettacolarizzazione di uno scontro già per
molti versi
spettacolare
-
mancanza
di chiarezza nel dibattito, per cui obiettivi possibili in astratto, quali l'assalto e la dissipazioni di edifici
ostili (chiese, università, carceri, caserme, centri commerciali, fabbriche,
sedi politiche o sindacali, consolati, e simili latrine) sono poco o punto
verosimili in concreto
Guagliardo nota come la
violenza attragga anche perché presuppone meno impegno, dà l'impressione di
poter risolvere tutto, lasciandoci comodi al nostro posto; perché la violenza
non solo è più adatta ad essere contemplata ma è essa stessa autocontemplativa,
come dimostra molto bene la moda crescente fra gli holligans dello sport e
della sommossa di crearsi le proprie cassette filmate in cui perpetuare le
proprie gesta. Nella violenza sonnecchiano sempre il gesto e la sua
immagine.necessità di sollevare il piede dal pedale della violenza: il
proletariato, scrive bene Debord, può pervenire alla propria emancipazione solo
in quanto classe della coscienza, come portatore di un progetto umano; occorre
pensare a un disegno complessivo di "antiviolenza", che non sia solo
rinuncia e desistenza mani alzate e preghiere, ma forza pacifica e
comunicativa, disposta ad affrontare lo scontro ma nella consapevolezza che
esso é strutturalmente difensivo, perché una vittoria possiamo coglierla solo
sul piano della diserzione, dei kamikaze, dei top gun, dei robocop, di tutti questi personaggi da film che in realtà
sono, sotto la divisa, null'altro che proletari come noi, come i morti delle
Torri, obnubilati da un'identificazione forzata con le ragioni della morte
individuale e collettiva. Il proletariato deve porsi visibilmente come partito
della vita contro la morte
Barbaro era, per gli
antichi greci, chi balbettava la “vera lingua”, il greco dell’agorà; e barbaro,
altresì, era chi, in preda a incontenibile furore, distruggeva e devastava,
come farebbe un bambino. Già allora sussisteva il dubbio che i due aspetti
stessero fra loro in un
rapporto causale, che si distruggesse perché non si riusciva a partecipare
della parola comune.
Molta della distruzione
operata dagli insorti nella storia, mostra questo medesimo limite, di ridursi a
devastare per il fatto di non saper parlare. Non parlare, evidentemente, la
lingua già corrente, dal momento che lo spazio pubblico è stato dissolto; ma
inventare, istituire la parola libera, una volta che se ne abbia la possibilità, che oppressori e
mentitori, poliziotti e specialisti della politica siano stati costretti a
lasciare il campo. Lo si vedrà in tante rivoluzioni abortite, o rimaste
addirittura allo stato virtuale: lo vedremo anche a Genova, dove la ritirata
della polizia e l’inettitudine dei mediatori politici, aveva creato un ampio
spazio nel quale sarebbe stato perfettamente possibile parlarsi e confrontarsi.
Quel dibattito fra i partecipanti che gli specialisti avrebbero voluto nei
giorni precedenti, fra militanti e leaderini, e cui i più coscienti fra i
compagni (quelli che poi saranno additati con molta approssimazione come Black
Block) avevano opportunamente disertato; quel dibattito si sarebbe
perfettamente svolgere nella piazza stessa lontano dalla polizia ancora
arroccata a difesa della città vuota e del vuoto simulacro di potere
rappresentato dagli otto pagliacci globali, lontano dalla parola senza potere
dei social forum. La parola è potere sulla propria vita, è direttamente
esecutiva, quando si siano conseguite
certe condizioni: il barbaro che non capisce la parola di chi decide, cui non
viene permesso di decidere in quanto straniero al potere, potendo distruggere
ogni cosa, invece che limitarsi ai simboli e agli arredi di una città
abbandonata, potrebbe allora senz’altro dibattere l’uso possibile di quello spazio, e usare del proprio riconquistato
potere, immediatamente praticare e sperimentare le proprie decisioni. Invece
che marciare come falangi verso i simboli della zona rossa come proponevano gli
uni, invece che rappresentare il martirio sulle grate come hanno fatto altri,
invece che punzecchiare la città in coma col bastone e la fiaccola come hanno fatto altri ancora, occupare senz’altro
degli edifici, farne
luoghi di decisione e
passare senz’altro al riorientamento del territorio, difesi dal proprio numero
e dall’insipienza poliziesca
È precisamente il compiuto
evaporare del mondo, quale misura dell’azione umana, ad averci condotti a
scegliere la natura, e la più evanescente ed ingannevole di ogni natura, la
natura umana, come riferimento comune. In tal modo, la fraternità si pone
all’inizio, nell’oscurità dell’indistinto, e non alla fine del processo, nella
luce del percorso compiuto insieme, come calore da non disperdere e non come
fuoco da accendere. Il vivere si percepisce allora come entropia, come
dispersione, come incessante dilapidarsi di un “patrimonio” originario; il
nascere come condizione necessaria del morire. Per questa via il percorso della
violenza rischia sempre di convertirsi in apocalisse necessaria ad un perpetuo
ritorno all’humus: il suo fine pare essere quello di fondere da capo tutti gli
elementi per ritornare al magma, non si capisce bene se per riprovare da capo,
fidando in una migliore fortuna, o per contentarsi infine del calore naturale, fuori
del quale si sarebbe scoperto non esistere altro che il gelo della solitudine.
La costruzione alienata di un ambiente ostile, cui siamo stati costretti negli
ultimi secoli, ha prodotto fra le sue conseguenze, una profonda sfiducia nella
capacità umana di operare artifici, e di agire nel mondo da tali artifici
edificato. L’oblio, tutt’altro che innocente, su chi ha operato le scelte e sui
fini che lo hanno indirizzato, finisce per colpevolizzare “l’uomo”. Scrive
precisamente Mario Lippolis riferendosi al declino successivo all’esplosione
del 68, “nuovamente trascinati nella "massa" anonima prefabbricata,
ma la debolezza specificamente nostra stava ora nel fatto che, come la volpe
con l'uva, dichiaravamo di preferire alla luce, ormai declinante, il calore che
- spiega Hannah Arendt – ne è il sostituto preso i paria e che «esercita un grande fascino su tutti coloro
che si vergognano del mondo così com'è al punto di voler rifugiarsi
nell'invisibilità. E nell'invisibilità, in quell'oscurità in cui, essendo nascosti, non
si ha nemmeno
più bisogno di vedere il mondo visibile, solo il calore
e la fraternità degli
uomini strettamente stipati gli uni contro gli altri possono compensare
la misteriosa irrealtà che contraddistingue le relazioni umane ogni volta che
esse si sviluppano nell'acosmia assoluta e senza essere collegate a un mondo
comune a tutti. È facile, in un tale stato di assenza di mondo e di irrealtà, concludere che l'elemento
comune a tutti
gli uomini non è
il mondo, ma la "natura umana" di questo o di quel tipo, a seconda
dell' interprete» (L'umanità nei tempi oscuri. Riflessioni su Lessing).
La violenza é un male
nient'affatto necessario: ma é già in mezzo a noi. Per rimuoverla occorre
smontare un sacco di reazioni automatiche, far crollare un sacco di
impalcature. Non riesce ad essere un'operazione del tutto indolore.
occorre rendersi conto che
per rifare un altro mondo, non occorre conquistare questo - come giustamente
indicano gli zapatisti - ma è indispensabile disfarsene. La qual cosa va ben
aldilà dell'incendio e della distruzione, ma per ora difficilmente può
prescinderne. Chi ha delle idee in tal senso, si faccia innanzi, a condizione
che tali idee non consistano nell'alzare le mani, inginocchiarsi, fuggire con
le gambe a batticulo o fare una
mozione in parlamento.
Siamo sempre lì: fra il
piacere di creare e il piacere di distruggere, passa un'oscillazione che
distrugge il potere separato. Abbiamo distrutto a Genova? Oscilliamo verso la
creazione di relazioni e di passioni, e poi viceversa. Questo é ciò che sarebbe
stato opportuno fare, piuttosto che voltarsi continuamente verso Genova in
fiamme, e farsi di sale come la moglie di Lot...
La festa é appena
incominciata
8.
Realismo, estremismo, radicalità
"…posta in gioco tra le istituzioni e
attori sociali, nel silenzio
assordante della politica, non è la democrazia, né
la liberazione dal sistema, né la questione di uguaglianza,
ma la libertà di movimento senza impedimenti
e che si risolve nell'occupazione di spazi liberati
dalla sovranità della burocrazia e dalla continuità della
storia, nella dissoluzione della legalità e
dei legami precostituiti,
nell'azione individuale e antipolitica (senza
mediazione)”. Massimo Ilardi - In nome della strada - Libertà e
violenza –
" Io so che per voi i popoli non
contano niente perché la corte
è armata, ma vi supplico di permettermi di
dirvi che li
si dovrebbe tenere in gran conto, tutte le volte che si riconoscono
come un tutto. Allora ce ne stanno: incominciano
anche loro a considerare niente i vostri eserciti
e il guaio è che la loro forza consiste nella loro immaginazione:
e in verità si può dire che, a differenza di
tutte le altre forme di potere, essi possono, quando sono
arrivati ad un certo punto, tutto ciò che credono di
potere. " (Cardinale
di Retz)
Viviamocela con un po' d'ironia, e d'autoironia, questa sacrosanta battaglia. Non
facciamone un tormento per noi
stessi, perché nel tormento non si regge a lungo, ci si
scarica e si cede. Ogni tanto bisogna anche sedersi attorno
a un fuoco, e raccontarsi una storia, magari parlando
con uno scarafaggio saggio, alla Marcos.
Bisogna
ritemprarsi lo spirito, senza troppa ansia sulla
schiena. Sdrammatizziamoci
l'animo, abbiamo bisogno d'energia,
non possiamo fare la conta tutti i giorni
alla caccia del consenso, qui non si tratta
di fare audience; secondo me il
primo grande enorme successo, che è davvero alla nostra
portata, è quello di essere un po' più in pace
con
la nostra coscienza di uomini. È
già qualcosa d'enorme!
26 luglio 2001 temuchin – Lista Movimento
…non abbiamo diritti da reclamare o rivendicazioni da
avanzare, ma piaceri di cui godere GLI
AMICI DI NESSUNO – MESSINA CENTRO
KINESIS - TRADATE (VA)
Molte dissociazioni dai
violenti, sono risultate – prima e più ancora che infami, come a volte, con un
eccesso di reattività, le si è definite – la prova di un’incomprensione
assoluta della portata della posta in gioco: «Non si tratta di irresponsabile massimalismo,
ma di lucido pragmatismo: anche chi si volesse limitare alle mere riforme,
unico orizzonte politico che la miopia dei "grandi leader" di
movimento riesce a concepire, dovrebbe tenere a mente l'ammonimento di Marx
secondo cui esse si possono ottenere <>. Rincarano i compagni di
Vis-à-vis.
Ciascuno ha un'idea
propria del modo in cui agisce nella sfera pubblica. C'é chi pensa che in
questo ambito la decisione sia necessariamente collettiva: a sua volta
quest'impostazione si scinde fra chi crede che la minoranza debba conformarsi
alle decisioni della maggioranza; chi crede che le decisioni vadano prese per
consenso di chi decide, salvo poi imporsi a tutti coloro che partecipano della dimensione spazio-temporale della
decisione; chi pensa che le decisioni valgano unicamente per coloro che le
hanno prese e vadano al massimo suggerite a tutti gli altri, che si potrà
PERSUADERE (questo é il mio punto di vista: affermo di passata che i primi due
punti di vista presuppongono una polizia - nell'ambito che trattiamo chiamata
"servizio d'ordine" – e perciò
sono di impianto
sbirracchione).
Avverte opportunamente Fabio Massimo
Nicosia(Lista Libertari
–) 3 gennaio 2004 )” la
socialdemocrazia è una variante dello Stato di polizia: è costretta a imporre
tutta una serie di regole che poi deve per forza implementare col sistema
poliziesco- carcerario”
Vi sono poi alcuni che
reputano che la decisione collettiva sia sempre e comunque una scassatura di
palle, e che solo l'individuo può regolare le proprie azioni senza prevaricare
ed essere prevaricato. Quest’ultimo punto di vista, però, ha il limite di
presupporre il deserto e di creare il deserto: trattando tutti i presenti quasi
fossero nemici, tende a suscitare in loro l’inimicizia, l’autodifesa,
l’arroccamento
A Genova erano in piazza
persone amiche di ciascuno di questi punti di vista, in numeri variabili.
Essere in piazza in un
determinato luogo e momento non implica un'adesione a una manifestazione
convocata da qualcuno, né ai criteri da costui fissati, in uno dei modi
sopraindicati. Nemmeno lo stato ha la pretesa di fissare la condotta dei
singoli in un dato luogo e in un dato momento: pretenderlo converte una
manifestazione in una sfilata, in cui non le persone manifestano ciò che
credono, ma testimoniano con i loro corpi la forza dell'idea cui dimostrano di
aderire.
Quindi é fuori discussione
che ciascuno fa come gli aggrada, e nessuno può sostenere che la manifestazione
é "sua" e quindi ha certe regole, alla maniera di chi afferma "e
qui comando io, e questa è casa
mia". Se lo fa si assimila con le proprie stesse scelte, a un poliziotto.
E infatti quando le Tute in via Tolemaide fecero resistenza contro gli insorti
in ritirata, cercando di estrometterli dal corteo nel pomeriggio di venerdì, si
levò da capo lo storico coro, che ha stigmatizzato da decenni gli aspiranti
sbirri dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni: "via, via la
nuova polizia". C'era, al TPO di Bologna, un bellissimo filmato che
illustrava con abbondanza di dettagli la scena. Pare che poi qualcuno abbia ottenuto dei tagli radicali,
per occultare questa scena
edificante e l'altra in cui Casarini e Farina raccomandavano a tutti di non
diffondere la notizia che c'era stato il morto...(sta zito, Diocàn, sta
zitooo…)
in ogni caso coloro che
hanno fissato le regole delle giornate di Genova, lo hanno fatto in base alle
regole della democrazia contemporanea: alcuni soggetti, avendo scelto di essere
delegati, hanno scelto e qualificato una platea di deleganti, la cui
democraticità sarebbe dimostrata e accertata dal fatto di aver scelto come
propri delegati dei sinceri democratici!
Sfumato ogni soggetto
collettivo reale, i soggetti collettivi divengono vere e proprie emanazioni del
potere che è stato loro alienato e
di cui acquistano coscienza solo dopo esserne stati espropriati. L’assemblea,
così come il popolo degli elettori, è in tal modo sempre sovrana IN UN ALTRO MOMENTO, e la sua sovranità, lungi
dall’essere opposta ai delegati, si contrappone sempre a chi pretenderebbe di
parlare ed agire in prima persona.
Beninteso, il fatto di
essere incoercibile non implica che qualsiasi scelta debba risultare
appropriata agli occhi di ciascuno. Nulla vieta di giudicare inopportune le
devastazioni dei BB e anche di tanti altri: solo che questo si dice, si
argomenta, si dimostra. Fra persone libere, ci si convince. A Genova non era il
caso di fare come a Praga, o a Nizza? Gandhi ha coinvolto nel suo progetto
non-violento la grande maggioranza degli indipendentisti indiani: ma per farlo,
non ha usato il servizio d'ordine.
Non esiste imposizione di
regole senza poliziotti che la impongano. I poliziotti dei movimenti di
opposizione si chiamano servizi d'ordine.
I servizi d'ordine di
oggi, sono la polizia di domani: sia nello spirito sia nella sostanza, come
dimostrano abbondantemente le migliaia di garibaldini che, doo avere
imbrigliato,
regolamentato,
normalizzato il movimento partigiano, nell'aprile del 1945, smisero il
fazzoletto rosso per l'uniforme della polizia. Coloro i quali vogliono imporre
delle norme al processo sovversivo, sono gli stessi che, per gli stessi motivi,
intendono imporre leggi alla società futura, e non di rado si portano avanti
ammiccando, di tempo in tempo, a quelle della società presente. (non c’era un
po’ dell’arroganza del proprietario futuro, nella pretesa di Agnoletto che la
polizia seguisse le indicazioni del Social Forum, bloccando i violenti fin
dalle frontiere? ). Il riformista che si concepisce come erede designato al
potere su questa società, adocchia il panorama sempre con lo sguardo rapace e
meschino del figlio di papà, povero oggi, ma ricco nel futuro “a babbo morto”.
Fra Genova 1960 e Genova
2001 un'analogia - la reazione di migliaia di persone non inquadrate né
organizzate a una prepotenza vissuta come inaccettabile mi pare ci sia.
E retorico piuttosto che
chiedersi dove sarebbe oggi il Che - all'ospizio, magari, che cosa vuol dire? -
mi pare sia utilizzare tutta una terminologia guerriera e però poi dire, come
hanno fatto in tanti, che la gente a Genova non era venuta per fare la
rivoluzione. I casi sono due: o non è vero, e quindi cadono i suoi presupposti;
o é vero, e allora perché se ne recitano le forme ipostatizzate? E non é questa
una provocazione e un inganno verso coloro i quali - vedendo tutto questo
rosseggiare di intenzioni - pensano che sia scoccata l'ora x? No, dovrebbero essere questi ultimi a capire
che é tutta una finta, tutta una pagliacciata. E d'altronde occorre ammetterlo:
come fanno a non capirlo, vedendo l'adunarsi sui palchi e nei punti più sicuri
dei cortei di così tante facce di merda? Se c'é un modo certo per riconoscere
una rivoluzione è infatti questo: che leader politici e sindacali, consiglieri,
deputati, assessori, sindaci, gonfaloni, vigili urbani, labari, tricolori e
altre bandiere nazionali, foto del sozzone Pertini e spacciatori di souvenir, o
sono assenti, o sono dall'altra parte, nel loro alveo naturale, fra le guardie.
io credo che la gente
cambi idea quando legge e riconosce la tua coerenza, non certo quando cerchi di
presentargli la tua pillola più attraente, per non fargli subodorare la
medicina. Se fai così, ti chiama ipocrita, che è quello che regolarmente viene
da pensare della sinistra, che appunto "cerca consensi", facendo la
carina, parlando solo delle botte prese e non di quelle date, etc..Le persone
son molto meno pecorone di ciò che credono i leader in cerca di gregge: questi
ultimi se le fingono così, perché altrimenti la possibilità di porsi alla loro
testa non esisterebbe
La via maestra é partire
da sé stessi e dalle proprie ragioni, non obbedire e non comandare, non
delegare e non essere delegato. Se sei molto isolato, un simile presupposto può
inizialmente ridurre le tue chance di agire, con il vantaggio, però, di essere
la tua unica bussola (di poli Nord uno ce n'é, gli altri stroppiano). Non sei
particolarmente imbecille (masochista, si direbbe, semmai): quasi tutti siamo
travolti dalla Babele ossessiva di questa società che ti ripete "non c'è
niente che tu possa fare al di fuori di me". Mentre é vero proprio
l'opposto il fatto che io sia libero di fare qualsiasi cosa, non implica che io
lo faccia. Io posso rinunciare a una mia libertà per il solo fatto di farti
contento. Secondo me la libertà assoluta va praticata in un contesto
amichevole, di simpatia, di comprensione, di attenzione reciproca. Ma questa
simpatia é un piacere e una libertà, non un dovere e un obbligo. La solidarietà
é un dono che ci si scambia, per il piacere di essere insieme, nello stesso
luogo e nello stesso momento. È il contrario del senso civico, del dovere
sociale, del rispetto della legge.
Non é più semplice che
ciascuno sovverta come meglio crede e cerchi di convincere gli altri ad agire
come lui, piuttosto che sedere a tavolino a stabilire chi sia rivoluzionario e
chi no? l'ufficio che rilasciava patenti rivoluzionarie l'abbiamo bruciato a
Genova.
9.
TUTE BIANCHE E MENTITORI
Tutte le relazioni umane si plasmano sul paradigma del rapporto di denaro: tutti
gli esseri umani diventano prioritariamente
venditori e compratori di merci, atomi che
nella loro strutturale separatezza più che incontrarsi si
scontrano tra di loro. E, in modo sommamente contraddittorio,
mentre la logica puramente quantitativa della
merce corrode il significato stesso della qualità, ogni
singola merce (attraverso la pubblicità e la comunicazione)
è costretta a cercare di divenire veicolo di
senso e di valori per distinguersi da tutte
le altre perché,
proprio nel trionfo dell'astratto, esse diventano tra
di loro tendenzialmente indifferenziate.
Roma 15 luglio 2001. Vis-à-Vis
- Quaderni per l'autonomia di classe.
Le chiamavano Tute
Bianche, a causa della loro tenuta, ideata per rappresentare la condizione
spettrale del moderno neoproletariato, invisibile persino a sé stesso, e
Disobbedienza veniva chiamata la loro tecnica d’azione: fare massa, con i corpi protetti da scudi e imbottiture,
non ottemperando all’ordine di retrocedere, ma continuando a procedere verso
l’obiettivo, “utilizzando i propri corpi” per sospingere i poliziotti.
Una rappresentazione del
medesimo tipo era in programma anche a Genova, la mattina del 20 luglio; giù
dallo stadio, il “laboratorio Carlini”, fino all’imbocco di via XX settembre,
qualche spinta, qualche carica, un certo numero di lacrimogeni, due, tre, dieci
manifestanti che riuscivano a scavalcare, un buon numero di arresti (pare che
fosse già sgombro e predisposto il carcere di Alessandria) e i successivi
rilasci nella notte, così da non intralciare la grande manifestazione
dell’indomani, destinata a celebrare insieme la pacifica ma forte vittoria dei
manifestanti e la democratica ma efficiente condiscendenza del governo. Per
perseguire tale apoteosi della
democrazia “dal basso”,
erano state tenute varie riunioni, chiamate telefoniche nei due sensi,
abboccamenti, sia con altri spezzoni dei manifestanti, sia con la questura.
Perché lo spettacolo riuscisse convincente, più vero del vero, erano state
effettuate infinite e faticose prove, che sarebbero dovute servire a far
muovere migliaia di militanti come un sol uomo, come un solo “corpo”.
Manifestazioni così
partecipate e tecniche d’azione che presuppongono una partecipazione corale,
coordinata, necessiterebbero di una direzione tecnicamente molto capace e dotata di una grande autorevolezza
anche personale. I militari della disobbedienza, cioè della rappresentazione
non violenta della violenza, dovrebbero essere condotti con una competenza anche tecnica non comune (non
a caso i lillipuziani e gli stessi disobbedienti avevano sentito la necessità
di un addestramento specifico, e di una regia). Viceversa la miscela fra
presunzione e superficialità da una parte e indisciplina e incontrollabilità
dall’altra, fa sì’ che il controllo si operi solo in negativo, nel senso di
frenare ogni iniziativa non prevista. I militanti esperti sono sguinzagliati a
vigilare perché nel corteo NON si faccia qualcosa che esce dal programma. Il
risultato è che la colonna avanza avvolta dalle brume dell’incertezza, pesante
e prevedibile
Ma la pioggia torrenziale
caduta la sera e la notte del 19 aveva impedito le esercitazioni, che,
slittando al mattino, avevano contribuito a ritardare, in una con le mille
esigenze mediatiche e con la gerarchia pachidermica eppure inetta, la messa in
moto del serpentone. Come Napoleone a Waterloo, pioggia, lentezza di riflessi,
presunzione, inadeguatezza dei capi, assuefazione ai successi a poco prezzo,
congiurarono per la loro disgrazia. Quando si affacciarono su quello che
credevano un palcoscenico, all’incrocio fra via Tolemaide e corso Torino, si
trovarono scaraventati senza preavviso, come avrebbe scritto Marco D’Eramo sul
Manifesto del 24.7.2001, “davanti alla violenza della Storia”. Il filmato che
riprende lo sgomento dei
miseri dirigenti senza la
bianca divisa (l’accordo fra le Tute e parte del Sud Ribelle aveva comportato
la dismissione del loro colore distintivo, forse per eliminare un fattore di
divisione, forse per evitare che si evidenziassero troppo i loro limiti quantitativi,
in presenza di un movimento previsto in centinaia di migliaia di persone) di
fronte alle prime tracce degli incendi del mattino, parla chiaro su come questi
si immaginassero lo svolgimento della manifestazione, annunciata niente meno
che con una Dichiarazione di Guerra…
Le chiamavano Tute Bianche
e andarono perdute a Genova, liquefatte proprio quando parevano destinate a un luminoso futuro nell’ambito dello
spettacolo politico, ai cui venticelli si dimostravano mirabilmente attenti, e
in cui si erano affermati a forza di piroette ed effetti speciali. E,
soprattutto, grazie a un battage pubblicitario sproporzionato. Come negli
eserciti moderni ogni combattente presuppone da quattro a sette specialisti al
suo servizio nelle retrovie, così dietro ogni
militante in divisa da invisibile, si affollavano due, tre, quattro,
mediattivisti intesi a garantirne la visibilità, a diffonderne le gesta, nate
all’accendersi della luce rossa della telecamera, e morte al suo spegnimento.
Eredi legittimi e
somiglianti di un’ascendenza non meno sciagurata, l’Associazione YaBasta, cui
va il torto inespiabile e perpetuo di aver gettato il discredito sul tentativo,
meritevole di ben miglior sorte, di creare un movimento neozapatista in Italia.
Non avevano, infatti, compreso che, a distinguere gli zapatisti dalle
precedenti insurrezioni non era stato né l’iniziale impiego delle armi, né la
successiva sospensione del loro utilizzo, ma la capacità di gettare ponti fra
realtà distanti e, soprattutto, di scatenare e di affrontare paradossi «Ci
siamo armati per non combattere; ci siamo mascherati per essere visti…».
Viceversa, in questo
movimento mondiale che pure dagli zapatisti così grande impulso ha ricevuto, a
partire dal 1996, ci si arma ancora per battersi, si va a mani nude per non
battersi, ci si espone sotto i riflettori per essere visti, ci si rintana nel
buio
per rendersi invisibili.
Perché la sua molteplicità divenga davvero forza, occorre che essa si faccia
contaminazione, intreccio, meticciato, invenzione di strumenti coerenti e di
obiettivi appassionanti, di parole indimenticabili, di azioni sorprendenti.
Gli appartenenti a Ya
Basta, grazie alla loro prosa melensa e alla loro pratica trasformistica,
ottennero in breve che zapatista divenisse, in Italia, sinonimo di
superficiale, esteriore, spettacolare, mediatico, autocompiaciuto, ecumenico,
frontista. Non fu posto limite alcuno all’impudenza e alla balordaggine:
comunità zapatista di lì in avanti giunse a definirsi perfino il mediocre e
declinante complesso rap dei 99Posse!
Dopo la loro fondazione,
rapidamente affrancatisi dalle faticose pratiche di costruzione del consenso in
uso nei comitati Chiapas, resisi allegramente autonomi ed autoreferenziali,
convertitisi prima in Tute Bianche, poi in Disobbedienti, avrebbero presto
ripreso e rilanciato a pieno regime le pratiche squadristiche e mafiose
ereditate da quella parte dell’Autonomia
Operaia da cui avevano preso le mosse... Mentre essi giungono talvolta a schierarsi
in cordone per proteggere la proprietà privata, minacciata dai casseur, non trovano nulla di contraddittorio nel
minacciare, impedire la parola, cacciare dai treni o dai quartieri, assaltare
con bastoni; e al tempo stesso
operare una comune regia con elementi della Digos e delle questure per recitare
vere e proprie commedie O, meglio, considerando l’inconsapevolezza di parte di
tanti militanti, come episodi di candid camera., come a Milano, dove si giunse
all’estremo, ché non solo lo svolgimento, ma lo stesso tema della
manifestazione era concordato intorno a una chiusura di un centro per immigrati
clandestini in attesa di rimpatrio (e la sua riapertura cento metri più in là,
qualche mese dopo) Accantonata
l’ideologia leninista della presa del potere, si tiene in vita però l’intero
armamentario del micropotere sotterraneo, Sicché, dietro le autocelebrazioni
per il movimento
«davvero moderno»
riappaiono i tristi
personaggi del leader,
ora riciclato in portavoce
- portavoce é il leader in epoca di carestia, di pensiero debole, è uno di cui
sopravvive ormai solo la voce -, del dirigente locale, dell’intellettuale
organico, della cinghia di trasmissione, del giornalista amico, del militante,
dell’esecutore, del simpatizzante, dell’utile idiota.
Tutti concordi nel descrivere
Carlo Giuliani, come un isolato, un prigioniero del proprio disagio, appena
conosciuto, di vista. Salvo, poco tempo dopo, sondati debitamente gli animi,
aggiustare Tutti concordi una volta ancora il tiro, per candidarsi al ruolo
dell’unico che potrebbe ricondurre alla ragione i
«compagni che sbagliano»
(riprendendo l’insuperato loro modello, quel professor Negri che si proponeva
come alleato dello stato che lo aveva carcerato come terrorista, nella
battaglia contro il terrorismo,) e pretendersi, con il supporto di una famiglia
oppressa dalla tragedia e scombinata dal turbine della notorietà, come eredi
legittimi del morto, come interpreti autentici della sua vita.
Il movimento delle Tute
Bianche, nato male e cresciuto peggio, raccogliendo il peggio di svariate
esperienze ed esprimendo un linguaggio, un immaginario, delle pratiche e delle
vedette di un livello mai così basso
dai tempi di Lotta Continua, cui peraltro somigliavano nel rampantismo,
nell'ammiccamento impudico ad istituzioni e giornali, nella prepotenza mafiosa
e acefala, nel sincretismo teorico per cui ogni pensiero va bene purché possa riassumersi
in slogan, é una jattura, e ogni contatto con esso conduce all'inerzia e al
fallimento più indecorosi. Non penso che i loro obiettivi siano giusti ma
parziali - come sostengono molti estremisti - né che siano giusti ma perseguiti
con mezzi inidonei – come sostengono i non-non violenti. La nascita delle Tute
Bianche e di quella pletora di movimenti biopolitici che ha impestato per un
breve periodo il mercato ideologico, difficile da comprendere se si parte da
un’analisi politica o sociale, risulta viceversa perfettamente comprensibile se
la si percepisce come la creazione
di un’impresa intesa a commerciare una merce di cui IL MERCATO AVEVA BISOGNO.
Per molti aspetti,
rammenta la nascita di
Forza Italia. Si era determinato un vuoto AL CENTRO di uno schieramento,
minoritario, ma necessario per incanalare e sterilizzare l’insofferenza
crescente. Un’organizzazione capillare, un attivismo tanto vivace quanto
generico, un pensiero debole accoppiato con una sloganistica doviziosa e
lussureggiante (ottenuta saccheggiando in maniera piuttosto raffazzonata
l’armamentario inesauribile del Subcomandante Marcos), una costellazione di
successi impalpabili ma altamente percettibili: con simili strumenti fu
elaborato il prodotto disobbediente che colse d’acchito grandi successi fra militanti e contemplativi, sempre alleati
contro ogni pratica reale. I loro mezzi erano adatti ai loro fini, quello di
costituirsi come strumento e portavoce della società civile, per egemonizzare i
processi sociali e condurli nel senso di una maggiore socializzazione dei
saperi, delle ricchezze, delle decisioni. Che il fine dei singoli fra loro, sia
principalmente quello di militare da subito in un movimento attivo e
spumeggiante, che ti fa vedere il mondo, come un tempo la Marina Militare, che
ti fa provare abbastanza brividi con rischi ragionevolmente modesti, che ti fa
essere al centro dell'attenzione dei media, delle mamme e delle ragazze, che ti fa partecipare della poesia un poco
inflazionata degli imitatori di Marcos, del mix eccitante dell'incenso, dei gas
lacrimogeni, del patchouli, della marijuana, della polvere dei seggi e dei tubi
di scappamento. Le Tute Bianche non solo non si volgono contro i mali di questo
mondo, passività, militanza, contemplazione, ideologia, delega, godimento
procrastinato all'infinito, risentimento, impotenza, fede, ma, pensando di
volgere tutto questo a fin di bene, contribuiscono nel loro piccolo ad
alimentarli. Con la liberazione umana, semplicemente non c'entrano; alla lunga,
se la situazione dovesse radicalizzarsi li troveremo con certezza assoluta
dalla parte della polizia, cui già
somigliano nell’ansia di normalizzazione, di sottomissione della libertà
individuale alla necessità socialmente riconosciuta (non tutti, alcuni
finirebbero per rendersi
conto e si tirerebbero
indietro).
é facile vedere come sia
proprio in grazia del Black Block che, da Seattle in poi, la ricchezza di
questo movimento si sia resa visibile e comunicabile. Se, a Seattle e di lì in
avanti dappertutto, non vi fossero stati gli attacchi soggettivi dei compagni
ma solo le manifestazioni pacifiche e/o la
repressione di polizia, questo movimento avrebbe raggiunto l'ampiezza e
la molteplicità che ha oggi? Credi che i vari portavoce sarebbero stati anche
solo ricevuti dai ministeriali se non avessero avuto da "vendere"
(nel duplice senso: quello del prodotto da scambiare, e quello più classico dei
trenta danari, quelli del compagno Giuda) i violenti, che promettevano di
controllare? Il ruolo di questi mediatori pretende di riprendere (ma con insufficienti capacità) la storia
vergognosa dei partiti comunisti e dei sindacati amici loro, sfruttando la
radicalità proletaria per riscuotere fette di potere. E, infatti, quando tale
radicalità ha perduto energia, al principio degli anni Ottanta, quei luridi
hanno a loro volta perso il potere che avevano acquistato come prezzo della
delazione e della resa. Balza agli occhi la somiglianza fra le dichiarazioni di
Berlinguer che prospettava di occupare Mirafiori, nel 1980, ad accordo già
firmato, e la dichiarazione di guerra di - si parva licet - Casarini, che aveva
già concordato lo sfondamento simbolico della Zona Rossa, che - si diceva -
avrebbe fatto contenti tutti.
Ma la parte cattiva che scatena la lotta era lì, e Casarini deve
scordarsi la carriera dei
Berlinguer e cercarsi un ruolo come vice-gabibbo.
Sulla Lista Libertari
troviamo: «Genova non ha fatto che sancire una cosa che già si sapeva: la diversità,
l'alterità, l'estraneità fra un movimento con dirigenti e divise (benché
dismesse) e una moltitudine di individui; fra chi dichiara guerra e vuole
rappresentare lo scontro simbolicamente e chi pratica l'azione diretta,
assumendosene le conseguenze, nella concretezza del presente; fra chi fa
politica nella prospettiva della carriera, sulle spalle del militantismo, e chi
tenta di realizzare
immediatamente. Con la
possibilità anche di sovrapposizione fra le due categorie, evidentemente
temporanea, perché l'azione libera è pedagogica.»
Se passa il suo tempo ad
indicarci ai poliziotti o a cercare di darci bastonate o di convertirci alla
religione di Cristo, sì che é difficile. C'è un limite a ciò che ciascuno può
percepire come"noi". In una parola, non sono ipotizzabili soggetti
sufficientemente estesi perché la parola "noi" possa comprendere loro
e chiunque abbia passione per la sovversione e rispetto per sé stesso.
In realtà la questione é
più sottile, perlomeno negli intenti di Ilona che sotto la tuta non avrà
niente, ma fra le orecchie sì. È in gioco tutta un'analisi della realtà e
dell'azione politica, dell'uso del deturnamento, della possibilità di una
rivoluzione. E forse é in gioco anche un braccio di ferro sul piano personale.
Ci sono pensatori che hanno veduto nel movimento delle tute bianche la
realizzazione di un sogno, una sorta di blissettismo di massa, di
antirappresentazione, di irruzione del simbolico, del gestuale, anche del teatrale, nella lotta sociale. Che
dello zapatismo hanno colto una conferma alla loro idea di un movimento fatto
essenzialmente di comunicazione, che utilizza l'astrazione mortifera della
società contro di essa, attraverso una regia collettiva, ma anche - nell'ombra
ma non del tutto - pilotata. A questa visione faceva comodo avere di fronte
solo l'etica brusca dei kamikaze con il loro rotear di bicipiti contro tutto
l'universo, per potersi porre agli antipodi, nell'ineffabile e nello squisito e
nello spiazzante. Ora si é scoperto che, dietro i bicipiti e la nostalgia, ci
sono altri modi di percepire il presente e il futuro, dove poco o punto spazio
troverebbero artisti e avanguardisti e intellettuali e militanti: e che questi
modi articolano delle relazioni fra persone, pensano modi di uscire dall'isolamento
e dalla solitudine, i veri problemi della povera triste Ilona, con le sue nudità senza mistero
e senza verità. Lo
sconfortato fastidio della
Tutanuda - tutacalda, deriva da questo: che anche solo affermare che vivere
un'altra vita é possibile, dissuade sempre più in fretta dall'accontentarsi di
mimare l'antagonismo nei giorni delle scadenze comandate; e di contemplare
lucidamente il declino dalla plancia della propria intelligenza solitaria e negletta.
10.
REPRESSIONE
All'interno di questo governo di merda come
in tutti i governi ci sono spinte che
portano a non identificare troppo
le differenze all'interno del movimento. Per loro, da
AN alla Lega in poi e il ministro Pisanu incarna questa
area, nel movimento sono tutti uguali ed ognuno gioca
un ruolo. Per cui Rifondazione fa delle cose, i disobbedienti
ne fanno altre gli anarchici altre ancora.
Tutti sono legati da un filo sovversivo. Questo chiaramente secondo loro.
In effetti anche Ros e Digos la
pensano in questo modo. Se si leggono le loro veline sulle
nostre riunioni ci si accorge che per loro
non esiste dibattito
ideologico e pratico all'interno del movimento e che
esiste un’unica strategia che ci porta nelle piazze contro
i vertici "in modo separato ma per colpire uniti".
Grilloparlante 13 gennaio 2004
Lista Movimento
Cagliari-Goeteborg:
i commensali sparano ai non
invitati!!! "Non temete,
non ribellatevi, noi vi salviamo dai vostri problemi cioè da voi stessi. A
patto che facciate da
bravi, non accetteremo nessuna
richiesta, nessun obolo se non fate da bravi, testa
chinata, grazie. E non dimenticate la marca da bollo
da ventimila."
Sembrano loro le vittime.
Lista Movimento
mAkno
È ingenua l'idea – nota
Claudio Fausti - «che il movimento verso l'autonomia individuale possa avvenire
parallelamente - sotterraneamente - autogestendo isole di liberazione nella
corrente della catastrofe senza fare e farsi del male, scavando
gallerie sotto le
fondamenta del dominio per vederlo cadere un giorno su se stesso, senza
incontrare mai la sua violenza, il suo monopolio della "guerra" e
dell'offesa a cose e persone, senza incontrare ciò che è senza dubbio tragico e
drammatico in un conflitto reale.»
L’innocenza, avverte
Hannah Arendt, non è una virtù pubblica: rivendicare la propria innocenza,
significa pretendere di mascherarsi dietro l’imprevidenza, se non proprio
l’impotenza vera e propria. Non solo chi ha chiamato a marciare, specialmente
il 21, ma anche chi ha preteso di marciare, le mani bianche levate, i trampoli,
le bande, le coreografie, i coretti
da bluebell, le sceneggiate nefande di una politica pon pon (datemi una n,
datemi una o…e invece ti hanno dato un
fracco di mazzate), non può rivendicare seriamente di non sapere, di non aver
mai potuto immaginare. Gli uni e gli altri, chi ha lasciato fare e chi ha
fatto, lo ha fatto per potersi valorizzare come martire della legalità offesa,
per poter sostenere che criminali non saremmo noi che vogliamo distruggere
questo mondo e le sue leggi funeste, ma i poliziotti che quelle leggi, supposte
buone o quanto meno neutre, le dovrebbero salvaguardare. Nel furore di
acquistare il potere sulla neo- lingua,
che è uno dei cardini dell’alienazione nell’Oceania di Orwell, i contestatori
contendono ferocemente ai governanti il dubbio privilegio di rappresentare
l’ordine contro il caos (e non a caso, va di moda nella sinistra definire
“forze del disordine” le forze di polizia). Immersi nel fetore della carogna
del nazareno, a volte nelle proprie tradizionali sembianze, a volte travestito
da Che Guevara, o – dai più tempestivi nel fare rifornimento presso le bancarelle-altare del
sacrificio mercantile – da Carlo Giuliani stesso, migliaia di sciagurati sono
avanzati nella trappola del lungomare per testimoniare “con i propri corpi” la
propria fede nella legge repubblicana. Particolare risibile e imbarazzante:
senza nemmeno avvertire nel profondo questa fede, ma proprio in un suicida
“credo quia absurdum”. La menzogna della legge sarebbe dovuta convertirsi magicamente in verità grazie al
sacrificio di sé,
all’esposizione rituale del corpo crocifisso nella ciabatta, nella canottiera,
nella bandana che faceva seguito alla crocifissione reale del compagno morto il
giorno prima, e – proprio come Gesù – rivalutato post mortem, divenuto figlio
del Dio minore della modernità sociale e della sua religione frivola e a buon mercato. L’unico corpo buono
diviene così quello morto, l’unico sangue buono quello sparso in memoria di lui
e in oblio di ciascuno di noi. La sfilata funeraria e l’assalto suicida, la
mano levata in segno di rinuncia, e il pié veloce del fuggitivo divengono così
altrettante modalità della rimozione dei corpi viventi e presenti, e della loro
forza latente. Perché si scriva che “Carlo vive”, occorre che la vita gli sia
stata definitivamente strappata, allorché ciò che andrebbe riaffermato con le parole,
con parole che affermino una realtà, dovrebbe essere “noi siamo vivi” e “pure
Carlo lo sarebbe se voi bastardi non lo aveste ucciso”
In questo senso l’azione
poliziesca di Genova, più che fascista, è esplicitamente terrorista, intesa a
suscitare smarrimento e disorientamento. Come nelle fasi preliminari di una
tenzone, ciascun contendente esibisce dinanzi all’avversario quel che sarebbe
capace di fare. Così Vlad Tepes, il principe valacco le cui gesta verranno
trasfigurate nel personaggio del conte Dracula, dissuadeva i turchi
dall’invasione, crocifiggendo i propri stessi sudditi. Nel delirio sadico di
via Tolemaide, corso italia, Bolzaneto, la scuola Diaz, si trovava esibito,
portato alla luce senza mediazioni, il destino che i poliziotti regolarmente,
tutti i giorni, in tutti i paesi, nell’ombra dei vicoli, delle carceri, dei commissariati, riservano «a quelli che
ne sanno più di loro».
E come ogni esibizione
terroristica, essa si realizza e si perfeziona solo grazie alla condiscendenza
e alla collaborazione del terrorizzato. Che vi scopre l’orrore della violenza
subita e l’orrore di quella controviolenza sbandierata e sganasciata in mille
slogan nerboruti e insipienti. Ecco che cosa significa pagare tutto, ecco che
cosa significherebbe far pagare tutto: mille volte meglio affrettarsi dinanzi
ai televisori, dove tutto
il sangue è innocente e di
tutto il sangue si è innocenti.
I carabinieri sono a
difendere lo stato, e lo stato non siamo noi: noi ne paghiamo i conti, ma
questa é solo una prepotenza in più. Una specie di danni di guerra, per cui il
vinto paga le spese fatte dal vincitore per sconfiggerlo, e in più le proprie.
Pensarsi come datori di lavoro del carabiniere, in quanto paghiamo le tasse,
crea solo equivoci. Non abbiamo potere su di lui, come non ne abbiamo sui suoi
mandanti, che non sono lì a nostro nome, neppure se li avessimo votati
personalmente.
il dipendente pubblico non
si impegna per l'interesse pubblico, non perché pigro, accidioso, infingardo,
ma, semplicemente perché un interesse pubblico non esiste. Non può esistere in
assoluto, perché l'ambito pubblico sarebbe, se le parole mantenessero un senso
e una dignità, precisamente quello da cui l'interesse é lasciato fuori; e tanto
meno esiste in una società che, se forse non é più divisa in classi, lo é solo
perché l’uso del potere é stato sottratto a ogni singolo, perché è stata
cancellata la classe dominanteDire "voglio che i carabinieri siano più
professionali" o i "giudici più equi" o quel che vi pare é
altrettanto realistico come pretendere che i cammelli abbiano tre gobbe: il
nostro potereell'uno e nell'altro settore é inesistente. La democrazia é uno
scherzo (la democrazia cristiana uno scherzo da prete, si aggiungeva trent'anni fa)
"Tutte le classi che finora si sono conquistate il potere hanno
cercato di assicurarsi la posizione già acquisita nella loro esistenza,
assoggettando l'intera società alle condizioni del loro profitto. I proletari
possono conquistare a sé le forze produttive della società soltanto abolendo il
sistema di appropriazione che le caratterizza, e perciò il complesso dei
sistemi di appropriazione finora esistiti. I proletari non hanno da
salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza e tutte
le garanzie private esistite finora".
Marx – Engels Il Manifesto
Per i proletari distruggere tutte le sicurezze e le garanzie private (tutte, quindi comprese le
proprie) è ben diverso che muoversi per rivendicarne il mantenimento e
addirittura per chiederne di nuove.
Nel caso ri-formista non ha senso combattere contro la forma che si
vorrebbe migliorare; nel caso rivoluzionario, anti-formista, non ha senso
"protestare" contro governi e polizie, pure apparenze esteriori al
servizio della forma che si vuole abbattere. Peggio che mai è farlo nel momento
in cui esse sono massimamente preparate e armate per affrontare lo scontro. Se
poi questo scontro avviene lo stesso, non ha neppure senso indignarsi per
l'inevitabile quanto prevedibilissimo massacro, che ovviamente si è abbattuto
maggiormente su chi non vi era preparato.
Marx
ed Engels a precisare, nel Manifesto, che i comunisti "sostengono ovunque
tutti i movimenti rivoluzionari contro le situazioni sociali e politiche
presenti", e che in questi movimenti essi "sollevano la questione
della proprietà, qualunque sia il grado di sviluppo che questa ha potuto
raggiungere".
Perciò, a differenza che nel passato, le tre polizie hanno tenuto la
piazza con un piano militare semplice ed efficiente. C'era 1 poliziotto ogni 5
manifestanti a Seattle, 1 ogni 20 a Genova:
con forze relativamente limitate rispetto alla situazione da
controllare, i poliziotti nostrani hanno tutto sommato raggiunto gli obiettivi
immediati che si prefiggevano i loro comandi. Tramite espedienti elementari
sono riusciti ad evitare la formazione di masse d'urto incontrollabili. Ciò che
i media non potevano mostrare è stato probabilmente più significativo di tutto il folclore fotogenico dei
pestaggi e degli incendi: i percorsi obbligati predisposti da giorni con i
container e modificati a sorpresa la notte prima delle manifestazioni, le vie
di fuga perfettamente controllabili da pochi uomini, le evidenti trappole
mobili per attirare i dimostranti, l'utilizzo di gas a distanza
in
quantità industriale (anche con gli elicotteri) e i repentini e violentissimi
attacchi per disperdere la massa dei manifestanti ed evitare così che fosse
utilizzata come rifugio dai gruppi più attivi, l'evidente disinteresse nei
confronti di pochi smasher, i quali avrebbero richiesto forze sproporzionate
per evitare danni tutto sommato ben sfruttabili propagandisticamente. (P Com
Internazionalista)
In realtà é facile vedere
come le cose stiano all'opposto: e come sia proprio in grazia del Black Block
che, da Seattle in poi, la ricchezza di questo movimento si sia resa visibile e
comunicabile. Se a Seattle,e di lì in avanti dappertutto, non vi fossero stati
gli attacchi soggettivi dei compagni ma solo le manifestazioni pacifiche e/o la
repressione di polizia, questo movimento avrebbe raggiunto l'ampiezza e la
molteplicità che ha oggi? Credi che i vari portavoce sarebbero stati anche solo
ricevuti dai ministeriali se non avessero avuto da "vendere" (nel
duplice senso: quello del prodotto da scambiare, e quello più classico dei
trenta danari, quelli del compagno Giuda) i violenti, che promettevano di
controllare? Il ruolo di questi mediatori pretende di riprendere (con immutato
cinismo ma con insufficienti capacità) la storia vergognosa dei partiti
comunisti e dei sindacati, sfruttando la radicalità proletaria per riscuotere fette
di potere. E, infatti, quando tale radicalità ha perduto definitivamente
energia, al principio degli anni Ottanta, quei luridi hanno a loro volta perso
il potere che avevano acquistato come prezzo della delazione e della resa. È
evidente la somiglianza fra le dichiarazioni di Berlinguer nel 1980 che
prospettava, ad accordo già firmato, di occupare Mirafiori e – si parva licet -
la dichiarazione di guerra di Casarini, che aveva già concordato quello sfondamento simbolico della Zona Rossa,
che – gli avevano garantito - avrebbe fatto contenti tutti. Ma la parte cattiva
che scatena la lotta era lì, e Casarini ha dovuto scordarsi la carriera dei
Berlinguer per cercarsi un ruolo nei varietà televisivi, come vice-Gabibbo
Davvero, certe volte mi
pare che abbiamo fatto sogni diversi...o esperienze diverse. Io ho un ricordo
entusiasmante di Genova e così quasi tutti coloro che erano a Genova insieme
con me e con cui ho scambiato discorsi veri. In lista invece le cose appaiono
già più oscure: se uno guarda quella cassetta (che non mi é piaciuta per nulla:
ben diverso il filmato di Indymedia) emerge solo ciò che "ci hanno
fatto", quasi che noi non avessimo fatto nulla. C'è una parte di chi c'era
(e ancor di più di chi non c'era) che, a furia di distinguersi da questo e da
quello, mi pare si percepisca come vittima di una situazione che il movimento
ha messo insieme, vissuto, determinato, esperimentato, in parte goduto in parte
sofferto (chiaramente in maniera ineguale: la parte che compete ai singoli é
molto casuale e sbilanciata). Quello che non mi é piaciuto di quella cassetta é
che non mi ha fatto tornare indietro - non contiene un'esperienza omologa con
la mia - e tanto meno mi/ci fa andare avanti: a me pare un'operazione della
sinistra per usare Genova contro il governo, sospetto confermato dai
giornalacci ignobili che l'hanno diffusa.
A una studentessa si volle
attribuire, come grave indizio di colpevolezza, l’uso di un…reggiseno nero!
11.
MOVIMENTO e ASSEMBLEE (L’ultima internazionale è già
passata)
…per un periodo ancora indeterminato la storia
verrà fatta dalla potenza delle polizie e dalla potenza
del danaro, contro l'interesse dei popoli e la verità dell'uomo.
Ma forse proprio per questo è consentita la speranza.
Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione,
impariamo almeno a vivere i tempi della rivolta,
saper dire no, sforzarsi, ciascuno nel posto che occupa,
di creare quei valori vitali senza i quali non potrà
esserci alcun rinnovamento, conservare ciò che vale
dell'essere, preparare quanto merita di esistere, provare
a essere felici affinché il sapore terribile della giustizia
ne risulti addolcito, ecco alcune buone ragioni
di rinnovamento e di speranza...
...sappiamo che la nostra società si fonda
sulla menzogna. ma la tragedia della nostra
generazione è di aver visto una nuova
menzogna sovrapporsi all'antica,
sotto le false insegne della speranza. quanto
meno nulla ci costringe più a chiamare salvatori i tiranni
e a giustificare l'uccisione del bambino con
la
salvezza dell'uomo. così
ci rifiuteremo di credere che la giustizia possa esigere
la soppressione della libertà, anche solo a
titolo
provvisorio...
Albert Camus
"Credo sinceramente che a livello
mondiale i nostri "no" si
sommino semplicemente con tutti gli altri che provengono
dal resto del pianeta, mentre i "sì" debbano ancora
essere individuati. Intuiamo per esempio che in Brasile
ci siano dei "sì" in fase di costruzione, come nella
nostra Selva Lacandona ci siano affermazioni che si
stanno concretizzando e che lo stesso stia
accadendo
in Europa. Non crediamo però che tutti questi
"sì" possano articolarsi in un
unico corpo mondiale. Anzi, non
consideriamo questa eventualità auspicabile. Non crediamo,
insomma, che alla globalizzazione si debba
opporre una nuova "internazionale"."
Sub-comandante Marcos
... I movimenti di liberazione nazionale, "sessuale", delle donne,
dei bottegai, degli usurai, degli omosessuali, degli
studenti, dei preti, delle minoranze etniche, dei "minorati",
dei drogati, dei "volontari", degli
operai, dei bambini,
degli animali, degli impiegati e delle piante "verdi",
tutto sommato corporativi e produttori di ideologie
della separatezza, pongono dispersione e ostacolo
alla ricerca faticosa della conquista o della
riconquista della totalità...]
Giorgio Cesarano
"noi decidiamo come nessuna organizzazione è in grado
di decidere" Io
sono un BB, pag 59
Con quale tecnica avevano
raccolto la voce che portavano? come si organizzano le assemblee, come vengono
presentate le questioni? si discute tutti insieme o per gruppi? chi ha titolo
di partecipare e decidere? donne, uomini, bambini discutono insieme o distinti?
si vota? se non si vota qual è il criterio per stabilire che si é pervenuti
alla decisione? che cosa si é fatto perché non siano assemblee ideologiche
tenute insieme da un nucleo di idee concordi, da un'adesione a un programma? sono assemblee territoriali, che
pensano di decidere una linea di condotta per il territorio in cui operano? e
se sì, da quale argomento deducono di avere rappresentatività per il territorio
stesso (pensiamo agli esempi deplorevoli nel Veneto, ma anche a Roma
e in Liguria,
dove è accaduto
che dei personaggi
pretendevano che si
obbedisse ai Disobbedienti, che fa pure ridere). Visto che parlate degli
zapatisti, saprete la cura che questi mettono nella costruzione delle decisioni
consensuali.
Maggioranza e minoranza,
sono concetti totalmente interni all'universo democratico, fondato sull'idea
che debba essere il popolo a decidere collettivamente, e che gli individui
debbano adattarsi a tale decisione, che hanno contribuito a prendere in quanto
“naturalmente”, “oggettivamente”, membri della società. Se un naturalista
descrive leoni o ghepardi non dice che la maggioranza...mentre invece la
minoranza...dice che alcuni, più numerosi, mentre gli altri...Questo perché
nessuno ipotizza una decisione collettiva fra quegli animali fortunati.
l'autonomia del
proletariato non esiste se non nella distruzione della società, nella
rivoluzione che - spezzando ogni legge e ogni catena - consente il libero darsi
leggi proprie (questa é l'autonomia). Processo che è insieme di composizione e
di scomposizione, e che ciascun individuo può compiere unicamente da sé, non
solo senza direzioni, ma contro ogni possibile tentativo di dirigerlo
generico e opportunista,
tale da favorire l'adesione di "cani e porci"??? certo, ma il fine é
quello, così da poter dire che siamo tanti, forti, fighissimi. Si ripropone
l'urgenza di liberarsi di tutte le sigle, tutti partiti, tutti i sindacati. Un
movimento fatto di mille sigle, non ha mille volti, ha un'unica faccia da pirla
clonata mille volte.
Quei giorni hanno visto
sfilare insieme chi afferma «il proletariato non ha nazione, internazionalismo,
rivoluzione» sostenendo una »globalizzazione dei diritti», e chi sventola le
bandiere dei popoli dimenticati, dei particolarismi, dei mille
«rami secchi» della
storia, chi rivendica un luddismo integrale,
e chi, come alcuni cattolici, (gli «infiltrati del papa» come li ha
definiti qualcuno) combatte il «neoliberismo» perché «troppo libertario», poco
attento ai valori della famiglia, della sacralità della vita.
E mille, mille altri,
perché, questo possiamo ben affermarlo, mai
un movimento nella storia
era è stato così molteplice. In certo qual modo, ogni individuo che lo
attraversa appare portatore di un punto di vista unico e incommensurabile
(rende così
«inautentici» e così
inattuali obsoleti i militanti dei partiti e dei sindacati che si sforzano
sempre più stancamente di imporre le regole della propria unità, delle
alleanze, delle egemonie, finendo per arrivare sempre in ritardo e, come a
Genova, inseguire gli autobus del ritorno).
Né, tantomeno, appare
casuale l’estinzione accelerata dei leader, già ora ridotti ad effimere
vedette, inventate per spiegare al movimento le sue idee senza fargliele
capire: i Bové e le Naomi Klein, e ancor più gli Agnoletto e i Casarini,
appaiono più che altro come tentativi a metà fra il mediatico e il poliziesco
di «dare un volto» e alle donne e agli uomini senza volto di un movimento che
principia – in tutte le sue componenti, anche le più radicate nei modi
tradizionali della politica – a prendere coscienza che abolizione del potere
separato e affermazione del potere di ciascuno sulla propria vita,
costituiscono un unico processo. In cui ciascuno comincia a riservare a tutti,
noti e ignoti, connazionali o stranieri, lo stesso rispetto ma anche la stessa
bonaria ironia. E si può cominciare a credere che sia davvero possibile fare la
storia senza martiri e senza eroi
La forza del movimento
potrebbe risiedere proprio in questa dimensione plurale e alla condizione che
ciascuno di questi soggetti trovi, assai più di ora, la capacità di guardare con curiosa simpatia e con disincantata
premura sia il percorso altrui sia il proprio. Senza ricercare unificazioni
impossibili, ma senza disperdersi in anatemi o in affermazioni di identità.
necessario che i proletari
(vale a dire nelle moderne condizioni di sfruttamento tutti coloro che pensano
di non poter trovare posto in questo mondo) incomincino a parlare liberamente
della loro esistenza e dei modi di porvi rimedio. E che perciò occorre che si
fondino luoghi pubblici a ciò intesi, consulte, circoli,
consigli, centri sociali,
comuni; e che tali luoghi si ingegnino di mettersi fra loro in relazione sul
piano planetario; e che intorno a queste relazioni si studino modi di vivere
non secondo i ritmi del capitale, quindi dismettendo la proprietà, puntando
alla riduzione del lavoro, al deperimento della scuola, al disseccamento delle
superstizioni religiose e politiche. Cercando di ideare luoghi ospitali, dove
nessuno sia straniero. Iniziando a praticare da subito i nostri desideri. Tutto
questo in un'ottica non legale né illegale ma antilegale, puntando cioè a
rifiutare le regole esistenti e vivendo secondo criteri propri. Cercando di non
forzare lo scontro con i pubblici poteri ma nella consapevolezza che nella
prospettiva tale scontro è inevitabile, e preparandosi ad affrontarlo. In
questo senso mi pare interessante (vista dall'esterno perché non ne ho diretta
esperienza) la pratica degli squatters e più in generale di tutti coloro i
quali cercano di praticare il comunismo da subito, per quanto ciò sia
possibile. Vi pare poco? Anche a me; ma sta a noi far sì che sia di più,
inventando nuove possibilità e nuovi incontri coinvolgendo persone e
situazioni. Io credo che l'unica chance di una nuova civiltà sia di riuscire
più attraente di ciò che c'é. Milioni di proletari si sono battuti per il
comunismo: hanno smesso di farlo quando hanno scoperto che il futuro che gli
veniva offerto (lavoro bestiale-case di merda-inquinamento- consumi
insufficienti in cambio di non finire in Siberia) somigliava al presente
(lavoro bestiale-case di merda- inquinamento-consumi sovrabbondanti di merci
senza valore in cambio di illusioni per deficienti mentali), quando hanno
scoperto che nelle patrie del comunismo di comunisti non ne esistevano più
(infatti, quelli che oggi in Russia si definiscono così sono più che altro
degli imperialisti nostalgici e frustrati).
parto da una concezione tragica dell'agire che vede l'uomo intrappolato
nella parola ineffettuale, nell'azione servile, nell'opinione. C'è però la possibilità
di rovesciamento di ciò, di riconoscimento delle molteplici anarchie realizzate
che siamo e
ci portiamo dietro.
From: Claudio
argomenti come quelli che,
già prima di Genova, spingevano gli anarchici buoni di A – Rivista Anarchica ad
accusare i Black Blocs di pensarsi essere dei "guerrieri" e di
portare avanti una modalità di lotta nociva "perché militarizza il movimento,
perché concentra l'attenzione sull'azione violenta riducendo il significato
della conflittualità, perché si presta a favorire un eroismo di piazza e una
cultura dell'atto saltuario, raccontabile, letterario".
proclamando
disinvoltamente che la loro violenza non ha nulla a che spartire con «oltre un
secolo di storia del movimento anarchico organizzato». qui si nota come
l’obiettivo non sia più neppure la violenza, ma proprio un’azione che non sia
pura e semplice militanza, con coerenza meritevole di miglior causa, si propone
una lotta noiosa per realizzare una società
mediocre.
Viviamo il presente con un giorno d'anticipo, perché ci siamo stancati
d'inseguire il futuro.
marku
Un movimento é il
risultato del muoversi autonomo di un sacco di persone che si muovono indipendentemente
liberamente autonomamente. Noi possiamo, con molta modestia, segnalare, mettere in collegamento,
contaminare, sottolineare, rammentare, mettere in guardia; e possiamo muoverci,
al pari di tutti, alla pari con tutti.
Per continuare a fare la
rivoluzione (perché abbiamo già incominciato, anche se siamo un po' in ritardo
rispetto alla tabella delle nostre passioni) occorre dialogare sempre più e
sempre meglio con tutti gli esseri viventi. Ora molti di loro votano Berlusconi
o Rutelli o Bush o Gore o Nader (perché si tratta di un movimento mondiale e
ogni tanto ce ne scordiamo), o stanno nel Forum o nel foro del culo o magari
vestono questa
o quella divisa, o pregano
l'impestato signore o baciano il culo di Satana, se ne fanno di cazzate in
questo mondo!!! Così é la gente con cui occorre parlare e che occorre
ascoltare. Ma sulle cento e cento associazioni e i partiti e i movimenti
indipendentisti e le religioni e le sette e il resto del bazar, io cago dal più
alto dei cieli. Io sono un uomo e parlo con donne, con uomini, con bambini e
bambine. A volte - di rado - con qualche animale. Ma fuori da ogni divisa e
ogni bandiera. Del Social Forum me ne sbatto i coglioni. Dei duecentomila che
erano con me e degli altri milioni e miliardi come me che cercano di vivere
dribblando merci e ideologie, no. Ognuno dei nostri contemporanei, potrebbe
essere un nostro compagno, e insieme con noi demolire le prigioni della terra e
del cielo: a tutti loro parlo e parlerò. E ascolterò. anche.
Non mi interessa un
progetto da eseguire, mi interessa una vita che trasforma l'esistente e crea il
proprio mondo e il proprio senso a mano a mano che procede
Professor Chomsky, chi
sono i nuovi ribelli che assedieranno Genova?
«Non sono nuovi, sono
vecchi, nel senso che sono quelli di sempre.
Rappresentano la
maggioranza della popolazione e sono una componente storica di qualsiasi
società. La protesta popolare torna a farsi sentire ogni volta che si
attraversa un pesante periodo di oppressione sociale, com'è accaduto dagli anni
Settanta in poi. Li considero ribelli nell'accezione scritta da Tom Paine,
duecento anni fa: persone che recuperano diritti naturali nell'interesse dell'umanità».
riporta il solito teorema.
La realtà é insopportabile, chi reagisce più violentemente é quello che la
sopporta di meno e perciò é moralmente superiore: ciò gli dà il diritto non
solo di insultare gli altri (che, in effetti, é un diritto che tutti hanno) ma
di pretendere
di guidarli e, in
prospettiva, di comandarli, perché la loro cosiddetta moderazione é in realtà
irresolutezza determinata da insufficiente coscienza. Questa coscienza, voilà,
eccola pronta "dall'esterno" come scriveva Lenin. è la solita solfa bolscevica
come conferma l'allusione allo squallido baffone, terrore dei fascisti, terrore
dei padroni (e, diciamolo! anche di tutti gli altri, esclusi i suoi sbirri ).
Resa più ridicola dopo un secolo di infaticabile affossamento del comunismo da
parte dei suoi autoproclamati leader.
Se la censura e la legge
sono insopportabili, l'autocensura e l'autodisciplina non sono migliori (per
certi aspetti anzi peggiori):
adesso per fare quello che si vuole (che comprende tirare sassi, bulloni, ma in via di principio
anche molotov e proiettili) si dovrebbe fare che cosa? un sondaggio per
valutare se TUTTI i presenti ( o é sufficiente la maggioranza, ma vi rendete
conto di che ginepraio di cazzate fiorisce su queste basi?) sono d'accordo?
Ovvero, giacché questo non é possibile, evitare le forzature, evitare le fughe
in avanti (guarda che bel vocabolario sindacale mi viene alla tastiera...),
appiattirsi sul sentimento comune
che é, necessariamente, il più moderato? Il fatto che - facendo casino - non si
é comunque conquistata la zona rossa non é di per sé un argomento serio: non si
può valutare una condotta unicamente sulla base del risultato. È il concetto
stesso di manifestazione che occorre ripensare: nel remoto 1968 le persone si
interrogavano in anticipo "che cosa ne pensi? Ci sarà casino?" e se
la risposta era affermativa certuni di conseguenza andavano, gli altri no. A
quanto sembra siamo ancora al medesimo punto: allegria! La manifestazione é una
rappresentazione della propria forza: in questo senso gioverebbe astenersi
perché dietro le manifestazioni degli ultimi anni di forza se ne scorge poca e
il patetico avanza. Oppure la manifestazione é un contenitore per azioni
precise (saccheggiare e devastare, in altra maniera sabotare, etc)di individui
e piccoli gruppi: in tal senso conviene l'efficacia, scontrarsi con la polizia
e pigliarle manda una volta di più un
messaggio patetico.
Rilancio qui il concetto di "azione esemplare": di azione cioè che di
per sé consegue un risultato che si desidera ottenere ma che per il momento
scelto, le modalità e così via é capace di diffondere anche una tesi che si reputa
importante e che é atta ad essere ripresa altrove, da altri. Molta parte del
movimento degli scorsi decenni si é sviluppato grazie a questo metodo: la
polizia serba deporta i kossovari? la nostra polizia deporta gli
extracomunitari e quindi: dagli a Corso Brunelleschi COME RISPOSTA ALLA GUERRA.
L'esercito Nato devasta la Jugoslavia? Diserzione e quindi attivazione di
canali perché chi voglia dismettere l'odiosa divisa possa avere un futuro
migliore e più dignitoso. Eccetera eccetera, creando con i fatti un'escalation
del ragionamento che metta in luce i fili che legano il governo D'Alema servo
della Nato con Il governo D'Alema amico della Confindustria e del giubileo, il
sindacato muto di fronte alla guerra con il sindacato che vuole estromettere
dalle aziende i rappresentanti dei lavoratori, il Clinton bombardiere con il
Clinton fautore della pena di morte. Non mimare quindi per le strade uno
scontro che non c'è o, se c'é, è a
livelli molto differenti, ma praticare nella vita reale, sui posti di lavoro,
nelle scuole, nelle famiglie, nei consumi, sovversione generalizzata. Da soli,
se non si trovassero accoliti (ma se ne trovano, se ne trovano...). In piccolo,
se questa é la misura reale delle nostre possibilità dirette. Altrimenti ci
limitiamo a contrapporre due militanze, una diretta dall'esterno, l'altra
liberamente scelta, ma entrambe destinate alla sconfitta individuale e collettiva
un'assemblea non conviene
sia di massa, perché la massa stessa sposta e appiattisce i termini e rende le
parole imprevedibili incomprensibili e comprensibili solo le parole previste
(leggi: slogan)
Più in genere la
manifestazione é l'opposto di un'assemblea, giacché, per sua natura, dice cose
già pensate, discusse e decise, e le MANIFESTA (se preferisci chiamarla
dimostrazione, le
DIMOSTRA). In effetti, dentro le manifestazioni a fatica si parla e mai si
discute, anche perché la situazione in cui ci si pone sarebbe totalmente
impropria. In realtà ci si MANIFESTA appunto, ci si dice cioè a vicenda e si
dice al mondo che esistiamo noi con queste caratteristiche. L'assemblea,
appunto, dovrebbe precedere, ed essere il luogo in cui il NOI prende forma.
In questo senso potrebbe
apparire ragionevole l'iter di Genova, ripetuto e poi amplificato l’anno
successivo a Firenze: assemblee tematiche, documenti, assemblea plenaria,
manifestazione finale. (in genere le manifestazioni, si pensi alla porcheria
dei vili cgiellini, sono anche peggio, nel senso che non si fa nemmeno il gesto
dell'assemblea preliminare), Innanzi tutto, però, sarebbe sensato che la
manifestazione - che è una sorta di festa della mietitura - fosse un optional,
venisse a festeggiare, cioè, solo DOPO la verifica che la mietitura c'é stata
(mentre
qui, come sempre nella
politica che tende all'istituzione spettacolare, la mietitura é percepita come
garantita dal fatto stesso che c'é stata la discussione).
Ma, e qui si viene al
punto davvero dolente dello specifico,cioè il social forum, l'assemblea che
avrebbe dovuto realizzare ciò che era opportuno manifestare Perché in realtà
nemmeno il social forum é stata un'assemblea, per questi motivi (e forse per altri che mi sfuggono)
1)
non
solo gli specialisti non erano assenti, tantomeno erano stati estromessi e
cacciati - come é essenziale fare se si vuole che un'assemblea non sia una
conferenza, una tavola rotonda, un dibattito - ma addirittura monopolizzavano i
dibattiti, tutti costituiti intorno
a palchi, su cui erano piazzati saldamente noti rottami di tutte le ideologie
che si scambiavano il loro pensiero inessenziale, essudato di tutte le disfatte
2)
ogni
questione (i migranti, l'acqua, la guerra, l'inquinamento, l'andropausa) era
avanzata accoppiata con la sua soluzione
premasticata (la Tobin
tax, il preservativo, il bilancio partecipato, la remissione del debito, il
ruolo dell'Onu), ciascuna delle quali aveva la propria specifica claque,
debitamente lottizzata)
3)
non
solo le decisioni delle assemblee non sono state esecutive, ma nemmeno hanno
esaminato la possibilità di esserlo: fin da principio si è considerato che il
prodotto naturale del forum fossero dei documenti, che illustravano programmi
l'esecuzione dei quali era demandata ad autorità estranee e addirittura dichiaratamente ostili
Quindi nemmeno i social
forum sono stati davvero assemblee: sono stati un incontro internazionale di un
gran numero di movimenti, partiti e sindacati che hanno confrontato idee e
programmi, dandosi delle indicazioni per la loro attività futura. A questo
incontro di specialisti, funzionari, dirigenti,ì militanti aspiranti alla
promozione, hanno ASSISTITO un buon numero di persone che non potevano, non
dovevano e, in sostanza, nemmeno volevano incidere. In nessun momento il risultato delle discussioni é risultato
sorprendente, mai le decisioni finali si sono discostate di un millimetro dagli
assunti iniziali: i documenti finali saranno tutti tali e quali quelli che potevano essere stati, e forse sono stati,
scritti PRIMA dei dibattiti. In questo senso i social forum non somigliano a un
parlamento ma al congresso di un
partito o di un sindacato del socialismo
reale. Positivo, rispetto al passato, é, diciamolo, il declino ormai
inarrestabile del culto della personalità, e questo crea negli animi bennati,
pure qualche trepida speranza.
Perché se da un lato i
candidati sono evidentemente al di sotto di ogni appetibilità, si può
ugualmente considerare che solo soggetti mediocri hanno la pretesa di cavalcare
il movimento, illusi dalla loro stessa modesta levatura.
Ma un'assemblea é un'altra
cosa: un'assemblea é quella che possono fare gli operai di termini o di Arese
se occupassero la fabbrica e decidessero, cacciati funzionari del sindacato e
dei partiti, che cosa fare di lì in avanti. E poi lo facessero: a quel
punto, ad assemblea conclusa,
a decisioni prese e in via d'esecuzione da parte di ciascuno, sarebbe
perfettamente adeguata una manifestazione che festeggiasse i risultati e
insieme li comunicasse al mondo. In quell'ambito potrei pure trovare meno fesse
le bandiere, gli inni, gli slogan, i saltarelli, i mimi, i trampoli, i
mangiafuoco, i girotondi, le corsette e tutti gli altri riti plebei e triviali
cui gli individui si sottomettono quando si radunano in folle. Ci tengo a
distinguere: io ho il più profondo disprezzo personale per ogni tipo di festa,
che percepisco regolarmente come un esorcismo del funerale, il re di tutti i
riti; per cui a me, come gusti miei, ogni manifestazione fa cagare, e la
sopporto solo come diversivo per compiere atti di violenza e altri eccessi,
qualora questi mi paiano opportuni. Le bandiere che sventolano mi ispirano
disgusto qualsiasi sia il loro colore, e tutti gli inni mi rimandano alla loro
origine prima, la sozza chiesa.
Ma mi rendo conto che
altri vedono sentono cose differenti (c'é gente cui piace ballare, altri no -
siamo nell'ambito dei gusti personali); anche queste persone dovrebbero vedere
come la manifestazione non può essere il luogo della parola e del suo confronto
ma solo della sua celebrazione; e che, nello
specifico, la manifestazione di Firenze é stata la celebrazione di una
parola pronunciata da altri, cui molti (fra cui una pletora di cammellati del
pattume dei partiti di sinistra e dei sindacati
ingobbiti dalla viltà) si sono prestati a portare il proprio osanna. In questo
senso non é questione di violenza maggiore o
minore: in una situazione come Firenze godersi le gioie del vandalismo
sarebbe stato tanto inopportuno quanto necessario era stato a Genova . Ma di
autonomia: Firenze segna la nascita europea di una sinistra internazionale già
in moto a Porto Alegre, che intende fare precisamente quel che dice: governare
la globalizzazione nel senso dei diritti. Per questa sinistra, di cui il quadro
politico aveva assoluta necessità, saremo presto chiamati a votare e militare.
L'Internazionale della
Speranza, che aveva suggerito Marcos
nel
1995, va prendendo forma in Internazionale dei Diritti. Milioni e forse
miliardi di persone appaiono disponibili a portare a questo discorso il proprio
contributo. E pure con qualche possibilità
di un esito non del tutto fallimentare. Ma il decidere direttamente del proprio
destino, il fare la storia, non c'entrano niente: nel film della politica, dopo
che i Biechi Blu hanno impazzato per un bel pezzo, ecco che si affacciano i
buoni, Chomsky come Obiwhan Kenobi, Agnoletto come ET, Bové come Obelix, i 99
Posse come Assurancetourix, Lula come Macunaima...
Il nostro posto rimane
comunque saldamente in sala a guardare
lo spettacolo, salvo poi uscire e metterci i trampoli, la maschera, una golata di benzina in
fiamme in bocca, le braccia levate a sventolare una qualsiasi bandiera, il culo
rigorosamente inchiavardato nelle mutande. A Firenze hanno sfilato dei tifosi - tifosi di un mondo un po' meno
ingiusto, magari, ma tuttavia tifosi. La squadra che va in campo, se infine ci
andrà, non sono quelli che hanno marciato ad averla scelta, ad averla espressa.
Ne sono stati, se mai, scelti ed espressi. La manifestazione - e tutta la
vicenda del social forum europeo e del suo successo indiscutibile - é stata
solo una tappa del cammino della passività pervasiva, la stessa che ci sposta
sui luoghi del lavoro, del consumo, del divertimento. Centinaia di migliaia di
persone hanno comprato la merce "globalizzazione dei diritti" al
posto della merce "libero mercato", e hanno festeggiato per le vie di
uno dei centri commerciali più quotati del pianeta, la loro assunzione in un
nuovo cielo della merce ideologica. Ma l'amor che muove il sole e l'altre
stelle, rimane sempre il Geova della merce.
Il social forum é
un'assemblea, né più né meno di quant'è un'assemblea, una riunione di Mutilevel
marketing - e d'altronde gli Umanisti non hanno già da un pezzo fuso le due
istanze?
Se qualcuno si chiede che
cosa mai sia, come sia mai fatto, come possa mai apparire, questo proletariato
assoluto, questo
proletariato soggettivo di
cui da tanto tempo si va parlando, guardi i mille e mille convenuti a Genova
nel luglio del 2001: quello è il proletariato soggettivo. Non militanti della
medesima ideologia, non partecipi della medesima condizione sociale, ma uniti
solo dalla passione di cambiare il mondo, ciascuno secondo le proprie passioni,
tutti insieme, parlandosi, guardandosi e riconoscendosi gli uni con gli altri
Alla fine, tutte le
insufficienze del movimento rivoluzionario moderno, quello che si annuncia nel
maggio 1968, risalgono, sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista
pratico, all’insufficiente percezione dell’estraneità dei proletari rispetto al
mondo che essi stessi hanno costruito per esserne gli inquilini, se non
piuttosto i prigionieri. Il fatto di essere rimasti gli ultimi abitatori del
mondo – sostituita la borghesia da risibili figuranti salariati che ne recitano
i fasti sul palcoscenico delle trasmissioni televisive del pomeriggio, una
borghesia ormai altrettanto incredibile che il Gotha dei regnanti e degli
spazzolatori di buffet -, di essere coloro che lo hanno ridotto come è,
costringe a un perpetuo sforzo per guardare
l’esistente, come una possibilità, e non come una perpetua essenza.
È da tempo che si usa dire
che la definizione appropriata di comunismo è “un mondo senza galere: occorre
aggiungere e precisare che distruggere le galere non basta (e infatti nessuno
stato vi si è mai accinto, neppure per sbaglio) ma occorre, contestualmente,
instaurare la libertà. Rifutare cioè l’idea che la libertà sia il luogo in cui
lo stato non ti vessa più in uno dei mille modi che conosciamo, e si può infine
“pensare ciascuno ai cazzi propri”. In cui la libertà sia percepita come pace,
riposo, mancanza di fatica e di impegno, fine della storia, oblio., licenza di
perseguire senza ostacoli i propri interessi privati
Il
mondo attuale nasce dal connubio mostruoso fra due diverse, e per certi
aspetti, davvero opposte tendenze all’annichilimento della vita umana, il
capitalismo e il
socialismo. Come notava icasticamente Debord, nel primo era la merce a
dominare, nel secondo la polizia. Oggi che il processo di fusione fra questi
due processi può dirsi compiuto in tutto il mondo (ed è per questo che il
vocabolo “globalizzazione”, pur generico e parziale, corrisponde tuttavia a un
dato reale, l’estensione planetaria dell’alienazione e dello spossessamento),
la sicurezza è divenuta la merce di punta, dopo i fucili, le auto, i computer,
del mercato mondiale. Ogni volta che andiamo a comprare, compriamo “pubblica
sicurezza”, se vorrete perdonarci il facile calembour.
Il modello delle repubbliche, ridotto all’essenziale, riporta sempre
all’equivoco totalitario della Repubblica platonica. A parole sottoposta al
governo dei filosofi, nella sostanza sottoposta al governo di esecutori
obbedienti di una filosofia già scritta, una volta per tutte. In questo senso
la repubblica, e molto chiaramente lo denuncia Hannah Arendt parlando degli
stati Uniti, è il lavoro morto della libertà: ne è il prodotto, ma insieme la
pietra tombale. I filosofi, individuata una volta per tutte la libertà, la consolidano, la rendono durevole , la
lasciano in eredità. Ce n’è stata di libertà, ma oggi non ne abbiamo più
bisogno. La questione dell’istituzione rimane perciò sospesa a questa aporia;
da un lato l’insufficienza di una libertà unicamente negativa, di un vuoto
passivo delle istituzioni, di una libertà dalle isituzioni; dall’altra la
natura inesorabilmente fossile delle istituzioni in quanto costruzione
obiettiva. Il giudizio del passato, consolidato nel codice, ritorna di fronte
alla comunità che lo aveva prodotto,
da nemico. In nessun luogo come nell’ambito della legge, il passato domina il
presente: con la crescente tendenza a passare da una giustizia retributiva a
una giustizia preventiva, esso ambisce a colonizzare il futuro. La legge
diviene così una relazione fra gli individui, mediata dal potere separato,
diventa la reificazione del
giudizio, tanto degli individui, quanto della comunità in cui essa
pretende di operare. Attraverso la legge i morti mantengono una tirannia
sinistra sui viventi, le anime sui corpi, le ideologie sui liberi giudizi. Il
giudice è bensì l’officiante di questo macabro rito, ma – come nel matrimonio
cattolico – sono i cittadini stessi con la loro vita a costituire la materia di
cui esso si nutre.
Autonomo è chi obbedisca unicamente alle leggi promananti da lui stesso,
chi agisce secondo criteri che gli vengono da sé stesso. L’autonomia è perciò
il motore della libertà. Quanto questa è negativa, è libertà dalle costrizioni,
consiste nel vivere sciolti da ogni costrizione umana, tanto l’autonomia è
libertà attiva, capace di costruire i propri strumenti.
Libero è chi vive secondo la propria legge; tanti sono gli individui,
quindi, altrettante le leggi possibili, cui ciascuno liberamente conforma le
proprie scelte e i propri giudizi.
Oggetto della rivoluzione quindi non può essere unicamente la liberazione
dalle costrizioni, la fine dell’oppressione, ma l’istituzione della libertà, la
pratica dell’autonomia.
Qui
si entra in una questione di grande difficoltà, giacché l’istituzione difende
bensì dal vento dell’oblio, quello che permette alle conquiste umane di
dissolversi e rischia perennemente di condannare all’eterno ritorno (un esempio attuale è quello del cosiddetto
revisionismo che, insieme a varie scoperte importanti, introduce la sensazione
inquietante che i fatti, allorché ce ne separi un sufficiente lasso di tempo,
si convertano in opinioni), ma reifica e
solidifica una particolare memoria, assunta una volte per tutte per vera. La
durevolezza dell’istituzione, se salva dalla
vanità quotidiana, dall’assenza di storia, condanna
però a
periodiche rivoluzioni allorché la forza propulsiva della liberazione
originaria abbia perso la propria spinta a fronte della rigidezza
dell’istituzione stessa. L’istituzione positiva, che converte i giudizi che gli
individui danno sul proprio tempo in legge, destinata a far valere i medesimi
giudizi sull’epoca a venire, non fa che dilazionare l’instabilità e l’oblio,
imbalsamando un momento, con i medesimi fini e
la medesima coreografia dell’odiosa salma di Lenin al centro dell’impero
socialista e antisovietico. La legge è la mummia del giudizio, altrettanto macabra,
inutile, ingombrante, oppressiva e menagramo di ogni altra mummia.
Un concetto e una pratica che meriterebbe cercare di prendere a prestito,
al riguardo, è quello di istituzione negativa. Nel Copyleft, concetto
antigiuridico nato nell’ambito delle esperienze, soprattutto nordamericane del
free software, si presuppone che l’uso di una creazione dell’ingegno sia libero
e gratuito, purché ciò avvenga alle medesime condizioni di libertà e gratuità. Il
proprietario si afferma come tale per imporla non appropriabilità dell’oggetto
da parte di alcuno. Poiché sono proprietario, dichiaro la fine della proprietà.
Ugualmente conviene che
una rivoluzione si ponga il problema di dare vita e corpo ad anti-istituzioni
analoghe, fondate sul fatto che,
essendoci riuniti col potere di dar vita a delle leggi durevoli, noi proclamiamo per il futuro che nessuna legge potrà
mai essere durevole e che ogni volta con libero patto i convenuti potranno e
dovranno ricostruire da zero la giustizia, proprio per rispettare la legge.
Alla vigilia della
manifestazione, quindi, la scena napoletana mostrava due facce: da una parte un
movimento spontaneo di ragazzi e ragazze che avevano voglia di mettersi
insieme, di mostrarsi e di manifestare, avendo i più fra questi idee non molto
chiare riguardo alla globalizzazione - d'altronde non è facile farsi un'idea
precisa! -; dall'altra i gruppi politici dalla
militanza storica che
hanno saputo organizzare con mesi d'anticipo l'antiglobal. Un antiglobal che
probabilmente non ci sarebbe mai stato se non fosse stato da questi preparato.
Questo è sicuramente un merito che va loro riconosciuto. Ma tale riconoscimento
non esclude la possibilità di avanzare più di una critica, spostando su altri
piani la riflessione riguardo a un movimento che forse sta nascendo proprio in
questi mesi. Il problema ci sembra essere questo: capire su quali basi e in che
modo possa compattarsi un movimento. In che modo far sì che quella spontaneità
dei più, forse ancora ingenua, non venga dispersa.
Perché dobbiamo ritenere
che la compattezza - e non la molteplicità, la levità, l'inafferrabilità, la
capillarità, e chi più ne inventa più ne metta - sia ciò che occorre a un
movimento.? E garantire e preservare spontaneità, ingenuità, non potrebbe
essere opera degli spontanei e degli ingenui stessi?
Nei giorni precedenti al
corteo era già chiaro a tutti il ragionamento svolto da buona parte degli
organizzatori: creare movimento alzando la conflittualità, riappropriandosi
della strada attraverso lo scontro. Ma a cosa ha portato questo modo di pensare?
Quanto è successo sabato
mattina è andato al di là di ogni immaginazione. La piazza si è trasformata
subito in una vera e propria arena.
Segue una descrizione
delle cariche della polizia: se ne conclude che la prossima volta occorre fare
più attenzione, legnarli noi, stare
altrove a fare altro. Mai più. Tenetevi forte: occorre reagire alla
fascinazione della violenza. Arriva il celerino e tu gli dici: "vade
retro, io resisto alla tua fascinazione", e lui repente si assesta il
manganello in culo e si ritira. Credete di avere a che fare con dei tifosi di
calcio, che quando le pigliano arriva il critico sportivo e spiega che "é
questione di
mentalità". Più sotto parlate di maestri, é Biscardi- le roux il vostro?
I più hanno subito la
fascinazione di pochi per la violenza.
Certo, la fascinazione dello scontro è qualcosa di sottile, che attira più che
respinge: tutti siamo stati (diciamolo autocriticamente) un po' vittime di
questo, ma questa è una logica che non può essere accettata. La logica dello
"sfondamento" tradisce un convincimento antiquato, premoderno messa
così, parrebbe che voi questa modernità la rivendichiate, la viviate come un
quid di grande, glorioso e giusto riguardo alle relazioni sociali e politiche:
che il potere risieda in determinati palazzi e non in un sistema capillare e
pervasivo. Se il sistema in cui viviamo diventa sempre più complesso e
inclusivo, in una parola "post-moderno", una parola, cento coglioni - cantava Mino Reitano, o avrebbe dovuto farlo sbriciolando e confondendo i
luoghi e le manifestazioni del potere e richiedendo, da parte di chi lo critica,
questo da parte di chi lo
critica - fra i quali suppongo vi annoveriate - ma invece chi, come me, lo
schifa proprio? Ho già detto e stradetto che secondo me é d'intralcio inseguire
le mille scadenze spettacolari degli pseudopotenti (potenti in causa e per
grazia dell'impotenza nostra - più che potenti, castratori) e meglio sarebbe
abolire i riti di questa falsa attualità, avviandoci verso spazi e tempi
nostri. Ma se poi uno vuole andare a piazza Plebiscito vi par decente che debba
esibire un pass?
una maggiore capacità di
destrutturazione, il tentativo di trasformazione o, quello più limitato, di
creazione di luoghi di opposizione, non può avvenire mediante la ricerca dello
scontro che mutui (astoricamente) l'assalto al Palazzo d'Inverno.
Vogliamo dire una buona
volta che nessun potere era racchiuso
nel palazzo d'Inverno in quell'ottobre? Che lo scopo era di affermarvi il potere del partito bolscevico, impadronendosi del
luogo-simbolo del potere
imperiale?
In questo caso, l'arrivo a
Palazzo Reale, anche qualora questo fosse andato in porto (cosa che a tutti,
però, è apparsa subito improbabile) avrebbe lasciato i manifestanti con un
guscio vuoto in mano: avremmo trovato davanti a noi ministri e burocrati in
vacanza per pochi giorni, pronti a lasciare Napoli per altri,
tanti, luoghi in cui più
concretamente e nefastamente svolgono il loro ruolo.
A parte che si sarebbe
potuto suonarli come zampogne, vi pare una scoperta da poco verificare che il
potere non é lì, ma in mezzo a noi, a ricuperare e a assimilare vita per farne
merce e ideologia - come voi sapete benissimo, pure troppo - se ci intendiamo
Abbiamo
davvero scalfito il potere ragionando in questo modo? La logica secondo cui lo
scontro, una volta scatenatosi, alza il livello della conflittualità, creando
l'evento, sono disposto a smentirmi, pure giurerei che questa frase é
vostra...chi l'avrebbe detta questa cosa in questi termini?
è ipocrita e fallimentare:
contro i presunti padroni del mondo non serve lo scontro di piazza, ma la
creazione e il rafforzarsi di un modo di vedere le cose che possa darsi come
efficacemente alternativo al pensiero dominante.
L'aveva pur detto Biscardi che é
questione di mentalità!
Negli slogan della
manifestazione, assolutamente privi di contenuto se non di scorie
vetero-marxiste, al pari di Marx, e forse perfino di più, non sono mai stato
marxista: pure, vien da pensare che, per voi, Marx é out, andava nella passata
stagione, é poco rizomatico...per dirla in poche parole non é
che siete dei modernisti
fracichi...forse contaminate il biscardi- pensiero con un pizzico di fratelli
Vanzina - già tutto il vostro scritto uscirebbe perfetto letto con la voce di
Sabrina Ferilli niente di tutto questo. Un simile modo di pensare (ai limiti
del terroristico) che cosa significa terrorista? chi usa la violenza in
politica? chi si distacca dalle masse? lo sapete vero che un uso di questo tipo
della parola "terrorista" é di stile giornalistico, oppure
questurino? Che nessuna persona decente impiega vocaboli di tale natura? E di
agire (troppo inconcludente e succube di pericolose suggestioni simil-casseur,
simil- guerrigliere) perché simil-casseur? in Francia chi spacca tutto é un
casseur, in Italia solo un'imitazione? quale provincialismo per gente che viene
da Napoli, che da secoli si vanta di dar lezioni a Parigi ha prodotto solo
effetti controproducenti: il prevalere della contestazione perfino la
contestazione (azione che discute, che mette in prospettiva) vi par troppo? é
vero che é essa pure fuori moda, dell'altro secolo, rétro, nient'affatto
rizomatica sulla riflessione, anteponendo lo sfogo di rabbia alla proposizione
razionale di una piattaforma
alternativa, ma a chi si presenterebbe una piattaforma alternativa? all'Onu? al
G8? alle masse?
c'era la piattaforma
alternativa per chi sa leggere "'IATEVENNE", che significa pure fate
spazio, cessate d'interporvi, non occupatevi, lasciateci perdere, non ve ne
incaricate. La piattaforma alternativa é sempre la stessa, da quando Spartaco
poco lungi da voi, si é sollevato con tutte le sue genti: da due secoli la si
riassume in "né dio né stato né servi né padroni"! volete una
definizione ancora più moderna? "la ricostruzione incessante del mondo ad
opera degli individui liberamente associati". Ora, é chiaro, che la
devastazione di qualche cantonata di Napoli é un modesto preliminare a tale
ricostruzione, ma - come dice il poeta - "parva favilla gran fiamma
seconda" il prevalere della fascinazione della violenza sul chiedersi se
esiste o meno un movimento, quali possano essere le sue potenzialità e
finalità, da quale parte, e attraverso
quale spiraglio, dico
sempre "pecoreccio astenersi", ma stavolta é davvero dura è davvero
efficace controbattere il sistema dell'occidentalizzazione imperante. Ci si è
davvero affannati a discutere del digital divide e di che cosa questo voglia
significare nella creazione delle nuove gerarchie mondiali? Di quali influenze
abbia sulla nuova geopolitica? Si è parlato davvero del trionfo della tecnica
sulla politica, della sopraffazione dell'economia finanziaria sull'economia
produttiva?
Ma soprattutto: abbiamo
davvero provato a pensare quale altro mondo è possibile dato tutto questo?
Secondo voi, i mondi
possibili sono una funzione dipendente del mondo esistente. Questo cambia e i
mondi possibili (il sogno di un mondo...) si deve riadeguare? Perché dovremmo
studiarci tutte le stronzate della modernità, se essa va polverizzata fino alle fondamenta?
Perché dovremmo affannarci
sulla geopolitica? Non é per caso perché simili torture solo gente della vostra
risma le sopporta e vi presentate volontari per il duro compito di condurre le
masse, mediarne le pretese, metterglielo nel culo senza pomata in cambio di
onori, cariche e prebende, come tanti altri vostri predecessori, anche loro
così pronti al "duro lavoro" della politica?
Nei giorni che hanno
preceduto la manifestazione, ciò che più ha colpito sono state la scarsezza dei contenuti e l'incapacità di riflettere
anche sulle questioni più "ovvie" del post-Seattle: Tobin tax,
organismi geneticamente modificati, il peso delle multinazionali, il ruolo
dell'Onu, la legislazione internazionale, quale strategie di lotta, quali idee
alternative, quali autori leggere, su quali maestri riflettere, in attesa della
firma digitale, ecco un esempio di firma involontaria, che denuncia in chi
scrive l'assistente universitario e il leccaculo quali esperienze
riproporre...Era importante creare un evento massmediatico,
oramai da 'sti eventi del
cazzo non si riesce più a liberarsi: agire é troppo per la vostra
immaginazione? E in questo ci si è riusciti bene.
Ma dopo qualche giorno,
chi lo ricorda? "Creare eventi" vuol dire solo prendersi i due minuti
di popolarità nei tg della sera, accanto a altri eventi? È davvero alternativo
creare eventi di questo tipo? E qui le responsabilità della stampa, della
televisioni sono enormi. Sono venuti in massa a Napoli a cercare la violenza,
lo scontro, il sangue, per poi riproporre nei giorni seguenti, la violenza
bruta da una parte e dall'altra. La ricerca del sensazionale ha sicuramente
contribuito a creare l'arena di Piazza Municipio, alla quale poi è stato dato
un "opportuno" rilievo nazionale. Ma anche questo deve far
riflettere: l'uso distorto dell'informazione
è
ormai una delle armi più
affinate nelle mani di chi si vorrebbe contrastare. Come perseguire allora una
disobbedienza civile che sia tale, evitando la criminalizzazione televisiva?
Un poì come celarsi un fico d'india
in culo in maniera indolore
Da quali comportamenti
partire? Quali strategie, meno rozze, far emergere?
Più in generale, la
manifestazione di Napoli, per alcuni una vittoria, per altri un fallimento,
deve farci riflettere sullo stato di cose del movimento post-Seattle.
Innanzitutto deve farci
riflettere sul provincialismo italiano. Del fitto dibattito internazionale sul
tema "another world is possible" a noi arrivano solo le briciole, e
quelle poche briciole sono intrise di un ideologismo in forte ritardo. Il
contro-vertice di Porto Alegre ha
indicato una svolta possibile, è stato il segnale che è possibile, anche come
arcipelago di gruppi sovranazionali, andare al di là del fenomeno contestativo
e mass-mediatico e proponendo idee riguardo una diversa globalizzazione, una
democrazia più reale e
partecipata, una giustizia sociale meno astratta. Che è possibile definire il
nostro another world, pensandosi all'interno di un dialogo crescente che evita
le frasi fatte. (Non tutto ovviamente a Porto Alegre è filato liscio, e la
società civile globale è più un'idea regolativa che un fatto concreto, ma passi
avanti sono stati fatti).
Porto Alegre ha affossato
anni di movimenti internazionali, col suo codazzo di carogne istituzionali,
sindaci, ministri, vescovi e ballerine di lambada: e voi lo sapete alla
perfezione
Per questo riteniamo
opportuno operare da subito una critica interna al nascente movimento. Se certi
comportamenti verranno a sclerotizzarsi sarà il suicidio di quanto di nuovo e
alternativo poteva esserci nel fiacco e omologato panorama italiano (e poi
anche europeo) di questi anni. Se si pongono da subito idee nuove, un nuovo
sistema di valori,
Biscardi
Biscardi
che ripudi non solo il
globale dominante ma anche l'antiglobale che si nutre di vecchi pregiudizi e di
vecchie analisi e di vecchie forme - e questo è evidente in Italia più che
altrove - si potrà costituire davvero qualcosa di nuovo.
Dovreste pubblicizzare
deodoranti - si vedono antiglobalizzatori sminchiati e che all'uscita dalla
caserma profumano di virile freschezza..."Maschio Angioino" contesta
i cattivi odori, per un mondo nuovo nel campo della fragranza...e avanti così,
“dicendoci, fra l'altro, che qui siamo nella parte ricca del mondo: e che la
giustizia che si cerca non è nell'aumentare i diritti e i consumi ma nel
ridurre questi ultimi e nel definire i doveri.” (NonLuoghi piattaforma)
eccola
la piattaforma PENITENZIAGITE!!! E vai coi Flagellanti
Noi non siamo solidali nei
confronti della miseria, bensì del vigore con cui gli uomini e le donne non la
sopportano.(Gli indesiderabili)
A me (ma non a me solo)
paiono due piani completamente distinti e anche abbastanza distanti. Sparare a
un ladro che ti entra in caso é contemplato e permesso dalla legge, ma non é
non-violento. Bloccare, sedendosi a terra, una linea ferroviaria, é
perfettamente non-violento, eppure la legge lo sanziona, anche abbastanza
pesantemente. Ciò che scrivi, che mantenendosi all'interno delle leggi si rende
più difficile l'azione di chi vuole
reprimerti, é indiscutibile; ma ammetterai che é del pari indiscutibile che, a
quel punto, la necessità di reprimerti tu stesso l'hai risolta, rendendoti del
tutto inoffensivo. Il presupposto di un ragionamento come quello che proponi é
che la legge sia, nell'essenziale, giusta, e che siano i suoi amministratori a
tradirne la lettera e lo spirito. Perciò, attraverso la legge stessa, tu
potresti portare in contraddizione ciò che dovrebbe essere con ciò che si fa, e
modificare questo sulla base di quello.
Un pensiero non
dissimile, ma molto
più moderato, rispetto a quello dei Radicali. Che cosa vuoi che ti dica?
L'impressione é che l'ansia di non essere criminalizzati vi abbia condotti là
dove nessuno era mai arrivato prima...ai confini della realtà...
12.
RIFORMA O RIVOLUZIONE, FINE DELLA LOTTA DI CLASSE
"Non è
possibile risolvere un problema con la stessa
mentalità con cui
lo si è creato".
Albert Einstein
…noi ci
incontreremo e proveremo a dare piena
espressione ai nostri desideri. Lascia
che sia un altro momento della vita di tutti
i giorni mirando
alla gioia della rivolta. Lascia che sia il
punto di svolta
di ogni protesta che desidera sganciarsi dalle catene
della legittimità e della democrazia borghese.
Lascia che esca fuori un altro esempio (Praga,
Seattle, Genova, Argentina)
nell'ascolto del quale l'astuzia ridera'
di coloro che deridono la linearita' della
Storia. I nostri
desideri saranno il materiale combustibile alle fondamenta
del vecchio mondo. Solo la sua totale distruzione
aprirà la via alla strada della libertà.
METTI LA PAROLA RIVOLUZIONE DI NUOVO SULLE
LABBRA DEL MONDO!
Gruppo anarchico di Atene "HIJOS DE LA NOCHE" (volantino
diffuso alla vigilia del vertice di Salonicco)
"Chi rivivrà i violenti vortici di
fuoco se non noi e quelli che
consideriamo fratelli? Venite! Novelli amici: questo vi
piacerà. Non lavoreremo mai, oh maree di fuoco!" "Questo
mondo esploderà È il vero sentiero. Avanti,
in
cammino." Arthur Rimbaud
Già ora molti (tra cui lo
stesso sub comandante Marcos) preferiscono a « rivoluzione », parola così cara
a tante generazioni di refrattari, ma esaurita da una concezione della storia in profonda crisi, le parole « ribellione
», «insurrezione»,
«rivolta», « sovversione
», ponendo l’accento sulla costruzione di situazioni radicali nel presente
piuttosto che sulla proiezione nel futuro della realizzazione di una società
ideale. Anche se questa distinzione deriva da una percezione imprecisa della
rivoluzione stessa, che, sia etimologicamente sia storicamente, è momento
costituente, capovolgimento dei criteri, e non già affermazione di un potere
sostitutivo del precedente, destinato a fare, d’un colpo solo, ope legis, le
riforme opportune. Per rivoluzione si intende, di consueto, la riforma
assoluta, repentina, folgorante: la contrapposizione fra rivoluzione e riforma
viene fatta risiedere nei tempi, e poco più. In entrambe è l’autorità delle
leggi a riportare nel mondo la giustizia; in entrambe le soluzioni sono già
note in anticipo, come parte di un programma, come paradiso di una fede o
traguardo di una scienza; in entrambe l’individuo è obbligato a ciò che è
DAVVERO bene per lui, è la forza esterna dello stato a ridurlo alla ragione;
entrambe si situano essenzialmente nel futuro, sono, non merci, ma servizi a
pagamento, che paghi ora perché possano convertirsi in una rendita in un futuro
remoto e ipotetico. Un po’ come nelle polizze vita, ti viene offerta la
cosiddetta “doppia proposta positiva” (positiva, beninteso, non per te, ma per
il tuo nemico); preferisci il capitale o la rendita? Ecco: la rivoluzione è il
capitale, il momento folgorante seguito da una miseria permanente; la riforma è
la miseria diluita, mitridatizzata, finché la morte non ti renda libertà. Solo
l’immane meschinità del presente può consentire che sopravvivano riformisti o
rivoluzionari di tal sorta, che il sacrificio
politico venga ancora accolto e ricercato da milioni di persone. Pur di non
rinunciare alla speranza, ci si adatta a sperare in qualcosa che non solo è
inverosimile che accada, ma che, riflettendo solo un attimo, sarebbe cento
volte meglio che non accadesse. Come chi, mentre proclama la propria fede nella
miglior vita, spera ardentemente di campare fino a cent’anni, così chi si batte
per una società migliore e più giusta, rimane ben disposto a sacrificarsi ancora un poco in mezzo ai mali del
presente.
Nell’idea stessa di
riforma è insita l’affermazione che l’impianto sarebbe condivisibile, ma è
gestito male, gestito per fini ingiusti. per cui la pecora del capitalismo
andrebbe tosata e non mangiata, pretendere di continuare a tosare un
capitalismo che, se già cent’anni fa più che una pecora era semmai una jena,
ora si è da tempo convertito in un serpente velenoso, la cui lana inquina e uccide.
Come indicano le loro
magliette, i militanti di Attac – giornalisti, intellettuali, professori,
militanti trotskisti, stalinisti pentiti, studenti, sindacalisti – rivendicano
una percentuale, una fettina di «questa ricchezza», da spendere in «questa
società», oltre il cui orizzonte non immaginano di poter mai arrivare. Eredi
del vecchio sindacalismo, hanno sostituito la rivendicazione fallimentare con
il lobbyismo mediatico, lo sciopero compatibile con la dimostrazione
concordata.
Ma sempre con la precisa
volontà di spartire le briciole avvelenate della torta del progresso. Ciò
comporta che si tratta non già di proporre ad alcuni – gli attuali ricchi, gli
attuali potenti, ma anche tutti coloro che giudicano verosimile diventare a
loro volta ricchi e potenti – un diverso e migliore punto di vista sul mondo,
ma di imporre loro di cedere tutto o parte del loro potere, di contendere loro
il potere sull’esistente. Il discorso riformista, sotto l’apparenza pacifica,
democratica, cela in realtà un confronto di forza violento, e proprio perché violento bisognoso di regole che ne
attenuino la pericolosità. Ogni presunto miglioramento comporta perciò un
aumento di leggi, controlli, controllori, polizie, giudici, carceri, fino a
dividere il mondo in rei e poliziotti. Che é quanto sta già accadendo grazie ai riformatori di oggi.
Ogni riforma, da almeno un secolo, non ha fatto che ridurre e umiliare
ulteriormente la libertà e il piacere di vivere. Il principio del confronto di
potere, che sta alla base del riformismo (d’ora in avanti al posto tuo le leggi
le fisserò io), si estende a tutto il quadro, e questo spiega perché siano
molto più spesso i riformisti, fautori della simbolizzazione
e della sublimazione della
violenza, a condursi violentemente contro i rivoluzionari, che dichiarano
apertamente, e in certo qual modo pacificamente, di farsi carico del
dispiegamento della violenza. La prospettiva rivoluzionaria è essenzialmente
fondata sul cambiamento di prospettiva, e sulla parallela demolizione degli
ostacoli che si frappongono a questo cambiamento. Propone un altro mondo e
un’altra civiltà . Nel momento stesso in cui si rifiuta la mediazione della
politica e la caccia al potere separato, necessariamente ci si affida a ciò che è l’autentico fondamento della
politica, vale a dire la persuasione.
Per cui il più radicale,
il più propenso alla distruzione e al rifiuto di quanto esiste, non ha motivo
di essere e non è il più prevaricatore e autoritario. Infatti, dovunque nelle
giornate di Genova nessuno ha costretto chicchessia a praticare atti violenti
contro la sua volontà; molti hanno cercato, con scarsi risultati, invero, di
imporre grazie al numero e alle minacce, quel
che hanno la spudoratezza di definire non-violenza. Osservava acutamente
Olivavittoria: “è curioso notare come sia violento il linguaggio dei "non violenti".”
È infondatissima l'idea
che migliorare l'esistente sia più facile che ricostruire il mondo da capo. Per
migliorarlo è indispensabile essere in grado di imporre ovunque le proprie
decisioni: per rendere umano, temperato, sostenibile il capitalismo,
occorrerebbe non solo che ogni singolo individui muti la propria attitudine, ma
che tutti la mutino nel senso indicato dal riformatore, utopia insieme ridicola
e sinistra, che – ogni qual volta qualcuno ha osato porvi mano – ha condotto a
tirannidi e a violenze d’ogni sorta. Come Mengele rappresenta perfettamente il
culmine della ricerca scientifica su soggetti viventi, così Pol Pot offre una
perfetta indicazione di ciò che significa una riforma sociale praticata
rigorosamente. Se l’indole aggressiva e poliziesca dei riformatori non emerge
sempre con la giusta chiarezza è perché allorché hanno l’occasione di
dispiegarla, hanno già
cessato di presentarsi come riformatori. Mentre per ricostruirlo, occorre da
una parte che qualcuno, non necessariamente tutti, proceda alla sua
demolizione, e che poi ciascuno ponga mano alla sua riedificazione, secondo
criteri propri e nuovi, essendo stati spazzati via quelli della società
defunta.
Se c’è, anzi, un argomento
a favore della demolizione totale della presente società é proprio la facilità.
Come scrive Marcos e come gli zapatisti, in quell’area che sono riusciti a
liberare, hanno cercato di fare: "non é necessario conquistare il mondo.
Basta farne un altro. Noi, oggi"
Sotto questo punto di
vista, laddove le riforme sono rinviate a un’epoca avvenire da conquistare e
imporre con la forza del numero, la rivoluzione, il processo di liberazione
individuale praticato collettivamente, è principiata da un pezzo. Come scrive
Renzo Novatore:"Tu
aspetti la rivoluzione! Così sia! La mia è già cominciata da tempo! Quando
sarai pronto... non mi dispiacerebbe fare un pezzo di strada con te per un po'.”
se le ideologie sono tutte
alienanti (compresa quella anarchica), gli anarchici sono fra le persone
migliori a conoscere. E la rivoluzione é una composizione di corpi viventi, non
certo una danza macabra di dogmi e di principi.
E, precisamente come quel
maggio del 1968 da cui tutto questo ha preso origine, se non saprà volgersi non
già contro il malfunzionamento della macchina capitalista che affama e
saccheggia buona parte del pianeta, ma soprattutto contro il funzionamento
efficace di quella parte di mondo che percepisce sé stessa, abbastanza
inspiegabilmente, come ricca e degna di invidia.
13. LA RETE
Pensiamo alla ml [mailing list] come a una piazza pubblica,
agorà in greco, dove le persone - senza ordini, ma
spontaneamente, discutono di ciò che amano di più: politica,
economia, teatro, sanità, ecologia, ecc. ecc.
All'interno della piazza si formano dei
gruppi, poi si disperdono, altri se ne
formano, alcuni se ne vanno. Non ci
sono leggi scritte, ma regole dettate di volta
in volta da
quello che gli individui decidono con la loro
volontà e scelta
personale. Da infinite discussioni nascono idee, progetti,
azioni, movimenti, conflitti. La piazza, tanto per usare
la metafora, è il luogo della libertà. Nessun capo detta
le regole, né partito, né portavoce. Nessun proclama
viene letto, né ordini da seguire. Tutti concorrono
- con la propria intelligenza-esperienza- interesse-passione
- allo scatenarsi di passioni e di
progetti
concreti. Se questa è utopia...evviva l'utopia. Canenero - lISTA Libertari
Nello stesso modo in cui
ho vissuto molte libere azioni sulla strada, ugualmente ho letto un gran numero
di liberi pensieri in rete. Questo stesso testo sarebbe molto diverso e molto
più povero e forse addirittura non esisterebbe, se in questi anni non si fosse
sviluppato quell’intreccio di siti, forum e mailing list che così un compagno
descrive:
Si
tratta di una sorta di scrigno che contiene una serie di lettere ordinate
cronologicamente e scritte da personaggi diversi. La tessitura delle relazioni,
che si intuiscono esistere tra gli autori e i destinatari delle lettere, fa la
trama del romanzo e la rappresentazione del mondo.
Fino
a pochi anni fa questo era un romanzo settecentesco. Nessuno immaginava che più
persone nello stesso momento potessero cominciare a scriversi lettere, e tante,
sullo stesso
argomento in un modo così fitto da
poterci rappresentare sopra una trama e un mondo.("Talebano" Lista
movimento, 18/10/01) Sotto la coltre di difficoltà, ho l'impressione che nella
rete delle cose vengono scritte, e lette, e che a leggerle e a scriverle siano
persone vere. Si nota, certo, che specie i più giovani non sono adusi a un
dibattito serrato, e che chi più chi meno tutti considerino
"naturali" le proprie idee e deliranti quelle altrui. Ciò deriva, io
credo, dal porsi della società e del suo linguaggio - l'ideologia - come
mediazione universale: Babele alla portata di tutti. Se è fondata perciò la
critica che alcuni compagni fanno, che la rete è un sostitutivo di una
relazione immediata, corporea, materiale, è ugualmente vero che tali relazioni
sono difficilissime, ostacolate meno di un tempo dalle distanze materiali, e
sempre di più dalla crescente incapacità di vivere direttamente. Internet
allude quindi ad un vuoto e, senza riempirlo, traccia tuttavia dei segnali che
possono facilitare la traversata.
La prospettiva pare perciò
quella di portare materialmente in piazza, nel modo di essere presenti, di
comunicare, di agire, l’esperienza di espressione diretta, antideologica e
antileaderistica che è il frutto di anni di pratica della rete. Non tanto
Internet per chiamare a raccolta, perciò, ma come sperimentazione ancora
insufficiente di una parola libera, che sappia fare uso immediatamente degli
spazi liberati.
Costruirsi insieme delle
regole, come sa chiunque ami giocare, é una delle cose più belle e speciali e
umane della vita. Ma per costruire regole, occorre che non ce ne siano di già
pronte, di precostituite. E anche che ciascuno giochi lealmente; e proponga
regole a vuoto, e non progettate in modo tale da favorirlo: per questo occorre
sempre che ciascuno dica sì ciò che pensa e ciò che sente, ma sforzandosi di
dare sempre il meglio di sé, e di riconoscere il meglio negli altri. E parlare
su quel piano: e non già su quello del "siamo tutti delle merde",
della "traversata della merda"
e via via "evacuandosi gli uni
sugli altri". Non
esiste comunicazione dove non vi sia potere sulla propria esistenza, nel senso
- quanto meno, in un'epoca così sciagurata - di passioni dignitose e di una
dignità appassionata. Se questo manca, se invece che fare la critica della vita
quotidiana, ci si limita a farsene attraversare, rendendola pari pari come la
riceviamo, alla maniera dell'alimentazione dei platelminti, ecco che si
realizza ciò che Vaneigem paventava e beffeggiava " individui che, per
dissimulare le proprie insufficienze, reclamano una democrazia dell'impotenza,
in cui essi affermerebbero evidentemente il proprio dominio". Io credo che
ciò che urge ora, non solo in questo ambito, non solo in internet, non solo in
Italia, sia un reciproco rassicurarsi sulle possibilità superstiti
dell'individuo.
Quindi ogni tragitto,
anche il più impervio, anche il più personale, che sia inteso a questa
rassicurazione, a dare, a esemplificare, a riverberare fiducia, credo sia il
benvenuto. Nella stessa misura, penso che proporsi a vicenda problemi
confezionati in modo tale da non poter essere risolti, da girare in circolo,
scambiandosi dosi massicce di merda in cui guazzare, valga unicamente a
favorire l'idea che parlare senza forma é una libertà eccessiva, che ci
vogliono gli specialisti, i portavoce, coloro che sanno. Lo psicologismo
circolare é il pendant del
militantismo politico: é il militantismo della vita quotidiana, altrettanto
succubo dell'esistente, altrettanto nemico di ogni superamento possibile.
La prospettiva sovversiva
é senza dubbio una storia di naufraghi – in parte volontari in parte no - che
cercano di soccorrersi gli uni con gli altri e di farsi coraggio a vicenda: ma
l'essere tutti naufraghi, non solo non lascia spazio ma giova che ne tolga, a
coloro i quali cercano, gli uni con gli altri, di tirarsi sotto. Anche questo
accade, e la colpa é sempre dei medesimi che ci hanno precipitato in questa
condizione, ma ciò non toglie che ciò che fanno é un male per tutti.
14.
ILLUSIONI RIGUARDO ALLO SPAZIO E AL TEMPO
«Tutto lo spazio è già occupato dal nemico... Il momento di apparizione dell'urbanismo autentico consisterà nel creare, in
certe zone, il vuoto da questa occupazione.
Quello che noi chiamiamo costruzione comincia
lì. Può essere compreso con l'ausilio del concetto
di buco positivo forgiato dalla fisica moderna.»
(Programma elementare di urbanismo unitario,
Internazionale Situazionista #6)
Kafka appariva sempre stupefatto quando gli dicevo
che ero andato al cinema. Una volta vedendolo mutar
faccia gli rivolsi questa domanda: "Lei non
ama il cinema?" Kafka rispose dopo breve
riflessione: "A dire il vero, non ci
ho mai pensato. Si tratta di un giocattolo grandioso, ma
io non lo tollero, forse perché sono troppo
visivo. Io vivo
con gli occhi, e il cinema impedisce di guardare. La velocità
dei movimenti e il rapido mutare delle immagini ci
costringono continuamente a passar oltre. Lo sguardo non
si impadronisce delle immagini, ma queste si impadroniscono
dello sguardo, e allagano la coscienza. Il
cinema mette l'uniforme all'occhio che finora era svestito."
"È un'affermazione terribile" osservai. "L'occhio
è la finestra dell'anima, dice un proverbio
ceco." Kafka annuì.
"I film sono persiane di ferro."
(Gustav
Janouc, Colloqui con Kafka)
“Molta gente potrebbe aver scoperto a Genova un modo significativo
di riappropriarsi degli spazi urbani, generalmente
destinati alla mortificazione globale...”
(Alfredo
Passadore) Se il potere del mercato È
una forma di potere
complesso che comprende a un tempo tecniche di individuazione e procedure
totalizzanti,per Ilardi la " libertà
È godere il tempo presente senza guardare ad
altro all'infuori di esso. Il
sogno degli ideologi -scrive Ilardi - È di
rinchiudere la libertà
entro uno spazio sociale e simbolico.
Ma il tentativo di rinchiuderla s'infrange ripetutamente contro le pratiche della
libertà negativa che si dispiegano
sul territorio metropolitano.
(Dalla presentazione del libro di Massimo
Ilardi - In nome
della strada - Libertà e violenza)
nell'incontro di almeno due grandi ristrutturazioni: quella della espressività della
partecipazione personale (si sono
praticamente dissolte le organizzazioni della voce, del
canto, dei cori a favore dell'uso dei cellulari che invece
di dare espressività alla folla creano circuiti di espressività
all'interno della folla) e quella della gestione
della retorica sindacale. Technologies
of Perception and the Cultures of Globalization
di Arwind Rajgopal (Social Text n°68): "sia le
imprese che i partiti politici cercano di centrare le persone
piuttosto che le masse, accrescendo una nuova intimità
referenziale rinforzata da sensuali evocazioni di immagini
nella sfera pubblica che ovattano e diffondendo
le forme dell'autorità' patriarcale e rielaborano
le vecchie distinzioni tra pubblico e privato". non
che precedentemente mancasse il rapporto tra potere
ed intimità del singolo solo che oggi, dissoltasi quest'organizzazione
politica tipica delle società disciplinari,
questo rapporto È affidato alle tecnologie nuove
o ristrutturate della comunicazione
Da: mcsilvan Lista Movimento Data:
venerdì 29 marzo 2002 22.35 composto
e rivisto in treno, primavera 2002
L'orologio è lo stereotipo fatto realtà
(Meyrink, L'orologiaio)
Mi viene in mente un brano di Primo Levi che, raccontando
del lager nazista, ricordava di un particolare
tormento psichico, costituito dalla combinazione
fra il gesto automatico di guardare l'ora e il
numero tatuato proprio al posto dell'orologio,
sul polso sinistro:
un continuo rammentarsi della propria condizione.
Mi sono chiesto che effetto gli avrà fatto, negli
anni successivi, una volta reindossata la manetta
cronografica, guardarsi il tatuaggio.
Volin – Lista Libertari
RAPPRESENTAZIONE
DI UN CONFLITTO:
CIAK, SI FILMA!
Nell’epoca della
realizzazione della separazione, della separazione compiuta dell’uomo dalla
vita e della conseguente perdita del senso dell’esistenza stessa, l’immagine
funge da schermo protettivo rispetto all’agghiacciante realtà.
Foto, filmati e documenti
visivi riempiono la testa e le mani non più solo di birri e magistrati ma
anche, se non di più, degli attori nella scenografia delle manifestazioni del
falso dissenso.
Già si è detto e ripetuto,
peraltro inutilmente, quanto l’uso nei cortei della macchina fotografica e
delle sue consorelle tecnologicamente più avanzate sia una pericolosa arma
boomerang utile per la repressione; viene la nausea a doverci tornare sopra.
Non si comprende perché si debba collaborare a raccogliere materiale
utilizzabile per autoimbrigliarci nella strangolante rete delle maglie dei
procedimenti giudiziari. Una foto fa da prova, e non c’è bisogno d’altro. La
pratica irresponsabile della raccolta ossessiva di immagini diviene
collaborazionismo, e proprio da parte di chi pretende di manifestare dissenso.
Ora non ci si venga a
raccontare che le riprese vengono effettuate per incastrare gli sbirri quando
esagerano nell’adempimento del loro empio dovere, davvero si pensa che possa
bastare una immagine per portare alla galera un poliziotto? e poi soprattutto è
nostro compito rivoluzionario fare le veci di un magistrato o i portavoce di
chi è assetato di giustizia giudiziaria? quale passo avremo mai fatto in avanti una volta affidata la nostra libertà
nelle mani di un magistrato, di un politico o di una nuova, e non se ne sente
proprio il bisogno, legge?
Nella
gara per la raccolta e diffusione di immagini si finisce poi per rivaleggiare
con l’altra bella categoria, quella dei giornalisti. La frenesia di comunicare
l’evento prende il sopravvento sull’evento stesso, tanto che non è necessario
nemmeno più che accada, basta che venga simulato per quei pochi istanti
richiesti e dettati dai tempi televisivi. Questa smania del giorno dopo sui
giornali, o meglio del giorno stesso sui TG ha preso talmente la mano da far
perdere l’esserci e il fare nel momento poiché si è già proiettati verso
l’immagine da proiettare.
Da questo vortice
risucchiante si pensa di uscirne con le autoproduzioni da far girare nei
circuiti presunti antagonisti dei centri sociali. Quale modo più semplice per
dare ampiezza e risonanza ad un movimento nato morto di quello di farlo vivere
internandolo nel neomoderno carcere mediatico?
Sciocchi imitatori, quali
schemi rompono, che cosa portano di dirompente se non la loro rappresentazione
autocelebrativa? “Contro la guerra dei potenti ora e sempre disobbedienti!” Ah…
beh!
Con obiettivi che si
intrecciano in un tripudio di scatti incrociati, come a costruire il set di una
stanza degli specchi in cui le immagini, di cui godere narcisisticamente,
rimbalzano dall’uno all’altro. In un gioco di infiniti rimandi, si allarga a
piacimento la situazione fino ad alludere a uno spettacolo per forti emozioni.
In scena va la tensione di una guerriglia urbana che pare sempre sul punto di
esplodere… ma quel momento non verrà
mai.
Basta l’accenno: un casco
in testa, il volto coperto, qualche fumogeno e lo spazio predisposto per la
finta ritirata. Tutti gli attori in campo conoscono bene il copione ma le
comparse inconsapevoli rimangono lì con la loro rabbia in gola, ignare di ciò che
realmente è accaduto, assediate, chiuse dai due lati da sbirri e bravi.
L’azione è falsa e
l’impotenza cresce.
Le mani morbosamente
afferrano lo strumento di ripresa, non c’è ora modo di utilizzarle per altri
scopi. La mente occupata dall’ansia di carpire l’attimo che al meglio esprima
lo spettacolo. Gli occhi fissi nell’obiettivo ed ecco che la separazione dal
vivere e dal concentrarsi su ciò che si sta facendo si concretizza nell’essere
assenti nel momento in cui occorrerebbe
essere presenti.
Con questo corpo in tutte
le sue parti appesantito da protesi tecnologiche che cosa si vuol manifestare?
contro chi si vuole andare? come si può pretendere di cacciare dai cortei
poliziotti mascherati da umani e giornalisti avvoltoi quando non si riesce a
vedere la differenza tra loro e gli altri?
È uno scontro tra
telecamere quello che ammorba le coscienze ed i coglioni.
Allora la repressione non
è solo quella che viene dai fantocci in divisa o dalle prove incautamente
raccolte per loro, ma anche quella che dall’interno si produce. L’istinto
ricondotto a ragione, imbrigliato e annientato dall’ideologia dell’immagine,
impedisce il realizzarsi dell’atto autentico della rivolta.
L’immagine svuota l’azione
mentre il feticcio succhia il sangue dell’uomo.
Mentre si stava
completando la stesura di queste osservazioni è arrivata notizia di alcuni
provvedimenti pesantemente restrittivi contro quattro compagni relativi ai
fatti accaduti a Ferrara il 22 febbraio scorso. In occasione di una
manifestazione contro la guerra e contro la preparazione di
alloggi per militari NATO
in quella città, si sono verificati atti di “salute pubblica” da cui alcuni
zelanti servitori dell’ordine democratico sono usciti piuttosto malconci nonché
alleggeriti di una telecamera di servizio.
Scrive Benjamin (“L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, nota 32) che “alla
riproduzione in massa è particolarmente propizia la riproduzione di masse. Nei
grandi cortei, nelle adunate oceaniche, nelle manifestazioni a carattere sportivo,
nella guerra – che vengono tutte registrate oggi dagli apparecchi di ripresa –
la massa vede in volto sé stessa.” Ma, nota Rocco Ronchi, “la psicologia delle
masse diverge da quella individuale perché le folle, a differenza dei singoli,
non smettono mai di sognare.”La massa deve dunque vedere nel proprio volto un
sogno passivo: se, per qualche ragione, questa passività è incrinata, lo specchio moltiplica la fine della
passività Grazie al’impiego da parte dei dimostranti, non solo di un
numero sterminato di mezzi di riproduzione audio e video, ma di telefoni cellulari, chi era presente, ha vissuto la
sensazione innaturale di « trovarsi dappertutto », chi era lontano ha potuto
contrastare l’ipnosi maligna dei media asserviti. Ma essere dappertutto è
pericolosamente contiguo al non trovarsi davvero in alcun luogo; e vedere tutto
in diretta crea l’illusione perniciosa
di essere presente, mentre non esiste vera presenza senza azione e interazione,
che a loro volta non sono possibili dove il corpo non è materialmente chiamato
in gioco. Per le medesime ragioni per cui chi non era in piazza a Genova finisce per sentirsi come se ci fosse
stato, chi c’era finisce per scoprire il senso della propria esperienza non
nella memoria unica del direttamente vissuto ma nella memoria collettiva delle
ricostruzioni filmate e scritte
Questi strumenti, che si
vanno affermando come vere e proprie protesi che modificano le capacità del
singolo, trasmutandone la percezione dello spazio e del tempo, rendono visibile in
tempo reale la
manifestazione non solo al mondo ma a sé stessa, suggerendo una mutazione
profondissima del modo di stare nel mondo, che travalica la presente fase del
conflitto e si proietta minacciosamente nel futuro. Una forza, senza dubbio, ma
anche un addio forse definitivo - a un modo di vivere la libertà, « senza
orario senza bandiera ».
Potranno i compagni che si
davano appuntamento col telefonino da una piazza all’altra fra il fumo degli
incendi e la pioggia di lacrimogeni, affermare, come Bakunin ebbe a scrivere
della Parigi del Quarantotto, che Genova « fu una festa senza principio e senza
fine » ? Negli anni sessanta Gill Scott Heron cantava “The Revolution will not
be televised"(la rivoluzione non la vedremo alla televisione).
Ritmato dallo squillo dei
cellulari, filmato in una perenne autopsia in tempo reale, il tempo cui siamo
oggi condannati è quello di un’antideriva, su cui il lavoro e il consumo, anni
– se presi soggettivamente – secoli – se guardati come specie, di lavoro e di
consumo hanno lasciato la loro labile ma incancellabile impronta. Che emerge
mostruosa, proprio allorché, per una volta, non c’è né lavoro da erogare, né
merci da consumare. Si vede infine che oggetto del lavoro e oggetto del consumo
siamo noi stessi. E che sollevare il coperchio della rivolta non è il traguardo
di un percorso di liberazione, ma piuttosto un primo sguardo gettato su un
percorso tutto ancora da inventare, una semplice occhiata gettata
sull’immensità del progetto del nostro partito, quello della vita autentica.
Se una sconfitta
riportiamo da quei giorni, è stata proprio il tempo ad infliggercela,
indicandoci un futuro di appuntamenti e di orologi, fin dentro il cuore della
sovversione.
Se non siamo stati capaci
di signoreggiare il tempo che pure avevamo strappato alla ripetitività del
lavoro e del consumo, non molto meglio è andata con lo spazio. La sensazione,
forse difficile da credere per chi ha seguito da lontano i fatti, montati
sapientemente secondo criteri spettacolari, ma percepita da
tantissimi dei presenti,
nei lunghi momenti di libertà conquistata,
in quartieri dove ogni controllo, ogni potere statale erano stati estromessi e
temporaneamente cancellati, è stata la noia.
La libertà negativa
conquistata con le barricate e le controcariche, la libertà dall’oppressione,
faticava – dopo qualche modesto e ripetitivo vandalismo – a convertirsi in
libertà positiva, libertà di creare, di agire, di godere. Quelli che
straparlano di riappropriazione del valore d’uso, non hanno evidentemente mai
sperimentato quanto siano inutilizzabili, sostanzialmente improprie a qualsiasi
uso, le merci di cui siamo circondati. Una poltroncina da bancario per riposare
in mezzo al corso, un tubo
dell’acqua tagliato per dissetarsi, qualche bottiglia di liquore per scambiarsi
un segno di pace, e poi?
Riprendendo le parole
famose di Vaneigem, ci eravamo conquistati il letto sontuoso di una
rivoluzione, ma non abbiamo saputo donarcelo gli uni con le altre per farci
l’amore. La libertà positiva, la capacità di vivere senza tempi morti realmente
e non solo potenzialmente rimane ancora da ricomporre, giorno dopo giorno, in
relazioni che Genova ha fatto solo balenare, intravedere, reclamare.
Le distruzioni operate nel
levante genovese il 20 e il 21 luglio hanno dimostrato che la libertà di
distruggere è desiderabile solo se ha la capacità di presentarsi insieme con la
libertà di creare, di costruire, di inventare.
Ancor più prigionieri dei
meccanismi obbligati dello spazio e del tempo prigioniero, sono apparsi tutti
coloro – tanti nel corteo di anarchici e sindacalisti del 20, (molti dei quali erano a tal punto rigorosamente
intenzionati a non mischiarsi con i riformisti e i modernisti delle piazze
tematiche, da lasciarsi richiamare verso le località di provenienza, come da un
invisibile elastico, anche dopo l’aggressione subita dalla celere, lungo via
Cantore, e la notizia della battaglia in corso a Levante e dell’uccisione di un
compagno – anzi, in quel momento si parlava di due) innumerevoli in quello del
21 – erano venuti a Genova così
come si va a un corteo
sindacale autorizzato, con i pullman speciali, i gonfaloni dei comuni, gli
orari stabiliti, il cestino dei panini, i punti di raduno rigorosamente
predeterminati.
A metà del pomeriggio di
sabato, mentre impazzava la violenza di migliaia di celerini e appariva attuale
la questione di salvare letteralmente la vita, essi parevano più di ogni cosa
devastati dall’ansia di non ritrovare il loro pullman, come il protagonista
della « Coscienza di Zeno », che nello scoppio della guerra mondiale
distingueva soltanto l’impossibilità di raggiungere il proprio caffellatte. Una
vittima poco rimpianta di Genova è senza alcun dubbio questo modo di fare
politica, rituale podistico, consolatorio. E molto del livore profondo, non
quello artificiale programmato a tavolino dai falsificatori professionali,
verso i vandali in nero deriva dalla percezione, indubitabilmente fondata, che
l’azione diretta è nemica prima di tutto di questa maniera di militare, che,
come in certe foto eloquenti di quei giorni, dietro il sorriso ebete, il
ballonzolare fra artisti di strada, bellaciao, comizi e salamine, cappellini e
magliette e pagheretecaropagherettutto, si leva il fuoco dell’apocalisse.
Come non è risultata
facile la comunicazione fra i presenti, ancor più serio è il problema degli
assenti. Nonostante la scelta di aprire la contestazione al G8, con un corteo
di migranti, non solo questi erano pochissimi giovedì, e praticamente
invisibili erano i pur numerosissimi immigrati residenti a Genova, minacciati
vergognosamente da tutte le mille polizie di questo paese svergognato, ma sono
stati praticamente assenti venerdì e sabato, fatta esclusione per un nutrito e
coraggiosissimo drappello di partigiani curdi. Tuttora, e questa critica era
già stata mossa ai BB negli Stati Uniti, la violenza dei giovani casseur delle
periferie multietniche fatica a legarsi con quella – per tanti aspetti similare
– dei loro coetanei dei gruppi d’affinità in azione a Genova e altrove. Questo
innesco non facile, una volta conseguito, potrebbe rivelarsi foriero di
infiniti mali per la sottile crosta di pace sociale in cui si cerca di
mantenerci. Un
valido ponte fra questi
differenti approcci all’insopportabile pesantezza del non-essere, paiono
edificarlo, in Italia e fuori, vari gruppi di ultras del calcio, parecchi dei
quali presenti addirittura ufficialmente a Genova, molti comunque impegnati in
una pratica di indagine della propria condizione (Oggi gli ultras, domani tutti
quanti). In ogni caso a Ginevra, nel 2003, le varie anime della sommossa
appaiono molto più saldate e solidali: a riprova anche di ciò che si era da un
pezzo subodorato, che l’eredità della cosiddetta, e mai abbastanza vituperata,
“ anomalia italiana” costituisce una pesante palla al piede per la parte italiana
del movimento, disseminata com’è dei cascami di cento ideologie e di mille
sconfitte. Non a caso fra i vari leaderini dei social forum, e delle altre
anime no global troviamo un sacco di riciclati della lotta armata, riemersi dal
pentimento, dalle varie dissociazioni, dalle mille delazioni per affondare
una< volta di più speranze e passioni
Un altro aspetto che
impone una profonda ridefinizione del modo di pensare non solo il presente
sovversivo ma anche il futuro, è il ruolo crescente della tecnologia, non solo
da parte del nemico, ma anche da parte nostra. Da una parte, mai una
manifestazione di tali dimensioni aveva veduto in passato un bilancio così
sbilanciato di morti e feriti fra i due contendenti (dopo le prime panzane
sugli accoltellamenti, il governo ha dovuto ammettere che, già una settimana
dopo i fatti, nessun poliziotto recava segni visibili dei colpi subiti),
bilancio totalmente negativo che non può richiamare quelli analoghi delle
precedenti guerre imperiali, nelle quali i “servitori della legge” riportano
appena qualche graffio, e ci si premura di sottolineare che anche quello è
dovuto a qualche errore tecnico, a qualche svista. Ai nemici della legge viene
negata la possibilità di reagire visibilmente, salvo che nelle maniere
preconfezionate di stampo terroristico. Da una parte è evidente la difficoltà
di “far male” utilizzando gli strumenti a disposizione in strada, a
disposizione di chiunque, senza ricorrere allo specialista o al kamikaze;
d’altra parte è chiaro che ormai
nessuna informazione
proveniente dalle autorità è neutra, ogni singolo messaggio è il prodotto di un
disegno consapevole (anche se spesso malcombinato e poco professionale) di
costruzione di una pseudorealtà. Nello specifico, è essenziale che la violenza
appaia sterile e velleitaria, impotente e isterica, infantile, futile. In
questo modo anche la violenza dei ribelli viene reintegrata nel disegno di
falsificazione sociale che prevede i singoli come dei perpetui minorenni
rispetto alla maturità sociale che lo stato incarna. Se ai rivoltosi del
Sessantotto si rimproverava la giovane età, promettendo e minacciando loro
“crescerete anche voi”, oggi si afferma senz’altro che la condizione di
immaturità è dimostrata dalla ribellione stessa e sarebbe costitutiva di ogni
individuo “non adattato”, qualsiasi sia la sua età anagrafica. La maturità
viene così fatta coincidere univocamente con l’alienazione civica, con la
riduzione dell’individuo in elettore, in consumatore, in cittadino. La compiutezza
cui il concetto di maturità allude viene identificata con il prosciugamento
mortifero di ogni segno di vita autonoma
15.
MANIFESTAZIONI POSSIBILI
(Immaginiamo
che si faccia la manifestazione e non ci vada nessuno)
“Nella mia vita, ho partecipato a diversi
tipi di azione. La mia
esperienza mi ha insegnato che la repressione della polizia
e la violenza dello stato non sono una risposta alle
dimostrazioni violente, bensì a quelle efficaci.
Abbiamo diritto alle proteste inefficaci,
fuori dalle "zone gialle" che proteggono
i potenti e permettono loro di
ignorarci. Ho partecipato
assieme con milioni di persone alle grandi manifestazioni pacifiche
del 15 febbraio 2003. Ho visto come ci hanno ignorato e
come sono andati in
guerra in nome della democrazia” G8
di Losanna - Con amore da un Black Block
15 giugno
2003
Ogni spazio è occupato dal nemico. Viviamo sotto uno stato
di coprifuoco permanente. Non solo grazie ai poliziotti
– ma grazie alla geometria. La vera urbanistica vedrà
la luce quando costringerà le forze occupanti a sparire
da un limitato numero di luoghi. Quello sarà l’inizio
di quello che noi intendiamo per costruzione.
Conquistarci la libertà è, in primo luogo, strappare pochi ettari di terra dalla
faccia di un pianeta addomesticato” (Raoul
Vaneigem, “Invasione” in “Lasciando il XX
secolo”).
"Liberare zone di vita, questo è il
progetto. Nel vivere materiale
degli esseri umani, in tutti gli eventi, gli incontri,
le esperienze, dove i paradigmi dell'identità, del lavoro,
dei rapporti di serie, della comunicazione omologata,
perdono ogni valore, e si sperimenta una superiore
qualità umana. Isole calde dove si produce
un'intensità più alta di respiro, aria, luce,
energia magnetica. Lampi di mondi
autonomi, di materia in estasi,
di incontri fatali, che accadono nel mondo seriale senza
appartenergli. Con l'orgoglio di non appartenergli"
Franco Bolelli, "Peter Pan e l'estasi"
"Indipendentemente dalle rivendicazioni, questo sciopero è in sé una gioia.
Una gioia pura. Una gioia
integra". Simon Weil
Cercherò, d'ora in poi, di effettuare un'analisi avalutativa delle diverse opzioni viste
in piazza, rispetto alla repressione
poliziesca. La strategia non violenta, di fronte
alla esplicita volontà terroristica delle forze del disordine
statale, si è mostrata del tutto inefficace: carabinieri
e polizia volevano persone inermi da terrorizzare,
e le hanno sostanzialmente avute. La strategia
del Black Bloc, d'altro canto, non aveva certo alcuna
valenza difensiva. Quella delle cosiddette "Tute Bianche".
inoltre, è crollata miseramente di fronte alla - come
dire? - mancata "collaborazione" da
parte delle forze
del disordine statale, che tutto avevano tranne che l'intenzione
di effettuare una sceneggiata ad uso e consumo
delle telecamere. Quella dell'organizzazione generale
dei "portavoce" del GSF, fatta di giornalisti, avvocati
e quant'altro desse l'idea della Presenza Dell'Opinione
Pubblica e Dello Stato Di Diritto, infine, s'è mostrata
fragilissima di fronte alla volontà repressiva di mostrare
un terroristico "clima cileno". In altre parole, è mia
impressione che in qualche misura lo Stato
si sia oramai
parametrato, rispetto alle varie strategie di "Blocco"
che le diverse anime del movimento no-global hanno
espresso da Seattle a Genova, con tutte le specificità delle situazioni locali.
Non possiamo più, in
altri termini, "contare sulla
sorpresa": occorrerà da parte nostra,
allora, uno sforzo di intelligenza per trovare nuove
strategie di opposizione che, pur continuando efficacemente
ad opporsi al dominio imperialista del mondo
oggi detto "globalizzazione", riescano altrettanto bene,
nei loro momenti di presenza in piazza, a rendere inefficace
il progetto terroristico della repressione statale mostratosi
in azione, con particolare evidenza, a
Goteborg, Napoli (G8) e Genova. Shevek dell'O.AC.N./F.A.I
La pratica del sabotaggio diffuso (autonomia senza ostacoli, massima
flessibilità, autorganizzazione, minimo rischio)
fra gli individui affini, apre la possibilità di comunicazione
reale, distruggendo quella spettacolare, rompendo
l’apatia e l’impotenza dell’eterno monologo rivoluzionarista.
Rapporti e possibilità di contatti con altre
persone, nella negazione del ruolo spettacolare.
Sono situazioni effimere che per la loro preparazione e sviluppo portano, nella
loro essenza, le qualità della situazione
rivoluzionaria, che non retrocederà e che sopprimerà
le condizioni di sopravvivenza. Non cade nell’irrimediabile
gerarchizzazione alienante che porta con
sé la specializzazione di ogni gruppo armato di carattere
autoritario e mîlitarista, nel quale le masse delegano
la loro partecipazione negli attacchi.
L’aumento quantitativo di questa pratica non ci arriva dalle
mani dei propagandisti dello spettacolo, bensì dal passeggiare
nello scenario del capitalismo e trovare, in questa
deriva, i bancomat bruciati, le ETT con le vetrine infrante,
i fabbri che cambiano le serrature di un supermercato...
Visioni che ci fanno sbocciare sorrisi complici
e che ci animano ad uscire quella stessa notte, a
giocare con il fuoco con il fine di far sorgere gli stessi sorrisi
sui volti di sconosciuti complici per
l’affratellamento della distruzione. Non importa
il numero, ma la qualità dei gesti:
sabotaggi, espropriazioni,
riduzioni... ci restituiscono parte della vita che
ci negano, penò noi la vogliamo tutta.
Compagne e compagni il gioco è vostro e noi ci animiamo
alla sua pratica quotidiana. Organizzatelo
con
i vostri complici. Contro
il vecchio mondo in tutte le sue espressioni, per uscire
dalla preistoria, lanciamo e moltiplichiamo
gli
attacchi. Per l’abolizione
della società di classe contro la merce e
il lavoro salariato stop Per
l’anarchia stop Per il
comunismo
stop Pietre e fuoco
Istituto Asturiano
di Vandalismo Comparato
Far sorgere, pro-muovere, generare,
iniziare: nei primi passi
c'è l'intenzionalità del tutto. La politica è
un "far sorgere"
continuando, essa diventa l'aurora dello "spezzare",
il trionfo della potenza del negativo
"Città del Sole"
"non è affatto la rivoluzione che sta -
a mio avviso - accelerando ma il farsi a
pezzi del mondo. Personalmente ritengo si
debba cominciare ad abbandonare
in fretta parecchi degli strumenti che hanno
caratterizzato le "lotte" o anche solo i conflitti del passato
( ad esempio cose come le adunate di contestatori,
le pressioni e le manovre della politica, mediazioni
e proposte volte ad ottenere giustizia, consenso,
eccetera: in piazza, sempre per esempio, ci vado
e ci andrei solo per riprendermi un po' di maltolto, se
c'è altri come me, e divertirmi a riprenderlo, per quanto
rischioso sia, mai per ottenere questo o quello, per
dire NO a questo o quello, il No si deve dirlo
molto
prima, dentro la propria vita, e tentare di farlo aderire alle
forme di questa), e iniziare a costruire spazi
e tempi di
rottura integrale con il "farsi a pezzi del mondo". Vale a
dire trovare modi collettivi di rompere con
il ricatto dell'economia
di mercato e del lavoro, con le regole e le leggi
che costituiscono l' ingerenza dello Stato
nella vita quotidiana,
con luoghi fisici stessi dove la distruzione umana
ed ambientale è più avanzata, inventare o ricostruire
ovunque e per quanto possibile modi diversi di
"ricambio organico" con la natura. Alcuni di questi modi
e mezzi - anche graduali - ci sono, anche se comportano
varie rotture con ciò che fa di un singolo un "cittadino
sociale", l'utente dei diritti e dei doveri del mondo
fatto in pezzi. E comporta anche una rottura completa,
totale, con l'universo della "militanza". Un universo
di follie e masochismi mai abbandonato anche dal
ceto politico della cosiddetta sinistra antagonista o rivoluzionaria,
basta leggere i messaggi su questa lista. Se
appelli per costruire rotture collettive di
ciò che opprime
l'esistenza comune se ne vedono pochi sono moltissimi
in compenso gli appelli alla "mobilitazione" generale
per questo e contro quello, la conta dei numeri delle
manifestazioni, in cui il militante va generalmente per
dare il suo contributo di testimonianza "politica"
Claudio Fausti
I custodi delle ricchezze hanno tutto da temere
da questa perfetta espressione della modernità: l’individuo polivalente (…) Un tale
individuo, che decidesse di sottrarsi
a tutte le leggi senza farsi plagiare dall’ideologia,
come il terrorista, o dal denaro, come il delinquente,
dovrebbe costituire, nei prossimi anni, un pericolo
rilevante per la pace pubblica
Serge Quadruppani La
Forcenée – L’assassina di Belleville
"gli atti «irresponsabili» di quel momento
sono precisamente da rivendicare per la continuazione del movimento rivoluzionario
del nostro tempo (anche se le circostanze
li hanno limitati quasi tutti allo stadio
distruttivo…" Debord,
Kotanyi, Vaneigem – Sulla Comune.
Molti avevano raggiunto
Genova, precisamente come si va ad assistere a uno spettacolo. Anche senza
voler raccogliere integralmente tutte le suggestioni più sinistre di questa
parola, intendiamo “spettacolo” semplicemente nel senso di "qualcosa di
organizzato da altri, destinato ad essere veduto e fruito in quanto esperienza
passiva”, ed é questo che lascia davvero critici rispetto alla concezione delle
manifestazioni moderne di cui i disobbedienti sono diciamo i corifei, ma che
attraversa un po' tutta la modernità, Come si può pensare che chi passa la
settimana in ginocchio, poi si levi vindice, il sabato, altro che marciando
nelle manifestazioni del rispettoso dissenso, del democratico distinguo, del
responsabile ammonimento?
A metà del pomeriggio di
sabato, mentre divampava la violenza di migliaia di celerini e si poneva in
gioco la questione di salvare
letteralmente la vita, essi parevano più di ogni cosa tormentati dall’ansia di
non ritrovare il pullman, proprio come il protagonista della « Coscienza di
Zeno » che, nello scoppio della guerra mondiale, riusciva a cogliere unicamente
l’impossibilità di raggiungere il proprio caffellatte. Una vittima poco
rimpianta di Genova è senza alcun dubbio questo modo di fare politica, rituale
podistico, consolatorio, che pare definitivamente consegnato alle adunate
oceaniche di obnubilati in cerca di
guida, tipo le radunate all’ombra di Cofferati.
Il caso di Genova rimarrà
a lungo, e forse per sempre, senza un
possibile remake: prima di tutto erano tre giorni, lunghi, complessi, fatti di
interminabili ore di sole, di notti, di piazza, ma
anche di cercarsi da
mangiare, da dormire, con chi, come, dove, quando. La situazione, ciò che
dovremmo sempre provarci a creare, ce l'avevano viceversa servita i potenti,
con la sospensione non già dei
diritti, ma proprio della quotidianità, creando una sorta di vacanza sociale.
Ci ripetiamo
infaticabilmente a vicenda, nei bistrot come sui giornali, nelle liste internet
come nelle assemblee, che la ribellione individuale per potersi esprimere
validamente ha necessità di un appropriato contesto: ecco, il 20 luglio, e in
parte anche il 21, si sarebbe potuto fare tutto, qualsiasi cosa, bastava
volerlo. Avevi a disposizione tanto di quel contesto che veniva da
piangere...eppure il più gran numero ha scelto di non perdere di vista i
pullman per il ritorno e i titoli dei telegiornali. Fare la rivoluzione
significa invece non tornare più a casa, significa che non ci sono più
telegiornali, e se anche qualcuno li mandasse in onda, nessuno perderebbe tempo
a guardarli, significa non essere più servi, innanzi tutto, della violenza
della nostra quotidianità individuale.
Che cosa sarebbe potuta
essere Genova, se - invece che sfilare orando come frati della buona morte o
penitenziagire bruciando macchine e banche come dolciniani - ci si fosse semplicemente installati lì, abbandonando
la vecchia laida vita di lavoro precedente, e trasformando pacificamente ma
radicalmente la città, occupando edifici, sabotando la quotidianità e
inventando nuove possibilità dello spazio e del tempo, RIMANENDO LI'
una proposta che era già
circolata dopo Genova: se si andasse,
del tutto pacificamente in un luogo e SI RIMANESSE LI'? Cioè, non si lasciasse
più la città, ma la si invadesse sempre pacificamente ma risolutamente fino ad
imporre qualche risultato? Pensate a Genova, senza atti di violenza (da parte
nostra) ma permanentemente invasa e trasformata da territorio loro a territorio
nostro, cioé prendendo sul serio quello slogan "Genova libera" che
tutti ricordiamo Potremmo proporre che d'ora in poi le manifestazioni assumano
la forma
dell'occupazione sine die
di uno spazio, cioè prevedano come loro punto nodale il non-rientro a casa la
sera o alla fine del weekend. definirlo lo sciopero dal ruolo, lo sciopero
della vita quotidiana, o qualcosa di simile. in una simile ottica le diverse
capacità e propensioni, più o meno pacifiche, potrebbero trovare ciascuna la
propria modalità, e il discorso violenza- nonviolenza verrebbe superato in
positivo, invece che con le minacce di reciproca esclusione.
Molto più che qualche vandalismo,
l'aspetto dirompente starebbe proprio nel farsi carico di questo, portandosi da
mangiare, vivendo del territorio, facendosi ospitare, dilapidando i risparmi,
mettendosi in ferie o in malattia, licenziandosi. Rompendo, cioè, con la
propria quotidianità: questo sarebbe la manifestazione, la presenza fisica in
piazza le aggiungerebbe solo visibilità, faciliterebbe la solidarietà, la
convertirebbe in una prassi collettiva. Si potrebbe pensare a delle "casse
di resistenza" quali si usano per gli scioperi, dove e quando gli scioperi
sono una cosa vera. La fabbrica non é più il luogo unico dello sfruttamento,
che si é esteso a tutti i luoghi? E noi invece di occupare la fabbrica,
occupiamo la città, occupiamo tutto. Blocchiamo tutto, prima di tutto noi stessi
come ingranaggi sociali,
riprendiamo a discutere tutto, a decidere tutto, a risolvere tutto. Non facile
da fare, ancor più difficile da proclamare, ma l'azione collettiva del futuro,
che prende le mosse da una infinità di azioni individuali, anche proprio del
singolo nell’oscuro della propria casa, passa per soluzioni che non possono
essere di profilo minore di questo.
Un altro aspetto che
impone una profonda ridefinizione del modo di pensare non solo il presente
sovversivo ma anche il futuro, è il peso crescente della tecnologia, tanto da
parte del nemico, che da parte nostra. Mai una manifestazione di tali
dimensioni aveva veduto infatti in passato un bilancio così sbilanciato di
morti e feriti fra i due contendenti (dopo le prime panzane sugli
accoltellamenti, il governo ha dovuto ammettere
che, già una settimana
dopo i fatti, nessun poliziotto recava segni visibili dei colpi subiti),
Non è affatto detto,
perciò, che le tattiche che hanno condotto il movimento fin qui, rimarranno a
lungo le più opportune; e che soluzioni in passato scartate o squalificate
dalla pochezza dei loro interpreti, non possano, in diverse circostanze,
mostrare nuove e inattese potenzialità.
La «disubbidienza civile»,
travolta nel generale e vergognoso naufragio genovese delle Tute Bianche,
potrebbe, rivisitata, rivelarsi un’idea ricca di sviluppi possibili e, in buona
misura, tuttora inesplorati. Pur rimanendo nell’ambito non-violento, con
motivazioni tattiche simili a quelle che abbiamo visto per i pacifisti e con
l’intento di sottolineare visibilmente la polarità fra violenza cieca del
sistema e intelligenza armonica dei corpi,
E questo è possibile
rendendo visibili delle condotte di auto- affrancamento immediato, che possano
essere riprese da ciascuno nelle proprie specificità; che svelino l’incantesimo
maligno che induce ciascuno a tenere chiuso il cancello della propria cella.
Il passaggio dalla fase
nascente del movimento, con le sue ingenuità, le sue spontaneità, le sue
incongruenze, al diffondersi di pratiche estese nello spazio e nel tempo, che
coinvolgano ciascuno in una critica pratica della vita quotidiana, in una decostruzione
puntuale della macchina sociale, porterà necessariamente sia a confrontare fra
loro tattiche di intervento, ma altresì ad indagare con maggiore acutezza
motivazioni che finora non sono state criticate a fondo.
L’esigenza posta dalla
costellazione dei mansueti: «spargere nelle 24 ore, temi e tattiche, forme e
obiettivi riassunti a Genova»; quella dei disubbidienti: « pensare nuove forme
d’azione pubblica che sorpassino lo schema della manifestazione»; e quella dei
radicali: «principiare a demolire concretamente i muri della prigione sociale»,
occorre che si parlino e si scambino le loro potenziali ricchezze. L'essenziale
é
che ciascuno individui la
propria strategia e il proprio percorso; perché la rivoluzione questo è, la
liberazione, lo scatenamento dei percorsi, è un movimento divergente, non
convergente. Quindi non si tratta di individuare la via più rapida, o più
impercettibile, o più indolore, per pervenire alla dissoluzione di questa
società, ma di sciogliere, persona per persona, aiutandosi gli uni con gli
altri, i nodi sociali che impediscono a ciascuno di disegnare liberamente il
proprio cammino, liberamente componendone e allacciandone di nuovi. Quando ciò
si dà, la rivoluzione è già in corso, e non necessita di altri esiti per
qualificarsi.
La divisione non è sui
metodi di lotta, ma verte, da una parte sui
fini, dall’altra sulla compatibilità con l'esistente. Manifestare serve a fare
pressioni sui potenti? o piuttosto a propagandare l'idea che un altro mondo è
possibile? o a mettere in pratica nelle azioni ma soprattutto nelle relazioni
qualcosa di quel mondo possibile, qui ed ora?
quali sono i suoi
interlocutori? le istituzioni? la gente? il movimento stesso?
queste opzioni divergenti
possono, a loro volta, essere tutte gestite con molta, poca o punta violenza, e
con metodi i più svariati, che potrebbero anche non essere in sé e per sé
incompatibili: ma faticano a stare insieme, perché si levano il tappeto a vicenda
di sotto i piedi. Ma nel contempo hanno necessità di contaminarsi a vicenda,
anche perché moltissimi sono coloro i quali ondeggiano fra le diverse
tentazioni, e non sono disposti ad identificarsi con alcuna fazione
Che sia chiaro: non siamo contro la gioia insurrezionale di Praga o di
Seattle, siamo solo contro la loro unicità epica che ci impedisce di ripeterli
ogni giorno a casa nostra (Io sono un BB, pg.123)
Occorre ora non
lasciarseli strappare dalla tentazione umanissima di convertirli in un perpetuo
presente, ripetendo all’infinito Genova, nella speranza di una miglior fortuna.
Piuttosto che classiche
manifestazioni, in forma di sfilata, io credo converrebbe sviluppare i
suggerimenti proposti da Genova, fondando cioè un incontro, un convegno,
un'assemblea, magari di più giorni, che comporti poi delle azioni dirette, non necessariamente
violente, ma tali da comportare una sperimentazione pratica dei discorsi che si
fanno. Un esempio: di recente in Belgio c'é stato un raduno internazionale
contro le biotecnologie con interventi, dibattiti, discussioni, mangiate,
bevute, etc. Poi tutti insieme si sono levati e sono andati a distruggere una
coltivazione transgenica, fra bestemmie e schiamazzi. Ecco: io propenderei per
sviluppi di questa natura. Si fa un convegno contro la religione a Torino? si
discorre amabilmente, si mangiano gianduiotti e bagnacaoda, si beve nebbiolo,
si profana un buon numero di ostie: poi, senza
preavviso, condotti da alcuni animosi conoscitori dei luoghi, ci si scaraventa
nel Duomo e si divora senz'altro la Sindone. Questo é ciò, io credo, che
significava per i situazionisti "trarre la teoria da ogni pratica, e
viceversa"
Prima di tutto, non si
potrebbe ricorrere ai treni speciali e all'ospitalità governativa, che tanti
equivoci hanno disseminato (se non altro, perché uno stentava a credere che il
governo gli fornisse un treno per farsi sminchiare dalla polizia a mille
chilometri da casa).
Suggeriamo pure vie che ci
paiono migliori, ma nella coscienza che esse si qualificano più per la
nitidezza dell'esperienza che vi è inscritta, che per i risultati, che sono poi
sempre cosa del passato, lavoro morto, oggetto.
Tutto ciò sta già
accadendo con le mille idee che già attraversano l’esistente, appena sotto la
superficie della visibilità, e che contemplano tutte il detournement dei luoghi
e degli oggetti: la saldatura delle serrature dei negozi, l’accecamento delle
telecamere, la messa a fuoco di laboratori necrotecnologici, il saccheggio di merci utilizzabili, la distruzione
di luoghi di compravendita
del debito e del credito o della sottomissione salariata, il sabotaggio di
macchine e di servizi, l’uso critico dei mezzi elettronici, la pratica del
baratto, dello scambio non-monetario, del dono, della gratuità – per dare un
elenco esemplificativo e non esaustivo, suscettibile di infinite integrazioni e
miglioramenti.
Il passaggio dalla fase
nascente del movimento, con le sue ingenuità, le sue spontaneità, le sue incongruenze,
al diffondersi di pratiche estese nello spazio e nel tempo, che coinvolgano
ciascuno in una critica pratica della vita quotidiana, in una decostruzione
puntuale della macchina sociale, porterà necessariamente sia a confrontare fra
loro tattiche di intervento, ma altresì ad indagare con maggiore acutezza
motivazioni che finora non sono state criticate a fondo.
Le mie idee sono le
solite, e non trovano una particolare eco nella contraddizione capitale-lavoro:
sabotaggio (particolarmente rivolto ai sistemi di controllo, telecamere,
guardioni, software, informatori, etc; boicottaggio non tanto su basi etiche,
ma tattiche (cioè: partire dall'idea che andrebbe boicottata tutta la merce, e
principiare con i punti sensibili, ideando e poi propagandando vere e proprie
"situazioni" di boicottaggio - con l'obiettivo, ad esempio, nelle
periferie - in Italia o simili . di rendere la zona inappetibile per le
multinazionali e il loro mortifero progresso, sfruttando la loro
ipersensibilità ad ogni opposizione); sciopero dei pagamenti, puntando ad
insolvenze non solo di massa, ma visibili le une alle altre, mostrando come
pagare alla cassa o alla scadenza sia più un vizio dell'anima che un obbligo
effettivamente esigibile da parte dei creditori e dello stato; rinuncia ad utilizzare le istituzioni come arbitri e
supporti delle proprie esigenze, astenendosi il più possibile dall'impiegare
istruzione e sanità pubbliche (quelle private la gente di senno non le
considera proprio) o perlomeno di attribuirvi qualche fiducia - e,
naturalmente, riconoscendo nella legge e nei suoi servitori dei
nemici mortali di ogni
vita libera e giusta, isolandoli come meritano e cessando di riconoscere loro
tratti residui di umanità condivisibile, esiliandoli fin d'ora da ogni luogo,
incitandoli in ogni modo alla diserzione, alle dimissioni, al suicidio
collettivo o individuale; sperimentare da subito forme di condivisione non- economica di tutto ciò che é libero,
mirando a ridurre progressivamente il
raggio d'azione dell'economia e la sua influenza sulle relazioni; ripudiare
ogni mediatore fra il proprio desiderio e la propria azione, dai portavoce, ai
rappresentanti, agli specialisti, ai preti, agli scienziati, a Dio stesso, e così via...e naturalmente, agire in
concorso e solidarietà con tutti coloro che, operando con i medesimi fini, ci
sono compagni, gli evasi, i distruttori, i sabotatori, i clandestini, i
ricercati, i perseguitati, gli imprigionati, combattendo contro galere, lager,
manicomi, ospizi, collegi, e ogni luogo di reclusione, sia indicandone
teoricamente l'insopportabilità, sia favorendo distruzioni, evasioni, riduzioni
d'influenza (non escludendo quindi la riduzione del danno: un carcere o un
manicomio dove non torturano é migliore di quelli dove lo fanno - occorre
evitare i purismi estremisti, come pure le manovre riformiste - in ogni ambito,
chi vuole tutto cercheranno di accontentarlo con qualcosa, e conviene che non
se ne contenti, chi si accontenta non gli daranno una fava e cercheranno pure
di togliergli quel poco che già ha)
In quale maniera la
contraddizione capitale-lavoro (il fronte del lavoro come si diceva un tempo)
può ambire a un ruolo centrale? non é una domanda retorica, badate, ma
un'indagine operativa.
Tanto più se consideriamo
che molti di noi non lavorano (sono pensionati, disoccupati, studenti, alcuni
perfino rentier...), che altrettanti svolgono lavoro autonomo e professionale,
che moltissimi lavorano con inquadramento dipendente in luoghi dove sono soli,
o in due, o in tre, che quasi tutti hanno la sensazione (non del tutto
inesatta) che se cessassero di lavorare, i padroni (i loro e anche il padronato
in generale) ci
guadagnerebbero. Il
modello mentale della questione é sempre stato quello dello sciopero ad
oltranza: quali categorie scuoterebbero davvero il funzionamento della macchina
sociale? forse, ma sempre meno, i bancari; sicuramente i benzinai e gli
autotrasportatori; soprattutto i poliziotti. Attività che non sono mai state
sensibili a una prospettiva antisociale, e limitate ai servizi. Per ciò che
attiene alle attività produttive, solo scioperi mondiali potrebbero davvero
incidere, e pure in fretta, perché con la tecnica del just in time c'è
pochissimo magazzino di tutto, e il sistema é sempre a un velo appena dal
tracollo. Ma sono poco convinto che i tempi per dare sostanza mondiale ai
movimenti di autonomia proletaria dispersi nel mondo siano capaci di opporsi al precipitare del disastro cui ci
stanno conducendo
Siamo noi che dobbiamo fissarci degli
"appuntamenti" con la nostra vita e non certo cercare di portare
rivendicazioni o proposte a ciò che nemmeno esiste. Le manifestazioni di piazza
acquistano senso solo se diventano un luogo e uno spazio riappropriato da parte
di tutti coloro che hanno qualcosa da dirsi e da costruire insieme non certo la
messinscena del disagio e della contestazione al fine di lamentarsi per le
ingiustizie o proporre cambiamenti proprio a quelli che avendo nelle proprie
mani il potere stanno portando tutti verso la rovina. Le relazioni che appassionatamente coltivo hanno tutte in comune questo
tentativo di coinvolgere i molti individui che amo in attività talmente forti
da vincere la sopravvivenza con colpi di vita indimenticabili.
Tutto
è così vivido nei miei sogni Boccadorata
Comunque lasciamo che le
cose seguano il loro corso, purché questo corso sia come corso Torino venerdì e
Corso Italia e Corso Sardegna sabato, fiammeggianti di banche e di gipponi,
libere dagli sbirri e da ogni bandiera, compresa quella anarchica. Nessuno di
noi aveva mai visto Genova così bella.
Certamente, una maggiore
organizzazione avrebbe dato altri frutti, ma quali? Se vincere contro le
guardie in piazza presuppone la necessità di un'organizzazione militare
complessiva (non semplicemente che ciascuno sia organizzato validamente lui
stesso e con coloro con cui ha scelto di operare), questo non suggerisce
piuttosto che lo scontro militare in piazza contro le guardie é un terreno che
non corrisponde a una maniera di operare che sia libera e sia soprattutto
capace di creare libertà? Circola in questo periodo, poderosamente propagandato
un libro sciapo e fesso, La banda Bellini, in cui si vedono dall'interno i
meccanismi di un gruppo che ha scelto appunto di organizzarsi per organizzare
la piazza, e finisce per convertirsi in un servizio d'ordine e in fine in una
contropolizia, di quelle che operano l'infame
contropotere nei quartieri. L'organizzazione militare, militarizza
coloro che si lasciano organizzare e perseguita quelli che a farsi organizzare
sono irriducibili.
qualcosa di quel che
infastidisce me, cioè il fatto che sono degli pesudoeventi, delle cose che non
nascono per essere vissute e perciò diventano memorabili, ma che nascono
direttamente per essere ricordate. Fra una manifestazione e una sommossa
spontanea, una radunata sediziosa come recita il codice, io vedo la differenza
medesima che vedo fra chi colleziona qualcosa che viene fabbricato per essere
collezionato e chi colleziona oggetti che erano stati creati per l'uso.
In sostanza a che cosa ci
serve scontrarci con la polizia, su un terreno scelto da loro, sotto gli occhi
delle loro telecamere, sia quelle che ci faranno fare la figura dei fessi nei
telegiornali, sia quelle che ci faranno fare gli imputati nei processi? Se si
fosse passati, che cosa si faceva, si invadeva la sede dell'incontro delle
merde, e li si linciava? se la risposta é no, e in certo modo temo che sia no,
allora di che cosa ci lamentiamo? Di essere stati sconfitti troppo in fretta?
In sostanza, ed emerge anche dai volantini (peraltro davvero buoni) dei
compagni che erano a Salonicco, l'idea é quella di rendere visibile che noi
consideriamo nemici gli
otto, e pure la Nato, e pure l'Europa unita, etc. Ora, le domande sono due:
conviene davvero battersi in strada per conseguire un simile obiettivo? E
quest'obiettivo é davvero così interessante? interessante al punto di adombrare
la rinascita di un'organizzazione dello scontro stradale, con tutte le
conseguenze nefaste del caso? io non ne sono davvero convinto mi piacerebbe
che, se ci fosse una nuova Genova Facessimo come i BB, occupando una zona e
barricandola, ma invece di perder tempo con le vetrine, si usasse quello
spazio, per transitorio che sia, per parlare davvero, di come cambiare non il
mondo in astratto, ma la nostra concreta posizione nel mondo, lì, in quel
momento. Se una manifestazione per me ha senso, dovrebbe avere la forma di
un'assemblea permanente, si comunica con la parola, e anche con l'azione,
essendo in un luogo, e non andando nell'altro. La materia prima di cui si
nutrono gli specialisti politico-sindacali, siamo noi e la nostra irriducibile
voglia di vivere. È essenziale che loro non la possono più vendere, e per
questo, è indispensabile che non ne possano disporre. Ogni volta che sfilano le
bandiere del sindacato, di rifondazione, ogni volta che senti Morti di Reggio
Emilia, El Pueblo Unido, etc. ogni volta che la sinistra fa le sue porcate e
frigge le sue salamelle, é essenziale non esserci. Facciamo che si faccia la
manifestazione e non ci vada nessuno. È quella diserzione che serve oggi. la
diserzione dall'ideologia, dalla rappresentazione, dalla "politica", come
luogo dello scontro di interessi.
16. CONCLUSIONE (Ritornerò e
saremo milioni)
Tutti gli uomini sognano, ma non nello stesso
modo. Coloro che sognano di notte, nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono al
risveglio la vanità di quelle immagini;
ma quelli che sognano di giorno, sono uomini pericolosi,
perché può darsi che recitino il loro sogno
ad
occhi aperti, per attuarlo.
T. H. Lawrence
In realtà non vi è
un solo attimo che non rechi con sé la
propria chance rivoluzionaria.
W. Benjamin
Dopo l'assassinio di Genova fu tutto un fiorire
di machissimi "pagherete caro..." e
di "onori al compagno": martirizzazione,
insomma. Dopo, ma solo dopo 10 giorni,
silenzio e distratta dimenticanza. Almeno fino alla commemorazione
(appunto) di qualche giorno fa. Ad Aprilia,
al rave, dove si è/abbiamo ballato per più di una settimana,
una scritta sul muro, discreta e non ostentata
CARLETTO QUI È VIVO E BALLA.
Altro che giorni
della memoria.
Claudio
Per difendere lo Stato è cosa corrente dire
che è un organismo e non
un’invenzione. Anche il bacillo del colera
è un organismo, ma non per questo è una cosa positiva.
Anche un corpo in decomposizione genera
organismi. August Strindberg
Occorre infine
riconoscere che il socialismo non è altro che la forma perfetta, e perfettamente odiosa, di capitalismo. Questo
movimento ha delle
speranze solo nella misura in cui saprà riconoscersi visibilmente come
antisociale e antisocialista, per i medesimi motivi che lo rendono
antiliberista e anticapitalista, antiautoritario e antifascista.
Nulla somiglia di più a un
rappresentante della borghesia, di un rappresentante del proletariato dove
numerosi erano i pensionati e i nostalgici del paterno baffone del Cremlino o
del fraterno timoniere pechinese come Robert McNamara, l'uomo passato dalla
Ford auto al Vietnam e uscito con la fama ignominiosa di "colui che
conosceva il prezzo di tutto e il valore di niente".
L’aggettivo capitalista,
percepito come troppo aggressivo, è stato rimosso dal vocabolario dei buoni.
Torniamo a riferire alla
sfera privata (che non va interpretata nel senso riduttivo del singolo isolato,
ma nel senso di gruppi di affini che individuano insieme le maniere per
riprodursi, in forma chiaramente
consensuale, perché solo il consenso, o l'autoesilio, possono avere corso in
questioni d'interesse) le questioni inerenti gli interessi, la necessità, e
alla sfera collettiva (che io
preferisco, chissà perché? chiamare pubblica) le questioni di libertà, dove si
confronta il senso di ciò che accade, si fa la storia. Cancellando come una
parentesi disgraziata la lunga epoca sociale, in cui - sulla spinta dei
borghesi e dei loro interessi da bottegai - l'umanità ha preso forma di
società, pretendendo di affrontare collettivamente le questioni di
sopravvivenza, riducendo il mondo a una sordida borsa valori, e
– paradosso dei paradossi
– relegando nella sfera individuale l'unica questione davvero rilevante,
affidata a psicanalisti e preti, la ricerca del posto di ciascuno nel mondo. ne
ho una postconfezionata, che nasce dall'esperienza molteplice di tanti amici
della libertà: che é il metodo dell'unanimità e del consenso, che non conta le
maggioranze e perciò non crea minoranze, dove ognuno é portatore di un punto di
vista unico, mix irripetibile delle sue passioni (gli interessi e le necessità che
sono viceversa ripetibili
stanno fuori dallo spazio pubblico, nella penombra inaccessibile dei cazzi
propri), e partecipa di infiniti dibattiti e modi di agire. Chiaro che una
simile prospettiva può risultare verosimile solo se gli spazi della decisione
del dibattito sono piccoli, a portata della voce umana, e non pretendono di
acquistare una dimensione territoriale, un potere sulla terra. Solo così,
ciascuno potrebbe portare innanzi la propria specificità senza entrare in
contrapposizione con le specificità altrui.
C'è chi si oppone a ogni
prospettiva di tipo socialista, cioè di gestione sociale della produzione e del
consumo – tipo consigli operai, per fare un esempio amico, e che non si é mai
sputtanato: perché é nella stessa idea di produzione collettiva e di gestione
di tale produzione che é insita la miseria, la noia, lo squallore. E infatti ce
lo dimostrano tanti esempi, dal Che che - fatto ministro dell'economia -
rapidamente corre alle armi, alle fabbriche ferme e inutili del maggio
francese, all'uso dopolavoristico del contropotere nelle fabbriche italiane,
etc...La gente non vuole decidere lei le questioni economiche: o le abolisce o
le lascia in mano agli specialisti, anche se sa che gli specialisti le useranno contro di lei. Tanto é lo schifo
che ispira in tutti la necessità, e il suo veicolo, la merce. L'idea di un
mondo che ferma le fabbriche fa paura, ma fa orrore un mondo in cui dovessimo
essere noi ad occuparci di lavorare, di organizzare, di programmare. Adesso
siamo qui che parliamo di
filosofia, di culi, di canzoni, di storia, di sogni, e dovremmo fare la
rivoluzione per spipparci senza posa sui bisogni e sulle urgenze? Si farà la
rivoluzione...e non ci andrà nessuno. Solo
la fine dell'economia e l'abbandono delle necessità di ciascuno alla
libertà di quell'uno stesso (e di chi con lui avrà piacere di godersela)
possono corrispondere a quello é il grido che d'ogni continente si leva:
"la finiamo di romperci i coglioni?" Questo grido é l'unico che
unifica ricchi e poveri, giovani e vecchi, affamati e obesi, lavoratori e
disoccupati, spettatori televisivi e gente col televisore guasto. A Genova
abbaiamo visto levarsi
a centinaia di migliaia,
in tanti modi (anche mal coordinati, per ora), individui che affermavano questo
e che cercavano nei vicini uno spunto solidale, una ripresa appassionata. Ricondurre poi la dimensione delle grandi
opere (per utilizzare il linguaggio del maligno puffo che ci tormenta) alla
passione artistica, al piacere di dare forma al mondo, e al piacere
dell'amicizia, che Vaneigem così bene definisce "passione di unità in un
progetto comune". E, infine, la libertà, ciò che rende davvero umani, e
che imprime senso a tutto il resto. Il tutto nel gioco infinito dei momenti
comuni da annodare e da sciogliere, nel gioco di dare vita alla vita. Io non
credo che si potrebbe rigettare i saperi accumulati - fra cui quelli tipo
l'energia nucleare che forse converrebbe davvero scordare - neppure
volendolo...Ma nella coscienza che il senso delle cose essendosi capovolto,
ogni singolo atto va riesaminato criticamente, come se non fosse mai stato
compiuto, perché mai é stato davvero compiuto nella libertà. E quindi
considerando l'ipotesi di buttar via tutto, così come di conservare tutto ciò
che oggi esiste, con l'intesa che verosimilmente qualcosa si salverà e qualcosa
no. Ma che non é ora il momento di pensarci, quanto meno per non rovinarci la
sorpresa: perché la rivoluzione a me pare precisamente questo: una festa a sorpresa.
Postfazione
La critica non è una passione del cervello,
è il cervello della passione. Essa non è
un coltello anatomico, è un'arma.
Il suo oggetto è il suo nemico, che essa non
vuole confutare bensì annientare
Marx
"La mia anima è un tempio sacrilego in
cui le campane del peccato e del crimine
voluttuose e perverse, risuonano di rivolta
e disperazione" Renzo Novatore
Davvero, penso che abbia
fatto male chi non é venuto a Genova, sono assai felice di esserci stato, non
già a manifestare ma a riconoscermi con i mille e mille come me ci ha insperatamente ricondotto ad
affrontare la condizione fondante del vivere davvero umano, l’esperienza della
decisione, della scelta, della soluzione diretta delle questioni storiche
incombenti.
si é ottenuto che decine
di migliaia di persone hanno visto com'è più bella una banca che brucia, un
gippone distrutto, una strada da cui poliziotti e militanti sono stati messi in
fuga, e prima o poi si chiederanno se non é meglio fare così sempre e
dappertutto; chi è stato totalmente libero un giorno, pretenderà di ritrovare
la stessa felicità mille e mille volte, sempre.
A molti di quelli che
erano lì, il futuro non potrà che ripetere parole come queste, scritte quando
questo nuovo assalto alla storia stava appena riacquistando vigore, «Il calore
e il gelo di quest’epoca non vi abbandoneranno più. Occorre scoprire come sia
possibile vivere dei domani che siano degni di un così bell’esordio. Questa
prima esperienza dell’illegalità, la si vuole continuare sempre».